È fisiologico che ogni qual volta si debba procedere a una ristrutturazione di un’impresa in crisi si debba al contempo mettere mano a una razionalizzazione del costo del lavoro. [11]
La progressiva informatizzazione e robotizzazione dei processi produttivi; la competizione delle imprese concorrenti localizzate in paesi a basso costo di manodopera; la volatilità della domanda e dell’offerta, tipiche dell’economia globalizzata la pretendono, pena l’impossibilità per quell’impresa di continuare – recte, ritornare – a competere proficuamente sui mercati e così ripagare il proprio debito.
Questa necessità, obiettiva, si scontra però con un ordinamento giuslavoristico che non ha ancora metabolizzato che «il costo del lavoro non è una variabile indipendente dell’economia», tanto meno di quella di un’impresa in crisi. Non esiste un diritto del lavoro, una sua sezione, che si occupi di regolamentare la riduzione dell’occupazione finalizzata alla ristrutturazione di un’impresa in crisi e così salvaguardare l’occupazione compatibile con il nuovo assetto industriale. Anzi, come si vedrà nel prosieguo, il contesto interno ha subito un ulteriore irrigidimento, proprio a seguito di una norma introdotta con il CCII.
Passiamo, ora, a esaminare la scarna normativa speciale di riferimento e anche in questo caso le regole generali si rinvengono nella direttiva Insolvency.
In particolare, secondo l’art. 13, le procedure di ristrutturazione devono assicurare: (a) il diritto alla negoziazione collettiva e all’azione industriale; (b) il diritto all’informazione e alla consultazione conformemente alle direttive 2002/14/CE e 2009/38/CE, in particolare, l’informazione dei rappresentanti dei lavoratori sull’andamento economico e finanziario attività dell’impresa e sulla necessità di una ristrutturazione che potrebbe incidere sull’occupazione, sul recupero delle retribuzioni e delle contribuzioni previdenziali; (c) l’informazione e la consultazione dei rappresentanti dei lavoratori sui piani di ristrutturazione prima che siano presentati per la loro adozione e omologazione da parte dell’autorità giudiziaria; (d) l’approvazione da parte dei lavoratori del piano di ristrutturazione ove questo comprenda misure suscettibili di comportare cambiamenti nell’organizzazione del lavoro o nelle relazioni contrattuali con i lavoratori, solo, però, se il diritto nazionale o i contratti collettivi lo prevedano.
Ci si deve domandare, a riguardo, se il Codice della crisi, opportunamente integrato con la normativa generale giuslavoristica interna, abbia effettivamente recepito appieno tutte queste indicazioni.
Così non pare. La prima dissonanza che balza immediatamente all’occhio è come il legislatore interno – non prevedendo il nostro ordinamento giuslavoristico preesistente il relativo obbligo – non abbia inteso adottare la direttiva nella parte in cui la stessa consente di prevedere che i lavoratori abbiano diritto di partecipare all’approvazione di un piano di ristrutturazione che comporti una riduzione dell’occupazione o delle loro retribuzioni, così perdendo un’occasione storica per rendere i lavoratori partecipi del loro futuro.
Seppure, infatti, dal momento che la direttiva concedeva agli Stati membri la possibilità di derogarvi, ove il loro diritto interno già non la prevedesse, la previsione di una partecipazione dei lavoratori all’approvazione del piano di ristrutturazione della loro impresa era un’opportunità da non perdere, sia sotto il profilo di una piena applicazione dell’art. 35 e segg. Cost., sia sotto il profilo dell’efficientamento delle procedure di risanamento.
La ragione di una così clamorosa mancata occasione è da ricercarsi in una sola ragione. L’infausta decisione di avviare la riforma del nostro diritto concorsuale prima dell’emanazione della direttiva Insolvency da parte del Parlamento europeo e, quindi, la conseguente necessità di procedere a un suo adeguamento in tempi accelerati, incompatibili con la necessaria e doverosa consultazione delle parti sociali riguardo a un argomento così complesso e costituzionalmente delicato.
Sta di fatto che i lavoratori sono oggi sostanzialmente estranei al processo di ristrutturazione della loro impresa, cui partecipano esclusivamente in ragione delle posizioni creditorie vantate. Allo stesso tempo, in assenza di una regolamentazione ad hoc, ne costituiscono un vincolo, un ostacolo, superabile, come si vedrà, solo con alcuni complicati funambolismi.
Riguardo al diritto all’informazione preventiva, l’art. 4, comma 3, CCII, a una prima lettura, sembra coerente con la direttiva. Senonché tale obbligo non è imposto a qualunque imprenditore, ma solo a colui che al momento della presentazione dell’istanza di accesso a uno degli strumenti di regolazione della crisi «occupa complessivamente più di quindici dipendenti»[12], limitazione che non pare rinvenirsi nella direttiva, che, in conseguenza, non sarebbe stata recepita correttamente.
Per altro, un obbligo del tutto simile era già sancito dal d.lgs. n. 25/07 (recante l’attuazione della direttiva 2002/14/CE), che già impone[va] alle imprese con più di cinquanta dipendenti di informare i sindacati delle decisioni «che siano [fossero] suscettibili di comportare rilevanti cambiamenti dell’organizzazione del lavoro [e] dei contratti di lavoro». Destinatari dell’obbligo informativo sono le RSU o le RSA di cui all’art. 19 dello Statuto dei lavoratori costituite presso le unità produttive interessate[13].
Più complesso è comprendere in cosa consista, secondo quanto disposto al comma 3 dell’art. 4 CCII, l’oggetto dell’informazione, ossia cosa debba intendersi per «rilevanti determinazioni» assunte dall’imprenditore che incidano sui rapporti di lavoro di una pluralità di lavoratori. L’espressione, particolarmente l’aggettivazione «rilevanti» che la caratterizza, per quanti sforzi interpretativi si vogliano profondere, infatti, non consente di giungere a conclusioni certe, anche perché nei rapporti di lavoro tutto è, al contrario, rilevante. Si tratta di un’espressione che si presta facilmente a malintesi e a interpretazioni contrastanti, che non contribuiscono certo a creare le condizioni più proficue per la soluzione di una crisi di un’impresa. Per non parlare dell’altra espressione utilizzata dal legislatore per individuare i destinatari delle determinazioni rilevanti, «pluralità di lavoratori». Due, dieci, cinquanta…?
Ciò che, però, lascia più perplessi è che l’obbligo d’informativa dettato dall’art. 4 CCII, pare – il dubbio è prassi in qualsiasi approccio esegetico al nuovo codice – si ponga a valle dell’assunzione delle decisioni dell’imprenditore, sostanzialmente relegando i lavoratori e le loro organizzazioni a meri recettori di un qualcosa di già definito, non negoziabile. Il vero paradosso, però, la norma – solo apparentemente recettiva della direttiva – lo raggiunge nel disegnare la procedura che consegue all’informativa. Ricevuta la comunicazione, le organizzazioni sindacali destinatarie possono, infatti, chiedere un incontro con l’imprenditore entro tre giorni; la conseguente consultazione deve avere inizio non oltre i successivi cinque giorni e non può durare più di dieci giorni, salve diverse intese. Se solo pensiamo ai tempi – sei mesi di trattative – della composizione negoziata, davvero non si comprende la necessità di cadenze così accelerate, soprattutto in considerazione del fatto che le parti possono prorogarle semplicemente con il comune accordo.
Non è ancora tutto. Si prevede che la consultazione si debba svolgere sotto il vincolo di riservatezza, il che ha come conseguenza che le rappresentanze sindacali non potrebbero riferire ai propri ai rappresentati che cosa il piano di ristrutturazione prevede a loro carico, con un’ingiusta limitazione dei diritti di difesa dei lavoratori. Una consultazione che pare fine a sé stessa, senza un effettivo scopo, non necessariamente preordinata al raggiungimento di un accordo, che, per altro, non potrebbe essere perseguito stante il vincolo di riservatezza imposto ai rappresentanti sindacali che vi partecipano. Seppure il raggiungimento di un accordo non sia vietato, fatto salvo l’ostacolo appena citato del vincolo di riservatezza, desta stupore che la prospettiva di un accordo non sia neppure nominata, quanto meno in termini di mera opportunità o eventualità. Una norma che tradisce non solo lo spirito della direttiva ma anche le disposizioni dello Statuto dei lavoratori e i principi costituzionali in tema, organizzazioni sindacali e diritto di sciopero da cui esse traggono origine.
Ne sortisce una figura di lavoratore che, non essendo chiamato ad approvare il piano di ristrutturazione che può modificare il rapporto che lo lega all’impresa in crisi, financo sino a scioglierlo, è solo un creditore, sempre che un credito monetario vanti, e ciò non è affatto detto.
È vero che il 43° considerando della direttiva Insolvency prevede che «Il concetto di parti interessate dovrebbe includere i lavoratori unicamente in quanto creditori», ma una simile lettura «riduzionistica» non trova conferma nell’ultimo comma dell’art. 13 della direttiva, che consente ai singoli Stati di prevedere l’approvazione del piano di ristrutturazione anche da parte dei lavoratori incisi dal medesimo.
Proseguendo nella ricerca dell’altrove, ci si deve domandare ove un accordo sindacale fosse raggiunto, se lo stesso debba assimilarsi a un particolare tipo normativo, e a quale; se debba perfezionarsi, dopo essere stato siglato, attraverso accordi individuali con i lavoratori interessati in sede protetta, o se possa assumere carattere vincolante nei confronti di tutti i lavoratori e, quindi, anche di coloro che non aderiscono ai sindacati. E, ancora, c’è da chiedersi cosa accade se le organizzazioni sindacali esprimono dissenso sul piano di ristrutturazione, oppure cosa succede se l’imprenditore non provvede all’obbligo d’informativa o vi provveda in maniera formalistica e incompleta, dato che non sono previste sanzioni a suo carico. Non c’è, come illustrato, un accordo da raggiungere. Si potrebbe argomentare come simili eventualità costituiscano fattispecie di condotte antisindacali, sanzionate ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori con la nullità delle determinazioni assunte dal datore di lavoro, ma sono incomprensibili le ragioni per cui il legislatore non abbia sentito l’esigenza di rinviarvi.
Sembrerebbe, dunque, che l’imprenditore in crisi – assolto l’obbligo d’informativa – sia libero di assumere autonomamente decisioni che incidano sui rapporti di lavoro, ma sappiamo anche che per la rinegoziazione dei contratti in essere non si può prescindere dal consenso della controparte, sicché il confine tra le rilevanti determinazioni e la modifica dei contratti in essere, appare incerto, giacché l’art 4, comma 3, CCII estende il concetto delle «rilevanti determinazioni» oltre il perimetro della semplice «organizzazione del lavoro» e delle «modalità di esecuzione delle prestazioni».
Ad esempio, ci si deve domandare se la soppressione di un’indennità retributiva eccessivamente onerosa, la modificazione in peggio di determinate mansioni, la conversione di taluni contratti, la corresponsione differita del t.f.r., la modifica dell’orario di lavoro, l’allungamento dei turni, la riduzione delle pause, etc. rientrino in uno o nell’altro campo.
Quali di tali «rilevanti determinazioni» abbiano la necessità, aliunde normata, dell’accordo sindacale, ed eventualmente dei singoli lavoratori, e quali possano essere attuate con il semplice adempimento all’informativa di cui all’art, 4, terzo comma, CCII. Siamo al cospetto, probabilmente, non solo di una norma imperfetta, ma di una norma inutile, che deve indurre l’interprete a prudenza e a ritenere che i rapporti di lavoro nell’ambito delle ristrutturazioni d’impresa non godano affatto di uno statuto speciale, applicandosi ai medesimi le norme generali senza eccezione alcuna.
Ne consegue, se così si opinasse, che non solo i lavoratori non sono protagonisti, bensì semplici spettatori, della soluzione della crisi dell’impresa che li occupa, ma che la stessa impresa è costretta a rapportarsi con loro secondo gli schemi e le procedure legali pensati per situazioni del tutto ordinarie. Non si trattava di escogitare un grimaldello per scardinare valori di rango costituzionale come quello della salvaguardia del posto di lavoro, bensì di offrire ai lavoratori incisi una tutela concreta ed efficace, non ancorata a mere petizioni di principio.
Non solo si è persa, dunque, una buona occasione verso la definizione di una nuova regolamentazione delle relazioni industriali in presenza di una situazione di crisi, ma, a ben vedere, sono stati aboliti taluni strumenti che, in passato erano stati molto utili. Mi riferisco in particolare alla nuova formulazione dell’art. 4 bis, art. 47 Legge 428/1990, introdotta dall’art. 368, quarto comma, CCII, che stabilisce che in caso di concordato preventivo in continuità indiretta, o negli accordi di ristrutturazione dei debiti è possibile intervenire, tramite accordo sindacale, sulle condizioni di lavoro dei dipendenti trasferiti «fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro».
Ciò sta a significare che l’inserimento, nell’ambito di una procedura ex art. 47, della richiesta di pervenire a un accordo sindacale che preveda il passaggio parziale di dipendenti alla cessionaria – anche laddove dovesse mai essere accolta dalle OO.SS. – sarebbe ampiamente contestabile dai singoli lavoratori con cui occorrerebbe raggiungere onerose intese individuali.
Una complicazione costosa che certo non agevola né la soluzione della crisi tramite il passaggio dell’impresa a un nuovo imprenditore, né la salvaguardia, seppure non totale, dei posti di lavoro che da tale passaggio dipendono. Un vero e proprio ritorno agli anni ‘70.