La situazione in cui si è innestato il Codice della crisi era già di per sé perfettibile. Il comma 4 ter dell’articolo 88 del TUIR prevedeva, e prevede tutt’ora, che non si considerano sopravvenienze attive le riduzioni dei debiti dell'impresa che intervengano per effetto di
1. concordato fallimentare o preventivo liquidatorio,
2. procedure estere equivalenti, previste in Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni,
3. concordato “di risanamento“,
4. di accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell'articolo 182 bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ovvero
5. di un piano attestato ai sensi dell'articolo 67, terzo comma, lettera d), del citato regio decreto n. 267 del 1942, pubblicato nel registro delle imprese[5], o
6. di procedure estere a queste equivalenti.
Per i casi da 3 a 6 la riduzione dei debiti dell'impresa non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all'articolo 84 TUIR, senza considerare il limite dell'ottanta per cento, la deduzione di periodo per aiuti di stato[6] e gli interessi passivi di cui all'articolo 96 TUIR. Per i casi 1 e 2 invece la franchigia non riassorbe le perdite pregresse, che rimangono intonse. A complicare il quadro è intervenuta recentemente l’Agenzia delle Entrate che con risposta ad interpello n. 201/2022 assume una posizione estremamente rigida in tema di ampiezza della sopravvenienza esclusa da tassazione, ammettendovi in sostanza solo la quota desumibile alla data di omologa del concordato o dell’accordo di ristrutturazione, e non a quanto emergesse nel corso della esecuzione del piano, con buona pace del ruolo del liquidatore e della natura previsionale insita anche solo nel termine (il “piano”) che qualifica il documento da cui origina la proposta ai creditori. Le ulteriori riduzioni di debito che intervenissero in forza di accordi successivi all’omologa costituirebbero componenti di reddito estranei ed ulteriori, e pertanto tassabili[7].
Nulla inoltre si prevede in tema di sovraindebitamento, e di assegnazione della medesima franchigia a chi affronti e porti a soluzione il proprio stato di crisi attraverso uno degli strumenti previsti dalla Legge n. 3/2012. In tal caso il tema è in realtà anche più ampio, perché include non soltanto i titolari di reddito di impresa, ed in quanto tali soggetti all’articolo 88 TUIR, ma anche professionisti, individuali o riuniti in associazione, ed imprenditori agricoli, che invece determinano il proprio reddito secondo regole riverse. In tali casi quindi sin dall’origine la normativa appariva per così dire migliorabile, ma in realtà gravemente lacunosa. Nemmeno l’ultimo intervento operato dal legislatore sul testo del comma 4 ter dell’articolo 88 TUIR[8], che ha provveduto ad includere nel computo della misura della franchigia gli aiuti di stato di cui al D.L. n. 201/2011, ha potuto nulla. Le lacune sono rimaste tali, e francamente non sembra si ridimensionino nemmeno con l’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi.
L’articolo 25 bis del Codice della crisi prevede espressamente che l’esenzione da imposizione della sopravvenienza attiva da falcidia sia riconosciuta anche ai contratti e agli accordi conclusi con i creditori al termine delle trattative instauratesi con la nuova composizione negoziata, e previsti dall’articolo 23, primo comma, lettere a) e c). Il riferimento è genericamente al comma 4-ter dell’articolo 88 TUIR, ma è ragionevole ritenere che le regole da applicare siano quelle del secondo periodo, riservate al concordato in continuità (che il TUIR definisce “di risanamento”). Alla riduzione dei debiti che consegua da accordi e contratti che chiudono la composizione negoziata si applica quindi l’esenzione da tassazione, per l’importo che residua al netto dell’utilizzo delle perdite, senza considerare il limite dell’ottanta percento, gli aiuti di stato e gli interessi passivi di cui all’articolo 96 TUIR. L’articolo 25 bis si preoccupa, forse pleonasticamente, di ricordare che l’articolo 88 TUIR si applica anche agli accordi previsti dal secondo comma dell’articolo 23 del Codice della crisi, e quindi ai già noti accordi di ristrutturazione del debito, che trovano nuova disciplina agli articoli 57, 60 e 61. Fatta salva l’esigenza di allineamento lessicale su cui torneremo tra poco, l’indicazione è quasi superflua, mentre sarebbe stato apprezzabile un intervento specifico di inquadramento degli effetti fiscali anche per gli strumenti sprovvisti di regole, e per i quali, a rigore, l’impatto tributario della riduzione del debito potrebbe avere, in ragione della disciplina di volta in volta applicabile, un impatto, che dovrebbe essere previsto nel piano. Al momento, quindi, la situazione non pare essere cambiata per chi debba ricorrere alle soluzioni previste dalla Legge n. 3/2012, ed oggi riscritte e collocate al Capo II del Titolo IV del Codice della crisi. Unico riferimento fiscale specifico, ma probabilmente residuale, a tali soluzioni rimane quello del comma 5 bis dell’articolo 14 del Decreto Legislativo n. 472 del 1997[9], che esclude l’applicazione della disciplina della responsabilità solidale del cessionario di azienda per il pagamento dei debiti tributari del cedente nel caso di trasferimenti che siano intervenuti in forza, oltre che di procedura concorsuale, di accordo di ristrutturazione dei debiti, di piano attestato, anche di un procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento o di liquidazione del patrimonio.
L’entrata in vigore del Codice della crisi pone poi una questione, forse minore ma non irrilevante, di carattere lessicale. I riferimenti inclusi nel comma 4 ter dell’art. 88 TUIR sono estremamente precisi, riportano gli estremi normativi degli strumenti che accedono alla franchigia. Se è senz’altro vero che perlomeno per alcuni di essi la terminologia non è cambiata, sono certamente nuovi i riferimenti di legge. Per il fallimento l’articolo 349 del Codice della crisi risolve, prevedendo che nelle disposizioni normative vigenti, e quindi anche quelle di carattere tributario, i termini «fallimento», «procedura fallimentare», «fallito» nonché le espressioni derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni «liquidazione giudiziale», «procedura di liquidazione giudiziale» e «debitore assoggettato a liquidazione giudiziale». In questi limiti l’articolo 183 del TUIR risulterebbe già allineato, fatto salvo lo specifico, ed a questo punto anacronistico, riferimento al R.D. n. 267/1942. Per gli altri strumenti il Codice della crisi non contiene una disciplina di allineamento, cosicché sarebbe opportuno un intervento perlomeno di riordino, se non di integrazione delle lacune.
Senza tale intervento alle lacune pregresse rischiano di aggiungersene di nuove, posto che il nuovo Codice della crisi aggiunge opzioni tecniche di soluzione della crisi rispetto a quelle precedenti. La composizione negoziata ha beneficiato di un inquadramento, e ne abbiamo riferito, ma non altrettanto le nuove soluzioni che il codice introduce. Ne è un esempio il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione disciplinato dall’articolo 64 bis, probabilmente una delle novità più dirompenti prodotta dal recepimento della Direttiva Insolvency. La sua disciplina e la collocazione al Capo I bis del Titolo IV del Codice della crisi non consente di assimilarlo con sufficiente tranquillità né al concordato preventivo, né tantomeno all’accordo di ristrutturazione del debito, cosicchè non è per nulla chiaro se possa o meno accedere alla franchigia fiscale sulla sopravvenienza da falcidia, perlomeno per come oggi è regolata. Non sembra consentire una conclusione più ottimistica la previsione, contenuta nell’articolo 64 quater, che consente la conversione della domanda in concordato preventivo su iniziativa del debitore, anche al di fuori dei casi, di cui al primo comma, di mancata approvazione della proposta da parte di tutte le classi o di eccezione di convenienza formulata da un creditore. Al contrario, forse, la possibilità aperta di conversione sembra sancire la distanza tra il nuovo strumento e il concordato, cosicché al momento le porte della franchigia apparirebbero sbarrate.
Meno scoscesa la via per l’ammissione alla franchigia fiscale per il concordato semplificato, che costituisce una delle possibili soluzioni della composizione negoziata che abbia sortito esiti positivi. Quando la negoziazione non individua una soluzione alla crisi concordata con i creditori, il debitore può presentare una proposta di concordato con cessione dei beni, che il tribunale omologa una volta verificati la regolarità del contraddittorio informativo e del procedimento, senza che sia richiesta l’espressione del voto dei creditori. Il carattere concordato della procedura, pur in assenza di voto, è probabilmente rinvenibile nella possibilità concessa ai creditori di proporre opposizione nel termine dei dieci giorni precedenti l’udienza fissata per l’omologa, cosicchè la struttura tecnica dello strumento appare sufficientemente vicina a quella del concordato preventivo per ammetterne l’accesso alla franchigia, anche in assenza di specifico richiamo, al momento, nell’art. 88 del TUIR.
Ragioni vecchie e nuove quindi suggeriscono, caldamente, che al testo dell’articolo 88 del TUIR si metta mano urgentemente, per rendere univoca e completa la disciplina degli effetti della riduzione del debito che consegua alla soluzione della crisi. In assenza, il pericolo è che i piani debbano, prudentemente, prevederne l’impatto ove non sia esplicitamente escluso, con buona pace della convenienza delle nuove soluzioni rispetto a quelle che il codice semplicemente eredita dalla Legge Fallimentare.