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Il sottile equilibrio fra gli interessi al risanamento delle imprese e la tutela dei superiori interessi erariali e occupazionali*

Giovanni La Croce, Dottore commercialista in Milano

21 Febbraio 2024

*Scritto edito su “Il finanziamento alle imprese nel Codice della crisi e dell’insolvenza”, Quaderno della Commissione crisi, ristrutturazione e risanamento d’impresa presso l’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano, a cura di G. Rocca, con prefazione di S. Leuzzi.
L’A. svolge una riflessione ad ampio spettro sul modo di combinarsi, nel terreno della crisi impresa, di interessi tendenzialmente in attrito.
Riproduzione riservata
1 . Introduzione al tema
Il diritto della crisi è stato interessato negli ultimi vent’anni da una serie di scosse telluriche che ne hanno modificato profondamente struttura e finalità. Legislatore e giurisprudenza vi hanno contribuito in misura pressoché paritaria.
Si è trattato di profondi moti sussultori e ondulatori, spesso in direzione opposta uno all’altro che hanno finito per consegnarci poco più di un anno fa un nuovo codice pieno di contraddizioni, segno che il terremoto è ancora in corso e durerà ancora a lungo. Solo sino a qualche anno fa sostenere l’esistenza di un interesse al risanamento delle imprese era considerato quantomeno eterodosso.
Eppure, il riformatore del 2005/2006, nell’esaltare la natura contrattuale delle procedure di risanamento, aveva riconosciuto, seppure indirettamente, l’esistenza di un interesse al risanamento delle imprese in crisi.
Si trattava, considerati gli assetti normativi dell’epoca, di un interesse a estensione limitata. Da un lato l’interesse del debitore dall’altro quello dei suoi creditori. Ove tali interessi avessero trovato una composizione condivisa, in via maggioritaria lato creditori, ecco che anche allora si poteva ritenere sussistente un diritto normativamente riconosciuto al risanamento dell’impresa, cui si perveniva per via della scissione del binomio impresa-imprenditore, indissolubile nel previgente regime del ‘42.
Come noto, quell’intuizione cadde sotto i colpi di una giurisprudenza che riteneva che l’interesse al salvataggio dell’impresa in crisi non potesse demandarsi alla sola decisione della maggioranza dei creditori, come i più avevano ritenuto sulla base della novella, ma che ci si dovesse riferire a un interesse più generale, un interesse pubblico, al ricorrere del quale, e solo a certe condizioni, alla ristrutturazione dell’impresa era riconosciuta una qual certa dignità giuridica.
La resistenza alla novella si sviluppò su due fronti. Da un lato tramite un’applicazione estensiva dei rigori dell’art. 173 L. fall., applicazione estensiva cui pose un freno la Corte di cassazione nel 2014, affermando il principio che gli «altri atti di frode» potevano rilevare ai fini della caducazione della procedura di concordato preventivo, solo e in quanto finalizzati a ingannare i creditori, a nulla inferendo le condotte del debitore che, pur censurabili sotto il profilo delle sue responsabilità, non avessero avuto attinenza e incidenza sui contenuti economici e informativi della proposta[1]. Sotto un secondo e diverso profilo la giurisprudenza si spinse ad affermare che l’interesse alla ristrutturazione dell’impresa trovasse un limite invalicabile nel superiore interesse erariale all’integrale soddisfacimento dei propri crediti per Iva e ritenute[2]. Anche in questo caso la prevenzione cadde sotto la scure della Corte di Giustizia UE[3], cui anche le SS. UU. della Cassazione dovettero adeguarsi[4].
Ciò non di meno, nella realtà pratica, sino alla crisi pandemica del 2020, le resistenze all’affermazione di un diritto al risanamento dell’impresa, pur con il consenso della maggioranza dei creditori, rimasero forti e diffuse.
Non è questa la sede per ripercorrere la storia di tali resistenze, non basterebbe un’enciclopedia, ma certamente occorre considerare che – di là di certi eccessi ideologici e delle condotte non sempre commendevoli degli operatori – è difficile conciliare il diritto dei creditori alla soddisfazione delle loro legittime ragioni con la continuità dell’impresa. Si tratta, infatti, di due valori tra loro ontologicamente concorrenti: più risorse sono riservate al soddisfacimento dei creditori, minori saranno le chance di risanamento; mentre più si abbassa la soglia del soddisfacimento dei creditori, minori saranno le possibilità che questi aderiscano al piano di salvataggio.
Queste elementari considerazioni ci fanno comprendere quanto sia stata velleitaria la scelta del legislatore – scelta confermata nel nuovo codice – di non porre una soglia di ammissibilità alle proposte di concordato in continuità diretta, lasciando così intendere l’esistenza di un diritto incondizionato al risanamento dell’impresa che ha unicamente avuto l’effetto di moltiplicare i casi di concordati che si sono arenati all’esito negativo delle votazioni o delle opposizioni.
Ma è con la crisi da pandemia Covid-19 che il diritto alla ristrutturazione irrompe nel codice, che sino ad allora era meramente concorsuale, cioè di regolazione delle posizioni debitorie. Improvvisamente anche chi aveva teorizzato sino a pochi giorni prima la necessità di un ritorno a un sistema più pubblicistico e meno privatistico si scopre difensore della sopravvivenza dell’impresa a tutti i costi, indipendentemente dalla sussistenza delle condizioni concrete per perseguirla. Così fu che l’emozione si fece norma.
Siamo all’epoca della confisca del voto del credito erariale da parte del giudice. All’epoca del «meglionummounochezero».All’epoca in cui si ritenne che bastasse scaricare sull’erario – sui conti pubblici – tutta la debitoria di un’impresa, offrendo, appunto un euro per la sua soddisfazione, per farla ritornare in bonis, tanto il giudice non avrebbe potuto che accertare che nel fallimento il recupero del credito erariale sarebbe stato nullo[5]. Qualcuno, così, ritenne che si potesse evitare anche il fallimento delle imprese «criminali», cioè di quelle imprese dedite a sfruttare i benefici delle frodi Iva carosello o a fondare la loro esistenza sulla sistematica violazione dell’obbligo di pagamento di Iva, ritenute e contributi.
Seppure con un po’ di ritardo, rispetto a una norma – quella del voto forzoso – connotata da profili che non ho avuto remore a definire eversivi del nostro dettato costituzionale[6], la giurisprudenza di merito è riuscita di recente a porre un argine al suo utilizzo nei casi più estremi[7].
A complicare il quadro, inesplorato nel vecchio regime, ma attualissimo nel nuovo codice, troviamo i temi della distribuzione del valore della continuità e della possibilità di riservarne una quota anche ai soci/azionisti.
Sotto questo profilo, stride, al costituzionalista, l’ipotesi che, seppure nell’ambito di un procedimento assai complesso, sul quale non v’è spazio per dilungarci, i soci possano ottenere una qualche «distribuzione» in danno del creditore pubblico e delle condizioni (non dei crediti) dei lavoratori.
In buona sostanza, si può ritenere che ancora oggi un giusto equilibrio tra interesse al risanamento dell’impresa in crisi e interessi concorrenti non sia stato ancora trovato, eppure come cercherò di dimostrare, sarebbe bastato prendere a riferimento il diritto sovranazionale, la direttiva Insolvency[8], per rintracciarlo e definirlo normativamente in positivo.
2 . Il limite della risanabilità e le convergenti ragioni erariali
Il primo considerando della direttiva Insolvency è chiaro a riguardo: hanno diritto di accedere ai cosiddetti quadri di ristrutturazione nazionali solo agli «imprenditori sani in difficoltà finanziaria».
Seppure la definizione dell’imprenditore sano in difficoltà finanziaria sia intuitiva, giova indugiare in qualche chiosa, poiché «grande è la confusione sotto il cielo» e la situazione, contrariamente a quanto sosteneva Mao Zedong, è tutt’altro che eccellente. L’impresa è sana quando il suo business è in grado di produrre flussi di cassa positivi, mentre è in difficoltà finanziaria allorché questi flussi siano inadeguati a servire il debito. Ciò che rende «degna» quell’impresa di godere di un diritto a non cessare la propria attività è la sua capacità di produrre ricchezza, cioè di contribuire positivamente alla creazione del PIL nazionale. Al ricorrere di questa precondizione l’interesse privatistico trova un punto di contatto, seppure non una totale sovrapposizione, con quello collettivo. Al contrario, un’impresa che generi perdite a livello di ebitda drena risorse private e pubbliche che potrebbero essere utilmente indirizzate altrove, di tal che, sempre ai sensi del primo considerando della direttiva, dovrebbe essere avviata al più presto alla liquidazione, senza per altro negare al suo imprenditore il diritto a una seconda chance. Nel dibattito che ha portato alla luce il Codice della crisi e dell’insolvenza, improvvidamente in via anticipata rispetto alla direttiva, tali concetti antinomici sono stati fraintesi e fatti oggetto di una poco giustificabile sovrapposizione che ha finito per involgere anche il tessuto normativo che ne è derivato.
Il diritto alla seconda chance ha così finito per essere confuso con il diritto alla continuazione dell’impresa non sana e non come diritto a ritornare a fare impresa, dopo il fallimento della prima.
Non si spiegherebbero diversamente, infatti, tutti gli sforzi profusi dalla dottrina per giustificare le disposizioni sulla trasformazione di un voto erariale negativo in voto positivo.
Invero, un’impresa che sistematicamente accumula debiti fiscali riguardanti non imposte proprie, ma imposte di cui è semplice tramite ai fini della loro riscossione da parte dello Stato è, salvo casi particolarissimi e numericamente irrilevanti, un’impresa non solo non sana, ma decotta, quando non «criminale».
Sicché predicarne la «ristrutturabilità» tramite gli istituti riformati di quella che una volta era nominata «transazione fiscale» appare una palese violazione del primo considerando della direttiva. Solo chi non conosce come si interrelazionano risultati economici e flussi finanziari, chi non ha dimestichezza con il sistema delle fonti e degli impieghi può incorrere nell’errore di considerare risanabili imprese strutturalmente indebitate con il fisco.
Non è, dunque, l’interesse del creditore pubblico alla riscossione delle imposte a costituire un argine al diritto alla ristrutturazione, bensì lo sono le condizioni oggettive dell’impresa indebitata per Iva, ritenute e contributi a negarlo, e ciò in applicazione ai principi del diritto sovranazionale più volte richiamati.
Sotto questo profilo il Codice della crisi e dell’insolvenza pare avere trovato finalmente un giusto equilibrio con l’espressione del principio – di natura tutta tributaria e affatto concorsuale [9] – per cui l’adesione forzata dell’Agenzia delle entrate negli accordi di ristrutturazione dei debiti è, oggi, condizionata all’offerta di un trattamento non inferiore al 30/40%[10] delle proprie ragioni di credito, una percentuale sostanzialmente corrispondente al valore delle imposte non versate, seppure con il vantaggio di una dilazione in dieci anni. Ne consegue che per avere diritto alla ristrutturazione un’impresa dovrà dimostrare di essere in grado di pagare le imposte correnti (che prima non pagava) oltre che, seppure in dieci anni, il debito per imposte pregresse, senza l’aggravio di sanzioni e interessi, salvo quelli della dilazione. Cioè si dovrà trattare di un’impresa capace di produrre flussi di cassa assai significativi e, perciò, in totale controtendenza con il passato. Un vero miracolo, difficilmente realizzabile in natura.
Che sul tema di cosa si debba intendere per «impresa sana che si trovi in difficoltà finanziaria» vi sia una certa confusione trova chiara conferma nel decreto dirigenziale del Ministero della giustizia sulla Composizione negoziata di cui all’art. 12 del CCII., là dove si asserisce che un’impresa può essere in equilibrio economico se dal secondo anno dal deposito del ricorso per la nomina dell’esperto mostri [sulla carta, ndr] un flusso di cassa superiore a zero. Ovvio che tale affermazione mal si concilia con la necessità di prevedere il soddisfacimento del credito erariale almeno nella misura del 30%/40% per ottenerne l’adesione al piano di ristrutturazione.
Seppure tali percentuali minime di soddisfacimento siano previste solo nell’ambito dell’istituto degli accordi di ristrutturazione di cui all’art. 57 CCII ai fini della possibilità di ottenere il voto forzoso degli enti finanziari e previdenziali, appare logico prevedere che il voto favorevole di questi creditori pubblici sarà condizionato, anche nelle altre procedure, dalla sussistenza, o no, di un’offerta di soddisfacimento di tali entità. A riguardo va segnalato che i decreti delegati della riforma tributaria dovrebbero includere una disposizione generale nel senso di consentire l’adesione dell’Agenzia a condizioni molto simili a quelle previste per il cram down negli accordi di ristrutturazione, sgombrando definitivamente il campo sulla natura tributaria – e non concorsuale – delle relative disposizioni.
Se, dunque, in futuro sarà l’entità minima di soddisfacimento a orientare il voto dei creditori pubblici, considerate le regole di approvazione/omologazione (artt. 109 e 112 CCII) dei concordati in continuità, il voto di tali enti sarà spesso determinante, sia per la necessità di raggiungere l’unanimità delle classi o comunque, in assenza, per le particolari regole cui è subordinata l’applicazione del cram down generale; regole che paiono escludere che il creditore privilegiato possa essere soddisfatto in misura inferiore a una classe di creditori chirografari che «sarebbero parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione».
Se questo sarà effettivamente l’assetto definitivo dei rapporti tra impresa in crisi e creditori pubblici potrà dirsi che sarà stato finalmente trovato il giusto equilibrio normativo tra il «diritto al risanamento» e l’interesse erariale, che altro non è che la soluzione pratica di compromesso che traduce sotto il profilo tributario e contributivo cosa debba intendersi per impresa sana in difficoltà finanziarie.
3 . I diritti dei lavoratori nelle ristrutturazioni delle imprese in crisi
È fisiologico che ogni qual volta si debba procedere a una ristrutturazione di un’impresa in crisi si debba al contempo mettere mano a una razionalizzazione del costo del lavoro. [11]
La progressiva informatizzazione e robotizzazione dei processi produttivi; la competizione delle imprese concorrenti localizzate in paesi a basso costo di manodopera; la volatilità della domanda e dell’offerta, tipiche dell’economia globalizzata la pretendono, pena l’impossibilità per quell’impresa di continuare – recte, ritornare – a competere proficuamente sui mercati e così ripagare il proprio debito.
Questa necessità, obiettiva, si scontra però con un ordinamento giuslavoristico che non ha ancora metabolizzato che «il costo del lavoro non è una variabile indipendente dell’economia», tanto meno di quella di un’impresa in crisi. Non esiste un diritto del lavoro, una sua sezione, che si occupi di regolamentare la riduzione dell’occupazione finalizzata alla ristrutturazione di un’impresa in crisi e così salvaguardare l’occupazione compatibile con il nuovo assetto industriale. Anzi, come si vedrà nel prosieguo, il contesto interno ha subito un ulteriore irrigidimento, proprio a seguito di una norma introdotta con il CCII.
Passiamo, ora, a esaminare la scarna normativa speciale di riferimento e anche in questo caso le regole generali si rinvengono nella direttiva Insolvency.
In particolare, secondo l’art. 13, le procedure di ristrutturazione devono assicurare: (a) il diritto alla negoziazione collettiva e all’azione industriale; (b) il diritto all’informazione e alla consultazione conformemente alle direttive 2002/14/CE e 2009/38/CE, in particolare, l’informazione dei rappresentanti dei lavoratori sull’andamento economico e finanziario attività dell’impresa e sulla necessità di una ristrutturazione che potrebbe incidere sull’occupazione, sul recupero delle retribuzioni e delle contribuzioni previdenziali; (c) l’informazione e la consultazione dei rappresentanti dei lavoratori sui piani di ristrutturazione prima che siano presentati per la loro adozione e omologazione da parte dell’autorità giudiziaria; (d) l’approvazione da parte dei lavoratori del piano di ristrutturazione ove questo comprenda misure suscettibili di comportare cambiamenti nell’organizzazione del lavoro o nelle relazioni contrattuali con i lavoratori, solo, però, se il diritto nazionale o i contratti collettivi lo prevedano.
Ci si deve domandare, a riguardo, se il Codice della crisi, opportunamente integrato con la normativa generale giuslavoristica interna, abbia effettivamente recepito appieno tutte queste indicazioni.
Così non pare. La prima dissonanza che balza immediatamente all’occhio è come il legislatore interno – non prevedendo il nostro ordinamento giuslavoristico preesistente il relativo obbligo – non abbia inteso adottare la direttiva nella parte in cui la stessa consente di prevedere che i lavoratori abbiano diritto di partecipare all’approvazione di un piano di ristrutturazione che comporti una riduzione dell’occupazione o delle loro retribuzioni, così perdendo un’occasione storica per rendere i lavoratori partecipi del loro futuro.
Seppure, infatti, dal momento che la direttiva concedeva agli Stati membri la possibilità di derogarvi, ove il loro diritto interno già non la prevedesse, la previsione di una partecipazione dei lavoratori all’approvazione del piano di ristrutturazione della loro impresa era un’opportunità da non perdere, sia sotto il profilo di una piena applicazione dell’art. 35 e segg. Cost., sia sotto il profilo dell’efficientamento delle procedure di risanamento.
La ragione di una così clamorosa mancata occasione è da ricercarsi in una sola ragione. L’infausta decisione di avviare la riforma del nostro diritto concorsuale prima dell’emanazione della direttiva Insolvency da parte del Parlamento europeo e, quindi, la conseguente necessità di procedere a un suo adeguamento in tempi accelerati, incompatibili con la necessaria e doverosa consultazione delle parti sociali riguardo a un argomento così complesso e costituzionalmente delicato.
Sta di fatto che i lavoratori sono oggi sostanzialmente estranei al processo di ristrutturazione della loro impresa, cui partecipano esclusivamente in ragione delle posizioni creditorie vantate. Allo stesso tempo, in assenza di una regolamentazione ad hoc, ne costituiscono un vincolo, un ostacolo, superabile, come si vedrà, solo con alcuni complicati funambolismi.
Riguardo al diritto all’informazione preventiva, l’art. 4, comma 3, CCII, a una prima lettura, sembra coerente con la direttiva. Senonché tale obbligo non è imposto a qualunque imprenditore, ma solo a colui che al momento della presentazione dell’istanza di accesso a uno degli strumenti di regolazione della crisi «occupa complessivamente più di quindici dipendenti»[12], limitazione che non pare rinvenirsi nella direttiva, che, in conseguenza, non sarebbe stata recepita correttamente.
Per altro, un obbligo del tutto simile era già sancito dal d.lgs. n. 25/07 (recante l’attuazione della direttiva 2002/14/CE), che già impone[va] alle imprese con più di cinquanta dipendenti di informare i sindacati delle decisioni «che siano [fossero] suscettibili di comportare rilevanti cambiamenti dell’organizzazione del lavoro [e] dei contratti di lavoro». Destinatari dell’obbligo informativo sono le RSU o le RSA di cui all’art. 19 dello Statuto dei lavoratori costituite presso le unità produttive interessate[13].
Più complesso è comprendere in cosa consista, secondo quanto disposto al comma 3 dell’art. 4 CCII, l’oggetto dell’informazione, ossia cosa debba intendersi per «rilevanti determinazioni» assunte dall’imprenditore che incidano sui rapporti di lavoro di una pluralità di lavoratori. L’espressione, particolarmente l’aggettivazione «rilevanti» che la caratterizza, per quanti sforzi interpretativi si vogliano profondere, infatti, non consente di giungere a conclusioni certe, anche perché nei rapporti di lavoro tutto è, al contrario, rilevante. Si tratta di un’espressione che si presta facilmente a malintesi e a interpretazioni contrastanti, che non contribuiscono certo a creare le condizioni più proficue per la soluzione di una crisi di un’impresa. Per non parlare dell’altra espressione utilizzata dal legislatore per individuare i destinatari delle determinazioni rilevanti, «pluralità di lavoratori». Due, dieci, cinquanta…?
Ciò che, però, lascia più perplessi è che l’obbligo d’informativa dettato dall’art. 4 CCII, pare – il dubbio è prassi in qualsiasi approccio esegetico al nuovo codice – si ponga a valle dell’assunzione delle decisioni dell’imprenditore, sostanzialmente relegando i lavoratori e le loro organizzazioni a meri recettori di un qualcosa di già definito, non negoziabile. Il vero paradosso, però, la norma – solo apparentemente recettiva della direttiva – lo raggiunge nel disegnare la procedura che consegue all’informativa. Ricevuta la comunicazione, le organizzazioni sindacali destinatarie possono, infatti, chiedere un incontro con l’imprenditore entro tre giorni; la conseguente consultazione deve avere inizio non oltre i successivi cinque giorni e non può durare più di dieci giorni, salve diverse intese. Se solo pensiamo ai tempi – sei mesi di trattative – della composizione negoziata, davvero non si comprende la necessità di cadenze così accelerate, soprattutto in considerazione del fatto che le parti possono prorogarle semplicemente con il comune accordo.
Non è ancora tutto. Si prevede che la consultazione si debba svolgere sotto il vincolo di riservatezza, il che ha come conseguenza che le rappresentanze sindacali non potrebbero riferire ai propri ai rappresentati che cosa il piano di ristrutturazione prevede a loro carico, con un’ingiusta limitazione dei diritti di difesa dei lavoratori. Una consultazione che pare fine a sé stessa, senza un effettivo scopo, non necessariamente preordinata al raggiungimento di un accordo, che, per altro, non potrebbe essere perseguito stante il vincolo di riservatezza imposto ai rappresentanti sindacali che vi partecipano. Seppure il raggiungimento di un accordo non sia vietato, fatto salvo l’ostacolo appena citato del vincolo di riservatezza, desta stupore che la prospettiva di un accordo non sia neppure nominata, quanto meno in termini di mera opportunità o eventualità. Una norma che tradisce non solo lo spirito della direttiva ma anche le disposizioni dello Statuto dei lavoratori e i principi costituzionali in tema, organizzazioni sindacali e diritto di sciopero da cui esse traggono origine.
Ne sortisce una figura di lavoratore che, non essendo chiamato ad approvare il piano di ristrutturazione che può modificare il rapporto che lo lega all’impresa in crisi, financo sino a scioglierlo, è solo un creditore, sempre che un credito monetario vanti, e ciò non è affatto detto.
È vero che il 43° considerando della direttiva Insolvency prevede che «Il concetto di parti interessate dovrebbe includere i lavoratori unicamente in quanto creditori», ma una simile lettura «riduzionistica» non trova conferma nell’ultimo comma dell’art. 13 della direttiva, che consente ai singoli Stati di prevedere l’approvazione del piano di ristrutturazione anche da parte dei lavoratori incisi dal medesimo.
Proseguendo nella ricerca dell’altrove, ci si deve domandare ove un accordo sindacale fosse raggiunto, se lo stesso debba assimilarsi a un particolare tipo normativo, e a quale; se debba perfezionarsi, dopo essere stato siglato, attraverso accordi individuali con i lavoratori interessati in sede protetta, o se possa assumere carattere vincolante nei confronti di tutti i lavoratori e, quindi, anche di coloro che non aderiscono ai sindacati. E, ancora, c’è da chiedersi cosa accade se le organizzazioni sindacali esprimono dissenso sul piano di ristrutturazione, oppure cosa succede se l’imprenditore non provvede all’obbligo d’informativa o vi provveda in maniera formalistica e incompleta, dato che non sono previste sanzioni a suo carico. Non c’è, come illustrato, un accordo da raggiungere. Si potrebbe argomentare come simili eventualità costituiscano fattispecie di condotte antisindacali, sanzionate ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori con la nullità delle determinazioni assunte dal datore di lavoro, ma sono incomprensibili le ragioni per cui il legislatore non abbia sentito l’esigenza di rinviarvi.
Sembrerebbe, dunque, che l’imprenditore in crisi – assolto l’obbligo d’informativa – sia libero di assumere autonomamente decisioni che incidano sui rapporti di lavoro, ma sappiamo anche che per la rinegoziazione dei contratti in essere non si può prescindere dal consenso della controparte, sicché il confine tra le rilevanti determinazioni e la modifica dei contratti in essere, appare incerto, giacché l’art 4, comma 3, CCII estende il concetto delle «rilevanti determinazioni» oltre il perimetro della semplice «organizzazione del lavoro» e delle «modalità di esecuzione delle prestazioni».
Ad esempio, ci si deve domandare se la soppressione di un’indennità retributiva eccessivamente onerosa, la modificazione in peggio di determinate mansioni, la conversione di taluni contratti, la corresponsione differita del t.f.r., la modifica dell’orario di lavoro, l’allungamento dei turni, la riduzione delle pause, etc. rientrino in uno o nell’altro campo.
Quali di tali «rilevanti determinazioni» abbiano la necessità, aliunde normata, dell’accordo sindacale, ed eventualmente dei singoli lavoratori, e quali possano essere attuate con il semplice adempimento all’informativa di cui all’art, 4, terzo comma, CCII. Siamo al cospetto, probabilmente, non solo di una norma imperfetta, ma di una norma inutile, che deve indurre l’interprete a prudenza e a ritenere che i rapporti di lavoro nell’ambito delle ristrutturazioni d’impresa non godano affatto di uno statuto speciale, applicandosi ai medesimi le norme generali senza eccezione alcuna.
Ne consegue, se così si opinasse, che non solo i lavoratori non sono protagonisti, bensì semplici spettatori, della soluzione della crisi dell’impresa che li occupa, ma che la stessa impresa è costretta a rapportarsi con loro secondo gli schemi e le procedure legali pensati per situazioni del tutto ordinarie. Non si trattava di escogitare un grimaldello per scardinare valori di rango costituzionale come quello della salvaguardia del posto di lavoro, bensì di offrire ai lavoratori incisi una tutela concreta ed efficace, non ancorata a mere petizioni di principio.
Non solo si è persa, dunque, una buona occasione verso la definizione di una nuova regolamentazione delle relazioni industriali in presenza di una situazione di crisi, ma, a ben vedere, sono stati aboliti taluni strumenti che, in passato erano stati molto utili. Mi riferisco in particolare alla nuova formulazione dell’art. 4 bis, art. 47 Legge 428/1990, introdotta dall’art. 368, quarto comma, CCII, che stabilisce che in caso di concordato preventivo in continuità indiretta, o negli accordi di ristrutturazione dei debiti è possibile intervenire, tramite accordo sindacale, sulle condizioni di lavoro dei dipendenti trasferiti «fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro».
Ciò sta a significare che l’inserimento, nell’ambito di una procedura ex art. 47, della richiesta di pervenire a un accordo sindacale che preveda il passaggio parziale di dipendenti alla cessionaria – anche laddove dovesse mai essere accolta dalle OO.SS. – sarebbe ampiamente contestabile dai singoli lavoratori con cui occorrerebbe raggiungere onerose intese individuali.
Una complicazione costosa che certo non agevola né la soluzione della crisi tramite il passaggio dell’impresa a un nuovo imprenditore, né la salvaguardia, seppure non totale, dei posti di lavoro che da tale passaggio dipendono. Un vero e proprio ritorno agli anni ‘70.
4 . Conclusioni
Se, dunque, per quanto attiene ai rapporti con i creditori pubblici le recentissime novità legislative, con quanto ci si attende dalla riforma fiscale, può consentire di affermare che ci si sia avviati verso un giusto punto di equilibrio tra diritto della crisi e diritto tributario, altrettanto non può dirsi riguardo al rapporto con il diritto del lavoro, dove si è registrato un irrigidimento del sistema che non solo relega i lavoratori al ruolo di meri spettatori dell’evoluzione della crisi della loro impresa, ma che offre loro una tutela più formale e apparente che concreta e sostanziale.
L’opzione del piano di risanamento approvato dai lavoratori che ne sono incisi, che pur la direttiva Insolvency offriva, è stata scartata, come detto, più per esigenze di economia temporale del legislatore, piuttosto che in conseguenza di una sua ragionata e ponderata scelta e questo ci consegna un codice della crisi che tradisce, unitamente a tanto altro, l’obiettivo di poter disporre di un assetto normativo veramente competitivo con quello dei paesi più avanzati.

Note:

[1] 
Cass. civ., 26 giugno 2014, n. 14552 in Il Fallimento, 2015, 300, con commento G. La Croce, La «confessio» salvifica degli atti in frode ai creditori. Un equivoco pericoloso, denso di antinomie, contrasti costituzionali e violazioni Cedu.
[2] 
Cass. civ., 4 novembre 2011, n. 22931 e n. 22932.
[3] 
C. Giustizia UE 7 aprile 2016, C-546714.
[4] 
Cass. civ., SS. UU., 27 dicembre 2016, n. 26988. Tale arresto definitivo era stato anticipato – si permetta l’autocitazione – come unico possibile da G. La Croce, Il credito erariale IVA tra orientamenti U.E. e arresti della Cassazione, in Il Fallimento, 2012, 153.
[5] 
Ipotesi introdotta nell’articolato CCII, all’art. 63, comma 2bis, introdotta dall’art. 9, comma 3, D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147; e quindi estesa anche alla legge fallimentare in vigore all’epoca al secondo comma dell’art. 180 L. fall. con il D.L. 24 luglio 2021 n. 118.
[6] 
G. La Croce, Transazione e accordi su crediti contributivi: la mortificazione della funzione pubblica e del lessico, in www.fallimentiesocietà.it, 2021.
[7] 
Inter alia: Trib. Salerno, 23 gennaio 2023, in Dirittodellacrisi.it; Trib. Roma 2 marzo 2023 e 6 marzo 2023, in Fisco Oggi, Rivista online dell’Agenzia delle Entrate; Trib. Tivoli, 4 aprile 2023, in Fisco Oggi, Rivista online dell’Agenzia delle Entrate; Trib. Monza, 26 ottobre 2022, in Il Fallimento, 2023, 713; Corte Appello Milano, 23 febbraio 2023, in Sole 24 Ore del 5 giugno 2023; Trib. Roma 24 aprile 2023, in Sole 24 Ore del 12 giugno 2023; Trib. Firenze, 2 marzo 2022, in Il Fallimento, 2022, 856; Trib. Lucca, 18 luglio 2023, cit. in Il cram dawn fiscale nel concordato preventivo in continuità, G. Andreani, in Dirittodellacrisi.it; Corte Appello Firenze, 14 ottobre 2022; Trib. Lecce, 17 ottobre 2022, cit. da G. Andreani - A. Tubelli, Negli ADR transazione fiscale limitata dalla norma antiabuso, in Il Fisco, 2023, 3957.
[8] 
Direttiva UE 20 giugno 2019 n. 1023.
[9] 
Natura da me predicata sin dal 2011 in La Transazione Fiscale, 2011, IPSOA.
[10] 
Soglie introdotte dall’art. 1 bis D.L. n. 69/2023.
[11] 
Molti degli spunti contenuti in questo paragrafo sono tratti da F. Aprile, Bella e incompiuta. La procedura di informazione (e di quasi – consultazione) sindacale art. 4, comma 3, del Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza, in Lavoro, Diritti e Europa, 8 novembre 2022. Si concorda con l’autore riguardo alla pretermissione dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali; diverse, invece, sono le considerazioni che qui si traggono lato impresa.
[12] 
La Suprema Corte ha chiarito che tale margine occupazionale dev’essere verificato «con riguardo all’occupazione media dell’ultimo semestre» (cfr., ad esempio, Cass. civ. 26 febbraio 2020 n. 5240).
[13] 
Ciò stante il richiamo all’art. 47, comma 1, L. n. 428/1990 dettato in tema di trasferimento d’azienda.

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