La contrapposizione tra una visione essenzialmente negoziale di alcune procedure concorsuali – mi riferisco in particolare al concordato preventivo –, tesa a valorizzare principalmente il ruolo dell’autonomia privata, ed una concezione che ne privilegia invece gli aspetti processuali e sottolinea l’indispensabilità di strumenti di eterotutela, come tali dotati di una maggiore coloratura pubblicistica, non è del tutto nuova. Emblematici sono i contrasti da tempo verificatisi in giurisprudenza in ordine al potere-dovere del giudice non solo di controllare che la procedura si svolga nel rispetto delle regole per essa stabilite, ma anche di sindacare la fattibilità dei piani di concordato, ossia la loro idoneità a realizzare gli scopi per cui li si predispone. Quei contrasti non furono del tutto sopiti neppure con l’intervento delle Sezioni unite della Cassazione (sentenza 1521/2013), che escluse la possibilità del giudice di sindacare la convenienza della proposta concordataria, riconoscendogli però il compito di vagliare se questa fosse in concreto priva della sua causa negoziale, consistente nella regolazione e nel superamento della crisi dell'imprenditore mediante almeno un minimo soddisfacimento delle ragioni dei creditori.
Anche nei lunghi e tormentati lavori che hanno preceduto l’entrata in vigore dell’odierno Codice si sono registrate oscillazioni e dissensi a questo proposito. Il progetto di legge elaborato dalla prima commissione ministeriale incaricata di questo compito al principio del 2015 aveva inteso seguire l’indirizzo tracciato dalle Sezioni unite, poi però disatteso dal Parlamento con la legge delega n. 155/2017, sulla scorta della quale gli artt. 47, comma 1, e 48, comma 3, del Codice, emanato col d. lgs. n. 14 del 2019, inizialmente stabilirono che il tribunale dovesse anche vagliare la fattibilità economica del piano di concordato. Nella versione definitiva dello stesso Codice, rielaborato dal D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, per recepire la direttiva 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 (c.d. direttiva Insolvency), l’art. 47, comma 1, demanda ora invece al tribunale di verificare, in fase di apertura del procedimento, quando si tratta di concordato liquidatorio, la “ammissibilità della proposta” e la “fattibilità del piano”, non più però in chiave economica bensì intesa come “non manifesta inattitudine del medesimo a raggiungere gli obiettivi prefissati”. In caso di concordato in continuità aziendale, il vaglio preventivo del tribunale deve invece investire la “ritualità della proposta” e che il piano non sia “manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali”. Si torna così, se non m’inganno, ad un’impostazione molto simile a quella cui si erano ispirate le Sezioni unite nella citata sentenza del 2013. La ritualità di una proposta di concordato dipende dalla sua conformità alle regole con cui il legislatore ne ha delineato i caratteri fondamentali ed i requisiti indispensabili di forma. La manifesta inidoneità del piano a realizzare le sue funzioni essenziali non implica una valutazione di maggiore o minore probabilità di successo, che saranno i creditori a stimare, bensì un giudizio di assoluta (manifesta) inesistenza di qualsiasi possibilità di successo, che rende perciò in concreto impossibile l’oggetto stesso della proposta concordataria. In sintesi, dunque, il giudice conserva il suo ruolo naturale di controllore della correttezza dello svolgimento del processo, che si riferisce anche alla regolare formazione del consenso dei creditori, espresso sulla base di un’adeguata informazione ed esente da possibili elementi di frode. Gli è però preclusa, in questa fase, una valutazione del merito della proposta concordataria, che compete unicamente ai creditori in ossequio all’autonomia negoziale, sia pure incanalata entro precise regole procedurali il cui rispetto dev’essere dal giudice garantito, salvo che la macroscopica inattuabilità del piano su cui la proposta si regge non renda quest’ultima prima facie inammissibile.
Quando però la procedura abbia avuto corso, la proposta sia stata approvata dai creditori con le prescritte maggioranze e si passi alla fase dell’omologazione, i poteri d’ingerenza del giudice nelle dinamiche della ristrutturazione aziendale prevista da un concordato in continuità possono assumere assai maggior rilievo. Ai controlli di carattere ancora essenzialmente procedimentale elencati dall’art. 112, comma 1, lett. a), b), c), d) ed e), si accompagna, con specifico riguardo al concordato in continuità aziendale, la verifica del complesso sistema di distribuzione tra i creditori dell’eventuale valore di liquidazione e di quello che si prevede deriverà dal protrarsi dell’attività dell’impresa (art. cit. comma 2). Su queste regole di distribuzione non posso qui soffermarmi, ma vorrei piuttosto richiamare l’attenzione su quanto stabilito dalla successiva lett. f) del primo comma dell’articolo citato, secondo la quale il tribunale deve anche verificare che “il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza e che eventuali nuovi finanziamenti siano necessari per l’attuazione del piano e non pregiudichino ingiustamente gli interessi dei creditori”. Una formula, questa, che per il concordato in continuità aziendale sembra implicare una valutazione più estesa e penetrante sulla fattibilità del piano, rispetto a quella consistente nel giudizio di “non manifesta inattitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati”, di cui prima s’è detto, la quale viene poi richiamata dalla successiva lett. g) del medesimo comma con riferimento ad ogni tipo di concordato.
Solo nella pratica applicazione di questa nuova normativa si comprenderà però davvero quale sia la portata di tale valutazione e l’ampiezza dei poteri che il giudice eserciterà nel compierla. Resta però comunque fermo che neppure in sede di omologazione il giudice è chiamato d’ufficio a valutare la convenienza della proposta e del piano di concordato, rimessa al giudizio dei creditori. Tuttavia, se la convenienza è contestata da un creditore opponente, al tribunale tocca un delicato giudizio di comparazione, dovendosi stabilire se il credito dell’opponente risulterà comunque soddisfatto in misura non inferiore di quel che accadrebbe in caso di liquidazione giudiziale (art. cit. comma, 3). Non mi sentirei di escludere che questo giudizio comparativo, in parte controfattuale, in molti casi finisca per comportare un ampliamento della sfera di valutazione rimessa al giudice, sino a comprendervi anche profili attinenti alla convenienza della proposta concordataria, per poterla commisurare ai presumibili risultati dell’alternativa liquidatoria.
Merita poi di essere richiamata, a tal proposito, anche un’ulteriore disposizione, inserita in extremis nel testo del Codice. Mi riferisco all’ art. 53, comma 5 bis (introdotto esercitando un’opzione consentita al legislatore nazionale dall’art. 16, par. 4, comma 2, della direttiva Insolvency), ove è previsto che, in caso di reclamo contro la sentenza di omologazione di un concordato preventivo in continuità aziendale, il giudice d’appello, pur accogliendo il reclamo, potrebbe nondimeno confermare l’omologazione se valuti che l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori sia prevalente rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno. Si chiede qui al giudice di compiere un delicato bilanciamento di interessi contrapposti, tra i quali viene in rilievo anche l’interesse dei lavoratori al mantenimento in attività dell’azienda; e mi pare si tratti di una valutazione che va ben oltre il giudizio di convenienza di cui prima si parlava, perché qui la convenienza dev’esser considerata da una pluralità di punti di vista, corrispondenti ai diversi interessi in gioco: l’interesse dei lavoratori, che potrebbe in questo caso prevalere su quello del singolo creditore opponente, pur restando subvalente rispetto all’interesse generale della massa dei creditori, perché l’art. 84, comma 2, afferma che il concordato in continuità aziendale “tutela l’interesse dei creditori” e solo “nella misura del possibile” preserva anche i posti di lavoro; l’interesse, appunto, dei creditori in quanto comunità organizzata, retta al proprio interno dal principio maggioritario, pur con l’adattamento derivante dalla suddivisione in classi, la quale però qui non sembra venire in rilievo dal momento che è solo l’interesse comune all’intera massa a poter prevalere su quello del singolo creditore che si sia fondatamente opposto all’omologazione; ed, infine, l’interesse personale di quest’ultimo, cui si appresta una tutela risarcitoria, in luogo della tutela reale, ma ovviamente in misura non eccedente quella che gli sarebbe spettata in caso di mancata omologazione del concordato ed apertura di una procedura di liquidazione giudiziale.
Si tratta, nel complesso, di valutazioni pur sempre affidate a criteri piuttosto elastici e non è escluso che anche in futuro l’intervento del giudice in questa materia si manifesterà con intensità variabile, a seconda della maggiore o minore propensione dei singoli tribunali ad estendere la portata del loro sindacato.
Non va poi sottovalutata l’importanza dell’intervento del giudice nella concessione di misure cautelari e protettive di cui agli artt. 54 e segg. del Codice, spesso decisive per la realizzazione del piano, nell’accordare le quali non è indicato che il giudice debba vagliare la fattibilità (e tanto meno la convenienza per i creditori) del piano di concordato, ma è presumibile che egli tenga conto delle maggiori o minori probabilità di successo di detto piano. Anche sotto questo profilo, dunque, non mi sembra affatto che il giudice sia davvero chiamato a giocare un ruolo secondario, potendo egli invece, in realtà, condizionare fortemente l’esito della prospettata ristrutturazione aziendale con valutazioni che sarebbe davvero riduttivo considerare di natura meramente formale.