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Commento

Istanza di conferma delle misure protettive e coeva pendenza delle procedure giudiziali pattizie: primi rompicapi interpretativi (osservazioni a margine di Trib. Brescia 2 dicembre 2021)*

Francesco De Santis, Ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Salerno - Avvocato

17 Dicembre 2021

*Il commento è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.

Visualizza: Trib. Brescia, 2 dicembre 2021, Est. Pernigotto

Un articolato commento al primo provvedimento in tema di misure protettive nella composizione negoziata.
Riproduzione riservata
1. L’ordinanza del Tribunale di Brescia, che qui brevemente si annota, è pienamente condivisibile in relazione ad alcune affermazioni “operative”, che rispecchiano, a mio avviso fedelmente, le previsioni degli artt. 6 e 7 d.l. n. 118/2021, conv., con modificazioni, dalla l. n. 147/2021.
Queste norme prevedono che l’istanza con la quale si chiede la nomina dell’esperto e la contestuale applicazione delle misure protettive è “scissa” in una modalità amministrativa, alla quale deve fare seguito, pressocché contestualmente, una fase giurisdizionale: entrambe sono necessarie ed ineludibili[1]. 
Il tribunale bresciano rammenta che l’imprenditore deve chiedere l’applicazione delle misure protettive già con l’istanza di nomina dell’esperto (che dà ingresso alla procedura di composizione negoziata della crisi), ovvero con successiva istanza presentata con le medesime modalità, tutte da depositarsi presso la camera di commercio competente.
Tale istanza non è soggetta ad alcuna valutazione di merito da parte dei funzionari della camera di commercio, ma soltanto a controlli di tipo formale, aventi ad oggetto il rispetto dei requisiti previsti dall’art. 5 del d.l. e l’avvenuto deposito, da parte dell’imprenditore, nella piattaforma telematica, unitamente all’istanza, della dichiarazione relativa all’esistenza di misure esecutive o cautelari disposte nei suoi confronti, nonché alla pendenza di ricorsi per la dichiarazione di fallimento o per l’accertamento dello stato di insolvenza, nonché di una dichiarazione con la quale si attesta di non avere depositato ricorsi di concordato preventivo, anche con riserva, ovvero di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti. 
La camera di commercio, verificata in questi termini la regolarità formale dell’istanza, provvede senza indugio alla nomina dell’esperto e, una volta intervenuta l’accettazione di quest’ultimo, alla pubblicazione nel registro delle imprese, assegnando una data ed un numero di protocollo; da quel momento le misure protettive acquistano automatica efficacia. È necessario che, contestualmente, sia pubblicata anche l’accettazione dell’esperto, in quanto di per sé attestante la pendenza di una procedura di composizione negoziata della crisi. 
Alla modalità amministrativa deve fare immediato seguito l’apertura della fase giurisdizionale: l’art. 7, comma 1, stabilisce che, “lo stesso giorno della pubblicazione dell’istanza e dell’accettazione dell’esperto”[2], il debitore deve depositare presso il tribunale competente un ricorso contenente la richiesta di conferma o modifica delle misure protettive, ovvero di adozione dei provvedimenti cautelari necessari per condurre a termine le trattative. 
In pratica, l’imprenditore procede, dapprima, al deposito dell’istanza alla camera di commercio, e, subito dopo avere ottenuto la ricevuta telematica dell’avvenuto deposito (corredata dell’accettazione dell’esperto), procede (nel medesimo giorno) all’iscrizione a ruolo del ricorso presso il tribunale competente.
Correttamente il giudice bresciano rileva che “l’intervento di stabilizzazione riservato al giudice, non a caso destinato ad essere veicolato entro un modulo procedimentale improntato a celerità e deformalizzazione, presuppone logicamente che un qualche effetto protettivo si sia già concretamente sprigionato, non ricorrendo alcunché, diversamente, né da confermare né da modificare. Ma, affinché questo accada, è necessario che l’istanza di applicazione delle misure, unitamente all’accettazione dell’esperto, sia pubblicata nel registro delle imprese”.
Ed in effetti, “il percorso di composizione negoziata, il cui regolare dipanarsi dovrebbe essere garantito dalle misure protettive di cui si discute, può dirsi effettivamente avviato soltanto con l’accettazione dell’esperto, che di detto percorso costituisce il motore”.
Poiché, nella fattispecie disaminata dal tribunale, l’imprenditore aveva allegato (e comprovato) di avere chiesto la nomina dell’esperto, ma senza dimostrare che quest’ultima fosse intervenuta (cosa, all’evidenza, impossibile, non essendo stati ancora implementati gli elenchi degli esperti, in attesa del completamento del relativo percorso formativo), a tanto non poteva che conseguire la declaratoria d’inammissibilità del ricorso ex art. 7, d.l. n. 118.
Con la duplice, assai opportuna, precisazione che gli effetti protettivi non si erano, nella specie, ancora prodotti, ma che (se e quando intervenisse l’accettazione dell’esperto) il ricorrente avrà facoltà di presentare una nuova domanda.
Con buona pace di tutti, l’ordinanza avrebbe potuto arrestarsi a questo punto, data l’assorbenza processuale della declaratoria d’inammissibilità per assenza dell’esperto. E forse ciò sarebbe stato opportuno, se, come pare a chi scrive, nelle decisioni giudiziali si dovrebbe avere sempre riguardo al noto insegnamento di Occam, secondo il quale entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem.
Il giudice bresciano ha, inteso, tuttavia, spingersi oltre, introducendo – quasi a modo di “monito” per quanti intendessero, di qui a poco, approcciarsi alla soluzione negoziata della crisi – una seconda ed anche una terza ratio decidendi (ovvero, se più piace, obiter dicta) in ordine alle quali pare utile spendere, proprio in ragione della loro valenza “proattiva”, qualche breve riflessione.
2. La seconda ratio decidendi apprestata dal giudice bresciano attiene alla documentazione che l’imprenditore deve depositare nell’atto in cui chiede al tribunale di confermare l’efficacia delle misure protettive.
Ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 118, il ricorso deve essere accompagnato dal deposito dei seguenti documenti: a) i bilanci degli ultimi tre esercizi oppure, quando non vi è obbligo di deposito dei bilanci, le dichiarazioni dei redditi e dell’IVA degli ultimi tre periodi di imposta; b) la situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata a non oltre sessanta giorni prima del deposito del ricorso; c) l’elenco dei creditori, individuando i primi dieci per ammontare; d) un piano finanziario per i successivi sei mesi ed un prospetto delle iniziative di carattere industriale che intende adottare; e) una dichiarazione, avente valore di autocertificazione, che attesti, sulla base di criteri di ragionevolezza e proporzionalità, che l’impresa può essere risanata[3]. Occorre altresì indicare il nominativo dell’esperto, con il relativo indirizzo di posta elettronica certificata.
Si tratta di documenti finalizzati a porre il tribunale in condizione di delibare, oltre che i presupposti di accesso al procedimento, la serietà della domanda di soluzione concordata della crisi, nonché l’idoneità delle misure e dei provvedimenti richiesti a presidiarla senza eccessivo sacrificio per i creditori ed i terzi.
Per questo, ci era occorso di rilevare che la mancata produzione di tali documenti sia tale da determinare l’inammissibilità prima facie dell’istanza, che il tribunale potrebbe dichiarare anche in limine litis, onde evitare che si perda altro tempo, nel corso del quale le misure protettive conserverebbero la loro efficacia[4].
Nella fattispecie all’esame, secondo quanto si legge nell’ordinanza in rassegna, “parte ricorrente ha prodotto una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata soltanto alla data del 30.11.2020 e quindi ad una data ben anteriore a quella di non oltre sessanta giorni prima il deposito del ricorso, avvenuto il 17.11.2021, così come eccessivamente risalente risulta il su richiamato “elenco creditori al 30 novembre 2020”. Si tratta con tutta evidenza di documenti che non consentirebbero una realistica ricostruzione della situazione in cui versa l’imprenditore”.
Non si può, pertanto, che concordare nuovamente col tribunale lombardo nel punto in cui rileva che “l’automatico prodursi degli effetti protettivi di cui all’art. 6 del D.L. n. 118/2021 non può non accentuare l’onere di allegazione e collaborazione dell’imprenditore il quale, depositando sollecitamente tutta la documentazione di cui all’art. 7, deve porre il giudice nella condizione di poter delibare sin da subito la serietà del percorso di trattative iniziato oltreché l’idoneità delle misure e dei provvedimenti richiesti a garantirne il regolare corso senza eccessivi sacrifici per i creditori: dacché, l’incompleta produzione dei documenti richiesti dovrebbe produrre l’immediato arresto in rito del procedimento di conferma o modifica”.
Nella filigrana di questo condivisibile ragionamento, s’intravede – se non m’inganno – una tendenziale scelta di campo del giudice di merito in ordine al perimetro ed all’incisività della delibazione da compiersi all’atto di confermare, modificare o revocare le misure protettive. 
Il riferimento al possibile sacrificio per i creditori (ed, io aggiungo, per i terzi), direttamente o indirettamente toccati dalle misure protettive, fa pensare che il giudice bresciano abbia già guardato oltre la mera (e direi quasi scontata) dichiarazione d’inammissibilità del ricorso a lui sottoposto, anticipando un approccio valutativo che – scartando la tentazione di limitarsi a mere verifiche formali – faccia perno sulla concreta possibilità che, nella situazione data, le misure protettive servano allo scopo di preservare il patrimonio dell’impresa e di favorire le trattative.
Anche la valutazione del pregiudizio che, a seguito dell’applicazione delle misure, potrebbero subìre tutti o alcuni tra i creditori ed i terzi, dovrebbe essere condotta non in astratto, ma in concreto, sulla base della documentazione allegata ed assumendo come parametro di decisione il “bilanciamento” degli interessi coinvolti.
Ma se così è, tale valutazione non può prescindere da una delibazione (su base necessariamente sommaria) circa le concrete prospettive di successo delle trattative in corso[5]: insomma, una sorta di giudizio di “fattibilità” (se si vuole, anche del tipo “economica”), laddove dalla documentazione depositata emerga che l’esperimento negoziale sia prima facie irrealizzabile, ovvero manifestamente inadeguato al raggiungimento degli obiettivi prefissati.
A me pare che un simile approccio sia coerente con la funzione di garanzia della giurisdizione concorsuale e rappresenti un presidio effettivo, a contrasto dei possibili “abusi” a cui lo strumento all’esame potrebbe dare ingresso[6].
3. Il tema dell’abuso è, invero, immanente alla terza ratio decidendi messa in campo dal giudice bresciano; ma qui la soluzione offerta merita qualche considerazione ulteriore.
Nella fattispecie concreta, l’imprenditore – prima di presentare l’istanza di accesso alla procedura di soluzione negoziata della crisi – aveva introdotto domanda di concordato preventivo, poi rinunziata. Nell’ordinanza si legge che “parte ricorrente, sul punto, all’udienza odierna ha precisato che il Tribunale non ha ancora assunto un provvedimento di improcedibilità della domanda di concordato oggetto di rinuncia”. 
Da tanto il giudice avvia un ragionamento sul perimetro applicativo dell’art. 23, comma 2, d.l. n. 118, introdotto dalla legge di conversione n. 147/2021, laddove stabilisce che la domanda di nomina dell’esperto, che dà accesso alla procedura di composizione negoziata della crisi, non può essere presentata dall’imprenditore “in pendenza” del procedimento di concordato preventivo (anche con riserva) o di omologazione di un accordo di ristrutturazione. 
Ebbene, come va interpretato il lemma “in pendenza”?
Al fine di introdurre ammissibilmente l’istanza di nomina dell’esperto – e, per quanto qui interessa, il ricorso giudiziale per la conferma delle misure protettive – è sufficiente documentare (al giudice monocratico investito della controversia ex art. 7, d.l. n. 118/2021) la presentazione della rinuncia alla domanda di concordato (o di omologazione dell’accordo), o è necessario che la rinunzia sia stata accolta (rectius: che il procedimento concordatario o di omologazione dell’accordo sia stato formalmente definito con un provvedimento collegiale di “chiusura”, ovvero d’improcedibilità)?
Il giudice bresciano non sembra avere dubbi: la “logica antiabusiva a cui è ispirata la previsione di cui all’art. 23, c. II, del D.L. n. 118/2021” – egli scrive – impedisce di accedere alla prima soluzione, “posto che se si ritenesse sufficiente a caducare un procedimento di concordato preventivo il mero deposito della dichiarazione di rinuncia da parte del proponente quest’ultimo ben potrebbe avvantaggiarsi (in modo “disinvolto” e senza essere mosso da una seria e concreta volontà compositiva) della massima estensione temporale del c.d. automatic stay garantito dalla legge fallimentare per poi creare le condizioni, all’ultimo momento utile, per il passaggio al diverso sistema di protezioni di cui all’art. 6 del D.L. n. 118/2021, con evidente frustrazione della finalità propria della previsione limitativa in esame”.
A suffragio di tale interpretazione, l’ordinanza richiama due arresti della Suprema Corte, ed argomenta: “se non vi è dubbio ormai che la domanda di concordato preventivo possa essere rinunciata da parte del proponente unilateralmente e quindi senza che sia necessario il consenso dei contrapposti creditori sino all’omologazione del concordato (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 10.10.2019, n. 25479), appare altresì condivisibile l’assunto per cui il semplice deposito della dichiarazione di rinuncia non implica “che il procedimento di concordato preventivo venga in modo automatico a cessare”, risultando necessaria a tal fine la formale adozione da parte del tribunale di un provvedimento di improcedibilità (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 7.12.2020, n. 27939)”, con la conseguenza che “il procedimento di concordato promosso per mezzo della domanda poi rinunciata pare dunque doversi ritenere ancora pendente.
Comprendo i timori sottostanti all’opzione interpretativa abbracciata dal tribunale, ma ritengo che, a margine di essa, sia opportuno porsi taluni interrogativi, sia di ordine normativo, sia di ordine giurisprudenziale, sia di ordine pratico.
I quesiti da porsi sono, in primo luogo, due: i) se – ai fini dell’accesso alla composizione negoziata della crisi (ed ai “benefici” protettivi che essa comporta, o potrebbe comportare) – la documentata rinuncia alla procedura giudiziale di soluzione concordata della crisi, in precedenza pendente, sia idonea a rimuovere la condizione d’inammissibilità (o, se si vuole, di improcedibilità) prevista dall’art. 23, comma 2, d.l. n. 118/2021; e ii) se la presentazione dell’istanza di nomina dell’esperto e di convalida delle misure protettive dopo la rinunzia alla domanda di concordato (o di omologazione dell’accordo) sia necessariamente il sintomo di un “abuso” dello strumento minore di composizione negoziale della crisi. 
All’interno di tali quesiti, se ne affaccia, poi, un altro: iii) se, cioè, le situazioni “intertemporali” – ossia riferite (come presumibilmente è accaduto nel caso esaminato dal tribunale bresciano) all’imprenditore che, prima dell’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 118, abbia introdotto una domanda di concordato o di omologazione dell’accordo, e vi abbia successivamente rinunziato, al fine di accedere al nuovo strumento di soluzione della crisi nel frattempo introdotto dal legislatore – debbano essere tenute distinte dalle ipotesi in cui la domanda giudiziale di soluzione pattizia della crisi sia stata introdotta dopo l’entrata in vigore della legge di conversione (situazioni, queste ultime, che potremmo definire “a regime”).
In ultimo, essendo l’istanza con la quale si chiedono le misure protettive “scissa” in una modalità amministrativa ed in una modalità giudiziaria, pare utile interrogarsi: iv) se e come, in parte qua, si interfaccino i due livelli.
Ci troviamo di fronte all’ennesimo rompicapo processuale, e conviene andare con ordine.
4. I precedenti della Suprema Corte richiamati dall’ordinanza bresciana si inseriscono in un contesto pretorio più ampio, a tratti discontinuo, probabilmente tuttora aperto.
E’ certo anzitutto che una domanda di concordato preventivo presentata dal debitore non per regolare la crisi dell'impresa, ma soltanto per procrastinare la dichiarazione di fallimento, integra gli estremi dell'"abuso” del processo di concordato, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede (nonché dei principi di lealtà processuale e del giusto processo), si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità deviate od eccedenti rispetto a quelle per le quali l'ordinamento le ha predisposte[7].
Così come è certo che, fino a quando pende la domanda di soluzione pattizia della crisi, non può essere aperta la procedura concorsuale maggiore[8], ferma rimanendo la possibilità che il tribunale dichiari l'inammissibilità della proposta di concordato per "abuso del processo".
Ma il discorso inizia ad ingarbugliarsi allorché – nella frequente (e talora “inesorabile”) progressione dalla procedura giudiziale pattizia a quella che apre la liquidazione universale – si introducono dei punti di cesura, ad esempio la rinuncia alla domanda di regolazione pattizia, o anche la presentazione di una nuova domanda di regolazione pattizia.
La Corte regolatrice ha dapprima chiarito che, quando già penda una procedura di concordato preventivo, non è configurabile un’ulteriore domanda di concordato con carattere di autonomia rispetto a quella originaria – la quale dia, cioè, luogo ad una nuova e separata procedura, che ricominci dal suo inizio con l'audizione del debitore – perché, con riguardo al medesimo imprenditore ed alla medesima insolvenza, il concordato non può che essere unico, e, dunque, unica la relativa procedura ed il suo esito[9]. 
Salvo a “correggere” parzialmente il tiro di questa affermazione, prefigurando la facoltà del proponente, in pendenza dell'udienza fissata per la dichiarazione d’inammissibilità della domanda di concordato con riserva, ovvero anche per l'esame di eventuali istanze di fallimento, di depositare una nuova domanda di concordato (corredata della proposta, del piano e dei documenti prescritti), dalla quale si possa desumere la rinuncia a quella con riserva[10].
Ponendosi, in questo caso, “come unico limite a tale agire l'eventuale esercizio distorto ed abusivo della detta facoltà da parte del debitore, come tale indirizzato non già alla previsione di una ordinata e condivisa soluzione negoziale dell'insolvenza (attraverso la presentazione di una nuova e seria proposta concordataria, volta ad intercettare il consenso del ceto creditorio), quanto piuttosto solo a procrastinare nel tempo la dichiarazione di fallimento”[11].
È evidente, quindi, che la presentazione della nuova domanda di concordato, corredata della proposta, del piano e dei documenti, non implica, di per sé, la rinuncia a quella con riserva, potendo il giudice di merito (con sua valutazione discrezionale) desumere dalla successiva domanda soltanto l'inequivoca volontà del proponente (pur se non espressa con formule sacramentali) di rinunciare a quella in precedenza depositata[12].
Parallelamente a questa corrente del pensiero nomofilattico, ne è corsa un’altra, che ha riguardo al distinto (anche se correlato) tema della persistenza del potere del pubblico ministero di agire per il fallimento muovendo dall’interno della procedura concordataria, della quale si è in procinto di dichiarare l’inammissibilità o la revoca.
Sulla base di questo parallelo orientamento, “la rinunzia alla proposta concordataria conduce alla dichiarazione di improcedibilità; ciò, tuttavia, non significa, né implica che il procedimento di concordato preventivo venga in modo automatico a cessare per effetto di una compiuta rinunzia. Quest'ultima non esclude, né invero elimina, il fatto costitutivo del potere di iniziativa del P.M. ex art. 173 l. fall., come appunto determinato dalla ravvisata sussistenza di fatti di frode concretamente oggetto di giudizio. Con la conseguenza che la richiesta di fallimento formulata dal P.M. – dopo la rinuncia del debitore e prima della dichiarazione di improcedibilità da parte del Tribunale – mantiene comunque la propria efficacia anche oltre tale dichiarazione, ponendosi quale valida iniziativa per una successiva ed eventuale dichiarazione di fallimento del debitore rinunciatario della domanda di concordato”[13].
Pare a chi scrive che, avuto riguardo a tali arresti, la domanda giudiziale di soluzione pattizia della crisi, una volta rinunciata, sia già da ritenersi come virtualmente improcedibile, ancorché il relativo giudizio resti formalmente pendente fino alla sua chiusura col decreto che ne sancisce l’improcedibilità.
Tuttavia, il giudizio potrebbe nel concreto prendere, secundum eventum, due sbocchi “eccentrici” rispetto all’attesa dichiarazione d’improcedibilità: potrebbe restare pendente, allorché nell’àmbito di esso l’imprenditore introduca una nuova domanda di concordato, distinta dalla precedente (si tratta, invero, di due procedimenti sostanzialmente diversi, ma nella prassi il numero di ruolo resta di norma il medesimo ed il giudizio prosegue senza apparenti cesure); oppure potrebbe sfociare nell’apertura della liquidazione concorsuale, sovente su domanda introdotta dal pubblico ministero.
5. Verosimilmente, l’art. 23, comma 2, d.l. n. 118/2021, non ha pensato ai travagli del diritto vivente ed ha inteso semplicemente stabilire che, “in pendenza” della domanda giudiziale di soluzione pattizia della crisi, non è consentito accedere alla procedura di composizione negoziata.
Ma con questo torniamo all’interrogativo originario: in quale maniera deve determinarsi il giudice monocratico indicato dall’art. 7, allorché l’istante depositi la prova dell’avvenuta rinuncia alla domanda di concordato o di omologazione dell’accordo di ristrutturazione, ma non della chiusura del relativo giudizio?
Giova rammentare che la domanda di concordato preventivo (al pari di quella di omologazione dell’accordo) è pubblicata nel registro delle imprese e che la chiusura del procedimento pattizio viene ivi parimenti iscritta nel momento in cui sopravviene il formale decreto d’improcedibilità reso dal tribunale.
Non si comprende perciò la ragione per la quale l’art. 5, comma 3, lett. d), d.l. n. 118/2021 (implementato in parte qua dalla legge di conversione) esiga il deposito in camera di commercio di una dichiarazione con la quale l’imprenditore attesta di non avere depositato ricorsi di concordato preventivo, anche con riserva, ovvero di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti: la camera di commercio è, infatti, perfettamente in grado di verificare, anche “al momento”, la ricorrenza di siffatta condizione.
Perciò, la previsione di legge dovrebbe essere interpretata, secondo quanto a me pare, nel senso di prevedere una dichiarazione che attesti l’assenza di ricorsi pendenti non solo sotto il profilo formale, ma anche sostanziale (ad esempio, alla stregua dei citati orientamenti della Suprema Corte, per sopravvenuta rinunzia al ricorso). 
Diversamente, la camera di commercio (alla quale, in assenza di un formale provvedimento di chiusura, continua a risultare la precedente iscrizione della domanda di concordato o di omologazione dell’accordo), alla luce della testuale formulazione dell’art. 23, comma 2, non dovrebbe consentire l’iscrizione nel registro delle imprese dell’istanza di nomina dell’esperto, e la procedura di composizione negoziata neppure si aprirebbe.
Va del pari rilevato che, nel concreto, un imprenditore il quale intenda “abusare” dell’intero carnet di strumenti di soluzione pattizia della crisi, che oggi gli mette a disposizione la legge, verosimilmente non prenderà partito dagli strumenti giudiziali, ovvero dal concordato preventivo o dall’accordo di ristrutturazione, ma proprio dalla composizione negoziata, per poi eventualmente fare “passerella”, ai sensi dell’art. 11 del d.l., in un percorso di soluzione giudiziale.
Non sembra, dunque, potersi sostenere che la rinuncia al concordato preventivo o all’accordo di ristrutturazione, al fine di chiedere accesso alla composizione negoziata, rappresenti sempre e comunque, di per se stessa considerata, il sintomo di un “abuso” del processo e del diritto.
Inoltre, ove si ritenesse che la pendenza anche solo formale del procedimento di concordato o di accordo di ristrutturazione a seguito di rinuncia possa condizionare l’accesso alla composizione negoziata, un eventuale (magari anche fisiologico) ritardo del collegio concorsuale nel pronunziarsi sulla rinuncia potrebbe determinare un’ingiusta compressione della legittima aspettativa dell’imprenditore ad avvalersi degli strumenti previsti dal d.l. n. 118 del 2021. Va altresì considerato che il novero delle misure protettive previste in funzione di agevolare le trattative coi creditori dall’art. 6, d.l. n. 118, è più ampio di quello apprestato dalla legge fallimentare a presidio dell’automatic stay conseguente all’introduzione della domanda concordataria o di omologazione dell’accordo. 
Stando così le cose, potrebbero aprirsi – se non m’inganno – due paralleli percorsi giudiziali. 
Da un lato, il giudice della conferma delle misure protettive potrebbe valutare, in relazione alle circostanze, che l’imprenditore abbia rinunziato al concordato o all’accordo al solo fine di ritardare la dichiarazione di fallimento, mercé l’accesso alla procedura di soluzione concordata, della quale abbia conseguentemente “abusato”: in tale ipotesi, egli rigetterà l’istanza di conferma delle misure protettive, con provvedimento reclamabile ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c. Se, invece, ritiene diversamente, accoglierà l’istanza di conferma delle misure protettive.
Dall’altro lato, il collegio concorsuale, chiamato a pronunziarsi sull’improcedibilità del concordato o dell’accordo per rinunzia del proponente, ben potrà apprezzare la ricorrenza di un “abuso” dello strumento giudiziale di soluzione pattizia della crisi, ritenendo così applicabile l’art. 23, comma 2, d.l. n. 118; stante l’eventuale pendenza di una domanda di fallimento introdotta dal pubblico ministero (il quale, peraltro, non appare essere vincolato dalle misure protettive di cui all’art. 6, comma 1), il collegio potrebbe, al ricorrere dei relativi presupposti, aprire la liquidazione concorsuale con sentenza, reclamabile ai sensi dell’art. 18 L.F.
Diversamente, il collegio pronunzierà il decreto di chiusura del processo concordatario, che tuttavia non potrà di per sé condizionare le valutazioni circa la conferma delle misure protettive del giudice competente ai sensi dell’art. 7, d.l. n. 118/2021.
6. Tirando le fila del rebus, sarei, allo stato, propenso a ritenere (non senza più di un dubbio) che:
a) l’iscrizione della nomina dell’esperto e della richiesta delle misure protettive nel registro delle imprese (effettuata dalla camera di commercio, previa verifica dei presupposti di legge e della documentazione di supporto) impedisce la dichiarazione di fallimento fino alla conclusione delle trattative o all’archiviazione dell’istanza di composizione negoziata (art. 6, comma 4, d.l. n. 118), salva l’incidenza dell’art. 23;
b) il giudice designato ai sensi dell’art. 7, d.l. n. 118, può negare la conferma delle misure protettive di cui all’art. 6, commi 1 e 5, se ravvisa nella rinuncia alla pregressa domanda di concordato preventivo o di omologazione di un accordo di ristrutturazione il “sintomo” dell’abuso del diritto di negoziare nell’ambiente protetto del d.l. n. 118; 
c) il collegio in precedenza investito della domanda di concordato o di omologazione dell’accordo può, dal canto suo, ritenere che la rinunzia a tali domande rientri nel disegno “abusivo” di ritardare la dichiarazione di fallimento, e con ciò accogliere la domanda di fallimento, sul presupposto che, ai sensi dell’art. 23, comma 2, non si è mai incardinata una valida istanza di composizione negoziata della crisi (e, quindi, non si sono prodotti gli effetti dell’art. 6, comma 4, d.l. n. 118);
d) ai fini di cui sopra, non sembrano porsi problematiche di diritto intertemporale, poiché la condizione di abuso del diritto e del processo inibisce ogni considerazione in termini di affidamento.
Appare, a questo punto, di tutta evidenza il rompicapo sollevato dall’incrocio delle norme sopra considerate, che operano su piani sotto più profili diversi e non sempre coordinati.
Pertanto, al fine di dirimere i dubbi interpretativi (ed altresì di evitare che si moltiplichino le impugnazioni), sarebbe, ad avviso di chi scrive, opportuno un intervento chiarificatore del legislatore. 

Note:

[1] 
In tema si fa rinvio a L. Baccaglini e F. De Santis, Misure protettive e provvedimenti cautelari a presidio della composizione negoziata della crisi: profili processuali, in dirittodellacrisi.it, 12.10.2021, spec. p. 14 ss.
[2] 
Ciò perché, verosimilmente, l’accettazione dell’esperto sarà immediatamente successiva al deposito della domanda presso la camera di commercio.
[3] 
Il riferimento all’autocertificazione appare, invero, difficilmente spiegabile dal punto di vista tecnico, laddove – in considerazione del tenore valutativo e previsionale dell’attestazione richiesta – meglio avrebbe fatto il legislatore a prevedere il deposito di una relazione circa gli esiti previsti (o sperati) della procedura di soluzione negoziata della crisi.
[4] 
Cfr. L. Baccaglini, F. De Santis, op. cit. Tale è la ragione che induce ad escludere che il tribunale, ad instar di quanto accade nel procedimento di concordato preventivo, possa fissare al ricorrente un termine per l’integrazione della documentazione.
[5] 
Diversamente, avrebbe scarso significato la citata previsione dell’art. 7, comma 2, d.l. n. 118, che impone all’imprenditore di depositare, a supporto del ricorso per la conferma delle misure protettiva e/o per il rilascio di provvedimenti cautelari, un piano finanziario per i successivi sei mesi ed un prospetto delle iniziative di carattere industriale che intende adottare, nonché una dichiarazione che attesti, sulla base di criteri di ragionevolezza e proporzionalità, che l’impresa può essere risanata.
[6] 
Rinvio sul punto anche a F. De Santis, Le misure protettive e cautelari nella soluzione negoziata della crisi d’impresa, in Fall., 2021, p. 1546 s.
[7] 
Secondo il noto dettato di Cass., sez. un., 15 maggio 2015, n. 9935.
[8] 
Cfr. ancora Cass., sez. un., n. 9935/2015, e poi l’art. 7, comma 2, del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
[9] 
Cass. 14 gennaio 2015, n. 495.
[10] 
Cass. 31 marzo 2016, n. 6277.
[11] 
Cass. 10 ottobre 2019, n. 25479.
[12] 
Cass. 20 febbraio 2020, n. 4342.
[13] 
Cass. 7 dicembre 2020, n. 27936. Nel medesimo senso v. Cass. 28 ottobre 2021, n. 30483.

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