I contratti asimmetrici nella composizione negoziata
Pier Giorgio Cecchini, Dottore Commercialista in Modena
25 Novembre 2021
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Si tratta di strumenti approntati col lodevole scopo di salvaguardare la continuità aziendale e la migliore soddisfazione dei creditori, ma che per la loro natura coattiva in alcuni casi rischiano di trasferire ingenti costi e rischi della ristrutturazione sulle controparti.
Sommario:
1 . Conservazione coattiva dei contratti pendenti
2 . Assenza di meccanismi compensativi per la controparte
3 . Sopravvivenza parziale delle clausole ipso facto
4 . I finanziamenti obbligatori
5 . Rideterminazione coattiva: il legislatore varca una soglia
8 . Prassi virtuose e prescrizioni integrative
Qui l’articolato nazionale ricalca pedissequamente l’art. 7.4, comma 1, Direttiva (UE) 2019/1023 (“Direttiva”)[1], il quale però obbliga gli stati membri a recepire tale disciplina soltanto per i contratti pendenti definiti essenziali, cioè necessari per la continuazione della gestione corrente dell’impresa, mentre lascia loro la facoltà di estendere la disciplina anche ai contratti non essenziali.
L’Italia ha scelto quest’ultima opzione probabilmente per prevenire l’interruzione delle prestazioni sulla base di pretestuose eccezioni dell’altro contraente circa la natura essenziale o meno della prestazione; interruzioni che potrebbero pregiudicare l’operatività day-by-day dell’impresa.
L’ordinamento italiano conosce già una disposizione di tenore simile a quella qui commentata: l’art. 1460, comma 2, c.c. prevede che una parte non può avvalersi dell’eccezione di inadempimento, cioè non può rifiutarsi di adempiere la propria prestazione, nel caso in cui l’altra non adempia se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario a buona fede.
Attenti concorsualisti[2] hanno osservato che essa è applicabile al concordato preventivo, considerato che l’imprenditore non adempie il pagamento dei debiti pregressi a causa di un divieto di legge e non invece per una scelta deliberata, e che, oltretutto, il credito di controparte gode della prededuzione.
La disciplina codicistica non pare applicabile, invece, nella composizione negoziata, dove al debitore si lascia la facoltà di pagare i crediti anteriori (e ciò per evitare un effetto-domino; art. 6, comma 1), e la controparte è in una posizione non tutelata, poiché non gode di prededuzione né può avviare azioni esecutive e cautelari sui nuovi crediti[3].
Si giustifica dunque, nella composizione negoziata, una norma che impedisca esplicitamente l’eccezione di inadempimento.
Per questo motivo, l’art. 7.4, comma 2 della Direttiva prevede che gli stati membri possono garantire alle controparti salvaguardie utili ad evitare ingiusti pregiudizi.
Le salvaguardie potrebbero consistere nelle misure, previste nella legge fallimentare e nel CCI ma purtroppo obliterate nel D.L. 118/2021, della prededuzione e del recupero coattivo dei nuovi crediti; ma anche, secondo dottrina internazionale[4], in misure backward looking, come l’obbligo di pagamento dei debiti anteriori e la costituzione di garanzie su beni propri, oppure forward looking, come la concessione di fideiussioni bancarie o il riconoscimento di una preferenza nel rimborso.
Misure in assenza delle quali, secondo la stessa dottrina, potrebbero porsi dubbi di tenuta costituzionale della disciplina, realizzandosi una sorta di espropriazione[5] sui crediti a maturare; inoltre non è da escludere una possibile violazione del principio no creditor worse off than liquidation espresso dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[6], dato che la controparte che veda incrementato ma non incassato il proprio credito sulle nuove prestazioni potrebbe ricevere un soddisfacimento peggiore rispetto a quanto conseguibile con la liquidazione dell’impresa.
Il legislatore italiano invece sceglie di non approntare alcun meccanismo compensativo a favore delle controparti vessate dalla prosecuzione forzosa dei contratti.
Solo i contratti pendenti sono oggetto di prosecuzione coattiva. La loro definizione più precisa, in linea con la Direttiva e la giurisprudenza della Corte di Cassazione, possiamo trovarla nell’art. 97 CCI: è pendente il contratto ancora ineseguito o non compiutamente eseguito nelle prestazioni principali da entrambe le parti[7].
Pertanto, generalmente un fornitore di beni che non sia somministrante potrà rifiutare le nuove forniture; non così però se tra le parti intercorra un “contratto quadro” avente ad oggetto una quantità predeterminata di cose da fornirsi in più riprese (c.d. vendita a consegne ripartite).
Tuttavia non rientra in tale casistica un accordo generico, definito nella contrattualistica internazionale master agreement, nel quale viene concertata la comune strategia imprenditoriale con l’impegno a concludere futuri contratti di fornitura ma senza predefinire le quantità se non in via approssimativa.
La norma rende la controparte “prigioniera” del contratto soltanto in caso di mancato pagamento di crediti anteriori alle misure protettive; poiché nulla dice in relazione al mancato pagamento di crediti “posteriori”, qualora ciò si verifichi è ragionevole ritenere che tornino ad essere liberamente esercitabili i diritti dell’altro contraente di eccepire l’inadempimento e sciogliersi dal vincolo contrattuale.
Più di un creditore cercherà di sottrarsi alla disciplina sostenendo che quello stipulato con lui non è un contratto pendente, data la genericità della classificazione giuridica; il fenomeno è già noto a livello internazionale, ove la nozione di executory contracts è discussa e oggetto di continue controversie giudiziarie[8].
Allo stesso modo, i creditori più strutturati tenteranno di sfruttare a loro favore la circostanza che l’art. 6, comma 5 del D.L. 118/2021 (e così anche la Direttiva) individua quale unico inadempimento rilevante quello pecuniario, essendo previsto che i creditori non possono eccepire l’inadempimento del debitore “per il solo fatto del mancato pagamento di crediti anteriori”.
Ciò potrebbe portare a due fenomeni tali da depotenziare l’efficacia della norma: la proliferazione di clausole di risoluzione dei contratti per inadempimenti diversi dal mancato pagamento di crediti anteriori e la corsa allo scioglimento (race for termination) dei contratti alle prime avvisaglie di crisi.
Il primo rischio potrebbe essere rimediato prevedendo che neppure gli inadempimenti non pecuniari facoltizzino la controparte ad una modifica o alla risoluzione del contratto pendente; il secondo, prevedendo l’inefficacia di risoluzioni o modifiche al rapporto contrattuale attuate entro un dato termine dall’inizio delle misure protettive[9].
In conclusione, la prosecuzione forzosa dei contratti pendenti espone la controparte al rischio di credito sulle nuove forniture, e pertanto dovrebbe accompagnarsi alla prededuzione, se del caso autorizzata giudizialmente, ed al libero esercizio delle azioni esecutive e cautelari per i crediti così sorti.
Sono ipso facto, secondo la Direttiva, le clausole che legittimano la controparte a rifiutare l'adempimento dei contratti pendenti, provocarne la risoluzione, anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell'imprenditore per il solo fatto dell’accesso ad un procedimento di ristrutturazione.
La Direttiva sul punto è lapidaria, poiché impone agli stati membri di prevedere che dal primo dei due seguenti eventi, l’apertura di un procedimento di ristrutturazione e la richiesta dello stay, la controparte non possa avvalersi della clausola ipso facto (art. 7.5 della Direttiva).
Peraltro, anche la legge fallimentare e il Codice della Crisi e dell’Insolvenza prevedono l’inefficacia di tali clausole, seppure con formule meno analitiche rispetto alla Direttiva (art. 186-bis l. fall., artt. 12, 95 e 97 CCI).
Invece la composizione negoziata si limita all’ art. 4, comma 6 a rendere inefficaci le clausole ipso facto fin dal momento di apertura del procedimento soltanto per le banche e gli intermediari finanziari (cap. 4).
Per gli altri creditori, invece, non è prevista una norma specifica in tal senso; tuttavia soccorre, ma solo in parte, l’art. 6, comma 5, già illustrato al cap. 1, il quale inibisce l’eccezione di inadempimento ai creditori interessati dalle misure protettive che vantino crediti anteriori verso l’imprenditore in crisi. Soccorre solo in parte, dicevo, perché le clausole ipso facto sopravviverebbero nei quattro seguenti casi, mettendo a rischio la conservazione della continuità: (i) quando le misure protettive non siano affatto richieste; (ii) fino a quando siano richieste, se ciò avvenga successivamente all’accesso al procedimento; (i) quando la controparte che intende eccepire l’inadempimento sia un creditore non interessato dalle misure protettive e (iv) quando la medesima controparte non sia creditore[10].
Ciò all’opposto di quanto previsto nel concordato dall’art. 182-quinquies, comma 3, l. fall., ove per mantenere le linee di credito autoliquidanti già esistenti è richiesta l’autorizzazione giudiziale[11].
All’inciso “di per sé” occorre attribuire il significato che qualora concorrano altri elementi patologici per così dire di diritto comune (ad esempio esistenza di protesti, presentazione di fatture false o doppia presentazione), l’affidamento potrà essere revocato[12].
La disposizione sulla sopravvivenza degli affidamenti in caso di accesso alla composizione negoziata può essere interpretata in due modi.
Prima soluzione: l’imprenditore può continuare a utilizzare gli affidamenti per la parte accordata e non ancora utilizzata, e la banca è costretta a subirne l’utilizzo, senza neppure il beneficio della prededuzione. Se così sarà, occorrerà verificare nella pratica la tenuta di questa disposizione a fronte di stratagemmi dilatori e di “sospensioni” del rapporto bancario per ostacolare l’accesso al nuovo credito.
Seconda soluzione: la banca non può recedere dal contratto e pretendere l’immediato pagamento del fido utilizzato, ma l’imprenditore non può più utilizzare la parte degli affidamenti ancora disponibile, cioè fino a concorrenza del fido accordato.
L’art. 56 del decreto Cura Italia (D.L. 18/2020), intervenuto su una fattispecie simile, aveva rimosso qualunque dubbio interpretativo disponendo che gli affidamenti non potessero essere revocati per un certo tempo “sia per la parte utilizzata sia per quella non ancora utilizzata”.
Nel contesto qui analizzato, invece, la questione va risolta in via interpretativa.
A favore del congelamento del credito nei limiti del fido utilizzato, si è osservato che tra le possibili conclusioni positive dell’accordo previste dall’art. 11, commi 1 e 2, rientrano sia gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa (art. 182-septies l. fall.) che le convenzioni di moratoria (art. 182-octies l. fall.), ed entrambe le discipline prevedono che alle banche non aderenti non può essere imposto il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti; precisazione che non sarebbe di grande utilità se il debitore fosse stato prima di allora, in pendenza delle trattative, libero di fare man bassa di nuova finanza. Questa non pare un’argomentazione conclusiva, poiché la stessa situazione vale per un’impresa in bonis che acceda direttamente ai due istituti senza passare dalla composizione negoziata.
All’opposto, a favore del diritto di usare l’intera linea di credito accordata si può osservare come la posizione della banca non sia sostanzialmente dissimile da quella di qualunque controparte di contratti pendenti, che, in quanto tale, è costretta ad accumulare ulteriore credito. La sola differenza sta nel fatto che mentre la banca non può far valere la clausola ipso facto fin dalla domanda di nomina dell’esperto, per gli altri creditori tale momento è posticipato a quando si applicano le misure protettive e solo nei confronti dei creditori interessati da tali misure (vedasi ultimo paragrafo cap. 3).
Personalmente propendo per quest’ultima interpretazione, cioè per la conservazione tout court dell’intero affidamento accordato: (i) sul piano letterale, proprio perché non vi è alcuna limitazione testuale alla portata della norma, che sarebbe stata doverosa se il legislatore avesse voluto impedire l’utilizzo del fido residuo; (ii) sul piano delle intenzioni del legislatore, perché l’azzeramento del credito bancario incrementale rischierebbe di trasformare lo strumento da risolutore ad acceleratore della crisi.
Gli effetti sui rapporti autoliquidanti del divieto di interruzione dell’affidamento sono i seguenti: che la banca non potrà rifiutarsi di anticipare distinte di portafoglio né per la parte del fido accordato non ancora utilizzato al momento dell’istanza di nomina dell’esperto, né per la parte del fido accordato che si rigenererà per effetto dell’incasso degli effetti via via anticipati.
Il debitore potrà continuare ad utilizzare gli affidamenti anche se l’esposizione creditizia sia classificata come deteriorata. Infatti agli incisi “di per sé” e “per il solo fatto”, contenuti rispettivamente nell’art. 4, comma 6 e nell’art. 6, comma 5, che dovrebbero consentire alla banca di eccepire l’inadempimento per motivi diversi dall’apertura della negoziazione e dal mancato pagamento di crediti anteriori, non può essere attribuito significato tanto ampio da legittimare la revoca degli affidamenti sulla base di disposizioni regolamentari della Banca d’Italia, che hanno un rango giuridico inferiore al D.L. 118/2021 e alle quali il debitore, in quanto soggetto “privato”, è estraneo.
Una disciplina che consentisse all’imprenditore di sfilarsi da contratti divenuti non più redditizi anche in caso di pre-crisi - cioè in di condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rendono probabile la crisi (art. 2, comma 1 del D.L. 118/2021) - potrebbe prestarsi ad abusi, come avvenuto negli USA nel settore dell’intrattenimento, dove molti artisti hanno fatto domanda di accesso al Chapter 11 solo per ottenere lo scioglimento giudiziale di contratti di agenzia e di produzione troppo onerosi.
Vi ricorse ad esempio la cantante Toni Braxton, il cui singolo Unbreak my heart totalizzò nel 1996 vendite per 170.000.000 dollari, mentre lei dichiarò di aver ricevuti soltanto 1.972 a causa di un meccanismo penalizzante di determinazione delle royalties e di partecipazione ai costi promozionali[13].
Peraltro anche in Italia si è assistito ad usi “allegri” del potere di sciogliersi dai contratti pendenti nel concordato preventivo[14].
Il legislatore nazionale sceglie invece di non tenere conto del disvalore col quale la Direttiva tratta anche le modifiche coattive dei contratti e, nell’art. 10, comma 2 del D.L. 118/2021, traccia una disciplina che consente all’imprenditore in crisi di modificare il contenuto dei contratti - salvo quelli di lavoro dipendente - prima per via consensuale tramite l’intervento mediatore dell’esperto e poi, in caso di mancato accordo, per via autoritativa tramite l’intervento del tribunale.
La giurisprudenza era giunta già da tempo a individuare un obbligo di rinegoziazione, ritenendo che il dovere di buona fede, il quale si ricollega a un generale dovere di solidarietà, debba estendersi alla salvaguardia degli interessi altrui ove ciò non comporti un sacrificio apprezzabile[15]. Tuttavia, tale responsabilità determinerebbe unicamente un obbligo risarcitorio.
Aveva invece propugnato la rideterminazione coattiva del contenuto dei contratti, a seguito del diffondersi della pandemia, la Corte di Cassazione con la Relazione Tematica del Massimario e del Ruolo n. 56 dell’8 luglio 2020. In tale documento si sostiene che la violazione dell’obbligo di rinegoziare in buona fede il rapporto squilibrato non comporti solo il ristoro del danno, ma esponga anche la controparte all'esecuzione specifica di tale obbligo ex art. 2932 c.c.[16].
Esiste altresì un disegno di legge delega al Governo per una serie di interventi sul codice civile, tra i quali una modifica della disciplina delle sopravvenienze contrattuali nel senso sopra indicato[17].
Infine, l’art. 6-novies del Decreto Sostegni (D.L. 41/2021, convertito in L. 69/2021) aveva introdotto, seppure per un breve lasso di tempo (dal 22 maggio al 24 luglio 2021), una disposizione che prevedeva che “locatario e locatore sono tenuti a collaborare tra di loro per rideterminare il canone di locazione”, aprendo così la strada ad un intervento sostitutivo del tribunale.
Il terreno era dunque fertile per introdurre una disciplina di rideterminazione giudiziale del contenuto dei contratti.
Come detto, essa prevede due fasi sequenziali: una di ricontrattazione volontaria vera e propria e l’altra di rideterminazione forzosa.
Nella prima fase di rinegoziazione volontaria, è l’esperto, se del caso sollecitato dal debitore, che propone alle parti la modifica del contenuto dei contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita.
L’ipotesi che l’esperto non avvii la rinegoziazione nonostante le sollecitazioni del debitore mi sembra di scuola; tuttavia parrebbe trattarsi di una fase necessaria per poter successivamente adire il tribunale ai fini della rideterminazione forzosa, anche tenuto conto che in tal caso il tribunale deve acquisire il parere dell’esperto.
Giova rammentare che la nuova disciplina non prevede la sostituzione dell’esperto, cosicché in caso di sua inerzia assoluta il debitore dovrà “ripassare dal via”, ma senza che gli possa essere imputato alcun abuso per il duplice uso dello strumento[18].
Avviata la rinegoziazione, la legge richiede alle parti un comportamento secondo buona fede. Non credo tuttavia che la violazione dell’obbligo esponga l’altro contraente al risarcimento del danno, poiché al debitore è pur sempre offerto il rimedio successivo della rideterminazione forzosa per via giudiziale che, se accolta, elimina il danno e, se rigettata, dimostra l’infondatezza delle sue pretese e la buona fede altrui.
Nella seconda fase di rideterminazione forzosa, una volta che le parti abbiano esperito vanamente il tentativo di modifica condivisa, il tribunale fallimentare, su domanda dell’imprenditore, può modificare d’imperio il contenuto del contratto, previa acquisizione del parere dell'esperto e tenuto conto delle ragioni dell'altro contraente (art. 10, comma 2), sentite le parti interessate, assunte le informazioni necessarie e, se del caso, nominato un ausiliario ex art. 68 c.p.c. (art. 10, comma 3).
Precisa il decreto dirigenziale (sezione III, punto 11) che il parere reso dall’esperto al tribunale può contenere indicazioni circa le ragioni del fallimento delle trattative soltanto se le parti vi acconsentono.
Trattandosi di procedimento di natura contenziosa, è richiesta la difesa tecnica per entrambe le parti.
Il giudice opera in composizione monocratica; il provvedimento è impugnabile ma, in caso di reclamo, egli non può far parte del collegio giudicante.
I confini entro i quali la rideterminazione del contenuto dei contratti può operare sono stretti: (i) essa può riguardare i soli contratti ad esecuzione continuata o periodica o ad esecuzione differita, (ii) la prestazione deve essere divenuta eccessivamente onerosa a causa della pandemia da Covid, (iii) deve essere assicurata l’equità del provvedimento attraverso le seguenti cautele e prescrizioni:
a) deve essere rispettato il contraddittorio preventivo tra tribunale, esperto e parti interessate;
La norma ricalca l’art. 1467 c.c. in materia di eccessiva onerosità sopravvenuta dei contratti, sostituendo agli avvenimenti straordinari e imprevedibili gli effetti pandemici, omettendo la tutela c.d. demolitoria, cioè la risoluzione del contratto su richiesta della parte debole, e affidando la tutela manutentiva, cioè la modifica equa delle condizioni del contratto, alle parti con l’ausilio dell’esperto e, in assenza di accordo, al tribunale.
L’art. 10, comma 2 non prende in considerazione l’ipotesi della impossibilità sopravvenuta da pandemia, totale o parziale, che quindi resta regolata ordinariamente dagli artt. 1463 e 1464 c.c.
Continuativa o periodica può essere una prestazione di dare (ad esempio somministrazione di gas), di fare (ad esempio contratto di lavoro, appalto di servizi di manutenzione) o di non fare (ad esempio l’impegno di un imprenditore a non fare concorrenza ad un altro imprenditore).
Sono contratti ad esecuzione differita quelli in cui la consegna del bene o il pagamento del prezzo o entrambi sono differiti ad un termine successivo alla conclusione del contratto; ciò può anche derivare dall’aver frazionato l’adempimento, come nel caso della vendita a rate o a consegne ripartite.
Anche i contratti bancari sono ricompresi nel novero dei contratti di durata (artt. 118 e 119 T.U.B), con la possibile eccezione del mutuo, che, essendo ad effetti reali, alternativamente ricadrebbe nella categoria dei contratti ad esecuzione differita (il rimborso rateale), e quindi resterebbe anch’esso assoggettabile a rideterminazione coattiva.
L’art. 10, comma 2 non richiede che i contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita siano anche pendenti, ma ciò è sottinteso, essendo altrimenti in presenza di un credito.
Non dovrebbero essere oggetto di rideterminazione le prestazioni di contratti ad esecuzione continuata o periodica già fornite, essendo immanente nel sistema giuridico il principio per il quale le modificazioni di tali contratti non possono avere effetto retroattivo: in tal senso gli artt. 1373 c.c. (recesso unilaterale), 1360 c.c. (retroattività della condizione) e 1458 c.c. (effetti della risoluzione).
Il divieto di rideterminazione ex tunc dovrebbe valere non soltanto per le prestazioni bilateralmente già eseguite, ma anche per quelle che l’altro contraente abbia fornito senza ancora ricevere la controprestazione: in tal caso egli vanterà un credito alla controprestazione non suscettibile di rideterminazione.
Correttamente, la disciplina opera indipendentemente dal fatto che l’altro contraente sia anche creditore o meno, così evitando l’ambiguità già illustrata dell’art. 6, comma 5[21].
La rideterminazione forzosa può essere invocata quando la prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa. Per chi, non è precisato; tuttavia, essendo la norma posta a tutela della continuità aziendale, possiamo dare per scontato che l’eccessiva onerosità debba essere quella che colpisce l’impresa in crisi, e non invece la sua controparte.
Inoltre, la norma non precisa quale debba essere la controparte contrattuale; quindi, la rideterminazione potrà coinvolgere non soltanto i fornitori ma anche i clienti e, come chiarito, le banche.
Va notato che il legislatore non ha adottato la stessa tecnica dell’art. 91 Decreto Cura Italia (DL 18/2020), ove legava l’esclusione del debitore da responsabilità per inadempimento ex artt. 1218 e 1223 c.c. non agli effetti della pandemia, bensì alle sole misure di contenimento previste nel medesimo decreto.
Il più ampio riferimento agli effetti della pandemia, anziché soltanto agli effetti delle misure di contenimento, può far ricomprendere tra le cause che legittimano la modifica giudiziaria dei contratti anche i consistenti aumenti del prezzo delle materie prime, che sono in parte frutto di dinamiche internazionali indotte dal Covid e non soltanto di quelle determinate dal lockdown nazionale; aumenti che stanno mettendo a repentaglio la continuità aziendale di numerose imprese.
Proprio l’esempio sopra riportato mi porta a ritenere che possano essere oggetto di rideterminazione non soltanto i contratti stipulati prima della pandemia, ma anche quelli stipulati successivamente, purché prima dell’evento che presenta un nesso causale con la pandemia (nello specifico: l’aumento di prezzo delle materie prime).
Dato il tenore letterale della norma, la rideterminazione può riguardare qualunque clausola del contratto, sia di natura economica che giuridica, e tanto è stato confermato anche da membri della commissione di riforma.
Potranno quindi essere modificati aspetti essenziali, quali il prezzo e le condizioni di pagamento; il contratto potrà, inoltre, essere sospeso temporaneamente.
È vero che la portata della disciplina è piuttosto moderata: essa ha un’efficacia di fatto temporanea, in quanto gli effetti della pandemia andranno progressivamente a scemare fino ad annullarsi del tutto, ed inoltre il legislatore si è sforzato di mantenere entro limiti angusti gli spazi dell’intervento giudiziale.
Ritengo tuttavia che l’ambito della sua applicazione dovrebbe essere ulteriormente ristretto, quantomeno in via interpretativa, nel rispetto dei canoni, richiesti dalla norma, di equità delle condizioni e di equilibrio, se del caso tramite indennizzo, delle prestazioni per come rideterminate dal tribunale.
In primo luogo, quindi, la rideterminazione coattiva del contenuto del contratto dovrebbe essere riservata ai soli casi di crisi o insolvenza dell’impresa, ed invece dovrebbe essere esclusa nella pre-crisi; consentire infatti anche alle imprese in pre-crisi di accedervi significherebbe distorcere la concorrenza a loro favore senza giustificato motivo.
Ritengo sussistere la pre-crisi ove: (i) vi sia evidenza della sostenibilità dei debiti e di prospettiva di continuità aziendale per almeno i successivi sei mesi[23] ma (ii) vi sia evidenza che tale sostenibilità verrà meno entro due anni, intesi quale vero e proprio “periodo di cura” dal D.L. 118/2021[24].
In altri termini si ha pre-crisi quando la crisi ha probabilità di manifestarsi dal settimo al ventiquattresimo mese.
Tale verifica da parte del Tribunale presuppone l’esistenza di un piano d’impresa, che deve essere prodotto[25].
In secondo luogo, il debitore dovrebbe dimostrare che l’impresa ha preliminarmente adottato serie iniziative di ristrutturazione[26] per porre rimedio alla crisi (fase, questa, prevista nella composizione assistita; art. 18, comma 4, CCI). Infatti, sarebbe incongruo imporre sull’altro incolpevole contraente un provvedimento così drastico , quale la rideterminazione di clausole contrattuali, quando l’imprenditore non abbia ancora esperito nessun serio tentativo di superamento della crisi, ma si sia soltanto limitato ad aprire il percorso negoziale scaricando sui creditori ogni sacrificio.
In terzo luogo, occorre evitare l’errore post hoc, ergo propter hoc (dopo di ciò, quindi a causa di ciò) e quindi il debitore dovrebbe dimostrare rigorosamente che sussiste un nesso causale tra gli effetti della pandemia e l’eccessiva onerosità della prestazione, e non soltanto una consecuzione temporale tra i due eventi.
In quarto luogo, la rideterminazione dovrebbe coinvolgere soltanto controparti per le quali essa sia sostenibile, e ciò per contenere l’effetto-domino[27] (che comunque non è eliminabile del tutto). Di conseguenza il tribunale dovrebbe verificare in sede di contraddittorio se la rideterminazione di clausole del contratto sia compatibile con la situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’altro contraente.
Infine, quale quinto punto, la rideterminazione giudiziale del contenuto dei contratti dovrebbe essere esercitata soltanto verso le controparti: (i) che operino in una situazione di monopolio e (ii) che si avvantaggino ingiustamente della situazione di dipendenza economica del debitore.
La modifica contrattuale di un contratto squilibrato, se non è frutto di un accordo volontario, comporta inevitabilmente che una parte sia avvantaggiata e l’altra svantaggiata, nonostante l’eventuale indennizzo.
Infatti, se entrambe le parti traessero un vantaggio dalla rinegoziazione, avrebbero già raggiunto volontariamente l’accordo sulla modifica del contratto sbilanciato nella precedente fase negoziale davanti all’esperto; se, al contrario, non avessero raggiunto l’accordo, la parte svantaggiata avrebbe chiesto la risoluzione del contratto ex art. 1467 c.c. per potersi rivolgere ad un altro fornitore[28].
Si consideri anche quale ulteriore svantaggio per la controparte pretermessa che l’indennizzo ha certamente natura concorsuale e dunque è destinato ad essere soddisfatto come credito chirografario in caso di successivo concordato o fallimento.
Tanto vale a livello microeconomico.
A livello macroeconomico, la teoria economica liberista ha dimostrato che quando la cooperazione tra le parti contrattuali è strettamente volontaria, si raggiunge il massimo vantaggio per l’intera collettività. Infatti, se gli scambi hanno luogo soltanto quando entrambe le parti ne traggono un beneficio, i prezzi e le altre condizioni contrattuali liberamente stabiliti coordinano l’attività di milioni di persone, ognuna alla ricerca del proprio interesse, in modo tale da beneficiare tutti[29].
Quando invece la cooperazione non è volontaria e trascolora nella coercizione, quando cioè si interferisce con il meccanismo dei prezzi di mercato, si interferisce anche con il funzionamento corretto del mercato impedendo l’allocazione efficiente delle risorse.
La soluzione più efficiente per il sistema, conforme ai principi di equa rideterminazione delle condizioni del contratto e di equilibrio tra le prestazioni di cui all’art. 10, comma 2, è dunque quella di limitare la modifica coattiva dei contratti ai casi eccezionali in cui il funzionamento del libero mercato si inceppa.
Ciò può determinarsi per contratti stipulati con fornitori in situazione monopolistica (o quasi-monopolistica), cioè nei casi in cui l’imprenditore in crisi non può sciogliersi dal contratto sbilanciato, non disponendo di fornitori alternativi a cui rivolgersi per l’acquisto di beni e servizi essenziali alla prosecuzione dell’attività.
Non basta: la rideterminazione dovrebbe operare unicamente quando il monopolista si stia avvantaggiando ingiustamente della dipendenza economica del debitore per lucrare extra-profitti, poiché essa (la rideterminazione) non può avere il mero fine di trasferire l’eccessiva onerosità determinata dalla pandemia ad un soggetto incolpevole. Esula dalla portata della norma, ad esempio, il monopolista che si limiti a ribaltare sull’imprenditore in crisi l’aumento di prezzo delle materie prime che egli stesso abbia subito, senza applicare alcun mark-up.
Può essere il caso del fornitore di bitume di un’impresa di pavimentazioni stradali: tale materia prima si solidifica in un’ora, e ciò comporta la necessità di approvvigionarsi nelle vicinanze del settore stradale da asfaltare, ad una distanza massima che dipende dalla viabilità circostante e dal grado di coibentazione del mezzo di trasporto. Se nel raggio di 35-50 km vi è un unico fornitore di bitume, egli si troverà in posizione monopolistica.
Allo stesso modo subisce il monopolio l’impresa che produca farmaci per una multinazionale quando quest’ultima le imponga di acquistare i principi attivi usati nella produzione presso un predeterminato fornitore certificato.
Non mi pare che configuri una situazione di monopolio, salvo casi particolari, la locazione di immobili ad uso commerciale: generalmente l’affittuario può esercitare l’attività altrove, anche se talvolta con grave perdita dell’avviamento commerciale; ma proprio a questo scopo è prevista l’indennità di cui all’art. 34, L. 392/1978, che dovrebbe spettare anche in caso di risoluzione del contratto ex art. 1467 c.c., intervenendo per motivi diversi dall’inadempimento[30].
Peraltro proprio la spada di Damocle della corresponsione dell’indennità dovrebbe indurre il locatore a paralizzare la richiesta di risoluzione, offrendosi di conformare almeno in parte le condizioni del contratto alle richieste del conduttore.
Alle stesse conclusioni si dovrebbe giungere quando le locazioni di alberghi o negozi situati in centri commerciali siano simulate da affitti d’azienda con l’intento di esonerare il locatore dalla corresponsione dell’indennità per la perdita dell’avviamento, “essendo escluso che possa invece ravvisarsi un affitto se l'atto ha ad oggetto singoli beni non organizzati per l'esercizio dell'impresa, e che sarà poi eventualmente l'avente causa a rendere tali”[31].
In ogni caso dovrebbe sperabilmente trattarsi di ipotesi rare a ripresentarsi, essendo cessati i provvedimenti che imponevano la chiusura delle strutture ricettive.
Potrà non piacere, ma i fornitori di gas e corrente elettrica non sono in posizione monopolistica, poiché è sempre possibile sostituirli, essendo l’approvvigionamento e la vendita completamente aperti alla concorrenza.
Quindi, quand’anche rientrasse fra gli effetti della pandemia l’aumento del costo dell’energia (e probabilmente così non è), non sarebbe possibile modificare le condizioni contrattuali della sua fornitura.
Gli switch al nuovo fornitore sono sempre possibili, anche se richiedono tempi oscillanti tra i venti e i cinquanta giorni a seconda che la richiesta sia stata formulata prima o dopo il decimo giorno del mese.
Vero è che i concessionari delle reti che attuano il trasporto e distribuzione del gas naturale operano in regime di monopolio legale nella relativa area di concessione, ma essi sono sottoposti a discipline specifiche da parte dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) col fine di garantire l’accesso non discriminatorio alle relative infrastrutture; l’utente neppure si accorge dell’esistenza del distributore, in quanto paga al venditore un compenso unico , inclusivo anche di quanto spettante al primo.
Inoltre, caso di debiti anteriori insoluti, il fornitore di energia non può interrompere le forniture all’impresa in crisi in forza dell’art. 6, comma 5, e comunque esiste il c.d. mercato di salvaguardia, che consente la prosecuzione del servizio anche in caso di morosità prolungata, seppure a prezzi più elevati.
Infine, se l’energia è legata a dispositivi per la sicurezza e l’incolumità delle persone, le utenze non sono mai disalimentabili; qualora, nonostante il divieto, il fornitore interrompa il servizio, il debitore può chiedere l’immediato intervento del Prefetto per il ripristino d’imperio degli allacciamenti.
Peraltro si è portati a ritenere che il mercato dell’energia sia appannaggio di operatori grandi e solidi, ma in realtà ne esistono molti di piccole dimensioni che operano con margini modesti di ricarico, non potendo usufruire di economie di scala, e nei confronti dei quali la rideterminazione coattiva dei prezzi di vendita potrebbe determinare situazioni di crisi.
Tanto va precisato per prevenire un uso strumentale della composizione negoziata da parte di imprese ad alto consumo di energia.
In conclusione, qualunque sia l’origine del monopolio (produttiva, contrattuale etc.), quando effettivamente il fornitore è uno soltanto o è dominante, l’art. 1467 c.c. non costituisce un rimedio utile a fronteggiare le sopravvenienze da pandemia, né può farsi ricorso alla riconduzione del contratto ad equità prevista dall’art. 1374 c.c., che riguarda soltanto l’integrazione di clausole contrattuali e non anche la loro sostituzione.
Al contrario, quando più fornitori operino in un contesto concorrenziale di beni e servizi fungibili, il tribunale non dovrebbe assecondare la richiesta del debitore di modificare per sopravvenienze le condizioni di un contratto già stipulato, poiché questi ha sempre facoltà di chiederne lo scioglimento e rivolgersi altrove, salvo che il fornitore corrente non offra di modificarlo convenientemente.
Ciò quand’anche il debitore motivi l’istanza sostenendo di non potersi rivolgere a fornitori alternativi poiché questi praticano condizioni peggiorative rispetto a quelle che il debitore vorrebbe imporre giudizialmente alla controparte corrente.
Infatti, questa argomentazione (umanamente comprensibile, perché nessuno è mai soddisfatto di come il reddito è distribuito e ne vorrebbe una fetta maggiore per sé) dimostra al contrario ed in modo lampante che la rinegoziazione forzosa, se attuata, cagionerebbe un danno ingiusto al fornitore corrente, vincolandolo a condizioni non di mercato che nessun altro fornitore praticherebbe.
Si tratta di strumenti senz’altro utili alla conservazione della continuità aziendale.
Tuttavia, la prosecuzione coattiva dei contratti pendenti espone la controparte al rischio di credito sulle nuove forniture, e pertanto dovrebbe accompagnarsi alla prededuzione, se del caso autorizzata giudizialmente, ed al libero esercizio delle azioni esecutive e cautelari per i crediti così sorti.
In difetto, c’è da attendersi che il mercato adotti atteggiamenti difensivi, illustrati nel capitolo 2, che potrebbero rendere più ardue le prospettive di risanamento.
Quanto alla rideterminazione coattiva del contenuto di contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita, essa mina un principio consolidato, quello dell’autonomia negoziale, sì da renderne opportuno un impiego soltanto in casi eccezionali, tramite una interpretazione pragmaticamente orientata dei principi di equa rideterminazione delle condizioni del contratto e di equilibrio tra le prestazioni di cui all’art. 10, comma 2.
Pertanto la rideterminazione giudiziale dovrebbe essere attuata soltanto quando si verifichino tutte le seguenti condizioni:
(i) l’impresa si trovi in situazione di crisi o insolvenza e non invece in pre-crisi, non giustificandosi altrimenti la distorsione della concorrenza;
Tale interpretazione è rispettosa del dovere costituzionale di solidarietà economica e sociale, che viene assicurato attraverso quella forma inconsapevole di altruismo selettivo di cui beneficiano i clienti, fornitori, dipendenti e soci di un’impresa quando questa opera in un mercato libero senza abusare di un’eventuale posizione dominante.
Note: