Come (provare a) salvare le (sole) imprese meritevoli
Luigi A. Bottai e Antonio Pezzano, Avvocato in Roma e Avvocato in Firenze
25 Marzo 2021
Cambia dimensione testo
Sommario:
Lo stesso Premier ha proseguito ricordando che nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020, la Commissione Europea ha esortato ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, fra l’altro “attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza (…)”. Al riguardo sappiamo che l’Italia ha appena chiesto alla Commissione il differimento di un anno del termine entro cui recepire la Direttiva 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva (termine la cui scadenza è il prossimo 17 luglio), per poter coordinare il Codice della crisi con la Direttiva nelle parti oggi non compatibili[1].
Occorre, dunque, cercare di capire quale sarà, in concreto, la via da intraprendere per perseguire l’obiettivo – ossia con quali strumenti giuridici si aiuteranno i settori[2] e le aziende “meritevoli di protezione” - e, in proposito, conviene volgere lo sguardo verso ordinamenti più celeri del nostro a reagire alle avversità prodotte dalla pandemia e ad offrire tutela alle imprese, sulla base di quella rescue culture che ha dimostrato sul campo la propria validità ed efficienza[3].
Per comprendere la profondità del fenomeno al cui cospetto il legislatore deve procedere, è opportuno muovere dai dati economici illustrati nel recente studio della Banca d’Italia sui Fallimenti d’impresa in epoca Covid [4], in cui si prevede che la forte contrazione del PIL registrata nel 2020 (-8,9%) porterà a un aumento di circa 2.800 fallimenti entro il 2022 (rispetto ai circa 11.000 totali del 2019), ai quali potrebbero aggiungersi altri 3.700 fallimenti «mancanti» del 2020 che non sono stati dichiarati a causa degli effetti temporanei della moratoria e delle misure di sostegno[5].
Quello studio dimostra come, storicamente, al calo del PIL sia associato un incremento significativo dei fallimenti sia nell’anno in cui si registra la caduta, sia nei due anni successivi (come avvenuto nella doppia recessione degli anni 2008-2009 e 2012-2014); ma tale fenomeno ha subito, durante la crisi da Covid-19, un’inversione di tendenza per cui le procedure fallimentari sono diminuite drasticamente da marzo 2020 (di circa 1/3, contrariamente alle aspettative di molti esperti), e ciò anche in un paese “liberista” come gli USA, che hanno registrato una riduzione del 27% in media[6] tra gennaio e agosto rispetto all’anno precedente, laddove le procedure di reorganization (Chapter 11) sono invece più che raddoppiate. Finanche più gravi sembrano le previsioni del FMI[7].
Il calo è dovuto precipuamente al fatto che i consumatori e le micro, piccole e medie imprese (MPMI) hanno potuto usufruire sia della sospensione ex lege delle istanze di fallimento (in vigore da inizio marzo a fine giugno pressoché ovunque nel mondo) come del rallentamento generale dell’attività nei tribunali in conseguenza delle misure di contenimento della pandemia; sia delle misure di sostegno economico (pur frammentarie da noi) concesse dai vari provvedimenti governativi, che hanno contribuito ad attutire l’impatto della crisi.
Esaurita la pur minima liquidità (ove si sia riusciti ad acquisirla), le aziende che hanno visto crollare la domanda per cause a loro non imputabili si ritrovano ora a fronteggiare gli effetti prolungati della crisi:
a) in carenza di liquidità e di assistenza finanziaria
b) nell’incertezza sul futuro prossimo e, quindi, nella predisposizione dei business plan
c) con le controparti non sempre disposte a rinegoziare i contratti
d) non potendo sostenere gli elevati costi connessi all’adozione di una procedura di risanamento
e) con la capacità limitata dei tribunali a gestire improvvisamente un numero di procedimenti che non ha precedenti e la loro tendenza ad optare per le liquidazioni, più che per i risanamenti.
Questi fattori di debolezza rivelano che il diritto concorsuale tradizionale non può servire come risposta politica primaria alle tensioni cui le MPMI sono sottoposte dagli effetti del Covid[8]. In Italia si aggiunge anche un tema di tenuta del sistema bancario, il quale si troverà presto a dover registrare incagli e sofferenze in capo alle imprese clienti. Si raccomandano, quindi, politiche “non fallimentaristiche”, che estendano i canali di accesso alla liquidità – in particolare, agevolando i finanziamenti o le ricapitalizzazioni dei soci (come dispone l’art. 8, D.L. n. 23/2020) o di terzi - e impongano ai creditori, sovente a loro volta debitori verso altri, di tollerare più a lungo gli inadempimenti, sotto forma di sospensione automatica delle procedure esecutive o concorsuali e/o dilazione delle scadenze di pagamento.
In sintesi, si può qui anticipare che le alternative realmente prospettabili sono di duplice natura:
i) una di tipo privatistico, rimessa all’autonomia negoziale delle parti, consistente in una semplice “moratoria” destinata alle imprese che siano entrate in crisi a causa del Covid, agevolmente accessibile sotto il controllo di organi all’uopo incaricati (vuoi dalle Camere di Commercio, con approccio simile alle mediazioni obbligatorie[9], vuoi dai tribunali, mediante delega a professionisti esperti della materia), accordando ai creditori incisi ogni diritto di opposizione;
ii) l’altra, di impronta più pubblicistica, che contempli un intervento legislativo mirato a combinare stralci o sgravi di crediti (fiscali e/o contributivi), dilazioni o rateizzazioni delle scadenze e accollo di determinate passività, come crediti d’imposta e cassa integrazione, alla fiscalità generale (il cui interesse al coinvolgimento va ravvisato nella necessità di evitare una desertificazione del tessuto imprenditoriale e di salvaguardare il sistema bancario).
Mentre il ricorso agli attuali strumenti del diritto concorsuale resta la via principale per le imprese medio-grandi, che intanto hanno subito un minore rallentamento dell’attività e, comunque, possono permettersi di ristrutturare i propri debiti seguendo le procedure tradizionali, con garanzie di affidabilità e trasparenza sicuramente apprezzabili[10]. Del resto, queste aziende hanno necessità di ingenti finanziamenti bancari e/o pubblici, anche per salvare i posti di lavoro, che solo nell’ambito di una procedura giudiziale possono essere erogati in sicurezza (la rapidità di una riorganizzazione dipende essenzialmente dall’istituzione che fornisce la liquidità immediata, come insegnano i casi Chrysler e GM).
Confermano un siffatto approccio rimediale altri studi europei[11], che suggeriscono di contenere gli effetti dello shock economico da Covid-19 per le MPMI non tramite le procedure concordatarie (date le prolungate rigidità che si incontrano dal momento dell’accesso in tribunale, il bisogno di liquidità, i costi rilevanti e il rischio di perdere clientela e fornitori), bensì attraverso un ponderato dosaggio di misure derivanti da falcidia dei crediti e da accolli di passività da parte dello Stato e/o di eventuali investitori/assuntori.
Le riflessioni in argomento muovono dalla semplice constatazione che il ricorso indiscriminato alle procedure fallimentari sortirebbe risultati assai esigui[12], all’esito delle vendite forzate (o da liquidazione) nelle attuali condizioni di mercato, incrementando le perdite per i creditori e il rischio di estendere la crisi anche ad imprese non ancora colpite dagli effetti del Covid. Si riconosce, infatti, che le aziende non vivono isolate, bensì in ecosistemi con interdipendenze, anche con le grandi aziende. Così, un numero eccessivo di liquidazioni genererebbe esternalità che distruggono il valore anche di imprese economicamente valide, oltre ad un’alta disoccupazione, con immaginabili effetti economici e sociali.
Per le imprese la crisi indotta dal Covid non deriva dall’incapacità di ripagare i debiti finanziari, ma da quella, ben più grave, di non riuscire a far fronte ai costi operativi che continuano a maturare periodicamente (stipendi, affitti, leasing, imposte, contributi, etc.); e le procedure di riorganizzazione, in continuità aziendale, non sono adatte a gestire difficoltà di questo tipo, perché si basano tipicamente sui flussi di cassa, ancorché minimali, che non restino interamente assorbiti dalle spese fisse (prededucibili), a prescindere dall’entità dei debiti.
Il c.d. Covid distress genera, all’opposto, proprio una carenza di detti flussi di liquidità. La disciplina concordataria presuppone, invero, che il problema da regolare sia il debito pregresso, non i costi operativi. Ai quali debbono sommarsi i costi diretti (advisor, commissari, spese di funzionamento) e indiretti della procedura (riduzione della clientela, irrigidimento delle controparti contrattuali, mancanza di fiducia dei fornitori).
Eppure, molte aziende hanno la consapevolezza o la ragionevole aspettativa di essere in grado di sostenere il loro debito, anche tenendo conto delle perdite da lockdown, a partire dal momento in cui le restrizioni si allenteranno e le condizioni di mercato torneranno normali. A tali aziende non si possono addossare pure i costi diretti e indiretti delle procedure di riorganizzazione.
Anche i creditori e i fornitori strategici saranno più disposti a sostenere una ristrutturazione quando le attività aziendali saranno riprese a pieno ritmo, con i connessi flussi di cassa, e potranno così disporre di maggiori informazioni sull’andamento del loro debitore.
Ecco le ragioni per le quali l’adozione di misure basate sulla rinegoziazione fra le parti, secondo i principii di buona fede e correttezza, si dimostrano più efficienti, in quanto nessuno meglio dei contraenti può valutare i propri limiti e le possibilità da concedere alle controparti[13]. A tal fine le moratorie e le dilazioni generalizzate, contenute entro tempi certi[14], garantiscono meglio il rispetto del principio di proporzionalità e dovrebbero, quindi, indurre il Governo a delineare un percorso o uno strumento normativo agile che permetta alle imprese colpite dalla pandemia – non già in crisi precedentemente -, ma con piani industriali ancora c.d. viable, di avere il tempo necessario a riprendere l’attività per poter ripagare i propri debiti al di fuori di una procedura giudiziale[15]. Ciò si concilierebbe, peraltro, con le disposizioni della decretazione d’urgenza che hanno sospeso l’applicazione delle norme sulle valutazioni di talune poste di bilancio, sugli ammortamenti, sulle perdite qualificate e, in ultimo, sullo scioglimento delle società.
Qui l’alternativa si disputa fra un criterio selettivo – basato sulle prospettive di successo futuro (alla luce delle performance pre-crisi e della posizione competitiva sul mercato), contribuendo maggiormente all’occupazione - e, all’opposto, la moratoria generalizzata.
Un’autorevole risposta, di respiro internazionale la offre il G30, presieduto dal medesimo Presidente Draghi, nel report pubblicato a dicembre 2020[16], nel quale, dopo un’approfondita analisi del contesto, si illustrano le ragioni e le proposte di disciplina. Si spiega come nella prima ondata della pandemia molti governi abbiano dato la priorità a garantire liquidità per mantenere lo status quo e schemi di protezione del lavoro. Presto, però, è risultato impossibile sostenere i livelli iniziali di spesa (con poche eccezioni, come la Germania) e allora si sarebbe dovuti essere espliciti sulle priorità da perseguire:
- grandi aziende vs. PMI, che in Italia sono predominanti
- preservazione delle situazioni (ed equilibri) preesistenti vs. incoraggiamento del processo di "distruzione creativa", in cui le imprese falliscono, permettendo tuttavia ai lavoratori e alle risorse di fluire verso le imprese più adatte per la nuova economia,
Tale requisito “finanziario” scopre un altro vincolo dirimente: la celerità dei processi di ristrutturazione (possibilmente inducendo alcune tipologie di creditori ad acquisire partecipazioni al capitale o ad agevolare prestiti a lungo termine), potrebbe aprire il flusso di nuovi capitali con un rischio inferiore. Alla base di tutto sta, però, l’incertezza che circonda la sostenibilità dei modelli di business.
La conclusione del G30 invita alla modifica delle leggi fallimentari o, meglio, all’introduzione di nuovi schemi di ristrutturazione dei debiti per imprese che altrimenti fallirebbero, senza dover ricorrere alle onerose procedure tradizionali; occorrono, tuttavia, “processi temporanei che facilitino e impongano una risoluzione rapida tra gli attuali stakeholder dell'impresa attraverso il potere di "cramming" verso l'alto o verso il basso della decisione di risoluzione” [17].
Nell’ambito delle necessarie modifiche alle discipline delle crisi d’impresa le scelte degli ordinamenti anglosassoni vengono in soccorso.
Pur sapendo che la valutazione sulle chance di recupero di un’impresa si fonda su un concetto tecnico e non giuridico, tipico delle scienze aziendalistiche, che risulta non univoco, ma relativo ai settori e mutevole nel tempo e nei luoghi, e pertanto intrinsecamente opinabile - in funzione delle assunzioni di base[18] -, tuttavia lo sforzo da fare è inevitabile e con l’ausilio dell’analisi economica del diritto si percepisce che, mentre le perdite di entrate dovute alle restrizioni da Covid non potranno essere recuperate, esse vengono “assegnate” ad altre categorie, in base alla parte da ciascuna avuta nell’intero periodo: agli attuali clienti, che in questo anno hanno potuto risparmiare notevolmente[19], oppure ai creditori (sotto le varie forme di c.d. bail-in) o ancora alla collettività generale (e, quindi, ai contribuenti), che neppure hanno giocato un ruolo diretto epperò mantengono un generale interesse a che il tessuto economico del paese non si sfaldi definitivamente. Le misure possono, poi, essere equamente proporzionate, distribuite cioè al minimo su chi ha più stretti vincoli finanziari e in maggior misura su chi intenda approfittare delle occasioni poste dal mercato (rectius, dalle difficoltà dei debitori).
Ciò che rileva è l’accantonamento temporaneo dell’obbligo di osservare la Absolute Priority Rule, in favore di una più flessibile e ragionevole Relative Priority Rule (RPR), peraltro introdotta legislativamente dalla Direttiva 1023 (art. 11).
Un possibile modello di intervento è disponibile: lo Small Business Reorganization Act (“SBRA”), la legge federale USA approvata nel 2019 e implementata in occasione del recente CARES Act del 27 marzo 2020, che ha semplificato il Chapter 11 (introducendovi un Subchapter V) per le imprese che abbiano debiti non superiori a $ 7.500.000 eliminando alcuni ostacoli per la riorganizzazione. I principali benefici della legge sono rappresentati dal fatto che
1. soltanto il debitore, sia esso persona fisica o società, può proporre il piano entro 90 giorni (non anche i creditori una volta scaduto il termine), dal quale deve risultare che tutti i flussi disponibili, al netto dei costi ragionevolmente necessari alla continuità e al proprio mantenimento, nei successivi 3 o 5 anni saranno messi a disposizione dei creditori secondo le previsioni del piano;
2. viene eliminato il comitato dei creditori (assai costoso in USA) e l’approvazione del piano avviene soltanto da parte del tribunale, ma i creditori possono opporsi se non tutti i flussi disponibili vengano destinati ad essi;
3. non occorre il rigido rispetto della regola della priorità assoluta (APR) in favore dei creditori garantiti, che possono essere soddisfatti non integralmente (non è richiesta la finanza esterna), purché il piano sia fair and equitable verso ciascuna classe e non discrimini tra i creditori; né si deve pagare il compenso al U.S. Trustee, bastando la presenza di un private trustee (fra quelli autorizzati dal Ministero della giustizia) al fine di agevolare il piano, piuttosto che di sorvegliarne l’esecuzione;
4. il debitore continua a gestire la sua azienda e può dilazionare il pagamento delle spese prededucibili (nel Chapter 11 detto versamento dev’essere immediato);
5. l’esdebitazione può conseguirsi al momento della confirmation giudiziale, se il piano è consensuale; altrimenti solo dopo l’effettivo pagamento dei debiti indicati nel piano.
In tempi difficili come gli attuali sembra un buon salvagente per le piccole imprese.
Altro esempio fruibile viene dal Regno Unito, dove il 26 giugno 2020 è entrato in vigore il Corporate Insolvency and Governance Act, che ha tre obiettivi principali: fornire nuovi strumenti per l'insolvenza e la ristrutturazione delle imprese in questa crisi di sistema, proteggere le aziende dall'azione dei creditori e sostenere il commercio durante la crisi senza la minaccia di responsabilità personali, sospendendo temporaneamente alcuni aspetti della legge sull'insolvenza e di quella sul governo societario. La riforma ha creato una moratoria durante la quale l'azione esecutiva non può avvenire contro una società senza l’autorizzazione del tribunale. Questa moratoria ha dato alle aziende un respiro formale per perseguire un piano di salvataggio. In secondo luogo, la legge dà alla corte il diritto di imporre il piano ai creditori che si oppongono. La procedura mira a garantire che una singola classe di creditori non possa bloccare un piano che è nell'interesse di tutti i creditori. Inoltre, si è introdotto un divieto permanente di risoluzione o di avvalersi delle clausole di rescissione dopo che una società entra nella moratoria o in altre procedure di ristrutturazione. Oltre a una serie di misure relative al Covid, la legge ha temporaneamente rimosso la minaccia di responsabilità personale per wrongful trading per gli amministratori che tentano di salvare la loro azienda.
Quale che sia l’opzione prescelta, redistribuire le perdite da coloro che hanno pochi mezzi a disposizione a coloro che possono sopportare più a lungo termine gli oneri finanziari sembra essere una politica equa ed efficiente, che finora ha trovato cittadinanza nei provvedimenti d’urgenza adottati.
Concomitante aspetto da considerare è l’osservanza della disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato, nel contesto del Temporary Framework in cui la Commissione Europea ha dapprima emanato (19.3.2020) e poi più volte rinnovato [da ultimo il 28.2.2021, con la Comunicazione C(2021) 564 final] il quadro normativo in materia fino al 31 dicembre 2021, adeguando i massimali di aiuto di alcune misure per far fronte agli effetti economici prolungati della pandemia e modificando le condizioni relative ad alcune misure temporanee ritenute compatibili ex art. 107, par. 3, lett. b), del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, comprese le ricapitalizzazioni. Si è stabilito che le imprese che hanno subìto un calo del fatturato di almeno il 30% rispetto allo stesso periodo del 2019 potranno beneficiare di un contributo per i costi fissi non coperti dalle entrate, da parte del relativo Stato Membro, fino a 10 milioni di euro per impresa (e non più 3 milioni come in origine)[20].
Ma a fondamento di qualsiasi ragionamento, specie in Italia (paese bancocentrico per struttura imprenditoriale), sta la preoccupazione per la problematica “sistemica” dei crediti deteriorati, le cui dimensioni purtroppo aumenteranno sensibilmente nei prossimi mesi[21]. La regolamentazione europea, nonostante la pandemia, ha subito un inatteso irrigidimento per il varo del Calendar Provisioning, mediante il quale le autorità (EBA e BCE) impongono alle banche la progressiva automatica svalutazione dei crediti deteriorati fino al 100% in tre anni, assimilando di fatto NPL e UTP; inoltre la nuova definizione di debitore in default classifica come tale ogni impresa che ritardi di oltre 90 giorni i pagamenti superiori ad euro 500 (euro 100 per le persone fisiche) con soglia percentuale sul totale delle esposizioni ridotta dal 5 all’1%. Con quale tempestività della modifica è inutile sottolineare.
Potrà mai essere sostenibile il sistema produttivo in simili condizioni?
Ma non sufficientemente per illuminare l’intero sedime delle situazioni di difficoltà che stanno investendo le nostre imprese - in particolar modo nel settore turistico - imponendo, dunque, altri solchi da arare. Fortunatamente, in un campo già pronto alla semina come quello di cui alla Direttiva 2019/1023, sol si presti sguardo attento (forse più di quanto fatto dal CCII) al primo considerando in tema di finalità della normativa[22] , nonché all’art. 4, comma 5, in argomento di quadri di ristrutturazione[23].
Con tale prospettiva prendiamo le mosse dal comma 266 dell'unico articolo dell’ultima legge di bilancio, modificando l’art. 6 del Decreto Liquidità[24] che prolunga la sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione - o in alternativa della presa d’atto della verificatasi causa di scioglimento - dal 31 dicembre 2020 al quinto esercizio successivo "per le perdite emerse nell’esercizio in corso alla data del 31 dicembre 2020"[25].
E’ il requiem della funzione di garanzia del capitale sociale, come molti cominciano ad ipotizzare[26]?
Difficile fare previsioni, soprattutto in questo particolare momento; certo è che con società srl a capitale sociale da 1 euro (o da 10 mila euro, poco cambia)[27], si fa fatica a comprendere come lo si possa continuare ad immaginare strumento a tutela dei creditori sociali.
In altri termini, dinanzi anche all’endemica quasi genetica sottopatrimonializzazione delle imprese italiane[28], il capitale sociale in sé appare oramai, anche nelle più qualificate percezioni esterne[29], più un simulacro che una vera garanzia di solidità dell’impresa .
Dunque, parrebbe piuttosto di retroguardia farlo assurgere a (ulteriore) problema in questo particolare momento e pertanto non può che plaudirsi all’intervento normativo predetto[30], ferma l’indubbia valenza di tutte le misure germinate nel periodo emergenziale per favorire l’arrivo di nuova liquidità verso le imprese (anche) attraverso interventi sul capitale sociale[31].
D’altra parte, un primo, anzi doppio, passo verso la valorizzazione in sé della gestione caratteristica dell’impresa (in senso economico e non proprio civilistico ex art. 2425 c.c.), quindi essenzialmente nel suo elemento dinamico e (realisticamente) prospettico, può senz’altro dirsi che il legislatore l’avesse già fatto quasi 10 anni or sono con le previsioni di cui agli artt. 182 sexies e 186 bis L. fall..
Indubbiamente, vi sono realtà – come quelle bancarie - in cui il capitale sociale (insieme al più generale alveo del patrimonio netto) diviene elemento di vera garanzia e comunque di (fondamentale) stabilità e tenuta del sistema economico, visti anche gli stringenti vincoli normativi, in primis comunitari, che regolano l’operatività degli istituti di credito[32].
Capitale sociale, almeno quello bancario, che quindi va preservato al meglio.
Ma per far ciò diventa indispensabile evitare che si disperdano senza ragione parti significative del relativo patrimonio, come avverrebbe ove, quasi colpevolmente, non si consenta il sicuro recupero dei crediti concessi a quelle imprese che ante pandemia risultavano in bonis e che tali torneranno post, anche per il particolare settore in cui operano[33].
Dunque, facendo tesoro anche di quanto il pragmatismo anglosassone sta già positivamente evidenziando (e di cui supra si è dato conto), ma soprattutto di quanto la Direttiva 2019/1023 invita a fare, questo drammatico quanto, temporaneo, momento di generale difficoltà di un decisivo comparto della nostra economia[34] va affrontato con le migliori armi possibili, affinché le relative imprese che lo costituiscono non rischino di dissolversi come neve al sole trascinando con sé importanti fette del sistema bancario italiano. Tra l’altro, come noto, è correlato a quest’ultimo il 50% dell’indebitamento medio di un’impresa italiana.
Come già detto, le attuali procedure concorsuali senz’altro non paiono da sole in grado di essere utili allo scopo [35], soprattutto in quei casi in cui il solo, recte il principale problema è rappresentato dal fattore tempo, nel senso di attuale mancanza di flussi ma di sicuro ritorno ai ricavi - ed agli utili! - per la bontà dimostrata dall’impresa ante pandemia. E quindi con la sola necessità, in particolare, di poter disporre, appunto, di tempo adeguato per far fronte alle maturate debitorie, essenzialmente legate ai costi ordinari non affrontati/abili in assenza di ricavi.
Probabilmente in taluni casi potrebbe essere di giovamento ricorrere a messe in liquidazione “temporanee”, quasi delle ibernazioni delle imprese per ridurne i costi al massimo in attesa di poter poi, superato il momento emergenziale, ritornare in bonis attraverso la revoca della messa in liquidazione.
D’altra parte, anche durante la fase liquidatoria, è pur sempre possibile una minima attività d’impresa alla stregua di un esercizio provvisorio fallimentare come espressamente sancisce l’art. 2487, comma 1, lett. c), c.c.
Ed in tale fase liquidatoria, come noto, le dichiarazioni di fallimento dovranno arrestarsi allorché emergesse - come verosimile vista l’intrinseca bontà aziendale di tale tipologia di imprese - la prevalenza del valore patrimoniale rispetto al passivo[36].
D’altra parte, anche il liquidatore volontario in questa fase temporanea dovrà comunque esser guidato dalla stella cometa di qualsiasi momento di difficoltà dell’ impresa e cioè dal pieno rispetto della par condicio [37].
Ma tutto ciò difficilmente può bastare[38] se davvero si vuol provare ad evitare il rischio del tracollo di interi comparti economici (solo quello citato del turismo vale il 14% ca del PIL) e con esso gravi, quanto intuitive, ricadute sul mondo del credito bancario e quindi sul generale sistema economico che sullo stesso poggia, come già detto.
Sono forse auspicabili nuove procedure, non necessariamente concorsuali, sempre più “snelle ed efficienti” [39].
Ad esempio come l’ipotizzato AME (Accordo di Moratoria Emergenziale), che alla fine di questo breve scritto abbiamo provato a tratteggiare, prendendo spunto dal sistema procedurale della convenzione di moratoria di cui all’art. 182 septies L. fall., e ponendolo in linea, forse più di quanto si sia riusciti con il CCII, con le citate disposizioni della Direttiva 2019/1023.
Difatti, rappresenterebbe una modalità “light” di approccio alla difficoltà temporanea di quelle tantissime realtà sane ante Covid - soprattutto, si ripete, del settore turistico, ma non solo - [40] che tali torneranno ad essere (o almeno appaiono sussistere tutti i presupposti probabilistico aziendalisti perché così sia)[41], le quali cioè :
I) non hanno bisogno di approfittare sempre e comunque di particolari controlli/supporti giudiziari e dei relativi organi (da preservare peraltro al massimo in quanto presto, cessate le varie moratorie legali - bancarie ed erariali - nonché dei divieti di licenziamento, saranno sommersi di richieste di procedure concorsuali “classiche”);
II) non chiedono aiuti finanziari extra regime;
III) non chiedono stralci sui debiti;
IV) hanno solo bisogno di tempo per pagare ad un onesto tasso di interesse.
Insomma, non potendosi proseguire con “ristori” o automatic stay generalizzati (non tutte le imprese erano sulla stessa base di partenza anti Covid, né lo saranno poi, come si è già detto a proposito delle insalvabili imprese “zombie”), il legislatore potrebbe sforzarsi di creare procedimenti, non necessariamente a controllo giudiziale (come nel caso di procedure concorsuali), per cercare di salvare (se necessario ancora con risorse pubbliche, ma) solo le imprese che lo meritano, per sé medesime e per le ricchezze pro collettività che rimettono in circolo, evitando al contempo il rischio di debacle bancarie.
In altri termini, sarebbe opportuno positivizzare al più presto procedure (anche) di sole moratorie - tipo, appunto, la proposta AME - affinché si cerchi di dar vita a percorsi virtuosi di non stralcio del debito, salvi i casi in cui sia davvero necessario (evitando quindi quasi di indurlo per via delle sole procedure a disposizione, appunto incisive ad “ampio spettro” sul debito stesso), senza peraltro appesantimenti prededuttivi per i pazienti creditori anteriori, ma anzi guarentigie attraverso la previsione di antergazioni a loro favore sui beni preesistenti in caso di deprecato concorso con i creditori posteriori.
Non solo: procedure, sempre tipo l’AME, in cui il confronto/scontro tra le parti sia solo eventuale, come (anche per ciò) l’impegno dell’Autorità Giudiziaria e dei suoi Ausiliari, che rappresentano comunque una preziosa risorsa quanto un costo e che quindi dobbiamo fare l’impossibile per non appesantire senza reali ragioni visti anche i due probabili coevi “tsunami” che nel prossimo autunno li investiranno: con la fine, come accennavamo, del regime delle moratorie legali e del divieto di licenziamento e con l’ingresso del nuovo CCII, per il quale sarebbe dunque quanto mai opportuno un (nuovo) rinvio dell’entrata in vigore, vista anche la necessità di allineamento alla predetta Direttiva 2019/1023, che probabilmente necessita anche rispetto alla sua previsione più caratterizzante – quanto devastante in questo particolare momento storico per come declinata – rappresentata dalla misure d’allerta[42].
Vi è da auspicare che la valutazione della prospettata AME sia effettuata scevra da quelli che si appaleserebbero oramai ‘arcaici’ pre-concetti di ‘puristi’ delle procedure concorsuali secondo cui, senza un previo controllo, comunque, dell’autorità giudiziaria (e quindi anche in assenza di opposizioni o contestazioni), non risulti possibile incidere, neppure solo sul piano temporale, i diritti dei singoli creditori.
Non fosse altro perché già le previsioni di cui al l’art. 182 septies, comma 5 e 6, L .fall., inducono a conclusioni diverse.
D’altra parte questo è il tempo per porsi …out of the box .
O per dirla con le parole, italiane, delle “Lezioni Americane” del grande Calvino, che appaiono di un’attualità sorprendente: “Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio.
Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale.
Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica.”
2) In una prima propedeutica fase, potrebbe basarsi su una autocertificazione del debitore sul modello ex art. 56, comma 3, D.L. “Cura Italia” (cioè certificante “di aver subito in via temporanea carenze di liquidità quale conseguenza diretta della diffusione dell’epidemia da COVID”), con allegati bilanci al 31.12.2018, 2019 e 2020 e situazione aggiornata, che potrebbero essere ‘vistati’, quanto a veridicità dei dati, dal professionista del debitore (che potrebbe meritare, sino a prova contraria, fiducia a fronte della responsabilità deontologica, civile e penale paritetica a quella dell’attestatore “67 L. fall.”)[45], documentazione tutta da depositarsi al Registro delle Imprese e da comunicare via pec ai creditori.
Ove siano effettuate rilevanti dichiarazioni mendaci, perdita per il debitore della possibilità accedere a qualunque procedura concorsuale negoziale per un certo tempo (ad es., 5 anni), oltre le conseguenze civili e penali del caso.
3) Potrebbe valutarsi la possibilità di un automatic stay (comprensivo del divieto di scioglimento contrattuale, fermo pro dipendenti il diritto al regolare pagamento in ossequio al disposto dell’art. 5, comma 5, Direttiva 2019/1023) di breve durata - 90 giorni, ad es. - termine entro cui andrà depositato al Registro delle Imprese e comunicato via pec ai creditori il piano attestato meramente dilatorio rateizzato (con la maggiorazione dei tassi di interesse convenzionali o comunque di uno generale adeguato ) offerto ai creditori, con le eventuali garanzie di supporto, soggette per il regresso al regime della postergazione.
La dilazione rateizzata dovrebbe essere breve (ad es. max 36 mesi), salvo relativamente riguardo ai creditori finanziari ed erariali rispetto a cui potrebbe giungere, ad es. sino a 240 mesi e forse anche sino a 300 mesi; con una attestazione analoga a quella di cui art. 182 ter, comma 1, L. fall., anche pro creditori finanziari, per alleggerirne quanto velocizzare il processo decisionale, pur la precisazione che non dovrebbe essere considerata l’alternativa liquidatoria della vendita dell’azienda a terzi[46].
A favore di tutti i creditori interessati dall’AME, nell’eventuale concorso con quelli posteriori, dovrebbe vigere il regime di antergazione della loro soddisfazione, salvo il debitore non acquisti, con atto avente data certa posteriore al deposito al Registro delle Imprese sub 2, ulteriori nuovi beni.
I primi pagamenti rateali dovrebbero cominciare ad essere effettuati velocemente, ad es. sin dal 180 giorno successivo a detto deposito al Registro delle Imprese.
I pagamenti non dovrebbero essere soggetti a revocatoria, ma alcuna attività, funzionale o in occasione che sia, dovrebbe generare prededuzioni.
Il debitore in AME regolare non dovrebbe subire alcun automatico declassamento di rating bancario.
4) Sulla base della falsariga dell’opposizione di cui all’art. 182 septies, comma 6, L. fall., nei 30 giorni successivi alla suddetta comunicazione, vi dovrebbe essere la possibilità per ogni singolo creditore di richiedere al Tribunale (in veste monocratica) che l’AME non produca effetti nei suoi (limitati) confronti, dimostrando le diverse e preferibili alternative concretamente praticabili, con possibilità di reclamo della parti alla Corte di Appello nei 30 gg dall’emesso provvedimento.
Con l’opposizione potrebbe essere avanzata istanza di fallimento/liquidazione giudiziale, quantunque l’insolvenza non dovrebbe ritenersi sussistente ove il piano dilatorio proposto appaia comunque idoneo, anche per le prestate garanzie, a consentire il ripianamento debitorio di tutti gli altri creditori non opponenti.
Tale guarentigia non potrà essere invocata dal debitore qualora emergano atti in frode ai creditori.
5) Alla stregua della previsione di cui all’art. 182 ter, comma 6, L. fall., l’ AME, su istanza di qualunque creditore, si dovrebbe risolvere, a prescindere dall’imputabilità dell’inadempimento, se il debitore non eseguisse i pagamenti entro, ad es., 45 giorni dalle singole scadenze previste nell’AME.
Con l’istanza di risoluzione potrebbe essere avanzata istanza di fallimento/liquidazione giudiziale.
6) Salvo si dimostri il mendacio o la colpa grave negli atti sub 2 e 3 ovvero il successivo compimento di atti in frode, gli Organi Sociali, rispetto ai debiti oggetto di AME, non dovrebbero essere chiamati a risponderne, non al fine di deresponsabilizzarli, ma allo scopo di renderli dinamici e non pavidi nella selezione delle opzioni operative.
7) Il PM dovrà rappresentare un presidio di legalità del sistema in quanto dovrà essere legittimato ad avanzare in ogni momento richiesta di fallimento/liquidazione giudiziale qualora, consti l’insolvenza e nel contempo sia dimostrata la sussistenza di convergenti indizi di reati di bancarotta fraudolenta o di reati più gravi.
Note:
Documento PDF