La nuova disposizione, sintomatica dell’attenzione prestata dal legislatore al “diritto vivente” in materia, ha normativizzato il criterio dei netti patrimoniali, assumendolo a metodologia primaria e diretta di liquidazione del danno, non più subordinata – come voleva in passato certa giurisprudenza - al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 1226 c.c., ma destinata ad operare in via immediata, in presenza dei presupposti ivi previsti. La norma pone infatti una presunzione, in base alla quale il danno risarcibile si presume in linea di principio (salva cioè la prova di un diverso ammontare: v. infra) pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data di apertura della procedura concorsuale (ovvero alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica), ed il patrimonio netto determinato al momento in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’art. 2484 c.c.
Tale presunzione scatta alla duplice condizione che:
(a) vi siano scritture contabili regolarmente tenute che, anche se non complete[55], siano comunque tali da consentire la ricostruzione del patrimonio, come si desume a contrario dall’ultimo capoverso della norma[56];
(b) sia stata “accertata la responsabilità degli amministratori a norma” dell’art. 2486 c.c.
Non è invece richiesto che sia stata necessariamente aperta una procedura concorsuale, che la norma considera una mera eventualità (“in caso di”): il criterio in questione può quindi trovare spazio applicativo anche per le azioni di responsabilità promosse al di fuori di contesti concorsuali[57]. Laddove una procedura concorsuale sia stata invece aperta, la genericità della locuzione autorizza l’impiego dei criteri presuntivi per le azioni di responsabilità promosse nell’ambito non solo della liquidazione giudiziale, ma anche dei concordati preventivi [58].
L’accertamento della responsabilità, cui fa riferimento il novellato art. 2486 c.c., investe senza dubbio la condotta illecita degli amministratori. L’agevolazione probatoria somministrata dal nuovo terzo comma dell’art. 2486 c.c. presuppone quindi che la curatela attrice fornisca in giudizio idonea allegazione e prova della condotta che possa costituire titolo della responsabilità in questione, ed in particolare: i) dell’intervenuta diminuzione del capitale sociale sotto il minimo di legge (artt. 2447 e 2482 ter c.c.); ii) della consapevolezza o della possibilità per gli amministratori di accorgersi di tale circostanza; iii) dell’omessa (o ritardata) convocazione da parte degli amministratori dell’assemblea finalizzata alla ricapitalizzazione o trasformazione della società, ovvero l’omessa iscrizione da parte degli amministratori della causa di scioglimento della società; iv) dell’aver posto in essere, pur conoscendo o potendo conoscere la perdita del capitale e, non avendo adottato gli adempimenti conseguenti, una gestione dell’attività in violazione del primo comma dell’art. 2486 c.c., il quale prescrive che tale gestione debba avvenire esclusivamente secondo modalità conservative “dell’integrità e del valore del patrimonio sociale”.
Cosa deve esattamente (allegare e) provare, sotto il profilo da ultimo indicato, il curatore che agisce in responsabilità? In verità, non molto:
(a) in primo luogo, la giurisprudenza afferma spesso, in modo perentorio, che la prosecuzione dell’attività sociale caratteristica dopo la perdita del capitale “integra per definizione un’attività non conservativa”[59], sul presupposto che tale prosecuzione implichi di per sé l’assunzione di nuovo rischio e quindi la possibilità di ulteriori perdite [60]. Si tratta di affermazione che, per quanto eccessiva nella sua assolutezza, appare comunque corretta nella stragrande maggioranza dei casi.
È senz’altro vero che, diversamente dal previgente art. 2449 c.c., l’art. 2486 c.c. non è più impostato in termini di divieto di “nuove operazioni”, cioè come limite in negativo al potere gestorio, ma si esprime in termini positivi, mantenendo in capo agli amministratori tale potere, ed orientandolo finalisticamente alla conservazione del patrimonio sociale. Ed è altrettanto vero che, per tale ragione, la prosecuzione dell’attività sociale ed il compimento di atti negoziali dopo l’intervenuto scioglimento non possono considerarsi di per sé attività non conservative vietate e, in quanto tali, senz’altro illegittime e fonte di responsabilità [61]. Ciò peraltro significa che il verificarsi di una causa di scioglimento non implica l’automatico blocco dell’attività di gestione dell’impresa[62], ma non legittima nemmeno la sua prosecuzione all’insegna del “whatever it takes”, dovendosi invece distinguere quando tale prosecuzione possa e debba aver luogo, e quando al contrario l’attività gestoria debba cessare[63]. La prima ipotesi può ricorrere in casi per la verità assai rari, e cioè quando vi sia una gestione corrente positiva, e la continuazione dell’attività consenta la conservazione dell’avviamento esistente; la seconda ipotesi è invece quella abituale, e si presenta allorquando l’azienda sia cronicamente in perdita e vi sia quindi il rischio di pregiudicare ulteriormente la consistenza del valore del patrimonio sociale [64], ovvero non si intraveda la possibilità di adempiere alle obbligazioni sociali e/o non emerga che la continuazione dell’attività possa giovare all’esito della liquidazione[65];
(b) se lo scioglimento della società impone allora, nella generalità dei casi, di arrestare l’attività imprenditoriale, il curatore assolve quindi al proprio onere probatorio dimostrando la mera protrazione di tale attività, attraverso il compimento di atti negoziali in epoca successiva allo scioglimento della società. Diversamente da quanto continua a ripetere parte della giurisprudenza, non è invece tenuto a dimostrare che le iniziative imprenditoriali intraprese successivamente alla perdita del capitale sociale fossero caratterizzate dall’assunzione di nuovo rischio economico-commerciale e compiute al di fuori di una logica meramente conservativa[66]. Il tema dei connotati dell’attività svolta dopo l’intervenuto scioglimento appartiene al novero dei fatti estintivi o modificativi del diritto azionato, sicché spetta piuttosto ai convenuti (e non all’attore) dimostrare – anche in virtù del principio di vicinanza della prova – che gli atti posti in essere durante il periodo in cui si è protratta l’attività aziendale erano giustificati dalla finalità liquidatoria, in quanto non connessi alla normale attività produttiva dell'azienda, non comportanti un nuovo rischio d'impresa o necessari per portare a compimento attività già iniziate[67];
(c) se questa è, come sembra, la corretta distribuzione dell’onere della prova, la curatela, sul piano pratico, ha allora buon gioco ad assolvere al proprio, bastandole offrire elementi utili a dimostrare che la società ha continuato ad operare in ottica di continuità ancorché avesse integralmente perduto il capitale. A parte i casi in cui sia lo stesso convenuto a non contestare la prosecuzione dell’attività di rischio, sovente tale circostanza si desume agevolmente - ed è nei fatti desunta - dai bilanci[68], ove le poste espressive dell’attività economica svolta risultino pressoché invariate o addirittura incrementate, perché ciò indica che l’attività stessa è proseguita con le medesime modalità che la caratterizzavano in precedenza, e dunque non in ottica esclusivamente conservativa[69].
L’indebita prosecuzione dell’attività caratteristica può emergere poi dalle risultanze stato passivo debitamente prodotto in giudizio dalla curatela[70], o da fatture d’acquisto attinenti a materiali e servizi emesse dopo la perdita del capitale sociale[71]. Non mancano inoltre decisioni, anche recenti, che hanno ulteriormente alleggerito l’onere probatorio delle curatele, e sono giunte a valorizzare la circostanza che il patrimonio netto negativo si fosse medio tempore incrementato, affermando che la maggior perdita registrata, rispetto al momento in cui la società avrebbe dovuto cessare di operare, varrebbe di per sè quale indice della condotta antigiuridica posta in essere in violazione di legge [72]. Argomentazione, questa, peraltro giustamente criticata, perché finisce per identificare la condotta illecita con quella di prosecuzione dell'attività di impresa con esiti economicamente sfavorevoli, e così per sovrapporre indebitamente il piano della condotta a quello dell'evento[73].
Senza dubbio più gravoso è l’onere probatorio che incombe sugli amministratori convenuti, chiamati a dimostrare - nelle ipotesi in cui la continuazione dell’attività impresa sia lecita - il carattere conservativo dell’attività svolta dopo lo scioglimento della società, anche perché l’esatta delimitazione del relativo concetto è tema che continua ad affaticare gli interpreti, dubitandosi ancora oggi se il primo comma dell’art. 2486 c.c. rechi precetti di contenuto coincidente con quelli espressi dall’art. 2449 c.c. nel testo anteriore alla riforma del 2003 (che vietava agli amministratori il compimento di “nuove operazioni”)[74], ovvero se l’obbligo di gestione conservativa sia “cosa ben diversa” da tale divieto, di cui ha preso il posto[75]. Non essendo di certo questa la sede per trattare funditus l’argomento, al riguardo si può qui solo sinteticamente osservare che tale dubbio di fondo si traduce, sul piano pratico, nell’assenza di indicazioni univoche e precise, idonee ad orientare preventivamente la condotta dell’organo gestorio, ove si consideri che:
– secondo alcuni, la gestione “conservativa” dovrebbe tradursi nell’imprimere alla società una funzionalità “decrescente”, a seguito della quale si programmi la cessazione di ogni operazione, se non preordinata alla liquidazione del patrimonio sociale [76]; mentre - ad avviso di altri – dovrebbe identificarsi in una gestione “costante”, cioè orientata a condurre non alla cessazione dell’impresa, quanto piuttosto a preservarne l’assetto organizzativo cristallizzatosi al momento dello scioglimento, e ciò anche mediante il compimento di nuove operazioni (come ad es. la partecipazione ad una gara di appalto) idonee ad evitare l’immobilizzazione di fattori tale da generare solo costi fissi [77];
- in senso decisamente più restrittivo, altro orientamento rimarca invece l’esclusività (“ai soli fini”) della finalità conservativa cui la gestione deve essere indirizzata, concludendo che non può quindi considerarsi conservativa ogni attività volta a perseguire obiettivi diversi da quelli ex lege indicati, e segnatamente quella votata ad incrementare il patrimonio sociale, o improntata ad obiettivi speculativi o comportante nuovo rischio d’impresa [78], come ad es. il lancio di nuovi prodotti[79], o l’effettuazione di nuovi investimenti[80], e ciò nemmeno quando si tratti di operazioni che abbiano generato ricavi per la società[81];
- secondo altre opinioni, meno intransigenti, dovrebbero considerarsi ammesse anche le operazioni cronologicamente “nuove”, quanto meno laddove siano funzionali ad una migliore conservazione del patrimonio destinato ad essere poi liquidato[82], o alla realizzazione maggiormente conveniente dei beni dell’azienda e alla estinzione dei rapporti pendenti: tali, ad esempio, l’acquisto di nuova merce per allettare la clientela ed agevolare la vendita delle rimanenze di magazzino[83], o la contrazione di nuovi prestiti per completare l’esecuzione di pregressi progetti finanziati con contributi pubblici [84];
- nell’ottica di evitare condizionamenti sulla successiva fase liquidatoria, si è affermato ancora che l’osservanza della prospettiva gestoria di carattere conservativo implicherebbe il divieto di compiere qualsiasi atto che possa compromettere il successo della liquidazione o, comunque, influirne sull’esito, sicché il compito degli amministratori difficilmente potrebbe identificarsi con un’attività di monetizzazione e di dismissione dei cespiti aziendali [85].
Alla luce delle incertezze evidenziate, il giudizio sulla natura “conservativa” o meno dell’attività gestoria posta in essere dall’organo amministrativo continua insomma ad essere affidato, ancora oggi, a valutazioni “da operare caso per caso, quasi sempre caratterizzate da un forte grado di opinabilità”[86], che condizionano certamente, aggravandolo, l’onere probatorio incombente sugli amministratori.