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Saggio

Responsabilità degli amministratori e quantificazione del danno alla luce del novellato art. 2486 c.c.: a che punto siamo?*

Francesco Dimundo, Avvocato in Milano

14 Maggio 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
L’art. 378 CCII ha modificato l’art. 2486 c.c., introducendovi un terzo comma, che individua due specifici criteri presuntivi di liquidazione del danno risarcibile a carico degli amministratori, per il caso di accertata violazione del dovere di gestione conservativa in situazioni di intervenuta perdita del capitale sociale.
Trascorsi ormai cinque anni dalla sua entrata in vigore, lo studio intende indagare in che termini la nuova previsione sia stata concretamente applicata nel “diritto vivente”, e tracciare così un primo, provvisorio, bilancio, anche allo scopo di verificare se ed in quale misura abbiano trovato effettivo seguito, nella prassi applicativa dei Tribunali, i rilievi critici che la maggioranza degli interpreti ha da subito riservato ai criteri di liquidazione del danno previsti dal novellato art. 2486 c.c.
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1 . Premessa: le ragioni di un (provvisorio) bilancio
Fra gli elementi di novità che, insieme a quelli di “rottura”, il Codice della Crisi e dell’Insolvenza (di seguito, “CCII”) ha introdotto nel diritto delle società di capitali[1], sembra a ragione potersi collocare l’espressa previsione di criteri presuntivi di liquidazione del danno risarcibile a carico degli amministratori, per il caso di accertata violazione dell’art. 2486 c.c. L’art. 378 CCII ha infatti aggiunto a tale disposizione un nuovo terzo comma, a mente del quale: “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell’irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”.
La norma, introdotta per dare attuazione ad una precisa indicazione della legge delega n. 155/2017[2], avrebbe dovuto soddisfare, secondo quanto si legge nella relazione illustrativa al CCII, l’esigenza di risolvere, “anche in funzione deflattiva, il contrasto giurisprudenziale esistente in materia e l’obiettiva difficoltà di quantificare il danno in tutti i casi, nella pratica molto frequenti, in cui mancano le scritture contabili o le stesse sono state tenute in modo irregolare”. Non a caso, di tale precetto si è prescritta l’immediata applicazione, posto che il citato art. 378 CCII rientra, ai sensi dell’art. 389, comma 2, CCII, nel novero delle disposizioni entrate in vigore il 16 marzo 2019, cioè il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione del D.Lgs. n. 14/2019 nella Gazzetta Ufficiale. 
Trascorsi ormai cinque anni dal suo esordio, sembra utile indagare in che termini la nuova previsione in esame sia stata concretamente applicata nel “diritto vivente”, e ciò non solo in considerazione della frequenza con la quale, sul piano empirico, il tema della liquidazione del danno tradizionalmente si presenta nell’ambito delle azioni di responsabilità intentate dalle curatele[3]. Le ragioni che inducono a tracciare un primo, provvisorio, bilancio traggono infatti alimento anche dall’opportunità di verificare se ed in quale misura abbiano trovato effettivo seguito, nella prassi applicativa dei Tribunali, i rilievi critici che una buona fetta degli interpreti ha da subito riservato ai criteri di liquidazione del danno previsti dal novellato art. 2486 c.c., con riferimento ai quali non sono state nascoste “notevoli perplessità” [4], giungendosi – nelle ricostruzioni più severe – a proporre di confinarli “nel limbo degli strumenti da utilizzare il meno possibile, meno ancora mai”[5].
2 . L’applicabilità dell’art. 2486, comma 3, c.c., ai giudizi pendenti
Un primo tema con il quale i giudici si sono misurati – e che per certi versi ha “frenato” l’applicazione del novellato terzo comma dell’art. 2486 c.c. - è di diritto intertemporale[6]. La disposizione è infatti entrata in vigore, come si è detto, il 16 marzo 2019, senza che il legislatore abbia però confezionato una norma di diritto transitorio che operasse il raccordo tra la vecchia e la nuova disciplina[7]. Si è posto dunque il problema se la disposizione fosse immediatamente applicabile anche ai processi in corso alla data di entrata in vigore, ma aventi ad oggetto fatti commessi anteriormente, ovvero ai soli giudizi introdotti successivamente. 
La questione risulta per il vero essere stata elusa in un buon numero di occasioni, nelle quali i giudicanti hanno dato atto che il metodo della differenza dei netti patrimoniali è criterio presuntivo di liquidazione del danno “oggi normativamente vigente a seguito dell’introduzione nel corpo dell’art. 2486 c.c. del nuovo comma 3°”, senza però fare diretta applicazione in giudizio delle relative previsioni[8], assegnando alle stesse valenza interpretativa della disciplina e degli orientamenti previgenti[9]; ovvero – all’opposto - hanno senz’altro dato applicazione alla norma, senza porsi interrogativi di sorta[10]. Ma anche laddove il problema è stato invece motivatamente affrontato, le soluzioni offerte sono state diametralmente opposte. 
Parte della giurisprudenza di merito ha infatti sostenuto che la norma, “introducendo nel sistema una presunzione semplice con riferimento alla quantificazione del danno secondo il criterio dei ‘netti patrimoniali’”, ed una presunzione iuris et de iure in relazione al criterio residuale della differenza tra attivo e passivo, avrebbe sancito “una presunzione legale invertendo l’onere della prova, facendo così beneficiare l’attore di una relevatio ab onere probandi”. Ove si applicasse la disposizione in esame anche ai giudizi in corso, si perverrebbe quindi – secondo questa impostazione - all’inaccettabile conseguenza “di rendere deteriore la posizione processuale del convenuto, imponendogli un onere probatorio cui non sapeva di andare incontro nel momento in cui il processo è iniziato con le evidenti conseguenze relative alla scelta della strategia di difesa da proporre in giudizio”. Il terzo comma dell’art. 2486 c.c. non potrebbe quindi trovare spazio nei giudizi già pendenti al momento della sua entrata in vigore, ostandovi il principio di irretroattività sancito dall’art. 11 disp. gen., che - nell’interpretazione della corte regolatrice - impone in via generale di tener conto della giusta aspettativa di chi, avendo scelto di promuovere un giudizio in riferimento alle prescrizioni di rito vigenti al tempo in cui ha proposto la domanda, si veda alterare in peius, in base alle nuove regole, la possibilità di uscirne vincitore; e che in particolare preclude l’applicazione retroattiva delle norme che introducano una presunzione, e con esse l'effetto sorpresa determinato dalla necessità di fornire prove che, al momento dell’avvio della lite, non costituivano oggetto dell’onere della parte[11]. 
Altri giudici di merito hanno al contrario sostenuto che la norma sarebbe immediatamente applicabile anche alle fattispecie precedenti la sua entrata in vigore, ora valorizzandone la natura latu sensu processuale, con conseguente applicazione del principio tempus regit actum[12]; ora negando la portata innovativa della disposizione, che non avrebbe “modificato, sul piano sostanziale, il concetto di danno, o l’area dei danni risarcibili, ma () solo dettato un criterio di liquidazione dello stesso”, sicché non vi sarebbero valide ragioni “perché un simile criterio, se elaborato dalla giurisprudenza potrebbe essere applicato nella causa pendente, se invece dettato dal legislatore dovrebbe trovare applicazione solo in fattispecie future”[13]. 
Entrambe le argomentazioni da ultimo riferite destano per il vero perplessità. 
La prima di esse sembra invero trascurare che, secondo la dottrina prevalente, le norme di legge introduttive di presunzioni legali relative appartengono in realtà al diritto sostanziale, perché – diversamente dalle prove – non valgono a persuadere il giudice, ma determinano “semplicemente un suo dovere di comportarsi in un determinato modo” [14]. Ed alla stessa conclusione è pervenuta la giurisprudenza, che soprattutto in materia tributaria ha più volte ribadito che le disposizioni introduttive di presunzioni legali sono norme di diritto con natura sostanziale e non processuale, e quindi non sono suscettibili di applicazione retroattiva, pregiudicando altrimenti l'effettivo espletamento del diritto di difesa, in contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost. [15]. Analogo discorso è stato ribadito, in particolare, per le presunzioni legali assolute, le quali sono un fenomeno che non ha alcuna attinenza con il tema della prova, e che si situa interamente a livello di disciplina sostanziale della fattispecie [16], perché l’esclusione dell’onere di provare un determinato fatto rappresenta in realtà lo strumento che il legislatore utilizza per modellare la disciplina di un determinato rapporto, precludendo alla parte di contestare i presupposti per l’esistenza dell’effetto giuridico previsto dalla norma. 
Non pare condivisibile nemmeno il secondo ordine di argomenti, laddove sembra presupporre che il criterio dei netti patrimoniali, per come recepito dal legislatore del 2019, ricalchi puntualmente, nella sostanza, quanto già elaborato in precedenza dalla giurisprudenza in materia. Se si guarda infatti alle soluzioni che, prima del CCII, i giudici avevano confezionato in tema di liquidazione del danno conseguente alla violazione dell’art. 2486 c.c., il quadro complessivo che ne risulta appare, in realtà, tutt’altro che univoco e compatto, e caratterizzato piuttosto da notevole incertezza[17]. Senza voler indugiare sulla ricostruzione dei diversi orientamenti sul tema [18], è sufficiente qui sinteticamente ricordare che fino ad un recente passato: i) i Tribunali delle imprese privilegiavano il congegno dei netti patrimoniali, palesando tuttavia incertezze sulle relative condizioni di impiego, e segnatamente sulla possibilità di farne applicazione in via diretta ovvero in via meramente sussidiaria quale criterio equitativo ex art. 1226 c.c.; ii) persisteva peraltro l’orientamento che, invocando lo stretto rispetto dei principi generali in materia di illecito, ed in particolare del principio di causalità materiale, esigeva l’individuazione delle singole operazioni vietate, ed il calcolo puntuale della differenza tra le passività generate da dette nuove operazioni e attività derivate dalle medesime; iii) negli ultimi anni aveva tuttavia ripreso piede, presso i Tribunali, l’indirizzo che - sfruttando le generiche indicazioni offerte nel 2015 dal noto arret delle sezioni unite della Cassazione [19]- liquidava il danno commisurandolo allo sbilancio fallimentare, con ciò deludendo l’auspicio di chi voleva che tale criterio fosse definitivamente bandito; iv) altri tribunali ripiegavano su ulteriori criteri sintetici di liquidazione del danno, che rappresentavano in buona sostanza variazioni o adattamenti dei metodi del deficit fallimentare e dei netti patrimoniali. 
Se quello ora descritto era lo “stato dell’arte” in materia anteriore alla novella dell’art. 2486 c.c., non pare quindi del tutto esatto affermare che il legislatore del 2019 si sia limitato a codificare tout court una (rectius, “la”) soluzione giurisprudenziale consolidata [20]. La nuova disposizione sembra piuttosto aver considerato e fatto proprie solo talune fra le varie soluzioni messe a punto dal diritto vivente in materia, assumendo il criterio dei netti patrimoniali quale metodologia primaria e diretta (non subordinata al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 1226 c.c.) di liquidazione del danno (così come predicato da una parte della giurisprudenza); ed assegnando al deficit fallimentare il ruolo di parametro sussidiario, destinato ad operare nei casi di mancanza o irregolarità̀ delle scritture contabili dell’impresa, così come sostenuto da quelle corti di merito che, all’indomani del ricordato intervento delle sezioni unite del 2015, avevano restituito spazio applicativo al tradizionale metodo dello sbilancio fallimentare, legittimandone l’impiego quale criterio equitativo di liquidazione del danno “logicamente plausibile” nei casi in cui la contabilità fosse assente o irregolarmente tenuta [21]. 
Escluso che al nuovo terzo comma dell’art. 2486 c.c. possa dunque essere attribuita natura di norma processuale, e volendosi discorrere di norma sostanziale, la conclusione non sarebbe comunque nel senso della sua irretroattività, e della sua inapplicabilità alle fattispecie verificatesi prima della sua entrata in vigore, anche se l'azione giudiziaria sia stata in concreto iniziata successivamente[22]. Come persuasivamente osservato da alcune corti, richiamando alcuni precedenti di legittimità[23], la nuova disposizione non infatti ha regolato “il fatto o l’atto generatore del rapporto, ma soltanto un effetto di esso non ancora esaurito (ammontare del risarcimento del danno)”, con la conseguenza che “la legge sopravvenuta deve essere comunque applicata quando il rapporto giuridico disciplinato, sebbene sorto anteriormente, non abbia ancora esaurito i suoi effetti e purché la norma innovatrice non sia diretta a regolare il fatto o l’atto generatore del rapporto ma gli effetti di esso. Sulla scorta di tale principio, l’art. 2486, nel testo da ultimo novellato dal legislatore, va pertanto applicato anche ai rapporti giuridici sorti anteriormente la sua entrata in vigore, qualora gli stessi non abbiano esaurito i loro effetti e purché la legge non incida sul fatto costitutivo del rapporto (nella specie, il mancato adempimento degli obblighi gestori e di controllo), ma sugli effetti di esso (vale a dire, la definizione del quantum risarcitorio)”[24]. 
In questa ultima direzione si è recentemente orientata anche la Cassazione, in occasione del suo primo intervento in materia. La corte regolatrice – nel confermare la decisione impugnata[25] – ha infatti reputato ininfluente indagare sul carattere (processuale o meno) del terzo comma dell’art. 2486 c.c., e decisiva piuttosto la “corretta individuazione della sua funzione”: funzione che non è stata ravvisata in quella di modificare “la fattispecie concreta alla quale è dedicata, vale a dire la declinazione degli obblighi comportamentali al fondo della responsabilità civile”, né di alterare “il contenuto del diritto al risarcimento del danno che sia stato cagionato”, ma di codificare “un meccanismo di liquidazione equitativa del pregiudizio” già in precedenza ritenuto legittimo. Più in particolare, la norma de qua – secondo la Corte – ha semplicemente specificato “la metodica della valutazione giudiziale quanto all’apprezzamento delle conseguenze pregiudizievoli della condotta”, ed in questo senso ha quale suo destinatario “proprio il giudice, il quale, ove sia dedotta (e provata) la fattispecie di responsabilità, deve utilizzare, secondo l’art. 2486, terzo comma, cod. civ., i netti patrimoniali onde liquidare il danno, a meno che in causa non siano dedotti e individuati elementi di fatto legittimanti l’uso di un diverso criterio liquidatorio più aderente alla realtà del caso concreto”. Si tratta quindi, in definitiva, di una norma definibile “come latamente (anche se non propriamente) ‘processuale’”, come tale applicabile anche ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore, perché “rivolta a stabilire non un criterio (nuovo) di riparto di oneri probatori, ma semplicemente un criterio valutativo del danno, rispetto a fattispecie integrate dall’accertata responsabilità degli amministratori per atti gestori non conservativi dell’integrità e del valore del capitale dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società”[26].
3 . L’area applicativa
Quali solo le norme di condotta la cui violazione legittima l’applicazione dei due criteri di liquidazione del danno ora contemplati dal terzo comma dell’art. 2486 c.c.? 
Stando al suo tenore letterale, l’incipit della disposizione (“quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo”) depone nel senso che il criterio dei netti è certamente destinato ad operare nei casi in cui l’organo gestorio abbia violato il dovere di gestione conservativa ivi sancito al primo comma, proseguendo l’attività caratteristica dell’impresa dopo (e nonostante) l’intervenuta perdita del capitale sociale[27]. I tribunali delle imprese sono nettamente orientati a ritenere che si tratti di ambito applicativo esclusivo, ed hanno quindi reputato ad esso estranee le ipotesi di responsabilità diverse da quelle previste dall’art. 2486 c.c.[28], e segnatamente quelle in cui vengano addebitate quale mala gestio singole, specifiche operazioni produttive di danno. Si è così negato che il metodo dei netti possa essere utilizzato per liquidare il pregiudizio derivante - ad esempio - dall’omesso pagamento dei debiti tributari e dal mancato recupero dei crediti appostati in bilancio[29], dalla sottrazione delle rimanenze di magazzino [30], dall’esecuzione di pagamenti preferenziali in violazione della par condicio creditorum[31], dalla fusione per incorporazione di una società determinante un aggravio dei conti dell’incorporante[32]. 
Identico ragionamento è stato condotto anche in relazione al criterio del deficit concorsuale, affermandosi in giurisprudenza che, in considerazione del suo carattere “residuale”, tale metodica non sarebbe utilizzabile per la liquidazione del danno nei casi in cui vi sia la contestazione di specifici atti di mala gestio da parte dell’amministratore, diversi dalla violazione dell’art. 2486 c.c.[33]. 
Tale rigoroso approccio interpretativo, piuttosto diffuso, merita condivisione, perché il terzo comma dell’art. 2486 c.c. introduce parametri di liquidazione del danno che sono specificamente riferiti alla prosecuzione di attività gestoria “non conservativa” dopo l'avverarsi della causa di scioglimento, e che derogano alle regole comuni che presiedono al risarcimento del danno. In questo senso la previsione ha quindi natura eccezionale, e di essa è pertanto necessaria una lettura restrittiva, che ne preclude l’applicazione analogica al di fuori delle ipotesi dalla stessa espressamente contemplate. 
In questa prospettiva non pare quindi assecondabile la posizione largheggiante assunta sul punto da un settore della giurisprudenza pratica e teorica, laddove ha sostenuto che le nuove metodiche di liquidazione del danno sarebbero utilizzabili (anche) nei casi sia addebitata quale mala gestio l’illecita prosecuzione di attività gestionale in una situazione in cui l’imprenditore era insolvente ed era quindi doverosa l’istanza di liquidazione giudiziale in proprio[34]. E’ vero che anche in questa diversa fattispecie l’organo amministrativo è tenuto a adottare condotte conservative del patrimonio sociale, e che possono presentarsi le esigenze di semplificazione probatoria che hanno giustificato l’introduzione da parte del legislatore dei suddetti parametri[35]. Ciò non sembra tuttavia sufficiente a giustificarne l’applicazione in via analogica, perché per questa ipotesi manca una lacuna normativa da colmare, riespandendosi le regole ordinarie relative al risarcimento del danno[36], in virtù delle quali gli amministratori sono responsabili dell’aggravamento della situazione debitoria che avrebbe potuto essere evitata facendo tempestivamente uso del potere di richiedere la dichiarazione di insolvenza, ed il danno risarcibile va liquidato[37] in misura pari ai (maggiori) debiti assunti dalla società, che non sarebbero stati contratti ove il fallimento (ed ora la liquidazione giudiziale) fosse stato dichiarato tempestivamente, ovvero agli interessi passivi maturati per debiti pregressi che con l’apertura della procedura sarebbero stati evitati; ovvero, ancora, quantificandolo in misura pari alle spese sostenute dalla società per il tentativo stragiudiziale di rimozione dell’insolvenza, poi rivelatosi inutile[38]. 
I criteri presuntivi introdotti dall’art. 2486 c.c. non possono trovare spazio applicativo nemmeno in caso di prosecuzione dell’attività d’impresa in una situazione di perdita della continuità aziendale, trattandosi di fattispecie estranea a quella contemplata dall’art. 2484, comma 1, n. 2, c.c., che integra piuttosto (a seconda che sia o meno reversibile) una situazione di insolvenza o quantomeno di crisi, e costituisce quindi uno dei più rilevanti e ricorrenti presupposti per dare avvio ad una delle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza previste dal codice della crisi[39]. 
Quanto ora considerato in merito ai limiti di utilizzo della nuova previsione non ostano tuttavia a che la metodica del deficit concorsuale possa comunque godere (ed abbia nei fatti goduto) di una portata “ultrattiva”, cioè non circoscritta ai soli casi in cui si tratti di liquidare il danno derivante dalla violazione dell’obbligo di gestione conservativa dopo la perdita del capitale sociale: portata “ultrattiva” non fondata – per quanto detto - sull’applicazione diretta del novellato terzo comma dell’art. 2486 c.c., ma costruita in via interpretativa, sulla scorta dei generali principi enunciati dalla Cassazione a sezioni unite nella già citata decisione n. 9100/2015. Nell’individuare le condizioni per il ricorso, in via residuale, al criterio del deficit fallimentare, la Suprema Corte si era infatti espressa in modo piuttosto vago, assumendo che, in caso di irregolarità̀ o mancanza della contabilità̀ della fallita, il ricorso del metodo del deficit doveva ritenersi comunque legittimo, ove vi fossero “ragioni che non hanno consentito l’accertamento degli specifici effetti dannosi” concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore. Proprio sfruttando tale - generica - indicazione, diversi giudici di merito avevano così avuto spazio per sostenere che tali “ragioni” risiedessero proprio nell’assenza o nell’inattendibilità delle scritture contabili della fallita, e per continuare così ad applicare, in via surrettizia, il metodo del deficit fallimentare[40]. 
Tale percorso[41] risulta essere stato coltivato anche dopo l’entrata in vigore del nuovo art. 2486 c.c., perché la giurisprudenza – dimostrandosi del tutto impermeabile alle critiche da sempre rivolte al criterio dello sbilancio concorsuale – ne ha fatto senz’altro impiego, laddove il suo utilizzo risultasse “logicamente plausibile”, per essere stato allegato un inadempimento dell’amministratore astrattamente idoneo a porsi come causa del dissesto, e la mancata tenuta delle scritture contabili avesse impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo. Un inadempimento di tal fatta, ad esempio, è stata ritenuta la distrazione di merci e di crediti sociali che avevano cagionato il dissesto della società[42]; o la cessione di un ramo aziendale a prezzo vile, a seguito del quale la cedente era divenuta sostanzialmente inattiva ed aveva visto ridurre considerevolmente, e poi azzerare, i propri ricavi[43]. 
Guardando poi al perimetro applicativo della norma sotto il profilo soggettivo, il novellato art. 2486 c.c. – in virtù della sua collocazione topografica nell’ambito delle regole unitarie relative allo scioglimento ed alla liquidazione - interessa tutte le società di capitali [44]. La norma non può invece riguardare le società di persone, in relazione alle quali – secondo la giurisprudenza [45] – potrebbe forse ipotizzarsi un richiamo alle distinte previsioni di cui agli artt. 2274 e 2278 c.c., il cui presupposto di applicazione è tuttavia pur sempre l’esistenza di una delle cause di scioglimento proprie delle società di persone, quali individuate dall’art. 2272 c.c., fra le quali non compare la perdita di (già astrattamente inesistenti) requisiti di capitale. 
Sempre sul piano soggettivo il terzo comma dell’art. 2486 c.c. si riferisce espressamente ai soli amministratori, senza menzionare i sindaci, ma la lacuna è agevolmente colmabile – e viene colmata in giurisprudenza – in virtù del nesso di solidarietà che vincola gli uni agli altri, in presenza del quale il criterio legale di determinazione del danno risarcibile vale per tutti i convenuti in responsabilità [46]. 
Contrariamente a quanto si è sostenuto in letteratura, soggiacciono alla metodologia di cui all’art. 2486 c.c. anche i revisori legali, sebbene parimenti non menzionati in modo esplicito dalla nuova disposizione. Diversamente dai sindaci, il soggetto incaricato della revisione certamente non ha alcun potere di veto sull’operato degli amministratori, né dispone di poteri specifici per reagire ad una situazione di perdita del capitale sociale[47], ma - in virtù dell’art. 14 D.Lgs. n. 39/2010 e dei principi di revisione internazionale - è tenuto a rilevare e rendere note nella sua relazione le circostanze e gli eventi idonei a compromettere la continuità aziendale, ed a rendere un giudizio sulla coerenza della relazione sulla gestione con il bilancio e sulla sua conformità a legge, in modo tale che i destinatari di tale relazione (società, soci e stakeholders) possano assumere le iniziative di rispettiva competenza. Non pare quindi contestabile che qualora il revisore abbia espresso un giudizio positivo sul bilancio, senza colpevolmente rilevare una erronea rappresentazione che abbia occultato una perdita di capitale oltre il minimo di legge, debba essere ritenuto responsabile per aver concorso, insieme ad amministratori ed eventuali sindaci, alla creazione di una falsa rappresentazione della situazione finanziaria della società e, con essa, alla indebita prosecuzione dell’attività d’impresa in violazione dell’art. 2486 c.c.[48] 
La medesima conclusione vale anche per i soggetti terzi (ad es. banche e professionisti) che abbiano concorso, ai sensi dell’art. 2055 c.c., con gli amministratori nelle condotte attive ed omissive che possono aggravare il danno, il quale deve essere anche per detti terzi liquidato secondo i criteri previsti dal terzo comma dell’art. 2486 c.c.[49] In contrario non sembra poter assumere rilievo la circostanza che i terzi concorrenti non siano destinatari di oneri specifici di conservazione della documentazione idonea a permettere l’applicazione dell’art. 2486 c.c. [50], perché ai fini della sussistenza della solidarietà passiva del risarcimento è sufficiente per il soggetto un apporto causale minimo ed è richiesta l’unicità dell’evento dannoso, ma non dell’intera fattispecie di responsabilità in tutti i suoi elementi costitutivi [51]. Né rileva il diverso titolo, autonomo e specifico, in virtù del quale i terzi concorrenti rispondono, perché in contrapposizione all’art. 2043 c.c. (che fa sorgere l’obbligo del risarcimento dalla commissione di un “fatto” doloso o colposo), l’art. 2055 c.c. considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il “fatto dannoso”, sicché, mentre la prima norma si riferisce all’azione del soggetto che cagiona l’evento, la seconda riguarda la posizione del soggetto danneggiato, ed in cui favore è stabilita la solidarietà. Ne consegue che l’unicità del fatto dannoso, richiesta dall’art. 2055 c.c. ai fini della responsabilità solidale tra gli autori dell’illecito, deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni od omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni od omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno. In altri termini, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l’art. 2055, comma 1, c.c. richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l’unicità del fatto dannoso considerata dal citato art. 2055 c.c. deve essere riferita unicamente al danneggiato, e non va intesa come identità delle norme giuridiche violate [52]. 
Sul piano infine dei soggetti danneggiati, il danno determinato secondo i criteri di cui al novellato art. 2486 c.c. assume rilevanza sia nel caso di azione sociale di responsabilità, posto che la perdita del capitale sociale descrive il pregiudizio direttamente subito dalla società, sia nel caso dell’azione di massa dei creditori sociali, considerato che tale perdita determina anche l’insufficienza del patrimonio destinato a soddisfare il ceto creditorio[53]. La norma non è invece utilmente applicabile per quantificare il danno risarcibile che la prosecuzione dell’attività ha cagionato ai soci, ai terzi ed ai singoli creditori, venendo in tal caso in considerazione un pregiudizio diretto ai relativi patrimoni, non intermediato dal danno al patrimonio sociale cui si riferisce in primis il terzo comma dell’art. 2486 c.c.[54].
4.1 . I presupposti applicativi
La nuova disposizione, sintomatica dell’attenzione prestata dal legislatore al “diritto vivente” in materia, ha normativizzato il criterio dei netti patrimoniali, assumendolo a metodologia primaria e diretta di liquidazione del danno, non più subordinata – come voleva in passato certa giurisprudenza - al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 1226 c.c., ma destinata ad operare in via immediata, in presenza dei presupposti ivi previsti. La norma pone infatti una presunzione, in base alla quale il danno risarcibile si presume in linea di principio (salva cioè la prova di un diverso ammontare: v. infra) pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data di apertura della procedura concorsuale (ovvero alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica), ed il patrimonio netto determinato al momento in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’art. 2484 c.c. 
Tale presunzione scatta alla duplice condizione che: 
(a) vi siano scritture contabili regolarmente tenute che, anche se non complete[55], siano comunque tali da consentire la ricostruzione del patrimonio, come si desume a contrario dall’ultimo capoverso della norma[56]; 
(b) sia stata “accertata la responsabilità degli amministratori a norma” dell’art. 2486 c.c. 
Non è invece richiesto che sia stata necessariamente aperta una procedura concorsuale, che la norma considera una mera eventualità (“in caso di”): il criterio in questione può quindi trovare spazio applicativo anche per le azioni di responsabilità promosse al di fuori di contesti concorsuali[57]. Laddove una procedura concorsuale sia stata invece aperta, la genericità della locuzione autorizza l’impiego dei criteri presuntivi per le azioni di responsabilità promosse nell’ambito non solo della liquidazione giudiziale, ma anche dei concordati preventivi [58]. 
L’accertamento della responsabilità, cui fa riferimento il novellato art. 2486 c.c., investe senza dubbio la condotta illecita degli amministratori. L’agevolazione probatoria somministrata dal nuovo terzo comma dell’art. 2486 c.c. presuppone quindi che la curatela attrice fornisca in giudizio idonea allegazione e prova della condotta che possa costituire titolo della responsabilità in questione, ed in particolare: i) dell’intervenuta diminuzione del capitale sociale sotto il minimo di legge (artt. 2447 e 2482 ter c.c.); ii) della consapevolezza o della possibilità per gli amministratori di accorgersi di tale circostanza; iii) dell’omessa (o ritardata) convocazione da parte degli amministratori dell’assemblea finalizzata alla ricapitalizzazione o trasformazione della società, ovvero l’omessa iscrizione da parte degli amministratori della causa di scioglimento della società; iv) dell’aver posto in essere, pur conoscendo o potendo conoscere la perdita del capitale e, non avendo adottato gli adempimenti conseguenti, una gestione dell’attività in violazione del primo comma dell’art. 2486 c.c., il quale prescrive che tale gestione debba avvenire esclusivamente secondo modalità conservative “dell’integrità e del valore del patrimonio sociale”. 
Cosa deve esattamente (allegare e) provare, sotto il profilo da ultimo indicato, il curatore che agisce in responsabilità? In verità, non molto: 
(a) in primo luogo, la giurisprudenza afferma spesso, in modo perentorio, che la prosecuzione dell’attività sociale caratteristica dopo la perdita del capitale “integra per definizione un’attività non conservativa”[59], sul presupposto che tale prosecuzione implichi di per sé l’assunzione di nuovo rischio e quindi la possibilità di ulteriori perdite [60]. Si tratta di affermazione che, per quanto eccessiva nella sua assolutezza, appare comunque corretta nella stragrande maggioranza dei casi. 
È senz’altro vero che, diversamente dal previgente art. 2449 c.c., l’art. 2486 c.c. non è più impostato in termini di divieto di “nuove operazioni”, cioè come limite in negativo al potere gestorio, ma si esprime in termini positivi, mantenendo in capo agli amministratori tale potere, ed orientandolo finalisticamente alla conservazione del patrimonio sociale. Ed è altrettanto vero che, per tale ragione, la prosecuzione dell’attività sociale ed il compimento di atti negoziali dopo l’intervenuto scioglimento non possono considerarsi di per sé attività non conservative vietate e, in quanto tali, senz’altro illegittime e fonte di responsabilità [61]. Ciò peraltro significa che il verificarsi di una causa di scioglimento non implica l’automatico blocco dell’attività di gestione dell’impresa[62], ma non legittima nemmeno la sua prosecuzione all’insegna del “whatever it takes”, dovendosi invece distinguere quando tale prosecuzione possa e debba aver luogo, e quando al contrario l’attività gestoria debba cessare[63]. La prima ipotesi può ricorrere in casi per la verità assai rari, e cioè quando vi sia una gestione corrente positiva, e la continuazione dell’attività consenta la conservazione dell’avviamento esistente; la seconda ipotesi è invece quella abituale, e si presenta allorquando l’azienda sia cronicamente in perdita e vi sia quindi il rischio di pregiudicare ulteriormente la consistenza del valore del patrimonio sociale [64], ovvero non si intraveda la possibilità di adempiere alle obbligazioni sociali e/o non emerga che la continuazione dell’attività possa giovare all’esito della liquidazione[65]; 
(b) se lo scioglimento della società impone allora, nella generalità dei casi, di arrestare l’attività imprenditoriale, il curatore assolve quindi al proprio onere probatorio dimostrando la mera protrazione di tale attività, attraverso il compimento di atti negoziali in epoca successiva allo scioglimento della società. Diversamente da quanto continua a ripetere parte della giurisprudenza, non è invece tenuto a dimostrare che le iniziative imprenditoriali intraprese successivamente alla perdita del capitale sociale fossero caratterizzate dall’assunzione di nuovo rischio economico-commerciale e compiute al di fuori di una logica meramente conservativa[66]. Il tema dei connotati dell’attività svolta dopo l’intervenuto scioglimento appartiene al novero dei fatti estintivi o modificativi del diritto azionato, sicché spetta piuttosto ai convenuti (e non all’attore) dimostrare – anche in virtù del principio di vicinanza della prova – che gli atti posti in essere durante il periodo in cui si è protratta l’attività aziendale erano giustificati dalla finalità liquidatoria, in quanto non connessi alla normale attività produttiva dell'azienda, non comportanti un nuovo rischio d'impresa o necessari per portare a compimento attività già iniziate[67]; 
(c) se questa è, come sembra, la corretta distribuzione dell’onere della prova, la curatela, sul piano pratico, ha allora buon gioco ad assolvere al proprio, bastandole offrire elementi utili a dimostrare che la società ha continuato ad operare in ottica di continuità ancorché avesse integralmente perduto il capitale. A parte i casi in cui sia lo stesso convenuto a non contestare la prosecuzione dell’attività di rischio, sovente tale circostanza si desume agevolmente - ed è nei fatti desunta - dai bilanci[68], ove le poste espressive dell’attività economica svolta risultino pressoché invariate o addirittura incrementate, perché ciò indica che l’attività stessa è proseguita con le medesime modalità che la caratterizzavano in precedenza, e dunque non in ottica esclusivamente conservativa[69]. 
L’indebita prosecuzione dell’attività caratteristica può emergere poi dalle risultanze stato passivo debitamente prodotto in giudizio dalla curatela[70], o da fatture d’acquisto attinenti a materiali e servizi emesse dopo la perdita del capitale sociale[71]. Non mancano inoltre decisioni, anche recenti, che hanno ulteriormente alleggerito l’onere probatorio delle curatele, e sono giunte a valorizzare la circostanza che il patrimonio netto negativo si fosse medio tempore incrementato, affermando che la maggior perdita registrata, rispetto al momento in cui la società avrebbe dovuto cessare di operare, varrebbe di per sè quale indice della condotta antigiuridica posta in essere in violazione di legge [72]. Argomentazione, questa, peraltro giustamente criticata, perché finisce per identificare la condotta illecita con quella di prosecuzione dell'attività di impresa con esiti economicamente sfavorevoli, e così per sovrapporre indebitamente il piano della condotta a quello dell'evento[73]. 
Senza dubbio più gravoso è l’onere probatorio che incombe sugli amministratori convenuti, chiamati a dimostrare - nelle ipotesi in cui la continuazione dell’attività impresa sia lecita - il carattere conservativo dell’attività svolta dopo lo scioglimento della società, anche perché l’esatta delimitazione del relativo concetto è tema che continua ad affaticare gli interpreti, dubitandosi ancora oggi se il primo comma dell’art. 2486 c.c. rechi precetti di contenuto coincidente con quelli espressi dall’art. 2449 c.c. nel testo anteriore alla riforma del 2003 (che vietava agli amministratori il compimento di “nuove operazioni”)[74], ovvero se l’obbligo di gestione conservativa sia “cosa ben diversa” da tale divieto, di cui ha preso il posto[75]. Non essendo di certo questa la sede per trattare funditus l’argomento, al riguardo si può qui solo sinteticamente osservare che tale dubbio di fondo si traduce, sul piano pratico, nell’assenza di indicazioni univoche e precise, idonee ad orientare preventivamente la condotta dell’organo gestorio, ove si consideri che: 
 – secondo alcuni, la gestione “conservativa” dovrebbe tradursi nell’imprimere alla società una funzionalità “decrescente”, a seguito della quale si programmi la cessazione di ogni operazione, se non preordinata alla liquidazione del patrimonio sociale [76]; mentre - ad avviso di altri – dovrebbe identificarsi in una gestione “costante”, cioè orientata a condurre non alla cessazione dell’impresa, quanto piuttosto a preservarne l’assetto organizzativo cristallizzatosi al momento dello scioglimento, e ciò anche mediante il compimento di nuove operazioni (come ad es. la partecipazione ad una gara di appalto) idonee ad evitare l’immobilizzazione di fattori tale da generare solo costi fissi [77]; 
- in senso decisamente più restrittivo, altro orientamento rimarca invece l’esclusività (“ai soli fini”) della finalità conservativa cui la gestione deve essere indirizzata, concludendo che non può quindi considerarsi conservativa ogni attività volta a perseguire obiettivi diversi da quelli ex lege indicati, e segnatamente quella votata ad incrementare il patrimonio sociale, o improntata ad obiettivi speculativi o comportante nuovo rischio d’impresa [78], come ad es. il lancio di nuovi prodotti[79], o l’effettuazione di nuovi investimenti[80], e ciò nemmeno quando si tratti di operazioni che abbiano generato ricavi per la società[81]; 
- secondo altre opinioni, meno intransigenti, dovrebbero considerarsi ammesse anche le operazioni cronologicamente “nuove”, quanto meno laddove siano funzionali ad una migliore conservazione del patrimonio destinato ad essere poi liquidato[82], o alla realizzazione maggiormente conveniente dei beni dell’azienda e alla estinzione dei rapporti pendenti: tali, ad esempio, l’acquisto di nuova merce per allettare la clientela ed agevolare la vendita delle rimanenze di magazzino[83], o la contrazione di nuovi prestiti per completare l’esecuzione di pregressi progetti finanziati con contributi pubblici [84]; 
- nell’ottica di evitare condizionamenti sulla successiva fase liquidatoria, si è affermato ancora che l’osservanza della prospettiva gestoria di carattere conservativo implicherebbe il divieto di compiere qualsiasi atto che possa compromettere il successo della liquidazione o, comunque, influirne sull’esito, sicché il compito degli amministratori difficilmente potrebbe identificarsi con un’attività di monetizzazione e di dismissione dei cespiti aziendali [85]. 
Alla luce delle incertezze evidenziate, il giudizio sulla natura “conservativa” o meno dell’attività gestoria posta in essere dall’organo amministrativo continua insomma ad essere affidato, ancora oggi, a valutazioni “da operare caso per caso, quasi sempre caratterizzate da un forte grado di opinabilità”[86], che condizionano certamente, aggravandolo, l’onere probatorio incombente sugli amministratori.
4.2 . Presunzione, quantum del danno e nesso di causalità
La presunzione introdotta dal terzo comma dell’art. 2486 c.c. non investe – come si è visto – la condotta, ma pertiene senza dubbio al quantum del danno, e sotto questo profilo trova giustificazione nel fatto che l’aggravamento delle perdite non deriva da singoli atti dannosi, bensì dalla prosecuzione dell’attività d’impresa, la quale è costituita da un insieme complesso di operazioni, tra di esse correlate, di per sé naturalmente refrattario ad una liquidazione parcellizzata del danno. Il legislatore ha in sostanza preso atto che in questi casi risulta impossibile fornire una prova specifica dell’ammontare dei pregiudizi direttamente conseguenti a ciascuna singola condotta, ed ha riconosciuto quindi la necessità di procedere alla determinazione del danno mediante un criterio presuntivo e sintetico[87]. 
L’obiettivo perseguito è stato così quello di agevolare - quanto meno in parte - l’onere probatorio di commissari e curatele[88], e così di raccogliere le preoccupazioni di chi aveva segnalato come l’intransigente applicazione, nel settore delle azioni di responsabilità, dei principi comuni in materia di illecito avesse reso notevolmente difficili, se non praticamente impossibili, le iniziative risarcitorie delle curatele, finendo in ultima analisi per “favorire la diffusione di pratiche gestorie poco commendevoli o se non altro di lasciare la loro prevenzione all’unico presidio della giustizia penale”[89]. 
Più controversa è la questione – finora non espressamente affrontata in giurisprudenza - se la presunzione in esame “copra” anche il nesso di causalità tra la condotta illecita degli amministratori ed il danno arrecato, se cioè autorizzi a ritenere di per sé pregiudizievole la prosecuzione dell’attività per effetto dell’aggravamento del passivo. La dottrina tende recisamente a negarlo, perché l’accertamento della responsabilità richiesto dall’incipit del terzo comma dell’art. 2486 c.c. imporrebbe quanto meno di allegare e provare condotte illegittime suscettibili di porsi in termini di astratta efficienza per la produzione del danno. Coerentemente con quanto prescritto dalla legge delega, che attribuiva al legislatore il compito di individuare esclusivamente i “criteri di quantificazione del danno risarcibile”, il criterio ora codificato – si ragiona - avrebbe infatti come obiettivo quello di facilitare solo tale quantificazione, ma non di introdurre una presunzione dell’esistenza del nesso di causalità tale da scardinare i principi della responsabilità risarcitoria che connotano la responsabilità di cui all’art. 2486 c.c.[90]. 
La tesi tuttavia non convince, sembrando più corretto ritenere che la presunzione in esame operi invece anche sul piano del nesso di causalità, e quindi consenta di considerare l’indebita prosecuzione dell’attività caratteristica quale condotta normalmente idonea a generare, in via immediata e diretta, un pregiudizio al patrimonio della società, in termini di aggravamento della perdita patrimoniale [91]. Come ben colto dalla giurisprudenza di merito, le perdite che si aggiungono a quelle già maturate nel momento in cui è intervenuto lo scioglimento, ed è sorto l’obbligo di gestire in senso conservativo, sono infatti cagionate - secondo quanto normalmente accade - proprio dall’indebita prosecuzione dell’attività caratteristica[92]: sicché ben può dirsi che al riscontro della violazione dell’obbligo di gestione conservativa, può conseguire l'accertamento in via presuntiva del nesso di causalità tra tale inadempimento e il danno cagionato al patrimonio sociale[93]. D’altro canto, anche in letteratura si è acutamente osservato che il nesso di causalità, se improntato alla regolarità statistica, può certamente riferirsi alla gestione nel suo complesso, tenuto conto che in una situazione di illiquidità, praticamente sempre integrata in condizioni di deficit patrimoniale, la prosecuzione dell’attività produce, prevedibilmente, un progressivo deterioramento del patrimonio[94].
4.3 . La prova del “diverso ammontare” del danno
La presunzione posta dalla prima parte del terzo comma dell’art. 2486 c.c., in base alla quale il danno risarcibile è pari al differenziale dei patrimoni netti, è sicuramente relativa, perché la norma fa esplicitamente “salva la prova di un diverso ammontare” del danno, e tale prova può certamente essere offerta tanto dal convenuto[95], quanto anche dal curatore[96], al fine di pervenire ad una quantificazione maggiormente aderente alle peculiarità del caso concreto, purché l’interessato dimostri anche la maggior “efficienza” del criterio alternativo proposto rispetto a quello legale [97]. Come ha precisato la giurisprudenza, “il principio espresso dalla norma in esame, dunque, continua ad essere quello per cui il risarcimento dev’essere il più possibile aderente al danno provocato: solo se tale aderenza non può essere ottenuta è applicabile un criterio che, anziché far premio agli amministratori per la loro negligenza contabile, semmai la penalizza; ma ogni qual volta i criteri equitativi indicati dalla legge possono essere corretti nei loro effetti distorsivi, attraverso l’utilizzo di dati certi, non vi è motivo di non farvi ricorso, poiché essi valgono, appunto a fornire ‘la prova di un diverso ammontare’, maggiormente vicino alla realtà”[98]. 
In cosa può consistere questo pregiudizio di “diverso ammontare”? 
Può trattarsi anzitutto di un pregiudizio liquidato sempre secondo il criterio dei netti, ma in misura quantitativamente ridotta. Talune corti di merito hanno così affermato che tale metodologia di liquidazione opera sul piano meramente oggettivo, e che quindi, essendo fatta salva la prova di un diverso ammontare del danno, occorre tener conto, sotto il profilo soggettivo (posto che il fatto illecito ex art. 2043 c.c. deve essere necessariamente “doloso” o quantomeno “colposo”), del momento in cui gli amministratori, usando la normale diligenza, potevano e dovevano accorgersi della perdita del capitale sociale (e della contestuale completa erosione del patrimonio), e di conseguenza dovevano immediatamente fronteggiare la causa di scioglimento [99]. 
La generica formulazione della norma autorizza anche l’impiego di criteri di liquidazione del danno pur sempre sintetici, ma diversi da quello dei netti patrimoniali[100], purché parimenti idonei a misurare la riduzione del patrimonio sociale[101]. Tale, ad esempio, la metodologia che fa riferimento all’EBITDA normalizzato, di recente applicata in giurisprudenza[102]; o i criteri – parimenti elaborati dalla dottrina aziendalistica – che propongono l’introduzione di correttivi al metodo dei netti, al fine di eliminare gli effetti distorsivi sulla corretta quantificazione del danno (in termini di sua sottostima o sovrastima) generati, rispettivamente, dagli apporti o dalle riduzioni del patrimonio[103]; ovvero che suggeriscono l’adozione del metodo dei netti patrimoniali con configurazione di capitale economico (in luogo del capitale di liquidazione), in tutte quelle ipotesi in cui, al verificarsi della causa di scioglimento, fosse configurabile una cessione in continuità del complesso aziendale (in luogo della liquidazione atomistica dei beni aziendali) [104]. 
La prova del “diverso ammontare” può infine attenere anche ad un pregiudizio determinato secondo un criterio alternativo di tipo analitico, diverso quindi da quelli – sintetici - ora contemplati dall’art. 2486 c.c.[105]. Può accadere ad esempio – per quanto non sia frequente nella prassi - che la prosecuzione illecita dell’attività caratteristica sia avvenuta per un tempo relativamente breve, le operazioni gestorie non conservative siano state quindi poche e facilmente individuabili, e la curatela attrice sia stata in grado di quantificare per ciascuna di esse il pregiudizio che ne è derivato. In tali casi la giurisprudenza ha correttamente liquidato il danno risarcibile in via analitica, cioè sulla scorta del risultato economico delle singole operazioni[106], tale essendo il pregiudizio effettivo apprezzabile in queste particolari ipotesi [107]. 
Si è per contro esclusa, in questi casi, la possibilità di liquidare il danno secondo il criterio “sintetico” dei netti di cui all’art. 2486 c.c., perché la stessa formulazione della norma induce a ritenere che tale criterio sia alternativo e non cumulabile con il danno determinato analiticamente, sicché laddove il curatore abbia precisamente provato l’entità delle conseguenze dannose derivanti dalla prosecuzione indebita dell’attività della società dopo il verificarsi dei presupposti dello scioglimento, non può ulteriormente essere liquidato il danno sotto forma di differenza del patrimonio netto, perché altrimenti si produrrebbe un arricchimento ingiustificato in capo al danneggiato e si contravverrebbe la funzione compensativa del risarcimento[108]. 
4.4 . Le modalità di calcolo del differenziale fra i netti patrimoniali
Quanto alle modalità di calcolo del differenziale fra i netti patrimoniali l’art. 2486 c.c. detta regole che, per quanto non esaustive, si ispirano chiaramente alla pregressa elaborazione giurisprudenziale in materia. 
(A) Ai sensi di quanto – impropriamente - dispone il terzo comma dell’art. 2486 c.c., il primo termine di confronto da cui muovere[109] è il patrimonio netto della società misurato “alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484”, e quindi alla data a partire dal quale la società si assume aver perso il capitale e andava quindi posta in liquidazione[110]. 
In realtà, secondo quanto già puntualizzato in passato dalla giurisprudenza, si deve avere riguardo al momento in cui la causa di scioglimento era conosciuta o conoscibile dagli amministratori usando l’ordinaria diligenza[111] ed in osservanza dell’obbligo - ora imposto in via generale dall’art. 2086, comma 2, c.c. - di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, “anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale”[112]. 
In questa prospettiva il momento in cui può essere percepita l’intervenuta perdita del capitale non può quindi, di regola, essere meccanicamente collocato alla fine dell’esercizio o alla data di predisposizione del progetto di bilancio che ha evidenziato la situazione di deficit[113], perché gli amministratori devono in realtà monitorare costantemente la consistenza del patrimonio sociale e delle condizioni dell’impresa anche durante l’esercizio[114], e ciò a maggior ragione quando siano note agli amministratori circostanze sintomatiche del possibile insorgere di uno stato di crisi o quantomeno di difficoltà a operare proficuamente sul mercato”[115]. Così, la considerazione delle dimensioni e delle caratteristiche della società (a ristretta base sociale, e nel cui ambito gli amministratori operano in prima persona), ovvero dell’ingente ammontare delle perdite, riferibili a specifici eventi occorsi nell’esercizio, ben può autorizzare a ritenere che la riduzione del capitale al di sotto del limite legale fosse nota – o avrebbe dovuto essere nota – sin dal momento in cui ebbe a verificarsi[116]. 
Al di fuori dei casi in cui l’esistenza della perdita non sia conoscibile in tempo “reale”, e il suo accertamento esiga invece di effettuare approfondimenti, pare ragionevole riconoscere agli amministratori il necessario spatium deliberandi, la cui entità deve essere “tarata” in concreto avuto riguardo ai tempi entro i quali un assetto organizzativo adeguato alle caratteristiche della società dovrebbe consentire, nelle medesime circostanze, di sciogliere ogni dubbio al riguardo[117]. 
(B) Il patrimonio netto iniziale deve quindi essere ricostruito sulla base del bilancio a partire dal quale la società si assume aver perso il capitale e andava quindi posta in liquidazione, o meglio sulla scorta della situazione patrimoniale riferita al momento in cui la causa di scioglimento emerge o sarebbe dovuta emergere applicando le regole corrette di redazione. 
Sebbene l’art. 2486 c.c. taccia sul punto, il bilancio o la situazione patrimoniale di partenza deve in primo luogo essere rettificato in ragione della corretta applicazione dei principi contabili di “funzionamento”, in modo tale da far emergere la perdita occultata dagli amministratori [118]. Non sembra potersi dubitare che le rettifiche operate sul primo bilancio, per correggere omesse o insufficienti svalutazioni di voci attive finalizzate ad occultare una perdita, debbano poi essere ripetute anche nei successivi bilanci posti in comparazione (ad es. un credito inesigibile, eliminato come tale dalla situazione patrimoniale iniziale, va eliminato anche dalla situazione patrimoniale successiva)[119]; 
(C) Il patrimonio netto di partenza, al fine di poter essere raffrontato con quello finale e per evitare che all’agente siano imputati danni legati alla mera variazione dei criteri valutativi (di regola da quelli di continuità a quelli liquidatori), deve in secondo luogo formare oggetto anche di rettifiche di “liquidazione”, “visto che proprio alla liquidazione, se si fosse agito nel rispetto delle regole, si sarebbe dovuti giungere”[120]. Esso deve quindi essere depurato di tutti i valori contabili che si giustificano solo in una prospettiva di continuità aziendale, quali ad es. l’avviamento, le immobilizzazioni immateriali e materiali, gli ammortamenti, i risconti attivi, gli oneri finanziari passivi, i costi per dipendenti, ecc.[121]. 
E’ infatti opinione pacifica – ribadita anche con riferimento al novellato art. 2486 c.c. - che non sia corretto confrontare due grandezze non omogenee, quali – da un lato – la situazione patrimoniale al momento dell’intervenuta perdita del capitale, redatta in un’ottica di continuità aziendale (e non rettificata quindi alla luce dello stato di liquidazione di fatto della società), e – dall’altro lato – la situazione patrimoniale al momento del fallimento o la differenza fra attivo e passivo della procedura[122]. 
(D) Il secondo termine di confronto viene identificato dalla norma in esame, sic et simpliciter, nel patrimonio netto della società “alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura”[123]. 
Così come formulata, la previsione pecca per eccesso sotto diversi profili. 
In primo luogo, essa sembra considerare l’amministratore sempre e comunque responsabile per i danni maturati fino all’apertura della procedura, anche se sia cessato dalla carica in un momento anteriore. Tale lettura della norma sarebbe peraltro frontalmente contrastante con i principi in tema di nesso di causalità, sicché si deve ritenere che l’organo gestorio cessa sempre di essere responsabile quando termina il suo incarico, anche in caso di successiva apertura della procedura concorsuale [124]. 
In secondo luogo, il novellato terzo comma fa testuale riferimento alla “apertura” della procedura, e non alla domanda presentata per accedervi, con ciò sembrando quindi legittimare la responsabilità degli amministratori anche le perdite maturate dalla società dopo il deposito di tale domanda[125]. Tanto può reputarsi corretto ove si tratti di una istanza di apertura della liquidazione giudiziale, non essendo dubitabile che l’amministratore risponda dei danni derivanti dalla prosecuzione illecita dell’attività maturati dopo il deposito di tale istanza e fino alla dichiarazione di apertura della procedura. 
Non altrettanto può dirsi ove invece la società abbia depositato una domanda di ammissione al concordato preventivo o per l’omologa di un accordo di ristrutturazione, perché a mente degli artt. 64 e 89 CCII la presentazione di queste domande sterilizza l’applicazione dell’art. 2486 c.c. ed i limiti gestori dallo stesso previsti, e da quel momento in poi l’amministratore non deve più “preoccuparsi degli anzidetti limiti, bensì attenersi a quanto previsto dal (o comunque compatibile col) piano di concordato o con i termini dell’accordo di ristrutturazione, oltre che rispettare il regime autorizzatorio del procedimento concordatario”[126]. Per evitare di penalizzare ingiustificatamente gli amministratori durante la fase di accesso a tali procedure, la soluzione preferibile pare quindi quella di interpretare il novellato comma 3 dell’art. 2486 c.c. alla luce degli artt. 64 e 89 CCII, e quindi di anticipare il termine finale per il conteggio del danno risarcibile al momento del deposito di una delle domande protettive indicate da tale ultima disposizione [127], come del resto già affermato dalla giurisprudenza anteriore al Codice[128]. Tanto non vale, peraltro, nel caso in cui la proposta concordataria o la domanda di omologa dell’accordo di ristrutturazione sia stata dichiarata in limine inammissibile per carenza dei relativi presupposti, dovendosi considerare una domanda del genere inidonea a sospendere, per il periodo successivo al suo deposito, gli effetti dell’ordinario regime di scioglimento della società previsto dal codice civile[129]. 
Altro profilo di criticità della previsione qui in esame deriva ancora dall’identificazione “secca” del secondo termine di riferimento con il patrimonio netto della società all’atto dell’apertura della procedura, che risponde ad una logica solo allorquando la società, pur avendo perso il capitale, abbia proseguito indisturbata la gestione caratteristica, e sia stata poi sottoposta a liquidazione giudiziale o ammessa ad altra procedura concorsuale in via “diretta”, senza cioè passare da una preventiva fase liquidatoria. 
Sono però altrettanto frequenti i casi in cui, all’opposto, l’apertura della procedura sia stata preceduta da una - pur tardiva - liquidazione. In tale evenienza, ai fini del calcolo del danno risarcibile dovrebbe rilevare il patrimonio netto della società alla data della sua formale messa in liquidazione, perché non si può legittimamente addebitare agli amministratori la perdita incrementale registratasi dopo l’avvio - sia pure intempestivo - della liquidazione e fino alla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale o al deposito della domanda di apertura di altra procedura concorsuale[130]. Stando al chiaro tenore letterale della norma in esame, non sembrerebbero esservi spazi per una sua interpretazione correttiva nel senso - restrittivo - qui proposto. Considerato peraltro che il parametro dei netti opera in via di presunzione semplice, l’amministratore o il sindaco convenuto in responsabilità ben può offrire la prova di un “diverso” (ed inferiore) danno risarcibile, dando la dimostrazione - di per sé non ardua - di aver dato corso, per quanto non tempestivamente, alla preventiva liquidazione della società, con conseguente interruzione del nesso di causalità rispetto ai pregiudizi successivamente prodottisi [131]. 
(E) Il comma 3 dell’art. 2486 c.c. impone poi di detrarre dal differenziale dei patrimoni netti “i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione”. Secondo quanto correttamente osservato dalla giurisprudenza[132], con tale precisazione la norma intende fare riferimento, più esattamente, a quelli che i giudici delle imprese già da tempo identificavano nei “costi che sarebbero stati compatibili (ineliminabili) con lo stato di liquidazione della società (...) che si assume avrebbe dovuto essere tempestivamente disposto” [133], e che - in quanto tali - non possono perciò essere imputati a titolo di danno all’organo gestorio della società. Si tratta, ad esempio, dei costi relativi al personale indispensabile in fase di liquidazione, dei compensi per i liquidatori e per professionisti consulenti dell’impresa, dei costi necessari per utenze, dei costi inerenti alla conduzione di immobili non produttivi ma destinati alle attività meramente gestorie, e così via[134]. 
Il criterio di “normalità”, cui fa riferimento il legislatore, sembra alludere al fatto che detti costi debbano essere individuati negli oneri che si sarebbero prodotti nel tempo ragionevolmente necessario a liquidare una società avente oggetto e dimensioni corrispondenti a quella sottoposta a procedura concorsuale[135]. A ritenere diversamente (cioè se si tenesse conto del maggior periodo di tempo decorso dall’insorgere della causa di scioglimento a quello dell’apertura della liquidazione giudiziale o dell’effettiva messa in liquidazione della società), gli amministratori si gioverebbero infatti delle conseguenze del loro inadempimento, vedendo così “ingiustificatamente ‘premiata’ proprio quella condotta inerte posta a fondamento dell’azione di responsabilità”[136]. 
Perché siano detratti dal differenziale dei netti patrimoniali occorre ovviamente che i costi ed oneri in questione possano essere concretamente determinati, sulla scorta della documentazione contabile della società insolvente. In caso contrario, quando cioè non siano identificabili per fatto (le precarie condizioni della contabilità) imputabile all’amministratore, il danno deve essere liquidato in misura pari alla differenza tra i netti patrimoniali, senza operare alcuna detrazione[137], mentre non pare che si possa pervenire ad una determinazione dei costi in questione in via meramente equitativa [138]
5.1 . Il deficit concorsuale quale nuova fattispecie legale di danno punitivo
Il terzo comma dell’art. 2486 c.c. prevede, nella sua parte finale, che il danno derivante dalla violazione dell’art. 2486 c.c. possa essere liquidato, in via sussidiaria, in misura pari alla “differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”, allorquando l’assenza o l’irregolarità delle scritture contabili ovvero “altre ragioni” impediscano di determinare i netti patrimoniali. 
La previsione codifica quindi il tradizionale metodo del deficit fallimentare (ovvero, per adeguarsi al lessico voluto dal CCII, quello che potrebbe ora ribattezzarsi deficit o sbilancio concorsuale), e segna in proposito una indubbia, quanto netta cesura rispetto ai principi che le sezioni unite della Cassazione avevano enunciato nel 2015. In quella occasione la Suprema Corte aveva infatti chiaramente affermato che, al di fuori dei casi in cui le condotte degli amministratori abbiano direttamente causato il dissesto (unici inadempimenti “qualificati” astrattamente idonei a produrre un danno pari all’intero deficit fallimentare), la pretesa d’individuare il danno risarcibile nella differenza tra passivo ed attivo fallimentare doveva considerarsi “fatalmente priva di ogni base logica”, perché tale differenziale – in quanto tale e nella sua interezza – non è di regola la naturale conseguenza dell’essersi protratta la gestione dell’impresa in assenza delle condizioni economiche e giuridiche che giustificano la continuità aziendale. 
Il novellato art. 2486 c.c. contraddice apertamente tale postulato, dando cittadinanza al criterio del deficit anche per liquidare il danno derivante dalla violazione dell’obbligo di gestione conservativa dopo la perdita del capitale sociale, cioè di un inadempimento che di per sé non vale a cagionare direttamente il dissesto, e diverso da quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell'impresa così generalizzate o comunque quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell'insolvenza[139]. 
Le Sezioni Unite avevano poi rimarcato che, in linea di principio, l’utilizzo del deficit fallimentare per la liquidazione equitativa del danno, ai sensi dell’art. 1226 c.c., non era consentito nemmeno in caso di mancato rinvenimento delle scritture contabili dell’impresa, a meno che fossero indicate le ragioni che avevano impedito l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta del convenuto, e argomentata la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto. La previsione di cui al terzo comma dell’art. 2486 c.c. supera anche queste strettoie, facendo assurgere il criterio dello sbilancio concorsuale a criterio automatico di liquidazione del danno in assenza di contabilità, in tal modo esimendo il giudicante dall’onere di dover indicare le ragioni per le quali si è fatto ricorso alla liquidazione in via equitativa[140]. 
Quanto ora considerato non deve però far credere che la disposizione in esame abbia segnato – come pure taluno ha detto - un “ritorno al passato”, del tutto sganciato da ogni corrispondenza con il diritto vivente in materia. Il legislatore sembra piuttosto aver voluto recepire l’orientamento di quella giurisprudenza di merito che, già all’indomani dell’arresto delle sezioni unite del 2015, aveva restituito spazio applicativo al tradizionale metodo del deficit fallimentare, facendone impiego quale criterio equitativo di liquidazione del danno “logicamente plausibile” nei casi in cui la contabilità fosse assente o irregolarmente tenuta. Sfruttando la genericità della motivazione delle sezioni unite del 2015 in merito ai presupposti di utilizzo del criterio de quo, ed in particolare facendo leva sul canone della “plausibilità logica”, diverse sentenze di merito avevano infatti affermato che proprio la carenza di qualsivoglia documentazione contabile della fallita era circostanza tale da far ritenere la differenza fra attivo e passivo fallimentare quale “ragionevolmente () congruo ed equo criterio determinativo” del danno da indebita prosecuzione dell’attività dopo l’intervenuta erosione del capitale sociale sotto il minimo legale[141]. 
Ciononostante il nuovo art. 2486 c.c. ha ricevuto, nella parte qui in esame, serrate critiche in dottrina, la quale ha lamentato la reintroduzione di un criterio di liquidazione del danno “privo della benché minima giustificazione razionale”, in quanto fondato su una presunzione che non si fonda sulla normalità dei casi, in quanto il dissesto non sempre deriva da colpa dei gestori [142]; e rimarcato l’inconciliabilità della norma con il principio civilistico che impone di accertare il nesso di causalità tra la condotta illegittima ed il danno, nesso del quale deve essere fornita la prova da parte di chi invoca il risarcimento [143]. 
Non pare tuttavia che tali critiche siano meritate. 
Piaccia o non piaccia, la scelta che il legislatore ha inteso assumere, positivizzando il criterio del deficit concorsuale, è stata proprio quella di segnare un netto distacco rispetto alle regole comuni in materia di risarcimento del danno, e che questa sia stata l’opzione prescelta non pare contestabile, ove si consideri che il richiamo di tali regole, inizialmente presente nel testo della norma confezionato dalla Commissione Rordorf [144], è poi scomparso nelle versioni successive e nel testo finale del terzo comma dell’art. 2486 c.c. Se questa è – come sembra – la premessa, non sembra quindi corretto indulgere in letture della previsione alla luce di principi cui la stessa ha inteso invece derogare, dovendosi prendere atto che la stessa ha piuttosto – come ben colto in una recente decisione – “una dimensione di fatto quasi sanzionatoria”, istituendo “un criterio di liquidazione legale” del danno, destinato ad operare nell’ipotesi di assenza o irregolarità delle scritture contabili, in virtù del quale il danno stesso è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura[145], 
Siamo in presenza, in buona sostanza, di un criterio di liquidazione del danno patrimoniale in via “forfettaria”, che non è diretto a compensare il pregiudizio in misura strettamente corrispondente agli effetti dell’illecito, ma intende sanzionare la condotta dell’amministratore che – per così dire - abbia privato il curatore dei “ferri del mestiere”, cioè la condotta che, violando l’obbligo di predisporre, conservare e consegnare agli organi della procedura concorsuale le scritture contabili, abbia precluso a questi ultimi di ricostruire la genesi della situazione economico-patrimoniale e finanziaria dell’impresa[146]. Una chiara ipotesi di danno “punitivo” [147], quindi, la cui dichiarata finalità – per quanto si legge nella relazione illustrativa al Codice della Crisi – è quella di porre rimedio alla “obiettiva difficoltà di quantificare il danno in tutti i casi, nella pratica molto frequenti, in cui mancano le scritture contabili o le stesse sono state tenute in modo irregolare”, e così di agevolare l’onere probatorio delle curatela[148], avendo evidentemente il legislatore ben presente che sono proprio queste le situazioni che avevano in larga parte concorso a determinare “la ‘fine ingloriosa’ di tante azioni di responsabilità”[149], pur quando la responsabilità gestoria fosse acclarata nell’an [150]. 
L’introduzione di tale nuova fattispecie di danno punitivo non dovrebbe d’altro generare perplessità sul piano sistematico, ove si consideri che le sezioni unite della Suprema Corte, con la nota decisione n. 16601/2017, ha ribadito il carattere polifunzionale della responsabilità civile, cui “non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione”, essendo “interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile”[151]. Quale che sia la reale portata che si voglia ascrivere a tale pronuncia, l’insegnamento che da essa pare potersi sicuramente trarre è infatti nel senso che i danni punitivi sono configurabili nell’ordinamento italiano ma, pur essendo riconosciuti dal sentire giuridico comune, non possono considerarsi immanenti al sistema della responsabilità civile, e non trovano applicazione tout court, costituendo ancora un’eccezione che, in quanto tale, deve essere provvista, in ossequio agli artt. 23 e 25 Cost., di specifico ancoraggio normativo, non potendo trovare in materia spazio alcuno un “incontrollato soggettivismo giudiziario”. Specifico ancoraggio normativo che, per la fattispecie della responsabilità gestoria ex art. 2486 c.c. in assenza di scritture contabili, è appunto offerto dal terzo comma di tale disposizione[152], il quale sembra rispondere anche ai requisiti di tipicità (ovvero “precisa perimetrazione delle fattispecie” di danni punitivi accordabili) e prevedibilità (e cioè “puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne”) che, secondo le citate sezioni unite, condizionano la riconoscibilità ex lege dei danni punitivi. 
Ciò chiarito in merito al criterio dello sbilancio concorsuale, occorre comunque considerare che – secondo quanto affermato dalla giurisprudenza - il curatore che agisce in giudizio rimane pur sempre onerato di allegare e provare la specifica condotta integrante la violazione dell’art. 2486 c.c. a carico degli amministratori, ed il nesso causale tra l’addebito e il danno cagionato alla società, perché solo in tal caso si può utilizzare lo strumento equitativo di liquidazione del danno di cui all’ultimo comma, ultimo periodo dell’art. 2486 c.c., non essendo sufficiente invocare la totale assenza di bilanci depositati nonché la irregolare tenuta delle scritture contabili[153].
5.2 . I presupposti applicativi
L’art. 2486 c.c. ancora l’operatività del criterio alternativo dello sbilancio concorsuale alla circostanza che i netti patrimoniali “non possanotout court essere determinati. Viene quindi evocata la presenza di situazione di assoluta impossibilità di procedere in tal senso[154], contravvenendosi all’interpretazione corrente dell’art. 1226 c.c., che equipara all’impossibilità l’“estrema” o “notevole” o “elevata” difficoltà di fornire la prova dell’effettiva misura del danno sulla base di elementi oggettivi[155]. 
In questa prospettiva, il criterio del disavanzo della procedura è quindi destinato a trovare applicazione in casi tutto sommato circoscritti, caratterizzati dalla totale assenza o inattendibilità della contabilità e dalla indisponibilità di altre fonti idonee a consentire la ricostruzione delle vicende sociali[156], in relazione ai quali l’assolutezza del metodo in questione[157], potrebbe probabilmente risultare maggiormente giustificata. In questa direzione si sono appunto orientate le decisioni che hanno fatto applicazione dell’art. 2486 c.c. riformato, le quali hanno liquidato il danno da illegittima prosecuzione dell’attività in misura pari allo sbilancio accertato della procedura, laddove, per l’assoluta mancanza di documentazione fiscale e contabile, e/o per la sua inattendibilità, era risultato impossibile tenere conto degli effetti contingenti e connaturati alla prosecuzione dell’attività sociale [158]; mentre ne hanno escluso l’operatività (ricorrendo al criterio del danno incrementale) laddove risultava avvenuta la consegna della documentazione contabile alla curatela, e quest’ultima non ne aveva contestato l’irregolarità[159]; ovvero nel caso in cui la carenza di documentazione contabile della società fallita era solo parziale[160]. 
Per potersi liquidare il danno in misura pari al deficit concorsuale l’assenza o l’irregolarità della documentazione sociale deve ascriversi ovviamente a cause imputabili agli amministratori convenuti[161]. Bene ha quindi deciso la giurisprudenza laddove ha fatto impiego del metodo in esame nel caso in cui gli amministratori, pur richiesti, non avevano fatto consegna al curatore della contabilità sociale [162], e ad escluderne l’applicazione laddove la mancata acquisizione delle scritture contabili della fallita era invece ascrivibile al curatore, che non si era fatto parte diligente in tal senso[163]. 
In ogni caso, il criterio in esame risulta applicabile a tutti gli amministratori convenuti, anche se l’assenza o l’irregolarità della documentazione contabile sia riconducibile ad uno solo di essi. Esito, questo, che non appare censurabile[164], considerato che - secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza - la redazione dei bilanci di esercizio e più in generale la tenuta della contabilità, anche qualora l’organo gestorio assuma composizione collegiale, costituisce compito fondamentale di tutti i componenti dello stesso e non delegabile, che rende quindi - in caso di sua violazione - tutti i consiglieri, titolari o meno di deleghe, inscindibilmente responsabili verso la società, i creditori ed i soci[165]. 
Analogo discorso vale anche per i sindaci, cui pure non è giuridicamente imputabile la conservazione delle scritture contabili, in considerazione sia della natura secca della norma, che non autorizza discriminazioni a seconda della specifica natura dei convenuti, sia del fatto che i sindaci sono comunque tenuti ad interessarsi dell’assetto contabile e del contenuto delle scritture [166]. 
Al di fuori delle ipotesi di carenza o irregolare tenuta della contabilità, non paiono realisticamente individuabili – né in concreto i Tribunali hanno sino ad oggi identificato – “altre ragioni”, parimenti imputabili agli organi sociali[167], che possano ugualmente precludere alla curatela di ricostruire i netti patrimoniali della società insolvente, e così legittimare – ai sensi della norma in esame - il ricorso al metodo del deficit. Per assegnare un contenuto concreto a tale inciso, che altrimenti rappresenterebbe un inutile pleonasmo, potrebbe ipotizzarsi che la “regolarità” della contabilità cui la norma fa riferimento debba intendersi quale regolarità formale, e che le ulteriori “ragioni” comprendano quindi tutte le ipotesi - “mediane” -, in cui le scritture contabili siano state (solo) formalmente tenute, ma risultino nel loro complesso sostanzialmente inattendibili[168]. 
Sul piano operativo, per individuare il passivo concorsuale occorre fare riferimento al totale dei debiti concorsuali accertati in sede di formazione del passivo, senza quindi considerare anche i debiti prededucibili[169], mentre l’attivo comprende le attività di pertinenza dell’impresa sottoposta alla procedura ed i risultati delle azioni revocatorie e di inefficacia che il curatore può attivare[170].
5.3 . Presunzione assoluta o relativa?
Secondo una ricostruzione particolarmente diffusa in letteratura [171], la norma in questione, nella parte in cui prevede l’applicabilità in via sussidiaria del criterio del deficit concorsuale, porrebbe una presunzione legale assoluta, che non ammette cioè la prova contraria. La tesi ha trovato un certo seguito anche fra i giudici di merito[172], e viene solitamente argomentata facendo leva sulla circostanza che la norma, diversamente da quanto accade con riferimento al criterio dei netti patrimoniali, non prevede esplicitamente la possibilità di una prova contraria [173]; e sul fatto che, a voler discorrere di una presunzione assoluta, si configurerebbe un risarcimento avente carattere punitivo, che può trovare ingresso solo in presenza di una norma di legge che espressamente lo preveda, e che non trova riscontro nella legge delega e nella relazione illustrativa al CCII, i quali non hanno prospettato l’introduzione di aggravamenti di responsabilità degli amministratori, né di rimedi sanzionatori con funzione di deterrenza[174]. 
Il semplice dato testuale non pare in realtà decisivo argomento a conforto, dovendo il discorso essere piuttosto ribaltato. Stando alla migliore dottrina [175], il criterio per stabilire se ricorre una presunzione relativa o una presunzione assoluta deve infatti muovere dalla premessa che il diritto moderno tende a ridurre le presunzioni iuris et de iure, perché limitano l’ambito della prova e la ricerca della verità; ed in tale prospettiva le presunzioni possono pertanto considerarsi assolute soltanto nei casi in cui la legge precisi espressamente che non è ammessa la prova contraria, mentre devono qualificarsi iuris tantum quando tale espressa previsione manchi. Muovendo da tale premessa, e proprio perché il novellato art. 2486 c.c. non esclude esplicitamente, in relazione al deficit concorsuale, la prova contraria, anche tale metodologia di quantificazione del danno deve pertanto considerarsi assistita da una presunzione legale relativa. 
In tal senso taluni hanno per vero invocato il dato testuale, sostenendo che la salvezza della prova contraria, contenuta nell’incipit del terzo comma dell’art. 2486 c.c., sarebbe riferibile anche al parametro del disavanzo della procedura[176]; e che anche il carattere “subordinato” del criterio in esame rispetto a quello, primario, dei netti patrimoniali, per dedurne così che anche il primo porrebbe capo – quasi per “attrazione” – ad una presunzione iuris tantum [177]. Senonché il ruolo sussidiario del deficit concorsuale gioca piuttosto sul terreno dei suoi presupposti applicativi (nel senso che tale parametro è destinato ad operare solo allorquando i netti patrimoniali della società insolvente non possano essere determinati), mentre non sembra poter assumere rilievo al diverso fine di segnare i contorni dell’onere della prova gravante sui soggetti convenuti in responsabilità. 
A sostegno dell’idea che il criterio del deficit fallimentare ponga capo ad una presunzione meramente relativa, si è ancora valorizzata la circostanza che, a ritenere diversamente, la previsione suonerebbe del tutto irragionevole, perché risulterebbe lesiva dei principi in materia di responsabilità civile [178], ed introdurrebbe un’azione risarcitoria di carattere marcatamente sanzionatorio e punitivo [179]. Anche tale ordine di rilievi non pare tuttavia persuasivo, ove si consideri che la deroga alle norme generali in tema di risarcimento del danno rappresenta esattamente – piaccia o non piaccia - l’obiettivo che il legislatore ha voluto perseguire con l’integrazione dell’art. 2486 c.c., “allo scopo di agevolare il compito degli organi delle procedure concorsuali, sia rendendo più facile prevedere sin da principio quale possa essere l'ammontare dal danno risarcibile (), sia comunque alleggerendo un onere probatorio ritenuto eccessivamente gravoso per i curatori ed evitando che gli amministratori scorretti possano in definitiva avvantaggiarsi della loro stessa scorrettezza” [180]. A tale rilievo può aggiungersi, più in generale, che la compatibilità con il nostro ordinamento di rimedi civili con funzione punitiva è stata ammessa dalle Sezioni Unite [181], che hanno ritenuto ontologicamente non incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei risarcimenti punitivi, posto che la responsabilità civile non ha il solo compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, essendo interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria della responsabilità civile. 
Se anche il criterio dello sbilancio concorsuale è, quindi, assistito da una presunzione legale relativa, il convenuto in responsabilità può allora introdurre opportuni correttivi, fornendo in giudizio la prova di un ammontare del danno diverso ed inferiore rispetto al differenziale tra passivo ed attivo della procedura[182]. In tale direzione si è - correttamente - orientata la giurisprudenza, laddove ad esempio ha liquidato il danno da indebita prosecuzione dell’attività caratteristica in misura pari al differenziale tra i debiti sociali risultanti dall’ultimo bilancio approvato al momento in cui il capitale sociale era sceso al di sotto del minimo di legge, ed i debiti accertati in sede fallimentare, dedotte le spese e oneri che fisiologicamente si producono anche durante la liquidazione (non imputabili quindi a titolo di danno) e gli interessi moratori sulle somme dovute a terzi che sarebbero comunque maturati (senza che per ciò solo, e nei limiti di un arco temporale congruo, tale incremento possa essere considerato un danno)[183]; oppure decurtando la misura dello sbilancio concorsuale, determinata da parte attrice sulla base del valore di avvenuto realizzo di alcuni immobili, sostituendovi i valori di stima individuati in sede fallimentare[184]
6 . Una - breve - conclusione
Si può dire che il terzo comma dell’art. 2486 c.c., per come finora concretamente applicato nel “diritto vivente”, abbia raggiunto gli obiettivi che – secondo la relazione illustrativa al CCII - il legislatore intendeva perseguire? 
La risposta pare dover essere di segno positivo. 
L’analisi delle decisioni rese in materia dai Tribunali delle imprese restituisce infatti l’immagine di un quadro giurisprudenziale che, in presenza di condotte gestorie “non conservative”, liquida il danno secondo le due metodologie “sintetiche” previste dalla norma de qua, senza più sollevare interrogativi sulla loro correttezza teorica di fondo, e senza avventurarsi nella elaborazione di criteri liquidatori diversi e – per ciò stesso - “atipici”. Si introducono piuttosto alcuni semplici correttivi al funzionamento dei criteri di legge, ritenendosi che il principio espresso dalla norma continui ad essere “quello per cui il risarcimento dev’essere il più possibile aderente al danno provocato”[185]; e vi si deroga, quantificando il danno in modo analitico (sulla base cioè del risultato economico delle singole operazioni), nei soli – non frequenti – casi in cui la prosecuzione illecita dell’attività caratteristica sia stata di breve durata, e le operazioni gestorie non conservative siano state poche e facilmente individuabili. 
Tanto pare quindi autorizzare a ritenere sostanzialmente conseguite le finalità, dichiarate nella relazione illustrativa al CCII, di risolvere, “anche in funzione deflattiva, il contrasto giurisprudenziale esistente in materia”, e di porre rimedio alla obiettiva difficoltà di quantificare il danno in tutti i casi, nella pratica molto frequenti”, in cui le scritture contabili dell’impresa insolvente manchino o siano state irregolarmente tenute. 
L’interrogativo è piuttosto un altro, e qui può essere solo accennato, perché il discorso porterebbe troppo lontano. E’ nota infatti la recente proposta parlamentare di modifica dell’art. 2407 c.c., che intende circoscrivere la responsabilità dei sindaci per i danni cagionati alla società, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi, nei limiti di un multiplo del compenso annuo “percepito” (e non – si badi – deliberato)[186]. Se la novellazione dell’art. 2486 c.c. si colloca nell’alveo dell’apparato che il CCII ha predisposto per sanzionare adeguatamente l’inadempimento agli obblighi di prevenzione della crisi e aggravamento dell’insolvenza[187], vi è infatti chiedersi – al di là delle (scontate) positive valutazioni di coloro che l’hanno sponsorizzata - se tale limitazione della responsabilità dell’organo di controllo possa ritenersi davvero opportuna, e coerente con tale apparato, e se possa altresì superare il vaglio di costituzionalità, sotto il profilo del rispetto del principio di uguaglianza.

Note:

[1] 
V. sul tema le riflessioni di G.B. Portale, Il codice italiano della crisi dell’impresa e dell’insolvenza: tra fatture e modernizzazione del diritto societario, in Riv. soc., 2022, 1149 ss.
[2] 
Il cui art. 14 demandava al Governo di individuare i “criteri di quantificazione del danno risarcibile nell’azione di responsabilità promossa contro l’organo di amministrazione della società” fondata sulla violazione dell’art. 2486 c.c.
[3] 
Specie in presenza di condotte violative dell’obbligo di gestione conservativa, sancito dal primo comma dell’art. 2486 c.c., la quantificazione dei danni risarcibili è notoriamente operazione piuttosto ardua e complessa, tanto che non infrequentemente la domanda di risarcimento viene rigettata, pur in presenza di comportamenti senza dubbio illeciti o addirittura penalmente rilevanti di amministratori e sindaci convenuti: per questo rilievo v. M. Spiotta, Note in tema di responsabilità degli amministratori, in Giur. it., 2010, 1333-1334; analogamente G. Facci, La quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità, in L. Balestra, M. Martino, Crisi d’impresa e responsabilità degli organi sociali nelle società di capitali, Milano, 2022, 872.
[4] 
Così V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione dell’impresa nel Codice della crisi, in Giur. comm., 2020, I, 18. Diversamente F. Lamanna, Il Codice concorsuale in dirittura d’arrivo con le ultime modifiche ministeriali al testo della Commissione Rordorf (II), in ilfallimentarista.it, 2018, 7, il quale ritiene invece che sia da salutare senz’altro con favore, quanto meno in linea di principio, la scelta del legislatore di codificare i criteri di liquidazione dei danni conseguenti alla violazione dell’obbligo di cui all’art. 2486 c.c., avuto riguardo al quadro di estrema incertezza che in precedenza aveva connotato la giurisprudenza sul tema.
[5] 
In questi termini V. Di Cataldo, S. Rossi, Nuove regole generali per l’impresa nel nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, in La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, 322. Analogamente P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, in Codice civile. Commentario dir. da F.D. Busnelli e G. Ponzanelli, Milano, 2021, secondo il quale il quale il criterio del disavanzo concorsuale sarebbe da “marginalizzare”, in quanto “in linea di principio deteriore per la posizione degli amministratori”; e S. Balleari, Il criterio del deficit fallimentare nella giurisprudenza della Suprema Corte, in Giur. comm., 2023, II, 850, il quale auspica che la portata applicativa del criterio del deficit fallimentare, introdotto dalla nuova norma, sia opportunamente “arginata” dalla giurisprudenza.
[6] 
Nell’accezione di ‘‘disciplina giuridica predisposta per fatti accaduti sotto l’imperio di una certa norma, ma sottoposti a giudizio durante la vigenza di una norma differente’’: così F. Maisto, Il «diritto intertemporale»: la ragionevolezza dei criteri per la risoluzione dei conflitti tra norme diacroniche, Napoli, 2007, 11.
[7] 
Vecchia disciplina che, seppur creata dal “diritto vivente”, è parimenti idonea a porre le basi per il configurarsi di una vicenda successoria e di un conflitto tra enunciati legislativi: cfr. da ultimo A. Arceri, L’applicazione della L. n. 24/2017 ai fatti pregressi ed ai giudizi in corso, in Giur. it., 2021, 462.
[8] 
Cosí Trib. Milano, 12 luglio 2019 (Fall. Ghioldi s.r.l. c. G. e altri, inedita). In termini analoghi v. App. Firenze, 20 febbraio 2024, n. 328/2024, in Banca Dati Pubblica: “non può (…) essere applicato alla fattispecie in esame il disposto dell’art. 2486 ultimo comma c.c., nella versione derivante dalla riforma operata dal D.Lgs. 2019, n. 14, (…) dal momento che i fatti di cui è causa sono maturati prima dell’entrata in vigore della novella”; Trib. Genova, 14 dicembre 2023, n. 3126/2023, ivi; Trib. Napoli, 26 luglio 2023, in Dirittodellacrisi.it; App. Milano, 4 agosto 2020 (P. e altri c. Fall. Dinamiche s.r.l., inedita); Trib. Palermo, 30 luglio 2020 (Fall. Verat Arredamenti s.r.l. c. A. e altri, inedita); Trib. Milano, 27 luglio 2020 (Fall. MCE s.r.l. c. G. e altro, inedita); App. Venezia, 1° luglio 2020 (C. c. Fall. E. Con s.r.l., inedita); Trib. Palermo, 5 giugno 2020 (Fall. Mazzara In Collezioni s.r.l. c. M. e altri, inedita); Trib. Firenze, 10 aprile 2020 (Fall. European Shop s.r.l. in liquid. c. C., inedita); Trib. Milano, 3 aprile 2020 (Fall. Prodomo s.r.l. c. C., inedita); App. Venezia, 10 febbraio 2020 (Z. c. Fall. Ide@living s.r.l., inedita); Trib. Bologna, 2 dicembre 2019, in giurisprudenzadelleimprese.it
[9] 
Cfr. Trib. Napoli, 18 aprile 2023, n. 4030/2023, in Banca Dati Pubblica, il quale ha affermato che il nuovo art. 2486 c.c., non applicabile ratione temporis a fatti antecedenti alla sua entrata in vigore, sarebbe “al limite utilizzabile in via interpretativa della disciplina e degli orientamenti previgenti”; Trib. Torino, 9 marzo 2020, n. 1209/2020, in Banca Dati Pubblica, per il quale il nuovo disposto di cui all’art. 2486 c.c. per quanto non direttamente applicabile al caso di specie - essendo tale disposizione entrata in vigore successivamente all’introduzione del giudizio e allo spirare dei termini ex art. 183, comma 6, c.p.c. - sarebbe comunque utilizzabile, in via interpretativa, a conferma della validità dell’orientamento che vuole quale criterio di determinazione del danno, in primo luogo, quello della differenza tra i patrimoni netti e, in caso di impossibilità di determinazione dei netti patrimoniali, quello del deficit fallimentare.
[10] 
V. ad es. Trib. Roma, 24 maggio 2019, n. 10956/2019, in Banca Dati Pubblica; Trib. Firenze, 13 maggio 2020, in Ilcaso.it, per il quale l’omissione totale della tenuta della contabilità consente - ai sensi dell’art. 2486 c.c. (così come novellato dal D.Lgs. n. 14/2019) - di utilizzare come parametro per la liquidazione del danno lo sbilancio fallimentare; Trib. Perugia, 12 giugno 2020 (Fall. Fima s.r.l. c. C., inedita), il quale - stante la mancanza nella specie delle ultime scritture contabili della fallita - ha commisurato il danno per l’indebita prosecuzione dell’attività d’impresa in misura al deficit fallimentare in applicazione del novellato terzo comma dell’art. 2486 c.c.; Trib. Torino, 15 giugno 2020, in Giur. comm., 2022, II, 766; Trib. Firenze, 7 ottobre 2020 (Fall. Euroline s.r.l. c. P. e altri, inedita), il quale ha affermato, parimenti senza motivare, che “il danno, nella totale assenza di contabilità relativa gli ultimi tre anni, può essere quantificato ai sensi dell’art. 2486 c.c. attualmente vigente”, risultante dalle modifiche introdotte dal Codice della Crisi; Trib. Firenze, 1° febbraio 2021 (Fall. Minerva s.r.l. c. S. e altri, inedita), il quale ha ritenuto che, in caso di prosecuzione dell’attività d’impresa dopo la perdita del capitale sociale, “secondo quanto previsto dall’art. 2486/3 c.c., la mancanza di contabilità giustifica la quantificazione del risarcimento dovuto in misura pari allo sbilancio fallimentare”; Trib. Torino, 3 marzo 2021 (Fall. Beta Meccanica s.r.l. c. F. e altro, inedita); Trib. Napoli, 19 luglio 2021 (Fall. C.F.P. s.r.l. c. M., inedita); Trib. Milano, 12 aprile 2022, n. 3226/2022, in Banca Dati Pubblica; Trib. Torino, 4 ottobre 2023 (Fall. Meridiana Scavi s.r.l. c. B., inedita); Trib. Napoli, 24 novembre 2023, n. 10814/2023, in Banca Dati Pubblica.
[11] 
Così App. Catania, 16 gennaio 2020, in Giur. comm., 2020, II, 1374, e, con identica motivazione, App. Catania, 24 aprile 2020 (L. e altri c. Fall. A.S.P.A.O. soc. coop. a r.l., inedita). In senso conf., richiamando espressamente tali precedenti catanesi, Trib. Terni, 29 ottobre 2020 (Fall. Kensington s.r.l. c. L. e altri, inedita), per il quale il nuovo art. 2486 c.c., “introducendo sistemi presuntivi per la quantificazione del danno, incide sulle regole di riparto dell’onere della prova e quindi non appare applicabile ai giudizi in corso, nei quali le parti hanno già articolato le proprie richieste istruttorie in applicazione delle regole generali sull’onere della prova. In altri termini l’applicazione immediata della disposizione comporterebbe un vantaggio per la parte che beneficia della presunzione ed uno svantaggio per la controparte, in violazione del principio di uguaglianza e parità delle armi processuali”. Hanno parimenti escluso l’applicazione retroattiva del novellato art. 2486 c.c.: Trib. Catania, 19 dicembre 2020, n. 4222/2020, in Banca Dati Pubblica, per il quale “tale norma (…) non è applicabile all’ipotesi odierna, in quanto ius superveniens - entrato in vigore il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione del decreto sulla Gazzetta ufficiale, (…) - non suscettibile di operare, nei giudizi in già pendenti, con riferimento a condotte poste in essere prima della sua entrata in vigore, alla luce del principio espresso dall’art. 11 delle preleggi”; App. Venezia, 1° luglio 2020, cit.; Trib. Ancona, 22 marzo 2021 (Fall. Polo Energetico Piceno s.c.p.a. c. B. e altri, inedita); Trib. Genova, 4 settembre 2021, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 26 luglio 2021 (Fall. GM s.r.l. in liquid. c. M. e altro, inedita), per il quale, considerata la presunzione assoluta che assiste il criterio del deficit concorsuale, si può “seriamente dubitare che la norma (…) possa operare retroattivamente, essendo destinata, ai sensi dell’art. 11 delle preleggi, a disciplinare il regime sostanziale della responsabilità dell’amministratore, sotto il profilo della predeterminazione della consistenza del danno, solo per il futuro”, aggiungendo che “la previsione di una componente ‘punitiva’ del risarcimento del danno dovuto allorché l’esatta consistenza del pregiudizio non possa essere determinata per la violazione da parte dell’amministratore degli obblighi di tenuta delle scritture contabili, difficilmente si presta ad un’applicazione retroattiva nel nostro ordinamento ove, salvo specifiche e sporadiche previsioni normative, il rimedio risarcitorio ha solo funzione ripristinatoria della sfera giuridica del danneggiato pregiudicata dalla violazione”; Trib. Reggio Cal., 31 dicembre 2021 (Fall. Doc Market’s s.r.l. c. L. e altri, inedita); Trib. Milano, 12 febbraio 2022 (Fall. Co.R.Edil s.r.l. c. G., inedita); Trib. Napoli, 14 febbraio 2023 (Fall. F. lli Provenzale s.r.l. c. P. e altri, inedita); Trib. Napoli, 20 marzo 2023 (Fall. Sicad s.r.l. c. S., inedita); Trib. Bologna, 30 marzo 2023 (Fall. Casa Emiliani s.r.l. c. P. e altri, inedita), il quale afferma semplicemente che la norma è inapplicabile ratione temporis al caso in esame, essendo entrata in vigore il 16 marzo 2019, successivamente ai fatti contestati; Trib. Palermo, 7 novembre 2023 (Fall. Agro-Ittio Tecnica s.r.l. c. M., inedita). Conf., in dottrina, M. Fabiani, Le azioni di responsabilità verso gli organi sociali dopo il codice della crisi, in M. Arato, G. D’Attorre, M. Fabiani, Le nuove regole societarie dopo il codice della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2020, 169-170; L. Castelli, S. Monti, Il nuovo art. 2486, comma 3, c.c.: background, profili di continuità e di innovazione, impatto processuale, in ilsocietario.it, 2019, 7: “la relevatio ab onere probandi introdotta dalla menzionata disposizione, rendendo più difficile per il convenuto resistere alla pretesa attorea ed imponendogli un gravoso onere probatorio, inciderebbe sensibilmente sulla sua posizione processuale e sulla sua legittima aspettativa di essere parte di un giudizio caratterizzato da determinate regole”.
[12] 
App. Roma, 13 aprile 2021, in One Legale; Trib. Napoli, 19 luglio 2022 (Fall. Work Fashion s.r.l. c. S., inedita), il quale ha affermato che il terzo comma dell’art. 2486 c.c. ha “introdotto una presunzione legale invertendo l’onere della prova, facendo così beneficiare l’attore di una relevatio ab onere probandi”, sicché la norma non potrebbe avere applicazione retroattiva in virtù del principio tempus regit actum. In dottrina v. in senso conf. D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno nelle azioni di responsabilità dopo il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Giust. civ., 2022, 329 ss., per il quale l’art. 378 CCII non è norma sostanziale, ma norma processuale per la quale vale il principio tempus regit actum, perché regola un meccanismo tipico del processo, ed in particolare un potere del giudice.
[13] 
Così Trib. Firenze, 2 ottobre 2020 (Fall. International Broking Company s.r.l. c. B. e altro, inedita); conf. Trib. Firenze, 2 luglio 2020, n. 1555/2020, in Banca Dati Pubblica, ove si legge che l’opzione della curatela attrice per il criterio dei netti patrimoniali “appare giustificata dalla riforma dell’art. 2486 c.c., immediatamente applicabile anche alle cause già pendenti alla data della sua entrata in vigore poiché́ non ha modificato i presupposti della responsabilità̀ risarcitoria né la nozione o l’estensione del danno risarcibile, ma ha solo indicato un criterio di determinazione di quest’ultimo”; Trib. Ancona, 1° giugno 2021 (Fall. NCM s.r.l. c. P. e altri, inedita), per il quale “il criterio di liquidazione del danno secondo il metodo della differenza dei netti patrimoniali è stato recepito ed elaborato nella giurisprudenza ben prima della riforma legislativa (…); è piuttosto il legislatore ad aver positivizzato con la riforma di detta norma un principio già recepito dalla giurisprudenza”; Trib. Venezia, 13 ottobre 2023, n. 1771/2023, in Banca Dati Pubblica, il quale osserva che la liquidazione del danno risarcibile in base al nuovo art. 2486 c.c. è “criterio equitativo di risarcimento già in precedenza praticato correntemente dalla giurisprudenza in tutti i casi in cui, come quello oggetto di lite, è necessario ricorrere ad una valutazione sintetica della perdita patrimoniale determinata dalla condotta illecita degli amministratori”; Trib. Firenze, 22 gennaio 2024, n. 218/2024, ibidem, per il quale “i criteri liquidatori legali risultanti dalla novella codicistica ben possono essere applicati anche per la liquidazione di danni consequenziali a fatti verificatisi anteriormente alla relativa entrata in vigore, giacché l’art. 2486 c.c., lungi dall’avere modificato la nozione di danno da indebita prosecuzione societaria, si è limitato a positivizzarne i criteri di liquidazione alla luce del previgente diritto vivente. Inoltre, fino alla liquidazione del danno, non possono considerarsi “esauriti” gli effetti della condotta illecita”.
[14] 
Cfr. R. Sacco, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova, in Riv. dir. dic., 1957, I, 408; v. anche G.A. Micheli, L’onere della prova, Padova, 1966, 199, per il quale la funzione delle presunzioni non è quella di orientare il giudice nella formazione del suo convincimento, ma quella “di dare la regolamentazione positiva ad un particolare rapporto o stato di fatto, disponendo gli elementi della fattispecie in modo differente da quella norma. Solo per questa via indiretta le presunzioni iuris influiscono sulla formazione del convincimento del giudice o possono considerarsi regole per evitare un non liquet”; G. Chiovenda, La natura processuale delle norme sulla prova e l’efficacia della legge processuale nel tempo, in Saggi di diritto processuale civile, I, Milano, 1993, 258, per il quale le presunzioni sono norme relative all’onere della prova ma non hanno natura processuale, perché sono determinate da ragioni prettamente sostanziali, stabilendo quali sono i fatti sufficienti a produrre un dato effetto giuridico a condizione che non siano affermati e provati fatti contrari; E.T. Liebman, Manuale di dir. processuale civile. I principi, Milano, 2021, 267, per il quale le norme che stabiliscono presunzioni, pur incidendo sull’onere della prova, sono norme sostanziali in quanto dirette non già ad avvicinare alla verità il convincimento del giudice, bensì a rendere più facile una predeterminata posizione giuridica.
[15] 
In questo senso, in materia tributaria, v. Cass., 22 gennaio 2020, n. 1298; Cass., 31 ottobre 2018, n. 27845; Cass., 2 febbraio 2018, n. 2662.
[16] 
Così A. Proto Pisani, Lezioni di dir. proc. civile, Napoli, 2012, 438; L.P. Comoglio, C. Ferri, M. Taruffo, Lezioni sul processo civile, I, Bologna, 2011, 482; R. Muroni, Sub art. 2728 c.c., in Commentario del codice civile. Della tutela dei diritti, a cura di G. Bonilini e A. Chizzini, Torino, 2016, 621.
[17] 
Rimarca il carattere frammentario del quadro della giurisprudenza che il legislatore del 2019 si è trovato davanti S. Ambrosini, Appunti sui doveri degli amministratori di s.p.a. e sulle azioni di responsabilità alla luce del codice della crisi e della “miniriforma” del 2021, in Ristrutturazioniaziendali.it, 2021, 14.
[18] 
Per un quadro riepilogativo dei quali sia consentito rinviare a F. Dimundo, Responsabilità̀ degli amministratori per violazione dell’art. 2486 c.c. e danno risarcibile, in Fall., 2019, 1290 ss.
[19] 
Cass., SS.UU., 6 maggio 2015, n. 9100, in Fall., 2015, 934.
[20] 
Così anche, condivisibilmente, C. Ibba, Codice della crisi e codice civile, in La società̀ a responsabilità̀ limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi. Studi in onore di O. Cagnasso, a cura di M. Irrera, Torino, 2020, 624. Nel medesimo ordine di idee N. Abriani, A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, 2019, 412, per i quali la norma in esame “non può affatto ridursi a una mera ricognizione della giurisprudenza esistente”; V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione, cit., 19, per il quale le regole introdotte dall’art. 378, comma 2, del Codice “sono decisamente distanti dai principi affermati dalle SS.UU. della Cassazione” con la decisione 9100/2015. In senso contrario v. invece, nella giurisprudenza, App. Firenze, 4 marzo 2024, n. 428/2024, in Banca Dati Pubblica, che ha reputato “certamente corretto affermare che i principi contenuti nel novellato art. 2486 c.c. sono meramente ricognitivi del diritto vivente che si era formato già in epoca antecedente alla riforma”.
[21] 
Cfr. sul punto S. Bastianon, Le azioni di responsabilità̀ contro gli amministratori al tempo del Codice della crisi e dell’insolvenza, in ilfallimentarista.it, 2019, il quale osserva che “la riforma sembra parzialmente discostarsi dai principi enunciati dalle Sezioni Unite nel 2015 nella misura in cui prevede che, in caso di mancanza o irregolarità nella tenute delle scritture contabili, il giudice possa liquidare il danno in misura pari al deficit fallimentare”, che “cessa di essere visto come semplice parametro che il giudice può utilizzare per la liquidazione del danno secondo criteri equitativi, trasformandosi in vero e proprio criterio di liquidazione che, come tale, dovrebbe esonerare il giudicante dall’onere di dover indicare le ragioni per le quali si è fatto ricorso alla liquidazione in via equitativa”.
[22] 
Così invece N. Abriani, A, Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa, cit., 412, C. Ibba, Codice della crisi, cit., 624, e G. Dongiacomo, Il giudizio di responsabilità nei confronti degli amministratori di società di capitali, Milano, 2024, 753; in giurisprudenza – ma con motivazione non condivisibile - v. Trib. Trento, 15 aprile 2022 (Energetyca s.r.l. c. B. e altri, inedita), il quale ha affermato che il terzo comma dell’art. 2486 c.c., “(non avendo natura meramente processuale) può trovare applicazione solo con riferimento alle condotte poste in essere dagli amministratori in epoca successiva alla sua entrata in vigore”, perché “la nuova legislazione ha operato anche una significativa modifica di alcuni articoli del Codice Civile, introducendo degli specifici obblighi (in capo all’imprenditore ed agli organi di controllo) in forza dei quali gli stessi sono tenuti a monitorare nel tempo la solvibilità della società e l’esistenza dei presupposti di continuità aziendale, salvo incorrere in responsabilità di carattere civile e penale”.
[23] 
Cfr. Cass., 3231/1987 (in materia di applicabilità, ai giudizi in corso, del novellato primo comma dell’art. 1784 c.c.), e Cass., 28990/2019 (in tema di risarcimento del danno alla salute conseguente ad attività sanitaria).
[24] 
In questi termini Trib. Brescia, 31 luglio 2019, n. 2355/2019, in Banca Dati Pubblica. Nella medesima direzione Trib. Firenze, 1° marzo 2021 (Fall. Zerotwonine s.p.a. c. M. e altri, inedita), il quale ha ribadito che la norma “non incide sugli elementi costitutivi del diritto e dell’obbligo, non modificando la nozione di danno né diversamente configurando l’obbligo risarcitorio, ma è appunto, solo un criterio di quantificazione del pregiudizio che, come tale, attiene agli effetti non ancora esauriti della condotta (in tal senso, ancorché con riferimento a differenti fattispecie, Cass. 3231/1987 e Cass. 28990/2019). D’altra parte, il criterio in esame era già stato elaborato in precedenza dalla giurisprudenza e non rappresenta, pertanto, una novità in materia di responsabilità di amministratori e sindaci”; App. Roma, 13 aprile 2021, cit., la quale, accanto alla natura processuale attribuibile alla norma in commento, ha considerato “assorbente al riguardo il rilievo che la nuova legge non ha innovato o regolato il fatto o l'atto generatore della responsabilità: resta infatti confermato dalla norma il contenuto dell'inadempimento degli amministratori che al verificarsi della causa di scioglimento non gestiscano esclusivamente a fini conservativi. La norma ha invero introdotto un comma diretto a disciplinare gli effetti non ancora esauriti del fatto come previsto ai commi precedenti (vale a dire l'ammontare del risarcimento del danno). Ne consegue che, come ritenuto dalla Suprema Corte già con sentenza n. 3231/1987, ‘la legge sopravvenuta deve essere comunque applicata quando il rapporto giuridico disciplinato, sebbene sorto anteriormente, non abbia ancora esaurito i suoi effetti e purché la norma innovatrice non sia diretta a regolare il fatto o l'atto generatore del rapporto ma gli effetti di esso’”; Trib. Cagliari, 7 dicembre 2021 (Fall. Coopan s.c.r.l. c. C. e altri, inedita), per il quale, anche attribuendo natura sostanziale alla norma, la stessa sarebbe comunque applicabile anche ai fatti precedenti e ai giudizi in corso, “poiché essa incide solamente sulla modalità di liquidazione di un danno, i cui presupposti giuridici non sono mutati. In altri termini, il danno è sempre lo stesso, ovvero quello subito dalla società in conseguenza della condotta illecita degli amministratori. Ciò che cambia è solo il metodo attraverso cui il giudice giunge a liquidarlo: metodo che prima scontava il problema delle differenti tesi e impostazioni giurisprudenziali ed oggi invece si deve confrontare con un criterio legale uniforme”; Trib. Brescia, 17 maggio 2022 (Fall. Super Emme s.r.l. c. M. e altri, inedita), per il quale si tratta di “disposizione che, attenendo ai criteri di quantificazione in sede processuale del danno risarcibile, trova applicazione anche a condotte poste in essere prima della sua entrata in vigore”; Trib. Firenze, 9 novembre 2022 (Fall. Tornabuoni s.r.l. c. C. e altri, inedita), Trib. Firenze, 28 febbraio 2023 (Fall. Alba s.r.l. c. P. e altri, inedita), Trib. Firenze, 29 maggio 2023, in giurisprudenzadelleimprese.it, e Trib. Firenze, 21 gennaio 2024, n. 218/2024, in Banca Dati Pubblica, i quali hanno affermato che la norma, lungi dall’aver modificato la nozione di danno da indebita prosecuzione societaria, si è limitato a positivizzarne i criteri di liquidazione alla luce del previgente diritto vivente; e che, in ogni caso, fino alla liquidazione del danno gli effetti della condotta illecita non possono considerarsi esauriti.
[25] 
Si tratta di App. Roma, 13 aprile 2021, cit.
[26] 
Così Cass., 28 febbraio 2024, n. 5252, in Dirittodellacrisi.it.
[27] 
Così Trib. Firenze, 10 febbraio 2023 (Fall. Menarini Engineering s.r.l. c. M., inedita). In senso conf., in dottrina, v. fra gli altri R. Rordorf, Doveri e responsabilità degli organi di società alla luce del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Riv. soc., 2019, 944; F. Lamanna, Il codice della crisi e dell’insolvenza dopo il secondo correttivo, Milano, 2022, 666; V. Di Cataldo, S. Rossi, Nuove regole generali per l’impresa, cit., 319; P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 167; E. Pederzini, Amministratori e responsabilità: profili della quantificazione del danno alla luce del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Nuove leggi civ. comm., 2022, 1311 e 1313; F. Rolfi, Responsabilità degli amministratori ed omissione nella tenuta della contabilità, in Fall., 2023, 64.
[28] 
Cfr. Trib. Napoli, 18 aprile 2023, cit., per il quale il criterio dei netti patrimoniali, “anche alla luce delle attuali previsioni di legge, non è un criterio equitativo di determinazione del danno applicabile in generale, per qualsiasi violazione degli obblighi a carico dell’organo gestorio e, dunque, per qualsiasi ipotesi di responsabilità”. In dottrina v. M. Fabiani, Sub art. 378, in Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Commentario a cura di F. Santangeli, Milano, 2023, 1643; V. Sanna, Scioglimento e liquidazione, in Trattato delle società, dir. da V. Donativi, III, Torino, 2022, 1490; E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1311; F. Rolfi, Responsabilità degli amministratori, cit., 64, il quale esclude l’applicabilità dei criteri di cui all’art. 2486 c.c. “ad ipotesi in cui siano ravvisate diverse – e magari più circoscritte – violazioni dei doveri di buona amministrazione”.
[29] 
Trib. Napoli, 12 luglio 2023 (Fall. Impredelf s.r.l. c. D., inedita).
[30] 
Trib. Ancona, 15 giugno 2023 (Fall. Agricola Vallesina s.r.l. c. G. e altri, inedita). Conf., in relazione ad analoga fattispecie (distrazione di somme dai conti correnti della società), Trib. Brescia, 3 aprile 2020 (Fall. Settimo Cielo s.r.l. c. M. e altri, inedita), che ha parimenti escluso la possibilità di liquidare il danno conseguente in misura pari al deficit fallimentare ai sensi dell’art. 2486, comma 3, c.c. 
[31] 
Trib. Firenze, 21 aprile 2023, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Ancona, 24 gennaio 2024, n. 143/2024, in Banca Dati Pubblica.
[32] 
Trib. Firenze, 27 marzo 2023, in giurisprudenzadelleimprese.it, il quale ha liquidato il danno specificamente derivante dall’operazione di fusione, assumendo di ritenere “sempre preferibile la liquidazione del danno attraverso il criterio analitico in luogo di quelli previsti dal comma 3 dell’art. 2486 c.c. che entrano in gioco solo ove, nel caso concreto, non vi siano elementi sufficienti per individuare con precisione il pregiudizio derivante da una specifica condotta di non corretta gestione della società”.
[33] 
Così Trib. Catania, 5 gennaio 2023 (Fall. Porte & Arredi s.r.l. c. M., inedita); conf. Trib. Roma, 31 gennaio 2024, n. 1794/2024, in Banca Dati Pubblica: “il criterio della differenza tra attivo e passivo accertati nell’ambito della procedura concorsuale, previsto dall’ultimo periodo della richiamata disposizione, possa essere utilizzato solo e pur sempre nell’ambito della sua collocazione e, dunque, solo e pur sempre nelle ipotesi previste dall’art. 2486 c.c. che, ai primi due commi, prevede, da un lato, l’obbligo degli amministratori, al verificarsi di una causa di scioglimento, di gestire la società ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale e, dall’altro, la responsabilità degli amministratori per i danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi, per la violazione di tale obbligo. In altre parole, il ricorso al criterio di quantificazione del danno nella misura della differenza tra attivo e passivo fallimentare potrà essere invocato dalla parte ed utilizzato dal giudice solo nelle ipotesi in cui, a fondamento dell’azione di responsabilità, sia posto l’addebito a carico degli amministratori di non essersi avveduti del verificarsi di una causa di scioglimento e di avere proseguito la gestione societaria in funzione imprenditoriale e non in funzione della mera conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale (e sempre che, ovviamente, proprio in ragione della non completezza delle scritture contabili non possa essere utilizzato il criterio della differenza tra netti patrimoniali)”; Trib. Venezia, 26 aprile 2023, in giurisprudenzadelleimprese.it, il quale ha affermato che in presenza di fatti eminentemente distrattivi del patrimonio sociale imputati all’organo gestorio (quali il soddisfacimento di debiti altrui senza giustificazione, i prelevamenti e pagamenti non giustificati, la sottrazione della cassa e di cespiti, la cessione di beni strumentali a prezzo incongruo per difetto, ovvero ancora l’assunzione di obbligazioni corrispettive incongrue per eccesso), “nessuna delle elencate condotte gestorie in sé è plausibile possa determinare un danno in termini di complessivo ed ampio dissesto economico e patrimoniale della società̀ tale da permettere di liquidare il danno ed il correlativo credito risarcitorio nella differenza tra attivo e passivo fallimentare, ovvero tale da determinare un danno che travalichi la mera ingiustificata sottrazione di patrimonio sociale connessa alla singola operazione illecita”; Trib. Napoli, 18 aprile 2023, cit., per il quale il criterio del deficit fallimentare ora previsto dall’art. 2486 c.c. “non è un criterio equitativo di determinazione del danno applicabile in generale, per qualsiasi violazione degli obblighi a carico dell’organo gestorio e, dunque, per qualsiasi ipotesi di responsabilità” (nella specie, l’addebito mosso all’organo gestorio era la mancata tenuta della contabilità sociale della fallita); Trib. Firenze, 10 febbraio 2023, cit., il quale ribadisce che il criterio del deficit fallimentare di cui al novellato art. 2486 c.c. “è applicabile non per qualunque ipotesi di responsabilità degli amministratori, ma solo se l’illecito a loro ascritto consiste nella prosecuzione dell’attività di impresa, nonostante il verificarsi di una causa di scioglimento della società”.
[34] 
Cfr. in giurisprudenza Trib. Venezia, 29 maggio 2023, in De Jure, che - a fronte di un addebito di mala gestio per “ritardato fallimento” - ha liquidato il danno, ai sensi del novellato art. 2486 c.c., secondo il criterio dello sbilancio fallimentare, mancando nel caso di specie attendibili elementi per determinare il differenziale del patrimonio netto; v. anche Trib. Firenze, 2 luglio 2020, cit., per il quale l’attuale art. 2486 c.c. appare idoneo a comprendere tutti i danni effettivamente provocati da una gestione illecita, siano essi prodotti dall’indebita protrazione dell’attività di impresa, da un ingiustificato aumento dei propri compensi o da un’improvvida domanda di concordato”; Trib. Palermo, 27 maggio 2020, in giurisprudenzadelleimprese.it, il quale ha reputato applicabile il criterio dei netti patrimoniali pure nel caso in cui la responsabilità si fondi sul ritardato fallimento, ed affermato che la differenza di valore tra i patrimoni netti deve essere quantificata ponendosi in una prospettiva liquidatoria, dunque considerando il valore potenzialmente realizzabile all’esito della fase di liquidazione ed escludendo la quota di costi fisiologicamente imputabile a tale fase. In dottrina v. F. Brizzi, Procedure di allerta e doveri degli organi di gestione e controllo: tra nuovo diritto della crisi e diritto societario, in Orizzonti del dir. comm., 2019, fasc. 2, 380, a giudizio del quale il criterio dei netti può trovare spazio per liquidare il danno “laddove la situazione, anche a prescindere dal verificarsi di una causa di scioglimento, sia talmente grave da essere sfociata nell’insolvenza irreversibile (almeno stragiudizialmente), e l’amministratore ometta di accedere ad una procedura concorsuale”.
[35] 
V. in questa direzione D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 324; F. Rolfi, Responsabilità degli amministratori, cit., 64, per il quale il criterio dei netti patrimoniali potrebbe trovare applicazione “anche al di fuori dell’ipotesi cui viene espressamente riferito, e possa anzi ambire a proporsi come criterio generale di base per la quantificazione del danno subito dalla società ogni volta che il dissesto finale sia riconducibile alla mancata sollecita attivazione a fronte del palesarsi della crisi”.
[36] 
V. al riguardo M. Fabiani, Sub art. 378, cit., 1644, secondo il quale il precetto normativo “non offre alcun criterio di calcolo del danno per tutte quelle ipotesi nelle quali venga lamentato dagli organi delle procedure concorsuali il compimento di condotte degli amministratori che abbiano violato i parametri di diligenza coerenti con la necessità di reagire ad una situazione di crisi”; in giurisprudenza cfr. Trib. Roma, 5 maggio 2023, in giurisprudenzadelleimprese.it, che in relazione ad analoga fattispecie (presentazione di una domanda di omologa di un accordo di ristrutturazione rivelatosi ex ante non fattibile, con conseguente colpevole ritardo della dichiarazione di fallimento) ha affermato che “al fine della determinazione del danno imputabile ad amministratori e sindaci e attestatore del piano, non può essere adottato il criterio della differenza dei netti patrimoniali, dovendo esso essere determinato sulla base del maggior indebitamento che si sarebbe evitato se il fallimento fosse stato dichiarato tempestivamente”.
[37] 
Trib. Venezia, 11 dicembre 2015, in unijuris.it, e Trib. Roma, 28 dicembre 2017, in Dir. fall., 2018, II, 734.
[38] 
Trib. Roma, 28 dicembre 2017, cit.; Trib. Milano, 14 giugno 2022, in giurisprudenzadelleimprese.it, il quale ha liquidato il danno per omessa richiesta di fallimento in proprio in misura pari all’indebitamento per gli interessi ulteriormente maturati sui debiti già esistenti, il cui corso è interrotto solo dal fallimento, e per i debiti insorti successivamente; Trib. Milano, 10 settembre 2013, ibidem, il quale ha commisurato il danno in misura pari agli interessi passivi (corrispettivi e di mora, ed al netto degli interessi legali) maturati a carico della fallita (in relazione ad un finanziamento bancario da questa contratto) in conseguenza del ritardo in cui era intervenuta la dichiarazione di fallimento, nonché agli interessi sul valore di atteso realizzo dell’attivo fallimentare (costituito nella specie da un immobile).
[39] 
Cfr. Trib. Milano, 22 febbraio 2019, in Ilcaso.it, e Trib. Milano, 12 ottobre 2023, in Dirittodellacrisi.it. In dottrina v. da ultimo, in senso conf., V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione, cit., 18-19, ed E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1311. Di diverso avviso F. Brizzi, Procedure di allerta, cit., 380, per il quale il criterio dei netti entrerebbe in gioco “qualora il capitale sociale si sia ridotto al di sotto del minimo legale, ovvero sia persa la continuità̀ aziendale, quale causa di scioglimento per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale”.
[40] 
V. in questa direzione A. Bassi, Differenza tra attivo e passivo e quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità̀ nei confronti degli amministratori, in Giur. comm., 2015, II, 658, e G. Cian, ibidem, 659.
[41] 
Sul quale sia consentito rinviare a F. Dimundo, Le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali, Padova, 2019, 466 ss.
[42] 
Trib. Roma, 25 gennaio 2023, in giurisprudenzadelleimprese.it.
[43] 
Cfr. Trib. Napoli, 20 ottobre 2022 (Fall. IPA s.r.l. c. P. e altro, inedita). V. anche Trib. Napoli, 21 giugno 2023, in giurisprudenzadelleimprese.it, che ha liquidato il danno in misura pari allo sbilancio fallimentare in un caso in cui l’omessa tenuta delle scritture contabili da parte dell’amministratore unico della fallita, unitamente all’omesso deposito dei bilanci d’esercizio nel quadriennio antecedente al fallimento, e alla distrazione/sottrazione/sparizione delle uniche voci dell’attivo formalmente rinvenute dal curatore, non soltanto aveva impedito la ricostruzione analitica dell’attività di impresa, ma aveva causato l’intero deficit fallimentare.
[44] 
Cfr. V. Di Cataldo, S. Rossi, Nuove regole generali per l’impresa, op. loc. citt., che discorrono di “regola transtipica”.
[45] 
Trib. Milano, 25 marzo 2014, in giurisprudenzadelleimprese.it.
[46] 
R. Rordorf, Doveri e responsabilità, cit., 946; M. Fabiani, Sub art. 378, cit., 1645-1646; P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 169; D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 322. In giurisprudenza v. Trib. Milano, 12 aprile 2022, cit., che ha condannato i sindaci, in solido con gli amministratori della fallita, a risarcire il danno quantificato sulla scorta del criterio dei netti di cui al novellato art. 2486 c.c.
[47] 
Trib. Roma, 8 maggio 2013, in Società, 2014, 431.
[48] 
Per una fattispecie concreta v. Trib. Milano, 4 agosto 2023 (Fall. Olmetto s.p.a. c. S. e altri, inedita), relativo ad un caso in cui la società di revisione convenuta aveva espresso parere positivo sul bilancio relativo all’esercizio nel corso del quale la società aveva perso il proprio capitale, pur avendo precisamente individuato una serie di voci bilancistiche che avrebbero richiesto una particolare attenzione.
[49] 
Cfr. in giurisprudenza Trib. Palermo, 7 dicembre 2022 (Fall. Ingross s.r.l. c. B. e altri, inedita), che ha condannato la banca convenuta, riconosciuta colpevole di abusiva concessione di credito, quale corresponsabile con gli amministratori e i sindaci nell’aggravamento del dissesto della società poi fallita, ed ha quantificato il danno da ascrivere all’istituto in misura corrispondente alla quota di perdita incrementale addebitabile, sotto il profilo eziologico, all’abusiva concessione del credito.
[50] 
In questo senso v. invece D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 322 ss.
[51] 
P. G. Monateri, D. Gianti, Nesso di causalità (dir. civile), in Enc. giur. Treccani on line, 2016.
[52] 
Cfr. Cass., 17 gennaio 2019, n. 1070, e Cass., ss.uu. 15 luglio 2009, n. 16503.
[53] 
Trib. Venezia, 13 ottobre 2023, cit.; conf. Trib. Milano, 17 ottobre 2023, in giurisprudenzadelleimprese.it, per il quale “la violazione del divieto di compiere nuove operazioni non meramente conservative, oltre a dar luogo a responsabilità̀ diretta degli amministratori ex art. 2486 c.c., può integrare il presupposto tanto dell'azione sociale di responsabilità̀ (per violazione dei doveri imposti dalla legge) quanto dell'azione di responsabilità̀ dei creditori sociali (per inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità̀ del patrimonio sociale)”; conf. in dottrina D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 304-305, il quale osserva che il criterio introdotto dall’art. 2486 c.c. pare fare espresso riferimento al tipico danno subito dalla massa dei creditori, che però si atteggia anche quale danno al patrimonio sociale; P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 169-170, il quale osserva che, stante il riferimento della norma all’apertura di una procedura concorsuale, il legislatore ha verosimilmente pensato alle azioni, spettanti alla società ed alla massa dei creditori, cui sono legittimati i relativi organi. Secondo M. Rossi, Prime note sulla quantificazione del danno per violazione dell'art. 2486, comma 1º, cod. civ., in Nuova giur. civ. comm., 2019, 1145, il criterio di determinazione del danno di cui al novellato 2486 c.c. riguarderebbe invece soltanto i danni sopportati direttamente dal patrimonio sociale, e solo indirettamente il danno cagionato i soci, ai creditori e ai terzi.
[54] 
Così C. Giampaolino, Il “danno” ex art. 2486 c.c. (con alcune considerazioni in tema di concordato preventivo e discrezionalità amministrativa), in La società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi. Studi in onore di O. Cagnasso, a cura di M. Irrera, Torino, 2020, 849 ss.; adesivamente G. Dongiacomo, Il giudizio di responsabilità, cit., 744-745.
[55] 
In senso contrario v. però E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1306, per la quale il criterio dei netti troverebbe spazio in presenza della concreta possibilità di ricostruire le vicende della gestione “in base ad una contabilità correttamente ed esaustivamente tenuta, sul piano tanto della regolarità estrinseca o formale quanto della regolarità intrinseca o sostanziale”.
[56] 
Espressamente in questo senso, in giurisprudenza, Trib. Milano, 17 aprile 2023 n. 3059, in Banca Dati Pubblica; Trib. Firenze, 1° marzo 2021, cit.; Trib. Ancona, 1° giugno 2021, cit., secondo il quale anche in presenza di contabilità incompleta ma attendibile, e di fittizietà di talune voci, è possibile liquidare il danno secondo il criterio della differenza dei patrimoni netti qualora tale incompletezza non abbia impedito la ricostruzione del patrimonio; Trib. Bologna, 23 dicembre 2022 (Fall. Litofotografia Marchi & Marchi s.r.l. c. M., inedita), il quale ha affermato che il terzo comma dell’art. 2486 c.c. “indica il criterio della differenza tra i patrimoni netti ‘depurata’ come ordinario criterio di determinazione del danno (determinazione presuntiva, salva la prova di un diverso ammontare) e non ne condiziona l’applicazione alla mancanza o all’irregolarità delle scritture contabili; al contrario, la norma prevede che, proprio quando le scritture contabili manchino o siano irregolari e i netti patrimoniali non siano determinabili, allora si proceda con il diverso criterio della differenza tra attivo e passivo, così rovesciando la prospettiva tradizionale e configurando l’irregolarità della situazione contabile non come presupposto dell’applicazione del criterio dei netti patrimoniali ma come condizione ostativa alla sua applicazione”. Conf. in dottrina L. Pecorella, Sub art. 378, in Commentario breve alle leggi su crisi d’impresa e insolvenza, a cura di A. Maffei Alberti, Padova, 2023, 2621; G. Facci, La quantificazione del danno, cit., 522; L. Renna, Responsabilità degli amministratori di società di capitali, Bologna, 2021, 315.
[57] 
Così, esattamente, C. Ibba, Codice della crisi, cit., 622; V. Sanna, Scioglimento e liquidazione, cit., 1489.
[58] 
Cfr. in questo senso A. Bartalena, Le azioni di responsabilità nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fall., 2019, 303; P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 168.
[59] 
Così App. Milano, 30 giugno 2020, n. 1605/2020, in Banca Dati Pubblica; conf. Trib. Palermo, 30 maggio 2022, n. 2345/2022, ivi, secondo il quale la prosecuzione dell’attività commerciale, in presenza di una perdita che ha ridotto il capitale sociale di oltre un terzo, “non può essere giustificata dagli obblighi in precedenza assunti nei confronti dei terzi, neppure quando si confida che l’attività commerciale possa avere una ripresa”; Trib. Napoli, 29 marzo 2022, n. 3149/2022, ivi, il quale pure considera la continuazione della gestione caratteristica quale violazione in sé dell’obbligo di “gestione conservativa e liquidatoria”; Trib. Firenze, 21 dicembre 2021, n. 3300, ivi, per il quale “la prosecuzione dell’attività di impresa è atto illecito, perché contrastante con l’espressa disposizione normativa contraria (art. 2485 c.c.)”, e non può essere considerata né insindacabile (“poiché la ragione della insindacabilità risiede nel rischio insito nell’attività imprenditoriale; ma, se il patrimonio è interamente superato dai debiti, ciò che si mette a rischio non è più il capitale proprio, bensì quello altrui – cioè quello dei creditori – e tale scelta non può essere considerata ragionevole”), né giustificabile dal fatto che lo scioglimento della società significa perdere la clientela e l’accreditamento presso gli enti pubblici [perché “la perdita della clientela e dei propri valori attivi (…) è esattamente ciò che accade alle società messe in liquidazione, ed è ciò che la legge impone quando il capitale sia andato perduto, perché non può ammettersi che tali società conservino le loro posizioni di vantaggio riversandone tutti i rischi sui terzi”].
[60] 
In questi termini App. Perugia, 1° agosto 2023, n. 532/2023, in Banca Dati Pubblica; nella medesima direzione Trib. Firenze, 6 giugno 2019, n. 1796/2019, ibidem, per il quale “gli amministratori rispondono dei danni provocati dalla commissione o dall’omissione di atti gestori che non rispondano all’esigenza di salvaguardare l’integrità ed il valore del patrimonio sociale, ma che siano espressione del perseguimento dell’attività tipica svolta dalla società con la conseguente assunzione di un nuovo rischio di impresa”.
[61] 
Cfr. App. Trento, 7 luglio 2023, in Dirittodellacrisi.it; Trib. Velletri, 21 luglio 2023, n. 1513/2023, in Banca Dati Pubblica, per il quale “la mera prosecuzione dell’attività imprenditoriale in un contesto in cui risulti necessario operare secondo la modalità della liquidazione non appare, di contro, idonea, di per sé sola, a fondare una richiesta risarcitoria, in difetto di una congrua allegazione e dimostrazione di quale sia stato il contegno tenuto dall’amministratore e che lo stesso si sia posto in rapporto di causalità con il danno di cui si pretenda il risarcimento”; App. Lecce, 12 settembre 2022 (S. e altri c. Fall. Taranto Calcio s.r.l., inedita), per la quale “il mantenimento in vita della società anche in caso di perdita del capitale sociale o comunque per riduzione del capitale sociale al di sotto del limite di legge (…) non costituisce di per sé elemento sufficiente a configurare delle perdite e a quantificare le perdite, in mancanza dell’allegazione e della prova (…) delle attività degli amministratori che sono andate al di là dei limiti di cui all’art. 2486 c.c., delle conseguenze dannose derivate da tali attività e dal mero mantenimento ‘in vita’ della società”; Trib. Ancona, 16 gennaio 2017, n. 64/2017, in Banca Dati Pubblica, il quale afferma che “secondo l’indirizzo interpretativo più autorevole in dottrina - al quale questo Collegio ritiene di aderire - l’art. 2486 c.c., nel periodo di tempo che intercorre tra il verificarsi della causa di scioglimento e l’inizio della liquidazione, consente all’amministratore anche la continuazione dell’attività societaria”; Trib. Pistoia, 19 gennaio 2016, n. 50/2016, inedita, per il quale “la responsabilità dell'amministratore non può sorgere ex sé per il fatto della prosecuzione dell'attività di impresa, poiché ciò è espressamente consentito dall'art. 2486 c.c.”. In dottrina v. per tutti G. Niccolini, Sub art. 2486 c.c., in Società di capitali, Commentario a cura di G. Niccolini ed A. Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, 1735.
[62] 
Cfr. Trib. Milano, 27 maggio 2019, n. 5015, in Banca Dati Pubblica, il quale osserva che “lo stato di scioglimento non impone di ‘arrestare le macchine’ istantaneamente, ma di non porre in essere atti di impresa se non al fine di meglio liquidare il patrimonio residuo, e quindi con finalità ultimamente ‘conservativa’”; in dottrina v. da ultimo, in senso conf., V. Sanna, Scioglimento e liquidazione, cit., 1484.
[63] 
Secondo M. Aiello, La responsabilità degli amministratori e dei soci delle s.r.l., Bologna, 2013, 189, l’art. 2486 c.c. non impone agli amministratori l’automatico arresto dell’attività imprenditoriale, quanto piuttosto di soppesare secondo diligenza i costi ed i benefici di ciascuna opzione. In giurisprudenza Trib. Roma, 17 giugno 2019, in giurisprudenzadelleimprese.it: “la valutazione della legittimità dell'operato degli amministratori non può prescindere da un'analisi concreta della situazione sociale, non potendosi a priori stabilire quale condotta l'organo amministrativo dovrebbe tenere al fine di non violare il precetto normativo in parola; e così, potranno esservi casi in cui, per le circostanze concrete, gli amministratori dovranno continuare l'attività sociale tanto da contrarre anche nuove obbligazioni e/o intraprendere azioni, anche giudiziali e, al contrario, situazioni in cui l'interruzione immediata dell'attività sociale risulta la scelta più idonea per scongiurare la perdita ulteriore del patrimonio sociale”.
[64] 
Cfr. in questo senso A. Rossi, Sub art. 2486 c.c., in Il nuovo dir. delle società, a cura di A. Maffei Alberti, III, Padova, 2005, 2186; G.M. Zamperetti, La prova del danno da gestione conservativa nella società disciolta per perdita del capitale, in Fall., 2009, 572; F. Brizzi, Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Torino, 2015, 278-279; G. Giannelli, A. Dell’Osso, Sub art. 2486 c.c., in Commentario del cod. civ., dir. da E. Gabrielli, Delle società, dell’azienda, della concorrenza, a cura di D. Santosuosso, Torino, 2015, 972-973; V. Sanna, Scioglimento e liquidazione, cit., 1485. In giurisprudenza si pongono in questa prospettiva, ad esempio, Trib. Taranto, 13 maggio 2016, n. 1567/2016, in Banca Dati Pubblica, che, in presenza di un “risalente ed ormai cronico indebitamento” e della palese ed accertata impossibilità di ripristinare la situazione di equilibrio e di assicurare la regolare attuazione del rapporto sociale”, ha imputato agli amministratori di aver “continuato ad operare secondo criteri del tutto incompatibili con l’esigenza di risanamento, laddove invece era inevitabile prevedere che la perpetuazione dell’attività di commercio, cui era imputabile il pesante passivo accumulato, non avrebbe potuto che comportare l’ulteriore aumento delle perdite”; e Trib. Torino, 4 luglio 2018, in giurisprudenzadelleimprese.it, ibidem, che ha parimenti ritenuto responsabili gli amministratori convenuti in una fattispecie in cui, dopo la perdita del capitale sociale, “non erano ravvisabili prospettive di risanamento tali da rendere possibile una prosecuzione dell’attività d’impresa”, e vi era consapevolezza “dell’impossibilità di risanare la società e del fatto che fossero quasi certe le prospettive peggiorative”; Trib. Cagliari, 7 dicembre 2021, cit., che ha imputato agli amministratori la prosecuzione dell’attività d’impresa senza soluzione di continuità, “continuando a produrre i beni (prodotti da forno), così mantenendo inalterata quella macchina produttiva che aveva già bruciato integralmente il capitale sociale”; Trib. Perugia, 11 marzo 2024, n. 407/2024, in Banca Dati Pubblica, nella cui motivazione si legge: “l’argomento speso dalla difesa del convenuto relativamente al perseguimento di una prospettiva di continuità aziendale nonostante l’attività registrasse continue perdite, naufraga contro il rilievo puntuale del consulente, il quale ha ravvisato nell’atteggiamento dell’amministratore una ostinata pervicacia nel proseguire l’attività d’impresa, nonostante che questa avesse ‘bruciato ricchezza’ fin dal momento della sua costituzione e risultasse conseguentemente intaccata la garanzia patrimoniale verso i creditori ed i terzi”.
[65] 
G. Niccolini, Sub art. 2486 c.c., cit., 1736; in giurisprudenza v. Trib. Firenze, 29 maggio 2023, cit., per il quale l’impossibilità pratica di una ripresa di attività potenzialmente produttiva di utili è situazione che rende “autoevidente e immediatamente percepibile la ricorrenza dei presupposti fattuali per l’obbligo di astensione dalla prosecuzione di attività non meramente liquidatorie”.
[66] 
Così invece, da ultimo, Trib. Catanzaro, 22 gennaio 2024, in Ilcaso.it; Trib. Roma, 27 dicembre 2023, n. 18969/2023, in Banca Dati Pubblica; Trib. Bologna, 10 luglio 2023, n. 1401/2023, ibidem; Trib. Bologna, 7 ottobre 2022 (Fall. FMC Distribuzioni s.p.a. c. B. e altri, inedita); Trib. Napoli, 8 marzo 2021, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 1° giugno 2020 (Fall. MAG AP s.r.l. c. P. e altri, inedita), che richiama Cass., 25977/2008, secondo la quale “l'onere della prova della novità delle operazioni intraprese dall'amministratore successivamente al verificarsi dello scioglimento della società per perdita del capitale sociale, compete all'attore e non all'amministratore convenuto”.
[67] 
V. in questo senso Cass., 25 luglio 2023, n. 22355; Cass., 27 aprile 2023, n. 11041; Cass., 5 gennaio 2022, n. 198; Cass., 5 febbraio 2015, n. 2156. In termini, fra i giudici di merito, App. Firenze, 4 marzo 2024, cit.; App. Firenze, 1° febbraio 2024, n. 222/2024, in Banca Dati Pubblica; Trib. Ancona, 24 gennaio 2024, cit.; Trib. Cagliari, 12 ottobre 2023, n. 2373/2023, in Banca Dati Pubblica; App. Perugia, 1° agosto 2023, cit.; App. Milano, 20 marzo 2023, n. 934/2023, in Banca Dati Pubblica, per la quale “nel caso di violazione del divieto di cui agli art. 2485 c. 1 e 2486 c. 2 c.c., qualunque operazione compiuta dagli amministratori, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, non finalizzata alla conservazione del patrimonio sociale, è illecita. Pertanto, atteso che, secondo ciò che accade normalmente, le perdite, che si aggiungono a quelle già sussistenti nel momento in cui è sorto il divieto di compiere nuove operazioni, sono causate proprio dalle nuove operazioni vietate, i Fallimenti non avevano alcun onere di allegare e provare quali siano state le specifiche nuove operazioni produttive dell’incremento delle perdite, essendo semmai onere degli amministratori, non fosse altro che per il principio di vicinanza della prova, almeno indicare quali tra le perdite aggiuntive non siano state causate dalle operazioni nuove dagli stessi illecitamente compiute”; App. Catania, 23 ottobre 2023, n. 1807/2023, ibidem; Trib. Perugia, 28 luglio 2023, n. 1205/2023, ibidem; Trib. Napoli, 26 luglio 2023, cit.; Trib. Catanzaro, 23 febbraio 2023, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Napoli, 14 dicembre 2022, in Ilcaso.it; Trib. Roma, 17 aprile 2019, n. 8497/2019, in Banca Dati Pubblica; Trib. Roma, 30 aprile 2018, n. 8580/2018, ibidem.
[68] 
Per queste ipotesi v. fra le tante Trib. Milano, 7 ottobre 2015, in Danno e resp., 2016, 870 (che ha valorizzato in tal senso la circostanza che nei bilanci della fallita fossero rimasti costanti sia l’ammontare dei ricavi da vendite, sia i costi di produzione per materie prime, sia l’aumento dei costi del personale); Trib. Milano, 4 aprile 2013, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 3 febbraio 2010, in Giur. it., 2010, 2352. In dottrina v. A. Mambriani, La prova del danno nelle azioni di responsabilità esercitate dal curatore ex art. 146 L. fall., 2012, 5, secondo il quale sul piano della condotta illecita è sufficiente riferirsi all’assenza di elementi di discontinuità rispetto ai caratteri che connotavano l’attività aziendale prima della perdita del capitale, come desumibile dalla circostanza che i costi per acquisti di materie prime o per il personale dipendente sono rimasti a lungo invariati, che i macchinari hanno mantenuto nel tempo gli stessi indici di utilizzo, che non vi sono state dismissioni di strumenti produttivi, che il consumo di energia è rimasto costante, ecc.
[69] 
Cfr. Trib. Milano, 13 marzo 2020, in Ilcaso.it; Trib. Crotone, 3 febbraio 2020, n. 119/2020, in Banca Dati Pubblica; Trib. Milano, 31 luglio 2019 (Fall. People@work s.r.l. c. R. e altro, inedita), il quale ha desunto la prosecuzione dell’attività d’impresa dalla circostanza che la situazione patrimoniale della società attestava che i costi per il personale e gli altri costi di produzione erano rimasti sostanzialmente invariati, mentre i ricavi erano drasticamente diminuiti; Trib. Venezia, 8 maggio 2019, in osservatoriodirittoimpresa.it; Trib. Milano, 7 ottobre 2015, cit., che ha valorizzato in tal senso la circostanza che nei bilanci della fallita fossero rimasti costanti sia l’ammontare dei ricavi da vendite, sia i costi di produzione per materie prime, sia l’aumento dei costi del personale; Trib. Milano, 4 aprile 2013, cit.
[70] 
V. Trib. Milano, 17 aprile 2023, cit., il quale ha valorizzato la circostanza che dalle domande di insinuazione depositate emergeva che la società aveva continuato la normale attività d’impresa concludendo contratti di finanziamento e di fornitura; Trib. Milano, 25 gennaio 2016, in giurisprudenzadelleimprese.it, e Trib. Milano, 2 agosto 2016, in Società, 2017, 19, che hanno tratto la prova della prosecuzione dell’attività caratteristica dopo la perdita del capitale sociale dalle evidenze delle istanze di ammissione al passivo acquisite agli atti del giudizio, dalle quali risultavano crediti verso la fallita maturati in epoca successiva alla denunciata perdita del capitale sociale; Trib. Catania, 27 novembre 2018 (Fall. New Pel s.r.l. c. A., inedita), che ha ritenuto provata la prosecuzione illegittima dell’attività dalle risultanze dello stato passivo della fallita, dal quale risultavano l’acquisto di merce e l’ottenimento di finanziamenti. Assumono valenza probatoria anche gli estratti di ruolo di Equitalia, relativi ad omessi pagamenti di oneri fiscali presupponenti l’esercizio dell’attività d’impresa: così Trib. Milano, 5 luglio 2017, in giurisprudenzadelleimprese.it.
[71] 
Trib. Milano, 20 febbraio 2018, in giurisprudenzadelleimprese.it, per il quale tali circostanze “presuppongono l’esercizio dell’attività di cui all’oggetto sociale”.
[72] 
Cfr. Trib. Firenze, 5 ottobre 2021 (Fall. Eltek Fibre Ottiche s.r.l. c. M. e altro, inedita): “non può negarsi che se i criteri oggi formalizzati dall’art. 2486 c.c. attengano alla prova del danno, nondimeno l’incremento del deficit patrimoniale (…) costituisce indice attendibile della continuazione dell’attività tipica in modalità non conservativa, con nuova assunzione di rischio imprenditoriale, idonea ad incorrere nella responsabilità ex art. 2485 c.c.”. In precedenza, fra le altre, Trib. Milano, 15 luglio 2014, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Nola, 20 ottobre 2016 (Fall. Pashá DI.OR. s.p.a. c. C. e altri, inedita), per il quale “l’accertamento di un delta negativo tra le due situazioni patrimoniali di riferimento assolve (…) ad una duplice funzione: dimostrare l’effetto lesivo per l’integrità patrimoniale della prosecuzione dell’attività d’impresa e quantificare il danno conseguente. La maggior perdita registrata rispetto al momento in cui la società avrebbe dovuto cessare di operare con la gestione caratteristica può essere considerata quale indice della condotta antigiuridica posta in essere in violazione dell’art. 2447 c.c.”; in termini Trib. Mantova, 1° marzo 2016 (Fall. Madama Cri s.r.l. c. C. e altri, inedita); Trib. Torino, 6 aprile 2017, in giurisprudenzadelleimprese.it, per il quale “la prosecuzione dell’attività sociale di impresa emerge con evidenza dal confronto tra il bilancio relativo al momento in cui si è verificata la causa di scioglimento e il bilancio relativo al momento della messa in liquidazione o del fallimento ed è implicita una volta che si è accertato che la perdita si è incrementata”.
[73] 
Cfr. in tal senso Trib. Pistoia, 19 gennaio 2016, cit., e – più di recente - Trib. Catanzaro, 23 febbraio 2023, cit.; App. Trento, 7 luglio 2023, cit., il quale osserva che la perdita di efficienza dei fattori produttivi rappresenta “dato comune di ogni impresa nella prospettiva della liquidazione, soprattutto in considerazione dell’inevitabile calo dei ricavi rimanendo intatta la struttura dei costi”. In dottrina v. fra gli altri V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione, cit., 20, per il quale prova che la prosecuzione dell’attività d’impresa abbia prodotto perdite non è semplicemente desumibile dal differenziale negativo dei patrimoni netti.
[74] 
In questi termini Cass., 8 marzo 2023, n. 6893, in Società, 2023, 947; nel medesimo ordine di idee Cass., 5 gennaio 2022, n. 198, ivi, 2022, 541, nella cui motivazione si legge che la nozione di “nuove operazioni” sarebbe “speculare a quella di atto finalizzato alla conservazione del valore e del patrimonio della società” di cui all’art. 2486 c.c. Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Milano, 6 marzo 2013, in Banca, borsa, tit. cred., 2015, II, 622, per il quale “la portata dell'obbligo di conservazione del patrimonio sociale previsto dal novellato art. 2486 c.c. non diverge rispetto al previgente divieto di compiere nuove operazioni di cui all'art. 2449 c.c.”; App. Torino, 26 maggio 2013 (Carrozzeria Bertone s.p.a. in a.s. c. B. e altri, inedita).
[75] 
In tal senso, in consapevole dissenso rispetto a Cass. 6893/2023, App. Trento, 7 luglio 2023, cit.; in precedenza v. Trib. Pistoia, 19 gennaio 2016, cit., secondo il quale con l’art. 2486 c.c. il legislatore della riforma del 2003 ha superato il divieto di “nuove operazioni”, previsto dall'art. 2449 c.c. Conf. in dottrina M. Aiello, La responsabilità degli amministratori, cit., 186. 
[76] 
Così P. Balzarini, Sub art. 2486 c.c., in Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, a cura di L. A. Bianchi e G. Strampelli, in Commentario alla riforma delle società, dir. da P. Marchetti, L. A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, 2016, 56.
[77] 
In questo senso A. Rossi, Sub art. 2486 c.c., cit., 2187-2188.
[78] 
Cfr. ad es. Trib. Firenze, 29 maggio 2023, cit.: “devono essere qualificate come nuove operazioni vietate tutti quei rapporti giuridici che, svincolati dalle necessità inerenti alle liquidazioni delle attività sociali in quanto () il patrimonio sociale diviene finalizzato alla garanzia dei creditori, siano costituiti dagli amministratori per il conseguimento di un utile sociale e per finalità diverse da quelle di mera liquidazione della società”; Trib. Roma, 19 novembre 2014, in Ilcaso.it, per il quale gli amministratori non possono continuare ad impegnare la società in nuove attività, preordinate in modo autonomo al conseguimento di utile sociale; conf. in dottrina M. Martino, La responsabilità degli amministratori, in Crisi d'impresa e responsabilità degli organi sociali nelle società di capitali, a cura di L. Balestra e M. Martino, Milano, 2022, 167 ss. Ma in senso contrario v. F. Brizzi, Doveri degli amministratori, cit., 279, il quale ritiene legittima una gestione che si prefigga anche l’aumento di valore del complesso produttivo, in quanto strumentale all’obiettivo di scontare il massimo realizzo nella fase di liquidazione; G. Giannelli, A. Dell’Osso, Sub art. 2486 c.c., cit., 973, per i quali gli amministratori sarebbero abilitati a intraprendere tutte le operazioni, anche se implicanti un nuovo rischio d’impresa, finalizzate alla conservazione dei valori esistenti.
[79] 
App. Milano, 10 giugno 2019, n. 2533/2019, in Banca Dati Pubblica.
[80] 
Trib. Venezia, 22 novembre 2016, n. 3153/2016, in Banca Dati Pubblica.
[81] 
Cfr. App. Perugia, 1° agosto 2023, cit., per il quale “l’amministratore attenersi ad una gestione conservativa finalizzata esclusivamente a contenere le perdite e quindi a salvaguardare gli interessi dei creditori e dei soci”, e “rispetto a tale finalità ciò che è vietato all’amministratore è quindi il compimento di nuove operazioni comportanti assunzione di nuovi rischi sicché, in assenza di queste, non è possibile addebitare all’amministratore le eventuali ulteriori perdite verificatesi dopo la discesa del capitale al di sotto del minimo, ulteriori perdite che ben possono derivare, anzi spesso derivano, da altri fattori quali ad esempio i mancati pagamenti da parte di clienti, un andamento negativo del mercato, etc.”; Trib. Milano, 6 marzo 2013, cit., per il quale l'organo amministrativo non può, al verificarsi di una causa di scioglimento della società, compiere attività dirette alla realizzazione di un'utile che espongono la società al normale rischio d'impresa, dovendo salvaguardare il patrimonio sociale al fine di rendere maggiormente proficua la fase di liquidazione.
[82] 
G.M. Zamperetti, La prova del danno, cit., 573. In giurisprudenza v. Trib. Sassari, 12 novembre 2013 (S. e altri c. S. e altri, inedita) che ha reputato conservativa la gestione aziendale “limitata alla locazione dei due immobili sociali e alla rilevazione delle voci di costo relative ad ammortamenti, oneri finanziari e spese amministrative, e quindi “con temporanea attribuzione in godimento dei beni che poi sarebbero stati oggetto di divisione una volta soddisfatti i debiti sociali”.
[83] 
Per questa fattispecie v. App. Milano, 14 marzo 2022 (Fall. Magazzini Piacentini s.r.l. c. B., inedita), secondo la quale “l’atto di acquisto di nuova merce () non può essere configurato quale assunzione di un nuovo rischio imprenditoriale, bensì, all’opposto, quale prosecuzione dell’attività al solo fine di facilitarne la liquidazione: sono infatti precluse agli amministratori tutte quelle attività non finalizzate alla liquidazione della società, mentre non devono considerarsi nuove le attività dirette a preparare, attuare o rendere più proficua la liquidazione”.
[84] 
In relazione a tale fattispecie Trib. Catania, 13 luglio 2022, cit. (B. c. P. e altri, inedita), per il quale “esula dalla gestione conservativa quella che si traduce nell’assunzione di nuovo rischio di impresa, mentre vi rientra quella consistente nel mero completamento di una determinata operazione la cui brusca interruzione sarebbe invece essa stessa produttiva di danno, atteso che non consentirebbe alla società di conseguire le utilità economiche che dal completamento dell’operazione potrebbero trarsi”.
[85] 
M. Aiello, La responsabilità degli amministratori, cit., 191.
[86] 
R. Rordorf, La responsabilità degli amministratori di s.p.a. per operazioni successive alla perdita del capitale, in Società, 2009, 282.
[87] 
App. Milano, 30 giugno 2020, cit. In dottrina v. F. Lamanna, Il codice della crisi, cit., 667, e S. Ambrosini, Appunti sui doveri degli amministratori, cit., 16-17, il quale osserva che la quantificazione del danno all’atto pratico si è rivelata, troppo spesso, in passato, ai confini con la probatio diabolica (specie rispetto all’esatta determinazione del pregiudizio strettamente derivato da ogni singola operazione gestoria). 
[88] 
N. Abriani, A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa, cit., 409, i quali giustamente precisano che la semplificazione è però più apparente che reale, permanendo la consueta necessità di richiedere una consulenza tecnica d’ufficio; F. Brizzi, Procedure di allerta, cit., 377.
[89] 
N. Rondinone, Illecita prosecuzione dell’attività d’impresa ex art. 2486 c.c. e quantificazione del danno in assenza di scritture contabili, in La riforma del diritto societario nella “giurisprudenza delle imprese”, a cura di M. Cera, P.F. Mondini, G.M.G. Presti, Milano, 2017, 110.
[90] 
In questo senso R. Rosapepe, Le presunzioni introdotte dal nuovo terzo comma dell’art. 2486 c.c.: un danno punitivo a carico degli amministratori di società di capitali?, in Giur. comm., 2020, II, 1379 ss.; conf. V. Di Cataldo, Sub art. 378, in Codice della crisi. Commentario a cura di P. Valensise, G. Di Cecco, D. Spagnuolo, Torino, 2024, 1963, secondo il quale le regole generali, proprio in quanto tali, dovrebbero comunque ritenersi applicabili, ove e nella misura in cui non siano state espressamente derogate; E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1323 ss.; L. Romualdi, La quantificazione del danno risarcibile dagli amministratori di società di capitali in presenza di una causa di scioglimento a norma del nuovo art. 2486, comma 3, c.c., in Banca, borsa, tit. cred., 2020, I, 625; F. Brizzi, Procedure di allerta, cit., 378, il quale auspica che il metodo dei netti sia perciò impiegato “nei confini di legge che gli sono propri, ossia sul terreno della quantificazione, logicamente successivo all’accertamento della responsabilità e del nesso di causalità con il danno al patrimonio sociale”; A. Fidanzia, L’azione di responsabilità degli amministratori alla luce delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 14/2020, in ilfallimentarista.it, 2020, 7; G. Dongiacomo, Il giudizio di responsabilità, cit., 745; M. Rossi, Prime note, cit., 1140; D. Cesiano, La responsabilità degli amministratori e la quantificazione del danno per violazione dell’art. 2486, 2° comma, c.c. Le novità introdotte dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Dir. fall., 2020, I, 720, secondo il quale le agevolazioni probatorie introdotte dal legislatore attengono esclusivamente al quantum del danno, ma nulla dicono circa la prova del fatto illecito, del danno inteso in sé e per sé e del nesso causale, sicché l’attore dovrebbe pur sempre allegare e provare i fatti illeciti che costituiscono la causa immediata e diretta dei danni lamentati, per poi esigere un danno in misura pari alla perdita incrementale. In giurisprudenza sembra orientarsi nella medesima direzione App. Trento, 7 luglio 2023, cit., laddove ricorda che per riconoscere la responsabilità ex art. 2486 c.c. deve essere stato allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, e che tanto riceve conferma nel nuovo terzo comma della disposizione, che ammette il ricorso al criterio dei netti patrimoniali solo “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo”.
[91] 
Così M. Spiotta, Scritture contabili, in Commentario al c.c., dir. da A. Scialoja- G. Branca, Bologna, 2021, 83, per la quale la norma opera una speciale sterilizzazione dell’art. 1223 c.c. Analogamente N. Abriani, A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa, cit., 408-409, che individuano il vero plus della norma nel nesso di causalità, perché presume non il quantum, ma la stessa esistenza di un danno che sia conseguenza della prosecuzione in sé dell’attività d’impresa, se non orientata in ottica conservativa; C. Ibba, Codice della crisi, cit., 624, il quale ribadisce che il criterio dei netti, oltre a presumere un certo ammontare del danno, “rimuove dalla fattispecie ‘responsabilità’ il nesso causale tra la violazione dell’art. 2486 e il danno stesso”; S. Fortunato, Codice della crisi e Codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità, in Riv. soc., 2019, 982, per il quale risulta evidente il ribaltamento dell’onere della prova non solo sul piano della quantificazione, ma soprattutto sul piano del nesso di causalità tra la violazione della condotta compiuta dagli amministratori (e l’omessa vigilanza dell’organo di controllo) ed il danno che ne discende; V. Sanna, Scioglimento e liquidazione, cit., 1489; sia pure in termini critici v. anche V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione, cit., 20.
[92] 
App. Milano, 20 marzo 2023, cit.; Trib. Firenze, 29 maggio 2023, cit., per il quale “ipotizzata la condotta alternativa corretta del convenuto, avrebbe avuto luogo – con certezza o, comunque, con quel grado di probabilità superiore alla probabilità opposta pacificamente ritenuto sufficiente nell’ambito della valutazione del nesso causale nel processo civile - una delibera di azzeramento del capitale sociale a copertura delle perdite con sua successiva sua ricostituzione, tale da ricondurre il patrimonio netto in positivo, anziché in negativo”; Trib. Catania, 1° febbraio 2024, n. 598/2024, in Banca Dati Pubblica, per il quale “in presenza dello specifico addebito della mancata adozione delle misure previste a fronte della perdita del capitale sociale e della gestione non conservativa, è logicamente plausibile che i danni derivanti dall’agire omissivo e commissivo dell’amministratore siano parametrabili alla differenza tra i netti patrimoniali, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento”. In dottrina D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 308, evidenzia che risponde ad una massima di esperienza che la situazione della società con capitale perso o insolvente è normalmente tale per cui, in assenza dell’adozione dei rimedi di legge, è più che plausibile che il patrimonio si deteriori.
[93] 
Cfr. App. Firenze, 4 marzo 2024, cit., per la quale il metodo dei netti “appare coerente con i principi espressi dalle Sezioni Unite, in quanto può presumersi che il deficit patrimoniale non si sarebbe aggravato qualora la società fosse stata tempestivamente posta in liquidazione, e considerando che consente di isolare i costi che la società avrebbe comunque sostenuto”.
[94] 
In questi termini D. Galletti, Brevi note sull’uso del criterio dei “netti patrimoniali di periodo” nelle azioni di responsabilità, in Ilcaso.it, 2010, 2512, e M. Martino, La responsabilità degli amministratori, cit., 177.
[95] 
In giurisprudenza v. Trib. Napoli, 9 febbraio 2023 (Fall. Teknosud s.r.l. c. M., inedita), per il quale “la norma prevede la possibilità per l’amministratore di fornire la ‘prova di un diverso ammontare’, ovvero di dimostrare che il danno patrimoniale ascrivibile allo stesso sia inferiore rispetto alla differenza tra i netti patrimoniali”. Conf. L. Romualdi, La quantificazione del danno risarcibile, cit., 624. Secondo M. Spiotta, Scritture contabili, cit., 82, si tratterebbe di prova contraria diabolica, tanto più difficile da assolvere ove si consideri che, quando l’amministratore viene convenuto in giudizio dal curatore, sono trascorsi anni dalla sua gestione e non ha più la possibilità di accedere alla documentazione sociale; sottolinea la difficoltà della prova contraria anche V. Sanna, Scioglimento e liquidazione, cit., 1490. 
[96] 
R. Rordorf, Doveri e responsabilità, cit., 946; P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 175; E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1319.
[97] 
Per tale precisazione v. D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 306-307, il quale soggiunge che anche il giudice può applicare criteri alternativi dallo stesso autonomamente individuati, purché si avvalga del supporto istruttorio legittimamente allegato al fascicolo dalle parti.
[98] 
Trib. Ancona, 24 gennaio 2024, cit.; analogamente Trib. Firenze, 1° marzo 2023 (Fall. Calzaturificio Cristian s.r.l. c. B. e altro, inedita): “non si condivide l’assunto per cui il risarcimento, ex art. 2486 c.c., avrebbe carattere sanzionatorio delle condotte dell’AU (dalla omessa tenuta della contabilità alla prosecuzione illecita dell’attività): il risarcimento continua ad essere finalizzato al ripristino del patrimonio del danneggiato, anche se è ovvio che, se la sua quantificazione è resa impossibile dalla condotta dell’AU, la conseguenza non può essere l’assolvimento di questo da ogni obbligo risarcitorio, potendosi allora fare ricorso a quei dati di cui si dispone. Il principio espresso dalla norma in esame, dunque, continua ad essere quello per cui il risarcimento dev’essere il più possibile aderente al danno provocato: solo se tale aderenza non può essere ottenuta è applicabile un criterio che, anziché far premio agli amministratori per la loro negligenza contabile, semmai la penalizza; ma ogni qual volta i criteri equitativi indicati dalla legge possono essere corretti nei loro effetti distorsivi, attraverso l’utilizzo di dati certi, non vi è motivo di non farvi ricorso, poiché essi valgono, appunto a fornire ‘la prova di un diverso ammontare’, maggiormente vicino alla realtà”.
[99] 
Così App. Firenze, 10 ottobre 2022, n. 2236/2022, in Banca Dati Pubblica, per la quale “pur nel contesto dell’obbligazione solidale, occorre tener conto del diverso contributo causale che ciascuno degli amministratori convenuti ha dato alla realizzazione del danno, così dovendosi individuare la responsabilità di ciascuno in funzione del maggiore o minore periodo di assunzione della carica ed in funzione del numero e dell’entità dei debiti sociali che sono insorti proprio in tale periodo.
[100] 
D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 306; E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1319. In senso restrittivo P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 175, il quale rileva che il legislatore fa salva la prova contraria senza contemplare parametri alternativi, sicché “ciò permette di fruire di qualsiasi altra forma di calcolo”, purché fondato sul danno cagionato da singoli atti.
[101] 
La giurisprudenza ha pertanto negato, sotto questo profilo, la possibilità di quantificare il danno da indebita prosecuzione dell’attività d’impresa facendo ricorso al criterio fondato sul margine operativo lordo, e cioè sull’indice di derivazione aziendalistica impiegato per individuare il reddito derivante dalla gestione operativa della società, trattandosi di criterio che “non individua alcuna voce di danno”, perché “il pregiudizio per l’impresa collettiva riconducibile a una data gestione societaria è … dato non già dai risultati negativi a questa riferibili ma - come è ovvio - dalla riduzione del patrimonio sociale, riduzione che l’indice proposto non consente certamente di determinare”: in questi termini Trib. Palermo, 28 aprile 2021 (Fall. Amia s.p.a. c. G. e altri, inedita).
[102] 
Cfr. App. Milano, 4 settembre 2023 (ACC Compressors s.p.a. in a.s. c. R. e altri, inedita), nella cui motivazione si legge che il CTU, in adempimento del quesito formulato, aveva quantificato i danni, alternativamente, applicando i due metodi della differenza dei netti patrimoniali e dell’EBITDA normalizzato, ed aveva concluso per la maggior adattabilità alla fattispecie concreta del secondo metodo, “in quanto ritenuto più adatto a valutare il pregiudizio derivante dal ritardato accesso ad una procedura concorsuale con continuazione della gestione sociale”. Ha osservato la Corte che secondo il metodo dell’EBITDA rettificato, “il danno derivante dalla prosecuzione dell’attività è pari alle perdite causate dalla gestione caratteristica (e non anche da quella finanziaria e straordinaria) al netto delle poste cosiddette non monetarie (ammortamenti, svalutazioni, ecc.) (…). Sulla base di tale criterio, il danno è, quindi, quantificato in base alla perdita gestionale caratteristica realizzata nel periodo successivo alla verificazione della causa di scioglimento, che avrebbe dovuto indurre gli amministratori a richiedere l’accesso ad una procedura concorsuale con prosecuzione dell’attività, in quanto tale metodo è ritenuto un ‘indicatore chiaro del grado di copertura dei costi generati dall’attività caratteristica’ con la conseguenza che ‘ove l’impresa non sia in grado di generare un margine (EBITDA) positivo nella sua area tipica, si possa ragionevolmente ritenere, che la prosecuzione dell’attività determini un aggravio almeno pari al margine stesso’ (…). Ed infatti, nel caso di attivazione tempestiva della procedura concorsuale, anche a prescindere dall’analisi dei singoli costi che non si sarebbero generati, le operazioni affidate al commissario straordinario (inventariali estimative, ristrutturative e procedure aggiudicative) sarebbero iniziate e concluse prima. Tale criterio di determinazione del danno, è stato ritenuto più idoneo alla fattispecie concreta, di procedura concorsuale in continuità aziendale, per la sua maggiore adattabilità alla sfera economica più dinamica rispetto a quella patrimoniale più statica”.
[103] 
Cfr. in argomento D. Capone, E. Vianello, Alcune considerazioni sulla responsabilità degli amministratori ex art. 2486 c.c. e sulla determinazione del danno risarcibile, in Ilcaso.it, 2020, 1 ss.
[104] 
V. sul tema M. Fasan, R. Tiscini, D. Zardini, La quantificazione del danno per indebita prosecuzione dell’attività d’impresa: il metodo dei netti patrimoniali con configurazione del capitale economico, in Riv. dott. comm., 2022, 39 ss.; G. Liberatore, E. Titi, I criteri di valutazione d’azienda a supporto della stima dei danni societari a carico di amministratori e sindaci, ivi, 2020, 35 ss.
[105] 
Cfr. Trib. Catania, 19 dicembre 2020, cit., il quale osserva che “il richiamo alla ‘presunzione’ è inserito nella disposizione in modo atecnico: il meccanismo legale è congegnato in modo che il Giudice debba far luogo alla metodica dei netti patrimoniali salvo che le parti non gli sottopongano elementi fattuali che rendano possibile adottare una metodologie liquidativa analitica più aderente alla realtà della fattispecie e non un metodo sintetico”. In dottrina v. D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 306, ed E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1319, per la quale gli amministratori potrebbero far accertare dal giudice la fallacia (l’inadeguatezza) dei criteri legali e la loro necessaria disapplicazione allorché ingiustificatamente penalizzanti, in ragione della possibilità di ricorrere, nel caso concreto e in relazione alle circostanze di fatto, a tecniche differenti, suscettibili di delimitare con maggior precisione un danno da risarcire più prossimo al danno effettivo arrecato alla società e non invece un danno meramente virtuale o ipotetico.
[106] 
Così Trib. Firenze, 15 dicembre 2022 (Co.E.Stra s.r.l. in c.p. c. G. e altri, inedita), in un caso in cui le uniche operazioni poste in essere dopo il verificarsi della causa di scioglimento erano consistite nella richiesta di erogazione di due finanziamenti. V. anche Trib. Firenze, 10 febbraio 2023, cit., per il quale il criterio incrementale non è vincolante per il giudice, pur in assenza di una contabilità che consenta di ricostruire correttamente le operazioni compiute, poiché lo stesso art. 2486 c.c. “fa salva la prova di un diverso ammontare del danno, sicché ove l’attore abbia delineato le operazioni illecite compiute dall’amministratore convenuto – tra le quali, però, non figura la prosecuzione dell’attività successiva al verificarsi di una causa di scioglimento della società – non può che adottarsi il criterio della quantificazione analitica dei danni”; Trib. Cagliari, 7 dicembre 2021, cit., il quale ha escluso la possibilità di impiegare il criterio della differenza dei netti patrimoniali laddove il CTU aveva “condotto un esame della documentazione contabile dalla quale è possibile desumere il danno effettivo (e non presuntivo) arrecato al patrimonio sociale”.
[107] 
Cfr. Trib. Milano, 7 aprile 2023 (Fall. Tecnobit s.r.l. c. T. e altro, inedita), il quale ha affermato che il pregiudizio va quantificato - come dispone anche l’art 2486, comma 3, c.c. che autorizza l’impiego del criterio di liquidazione della differenza dei netti patrimoniali solo ove non risulti la prova di un diverso ammontare - apprezzando il danno effettivo che è pervenuto alla società dalle due classi di operazioni illecite riscontrate dopo la perdita del capitale sociale, ovvero, le distrazioni e l’emissione di fatture per operazioni inesistenti. Conf. in dottrina D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 306, ed E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1319.
[108] 
Così Trib. Ancona, 5 agosto 2020 (Fall. Giardini Immobiliare s.r.l. c. G. e altri, inedita). Conf. in dottrina P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 172, ed E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1319.
[109] 
In realtà, la norma inverte i termini di raffronto sul piano temporale, indicando prima quello finale e poi quello iniziale: A. Bartalena, Le azioni di responsabilità, cit., 306.
[110] 
Nello stesso senso A. Bartalena, Le azioni di responsabilità, cit., 306, ad avviso del quale la circostanza che il legislatore non abbia modificato il comma 3 dell’art. 2484 c.c., e sia intervenuto sul solo comma 1 (che introduce quale causa di scioglimento l’apertura della liquidazione giudiziale), conferma la volontà di non alterare l’attuale assetto della decorrenza degli effetti dello scioglimento della società: effetti che nei casi previsti dai nn. 1-6 dell’art. 2484 c.c. continuano a decorrere dall’iscrizione della dichiarazione degli amministratori o della delibera assembleare nel registro delle imprese.
[111] 
V. in questo senso Trib. Perugia, 11 marzo 2024, cit. Conf. in dottrina R. Rordorf, Doveri e responsabilità, cit., 946; P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 173; D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 310; E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1324.
[112] 
Cfr. sul punto Jorio, Note minime su assetti organizzativi, responsabilità e quantificazione del danno risarcibile, in Giur. comm., 2021, I, 822, il quale osserva che l’eventuale carenza nella cura degli assetti costituisce ulteriore prova del colpevole comportamento degli amministratori nel non aver percepito tempestivamente l’intervenuta causa di scioglimento.
[113] 
Così, invece, Trib. Ancona, 3 dicembre 2020 (Fall. Mastersystem s.r.l. c. M. e altri, inedita): “il momento in cui può sorgere la responsabilità dell’amministratore va necessariamente individuato in quello in cui è in grado di conoscere le risultanze del bilancio, non soltanto annualmente, ma ad esempio anche semestralmente se nella prassi aziendale, pur se non obbligatoriamente previsto per legge, esiste l’uso della presentazione di un rendiconto periodico, mentre non si ravvedono – a meno di eventi negativi assolutamente eclatanti – occasioni diverse da quelle innanzi descritte per poter pretendere dagli amministratori una valutazione diretta a ricapitalizzare o a sciogliere la società”.
[114] 
Cfr. Trib. Firenze, 29 maggio 2023, cit.: “posto che le condizioni di cui all’art. 2482 bis c.c. possono verificarsi, e normalmente si verificano, non già al termine dell’esercizio, bensì nel corso di esso, gli amministratori devono essere ritenuti obbligati a monitorare la consistenza del patrimonio sociale anche nei periodi infra-esercizio, in ragione del livello di diligenza minimo cui sono tenuti, diligenza che impone loro, proprio allorquando il patrimonio netto stia per raggiungere i minimi di legge, o addirittura subisca oscillazioni tali da condurlo a un valore negativo, di effettuare controlli più frequenti ed accurati”; in termini Trib. Catanzaro, 23 febbraio 2023, cit.; Trib. Catanzaro, 24 maggio 2022, n. 740/2022, in Banca Dati Pubblica; Trib. Roma, 30 aprile 2018, cit.
[115] 
Trib. Trieste, 23 febbraio 2018, in Società, 2018, 658.
[116] 
Cfr. in questo senso Trib. Milano, 10 febbraio 2017, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 28 novembre 2017, in Società, 2018, 703; Trib. Napoli, 11 gennaio 2011, ivi, 2011, 510. 
[117] 
Cfr. sul punto L. Stanghellini, Sub artt. 2446-2447 c.c., c.c., in Le società per azioni, dir. da P. Abbadessa e G.B. Portale, Milano, 2016, 2720, il quale osserva che, dovendo la perdita assumere carattere di sufficiente certezza, deve escludersi che gli amministratori ne possano avere contezza in tempo reale, dovendo costoro procedere alla convocazione dell’assemblea qualora la perdita emerga da una situazione contabile, anche informale. In giurisprudenza v. App. Milano, 4 agosto 2020, cit., il quale ha ritenuto corretta l’applicazione di un periodo di franchigia di due mesi, durante il quale non sono stati imputati danni, “rappresentando questo un periodo normalmente necessario per ciascun amministratore e sindaco per rendersi conto della situazione societaria e per adottare tutte le misure necessarie per la conservazione del patrimonio”.
[118] 
D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 315.
[119] 
Trib. Palermo, 26 luglio 2023 (Fall. Aicon Yachts s.p.a. c. S., inedita); Trib. Palermo, 13 giugno 2023, cit., Trib. Palermo, 16 novembre 2023 (Fall. Ass. ne Ce.Ri.S.Di c. P. e altri, inedita); Trib. Catania, 30 ottobre 2020 (Fall. Tecnotraff s.r.l. c. B., inedita). Per la necessaria omogeneità dei bilanci da porre in comparazione v. in dottrina M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi dell’impresa, Piacenza-Roma, 2023, 538.
[120] 
Così, da ultimo, Trib. Palermo, 16 novembre 2023, cit.; Trib. Napoli, 9 febbraio 2023, cit.; Trib. Bologna, 8 marzo 2021, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Catania, 30 ottobre 2020, cit.; In dottrina v. per tutti A. Mambriani, La prova del danno, cit., 8-9; P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 171.
[121] 
Cfr. Trib. Bologna, 23 dicembre 2022, cit.; Trib. Venezia, 28 ottobre 2022, in giurisprudenzadelleimprese.it, per il quale dalla differenza dei netti devono essere espunte “tutte le disutilità economiche derivanti dalla liquidazione, ivi compresa le svalutazioni delle poste attive di bilancio valutate in continuità e che invece si sarebbero dovute rideterminare ai fini liquidatori, perdendo ad esempio i cespiti ed il magazzino la loro destinazione produttiva”; Trib. Catania, 30 ottobre 2020, cit.; Trib. Bologna, 15 giugno 2020, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 9 aprile 2018, ibidem, per il quale la determinazione della differenza tra i netti patrimoniali va compiuta alla stregua di valori omogenei, sicché devono essere espunti, già con riferimento al calcolo del patrimonio netto al tempo del prodursi della causa di scioglimento, tutte quelle voci che trovano giustificazione nell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa, tra cui anche i costi capitalizzabili. In dottrina v. fra gli altri R. Sacchi, Sull’amministrazione nella s.r.l. dopo il codice della crisi, in La società̀ a responsabilità̀ limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi. Studi in onore di O. Cagnasso, a cura di M. Irrera, Torino, 2020, 692; V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione, cit., 20; C. Giampaolino, Il “danno” ex art. 2486 c.c., cit., 859; V. Sanna, Scioglimento e liquidazione, cit., 1490.
[122] 
Cfr. Trib. Venezia, 25 gennaio 2024, n. 240, in Banca Dati Pubblica: “il raffronto fra i netti patrimoniali di interesse – quello della data di perdita del patrimonio e quello del momento in cui la società adottò effettivamente iniziative coerenti con la sua situazione di scioglimento, quale la proposta di concordato – va operato fra bilanci redatti ambedue in ottica liquidatoria, quella che avrebbe dovuto essere adottata fin dal momento della perdita di patrimonio”; Trib. Milano, 22 marzo 2012, in giurisprudenzadelleimprese.it. Cfr. anche Trib. Ancona, 13 gennaio 2018 (Fall. S.E.S. Injection Moulds s.r.l. in liquid. c. B. e altri, inedita), Trib. Bologna, 21 dicembre 2017 (Fall. Studio Eureka s.r.l. c. F., inedita), Trib. Milano, 28 novembre 2017, cit., e Trib. Milano, 23 gennaio 2017, in giurisprudenzadelleimprese.it, il quale – premesso che il confronto tra le situazioni patrimoniali, avendo ad oggetto non già “dati oggettivi” ma “valori stimati”, deve avvenire secondo criteri di valutazione omogenei – ha ritenuto scorretta la richiesta risarcitoria della curatela, formulata in misura corrispondente all’incremento del deficit patrimoniale della fallita tra la data della asserita perdita del capitale minimo e la data della dichiarazione di insolvenza, calcolato confrontando, da un lato, i valori desunti dai bilanci di esercizio redatti secondo criteri di continuità aziendale e, dall’altro, valori risultanti dallo stato passivo fallimentare; senza, peraltro, che, a tale ultimo riguardo, fosse stata offerta alcuna prova in ordine alla determinazione dell’importo complessivo e, in particolare, alle modalità di formazione dello stato passivo e di stima dell’attivo; Trib. Milano, 1° aprile 2011, in Società, 2012, 268. In dottrina v. F. Brizzi, Procedure di allerta, cit., 379; M. Fabiani, La determinazione causale del danno nelle azioni di responsabilità sociali ed il ripudio delle semplificazioni, in Foro it., 2016, I, 286, che sottolinea la rilevanza di procedere ad una omogeneizzazione dei valori delle poste contabili, «nel senso che tutto va riportato a criteri di liquidazione e non più a criteri di continuità»; D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 315; C. Giampaolino, Il “danno” ex art. 2486 c.c., cit., 860. Non pare quindi corretta la soluzione adottata da Trib. Napoli, 30 giugno 2023 (Fall. Termont s.r.l. c. C., inedita), che ha liquidato il danno risarcibile in misura pari alla differenza tra il patrimonio netto della società al momento del verificarsi della causa di scioglimento ex art. 2484 n. 4 c.c., e il passivo fallimentare al netto delle attività.
[123] 
La norma non prescrive espressamente anche l’omogeneità dei criteri di valutazione nella predisposizione delle situazioni patrimoniali messe a confronto, così da evitare un ingiustificato incremento del risarcimento reclamato: così A. Bartalena, Le azioni di responsabilità, cit., 306, che imputa di timidezza l’intervento riformatore.
[124] 
D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 309.
[125] 
N. Abriani, A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa, cit., 410.
[126] 
R. Rordorf, Doveri e responsabilità degli amministratori di società di capitali in crisi, in Fall., 2013, 673; R. Rordorf, Doveri e responsabilità, cit., 947.
[127] 
Conf. N. Abriani, A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa, cit., 410, D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 313; L. Pecorella, Sub art. 378, cit., 2622; P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 168; L. Renna, Responsabilità degli amministratori, cit., 317; D. Cesiano, La responsabilità degli amministratori, cit., 724. In giurisprudenza v. Trib. Catania, 30 aprile 2022, n. 1875/2022, in Banca Dati Pubblica: “nemmeno può indagarsi il danno da prosecuzione illegittima dell’impresa dopo il deposito della domanda di concordato perché (…) a ciò osterebbe il dettato legislativo dell’art. 182 sexies L. fall.”.
[128] 
Cfr. Trib. Milano 7 ottobre 2015, cit.; Trib. Milano, 18 marzo 2012 (Fall. Club Air c. C. ed altri, inedita).
[129] 
Cfr. Trib. Palermo, 31 marzo 2021, in ilfallimentarista.it, il quale ha affermato che, nell'ottica di scongiurare il rischio di comportamenti dilatori dell'amministratore, la sospensione della normativa societaria sul capitale sociale sancita dall'art. 182 sexies L. fall. deve intendersi in ogni caso condizionata alla pronunzia di ammissibilità della domanda di concordato preventivo (o di omologa di accordo di ristrutturazione dei debiti), a prescindere dalla valutazione circa la sua fondatezza; con la conseguenza che ove il ricorso alla procedura di concordato preventivo sia dichiarato inammissibile, in quanto votato a finalità dilatatorie, la sospensione degli obblighi ex art. 2482 ter c.c. non opera, e deve pertanto senz'altro essere affermata la responsabilità dell'amministratore in relazione alla mancata convocazione dell'assemblea per l'adozione dei provvedimenti di ricapitalizzazione o di messa in liquidazione della società̀. Conf. in dottrina G. Bozza, Diligenza e responsabilità degli amministratori di società in crisi, in Fall., 2014, 1109, e R. Rordorf, Doveri e responsabilità degli amministratori, cit., 673.
[130] 
Adesivamente L. Pecorella, Sub art. 378, cit., 2621; P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 173; D. Cesiano, La responsabilità degli amministratori, cit., 725; S. Ambrosini, Appunti sui doveri degli amministratori, cit., 17, il quale soggiunge che in presenza non di una semplice perdita del capitale, ma di vera e propria insolvenza, la semplice messa in liquidazione non sarebbe di per sé sufficiente a scongiurare quell’aggravamento del dissesto derivante dalla maturazione di oneri finanziari sul debito chirografario, che solo l’accesso a una procedura concorsuale è in grado di bloccare; A. Bartalena, Le azioni di responsabilità, cit., 307, il quale osserva che la responsabilità dell’amministratore si arresta alla data dell’attivazione tardiva, perché l’avvio della procedura di messa in liquidazione della società interrompe, sul piano della causalità giuridica e materiale, il nesso con i danni ulteriori che si siano prodotti successivamente fino all’apertura della procedura concorsuale.
[131] 
L. Renna, Responsabilità degli amministratori, cit., 317; M. Rossi, Prime note, cit., 1143. Sebbene si assista quindi ad una inversione dell’onere della prova sul convenuto, non pare che ciò determini quindi un eccessivo aggravamento della posizione processuale di quest’ultimo: in questo senso v. invece A. Bartalena, Le azioni di responsabilità, cit., 307.
[132] 
Trib. Venezia, 17 maggio 2019, in osservatoriodirittoimpresa.it; Trib. Venezia, 29 aprile 2022, n. 830/2022, in Banca Dati Pubblica, per il quale dal differenziale dei patrimoni netti “debbono essere esclusi i costi che, secondo normalità, si sarebbero dovuti comunque sostenere ove la società fosse stata posta tempestivamente in liquidazione, così come è necessario procedere alla riclassificazione dei dati contabili in ottica liquidatoria, posto che con la doverosa liquidazione i valori di bilancio avrebbero comunque subito riduzione, non essendo più l’azienda destinata alla produzione. La necessità di espungere dalla differenza dei netti patrimoniali i costi inerziali e le disutilità comunque derivanti dalla liquidazione è imposta dal principio di causalità, non potendosi imputare agli amministratori perdite patrimoniali che si sarebbero comunque verificate ove i medesimi avessero adempiuto agli obblighi di legge, mettendo tempestivamente in liquidazione l’impresa.
[133] 
Trib. Milano, 22 gennaio 2015, in Società, 2016, 609; Trib. Bologna, 14 gennaio 2019, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Torino, 4 luglio 2018, cit.; Trib. Catania, 30 marzo 2017, ibidem.
[134] 
Per questa esemplificazione Trib. Venezia, 28 ottobre 2022, cit. In termini Trib. Firenze, 28 ottobre 2022, ibidem; Trib. Bologna, 14 gennaio 2019, cit. In dottrina v. D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 315, secondo il quale fra i costi rientrano anche le minusvalenze che gli assets del debitore avrebbero subito anche ove fosse stata adottata la condotta alternativa corretta. Secondo L. Romualdi, La quantificazione del danno risarcibile, cit., 626-627, il riferimento della norma ai costi in questione allude, più in generale, all’esigenza di confrontare tra loro valori di patrimonio netto determinati secondo criteri omogenei. In tali costi rientrerebbero anche l’eventuale aggravamento delle perdite e la conseguente riduzione del valore del patrimonio netto verificatosi tra il deposito; conf. M. Rossi, Prime note, cit., 1143. Secondo altra dottrina (N. Abriani, A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa, cit., 409) i costi in questione ricomprenderebbero anche i costi sostenuti per il tentativo di risanamento, ancorchè non andato a buon fine.
[135] 
In termini adesivi L. Pecorella, Sub art. 378, cit., 2623; S. Ambrosini, Appunti sui doveri degli amministratori, cit., 18. In giurisprudenza v. in questo senso Trib. Venezia, 21 luglio 2023, n. 1328/2023, in Banca Dati Pubblica, che sulla scorta della disposta consulenza d’ufficio ha determinato i “costi ineliminabili” della liquidazione ipotizzando che quest’ultima non potesse durare per un arco temporale superiore ai due anni, reputato sufficiente, in ragione delle dimensioni sociali, per la completa vendita del magazzino, la risoluzione dei rapporti di lavoro e la restituzione dei locali aziendali ai legittimi proprietari.
[136] 
Così Trib. Trieste, 21 aprile 2017 (Fall. Biemme s.r.l. in liquid. c. B., inedita): nella specie, costi e passività quantificati dal consulente d’ufficio sono stati limitati al solo periodo di nove mesi, stimato come verosimile ai fini del compimento della liquidazione della fallita.
[137] 
Trib. Trieste, 27 aprile 2023 (Fall. Horeca Plus s.r.l. c. S., inedita). V. anche Trib. Firenze, 9 novembre 2022, cit., il quale ha escluso possano essere sottratte dal differenziale dei patrimoni netti le spese ordinarie di gestione societaria sostenute nel medesimo arco temporale: “posto, infatti, che la mancata stesura dei bilanci e l’irregolare, quando non addirittura omessa, tenuta della contabilità successive al dicembre 2006 da parte degli amministratori, ossia proprio alcune delle condotte negligenti ascritte ai convenuti amministratori, hanno determinato un’impossibilità di effettuare, se non attraverso criteri presuntivi e ipotetici, il calcolo delle spese ordinarie di gestione, le conseguenze processuali negative della mancata dimostrazione di tali dati fattuali devono essere poste a carico della stessa parte: ✓ che, anzitutto, era interessata alla relativa dimostrazione, trattandosi di circostanze fattuali tese a circoscrivere il novero dei pregiudizi economici causalmente avvinti alla condotta inosservante e, come tali, legittimanti la riduzione parziale dell’ammontare del danno risarcibile; ✓ alla quale deve, inoltre, essere ricondotta la paternità storica dei dati cognitivi rientranti nella sfera di azione e di conoscibilità del medesimo amministratore, siccome configuranti vicende connesse alla sua (negligente) gestione societaria”.
[138] 
Così invece Trib. Milano, 27 febbraio 2020 (Fall. MCE s.r.l. c. G. e altro, inedita), il quale – constatata l’assenza dei bilanci e le carenze di documentazione contabile relative a taluni esercizi - ha proceduto ad una valutazione equitativa dei costi di liquidazione che la fallita avrebbe comunque dovuto sostenere, quantificandoli in misura pari alla sommatoria delle perdite mensili registrate dalla società durante la presumibile durata della fase di liquidazione (stimata in sei mesi); Trib. Firenze, 14 aprile 2020, n. 927/2020, in Banca Dati Pubblica, che ha determinato in via equitativa i costi comunque necessari per la liquidazione della società, quantificandoli in un importo pari al 5% del differenziale dei netti; Trib. Firenze, 1° marzo 2021, cit., a fronte dell’impossibilità di conteggiare i costi ineliminabili, ha fatto ricorso ad un “criterio integrativo equitativo ancorato alla durata della prosecuzione indebita dell’attività”, e determinato il danno arrotondando il differenziale dei patrimoni netti da 2,4 a 2 milioni di Euro; Trib. Milano, 12 aprile 2022, cit., che ha forfettariamente stimato i costi in questione in 20.000 Euro annui, “viste le piccole dimensioni dell’impresa”. Sul punto v. D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 317, a giudizio del quale l’individuazione dell’importo concreto da addebitare al risultato delle conseguenze dannose rientra nell’ambito dei poteri officiosi del giudice, fermo restando che le parti dovranno mettere a disposizione dello stesso tutti gli elementi di fatto necessari, senza che lo stesso possa disporre iniziative istruttorie d’ufficio.
[139] 
Cass., 16 luglio 2018, n. 24103. Nel senso del testo v. in dottrina S. Delle Monache, Il nesso di causalità e il danno: profili generali, in Crisi d’impresa e responsabilità nelle società di capitali, a cura di L. Balestra e M. Martino, Milano, 2022, 456.
[140] 
P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 176; S. Delle Monache, Il nesso di causalità, cit., 456; F. Lamanna, Il codice della crisi, cit., 667; A. Bartalena, Le azioni di responsabilità, cit., 307, il quale osserva criticamente che ciò determina una amplificazione spropositata della responsabilità risarcitoria degli amministratori, sui quali finiscono per gravare i costi e gli oneri che la società avrebbe, comunque, dovuto sopportare se la liquidazione fosse stata aperta sollecitamente, e, soprattutto, con un automatismo sul piano applicativo che può portare a risultati intrinsecamente iniqui; D. Cesiano, La responsabilità degli amministratori, cit., 721-722.
[141] 
Così App. Firenze, 8 settembre 2022 (B. c. Fall. Mezzanotte e Dintorni s.r.l., inedita), la quale ha affermato che “se è vero che il criterio del deficit fallimentare rappresenta un criterio residuale, tuttavia, (…) nella totale e assoluta mancanza di tutta la documentazione societaria, non solo di quella contabile e amministrativa, tale criterio, secondo la stessa giurisprudenza e dottrina, è l’unico applicabile, in via equitativa, posto che la mancanza dei documenti e delle scritture contabili non consente di ricostruire, con la dovuta analiticità, il patrimonio societario e le singole operazioni compiute, né di rettificare i bilanci successivi (…) secondo criteri di liquidazione, con conseguente impossibilità di utilizzare il criterio della differenza dei netti patrimoniali”. Nella medesima direzione v. Trib. Catania, 21 dicembre 2019 (Fall. Coop. Portabagagli e Manovalanza Stazione Acireale soc. coop. c. P. e altri, inedita), il quale, dopo aver richiamato i principi delle sezioni unite del 2015, conclude che, “comprovato un addebito specifico agli amministratori (avere proseguito l’attività di impresa in presenza di causa di scioglimento) e non potendo avvalersi delle scritture contabili (mancanti), unico criterio residuale è il deficit fallimentare, da liquidare in via equitativa”. Per ulteriori, conformi, indicazioni giurisprudenziali sia consentito rinviare a F. Dimundo, Le azioni di responsabilità, cit., 466 ss.
[142] 
V. Di Cataldo, S. Rossi, Nuove regole generali per l’impresa, cit., 321.
[143] 
G. Trisorio Liuzzi, L’azione di responsabilità nella liquidazione giudiziale, in Diritto della crisi d’impresa, a cura di G. Trisorio Liuzzi, Bari, 2023, 666, il quale conclude che la norma finisce per trasformare l’azione di responsabilità da risarcitoria a sanzionatoria.
[144] 
Secondo quanto previsto dall’art. 4 della proposta di decreto legislativo recante “modifiche al codice civile in attuazione della legge delega 155/2017”, consegnata il 22 dicembre 2017 dalla Commissione R. Rordorf al Ministro della Giustizia, il terzo comma aggiunto all’art. 2486 c.c. esordiva recitando che «il danno risarcibile è determinato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1225, 1226 e 1227, in quanto compatibili con la natura della responsabilità, in relazione al pregiudizio arrecato al patrimonio sociale dai singoli atti compiuti in violazione del dovere previsto dal comma primo». Nella seconda parte, la norma proseguiva stabilendo che «tuttavia, in caso di scritture contabili mancanti o comunque inattendibili, il danno risarcibile corrisponde alla differenza tra il netto patrimoniale al momento in cui si è verificata la causa di scioglimento della società e il netto patrimoniale al momento in cui è cessata la prosecuzione indebita dell’attività oppure è aperta la procedura di liquidazione della società, con salvezza della prova contraria e, in ogni caso, del potere di liquidazione equitativa del danno da parte del giudice».
La norma così confezionata è sopravvissuta invariata anche nel testo licenziato dalla c.d. “Commissione Rordorf 2”, salvo essere riformulata nello schema di decreto legislativo recante il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, approvato dal Consiglio dei ministri l’8 novembre 2018. Nell’art. 377 di tale schema, il nuovo terzo comma dell’art. 2486 c.c. perdeva infatti la sua parte iniziale, che richiamava gli artt. 1223, 1225, 1226 e 1227 c.c., e registrava sensibili variazioni nella sua seconda parte, la quale disponeva che: «quando è accertata la responsabilità per violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2486 del codice civile, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se mancano le scritture contabili o se a causa dell’irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella liquidazione giudiziale». La seconda Commissione permanente Giustizia della Camera, nell’ambito del parere espresso su tale schema di decreto nella seduta del 19 dicembre 2018, aveva poi invitato il Governo a valutare l’opportunità di modificare nuovamente il nuovo terzo comma dell’art. 2486 c.c. nei termini ivi indicati, e tale ultima versione emendata veniva quindi recepita nel testo finale del D.Lgs. n. 14/2019.
[145] 
Così Trib. Milano, 24 aprile 2023 (Fall. Ferim s.r.l. c. F., inedita).
[146] 
In questi termini Trib. Milano, 17 aprile 2023, cit. Conf. in dottrina F. Terrusi, Liquidazione ed estinzione, in L. Di Lorenzo, M. Mozzarelli, R. Santagata, G. Scognamiglio, F. Terrusi, Operazioni straordinarie, patrimoni destinati, liquidazione ed estinzione, Milano, 2020, 480, il quale efficacemente osserva che alla violazione indicata nel testo non necessariamente consegue – di per sé – il danno patrimoniale, ma certamente essa cagiona l’impossibilità di determinarlo, e tale impossibilità di determinazione viene quindi imputata a titolo sanzionatorio all’amministratore. 
[147] 
In senso conf., fra gli altri, M. Franzoni, Il fatto illecito civile fra civile e commerciale nel codice del ’42, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2023, 763; B. Inzitari, Crisi, insolvenza, insolvenza prospettica, allerta; nuovi confini della diligenza del debitore, obblighi di segnalazione e sistema sanzionatorio nel quadro delle misure di prevenzione e risoluzione, in Dirittodellacrisi.it, 2021, 20.
[148] 
Cfr. Trib. Milano, 24 aprile 2023, cit.: se il criterio del deficit “stabilisce una misura legale del danno risarcibile, questo semplifica e alleggerisce notevolmente l’onere della prova gravante sul danneggiato chiamato a dimostrare solo la potenzialità lesiva della condotta dell’amministratore”.
[149] 
G.D. Mosco, S. Lo Preiato, Doveri e responsabilità di amministratori e sindaci nelle società di capitali, in Riv. soc., 2019, 145.
[150] 
Per analogo giudizio v. R. Rordorf, Doveri e responsabilità, cit., 946, per il quale la previsione del criterio del deficit concorsuale risponde alla scelta – “opinabile ma di certo non di per sé illegittima” – di alleggerire un onere probatorio ritenuto eccessivamente gravoso per i curatori, evitando che gli amministratori scorretti possano in definitiva avvantaggiarsi della loro stessa scorrettezza; S. Delle Monache, Il nesso di causalità, cit., 455, il quale afferma che il legislatore ha introdotto una presunzione legale, in virtù della quale il disavanzo di una procedura concorsuale deve intendersi come danno da mettere a carico degli amministratori, e perciò come un danno dagli stessi interamente prodotto, ogni qualvolta i netti patrimoniali non possano essere determinati a causa della mancanza o irregolarità delle scritture contabili.
[151] 
Così Cass., ss.uu., 5 luglio 2017, n. 16601, che ha sancito la non “ontologica” contrarietà all’ordine pubblico italiano della sentenza straniera (statunitense) contenente condanna ai punitive damages. Sull’argomento, ed in particolare sull’ammissibilità dei danni punitivi nel nostro ordinamento, anche alla luce dell’arresto citato, la letteratura è sterminata: v. fra gli altri, in luogo di molti, M. Franzoni, Danno punitivo e ordine pubblico, in Riv. dir. civ., 2018, 283 ss.; C.M. Bianca, Qualche necessaria parola di commento all’ultima sentenza in tema di danni punitivi, in giustiziacivile.com, 2018, 1 ss.; V. Roppo, Pensieri sparsi sulla responsabilità civile (in margine al libro di Pietro Trimarchi), in Questione giustizia, 2018/1, 118 ss.
[152] 
In questo senso R. Rordorf, I “danni punitivi” e la natura polifunzionale della responsabilità civile, in Danno e resp., 2023, 433; M. Franzoni, Il fatto illecito civile, cit., 762.
[153] 
Così Trib. Milano, 6 dicembre 2023, n. 9923/2023, in Banca Dati Pubblica; cfr. anche Trib. Milano, 26 luglio 2021, cit., per il quale la norma “non esime il fallimento dalla prova dell’avvenuto compimento da parte degli amministratori di atti di gestione non conservativi pregiudizievoli dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, posto che di per sé la violazione dell’obbligo di regolare tenuta delle scritture contabile non è astrattamente idonea a porsi come causa del danno lamentato”; Trib. Firenze, 8 aprile 2024, n. 1127/2024, in Banca Dati Pubblica, che ha respinto la domanda attorea di condanna al risarcimento del danno in misura pari allo sbilancio fallimentare, sul rilievo che la curatela non aveva allegato quale attività non conservativa (oltre al mantenimento in locazione per due mesi dell’immobile in cui la società esercitava la sua attività) l’amministratore convenuto avesse compiuto durante la sua gestione.
[154] 
Conf. R. Sacchi, Sull’amministrazione nella s.r.l., cit., 693; P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 179; D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 319, per il quale la norma sembra riferirsi “ad un vero e proprio stato di ‘impossibilità’, e non già di mera ‘difficoltà’”; V. Di Cataldo, Sub art. 378, cit., 1964.
[155] 
Cfr. fra le tante Cass., 22 marzo 2018, n. 7146; Trib. Udine, 24 maggio 2018, in Pluris.
[156] 
Cfr. in giurisprudenza Trib. Napoli, 19 febbraio 2024, n. 2011/2024, in Banca Dati Pubblica, il quale ha ritenuto applicabile il criterio del deficit fallimentare a fronte della “totale assenza di scritture contabili”; Trib. Palermo, 16 novembre 2023, cit., il quale ha affermato che il criterio del deficit fallimentare di cui all’art. 2486 c.c. può trovare applicazione “solo in via residuale (nell’ipotesi di totale mancanza o assoluta falsità della contabilità depositata dalla fallita)”, mentre il criterio c.d. differenziale può trovare spazio nella generalità degli altri casi, in cui le scritture contabili siano state redatte e risultino attendibili; Trib. Napoli, 19 luglio 2023 (Fall. C.F.P. s.r.l. c. M., inedita); Trib. Napoli, 26 ottobre 2022 (Fall. Metalli del Sud s.r.l. c. T. e altro, inedita); Trib. Brescia, 17 maggio 2022, cit.; Trib. Cagliari, 7 dicembre 2021, cit.: “il presupposto per l’applicazione del draconiano criterio del deficit fallimentare è la carenza assoluta di informazioni in merito all’andamento degli affari, tale da impedire la ricostruzione del patrimonio netto al momento del verificarsi della causa di scioglimento”. In questi termini v. anche S. Ambrosini, Appunti sui doveri degli amministratori, cit., 18. Diversamente M. Rossi, Prime note, cit., 1144, secondo il quale alla impossibilità dovrebbe essere assimilata anche la notevole difficoltà.
[157] 
N. Abriani, A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa, cit., 411.
[158] 
Così Trib. Bologna, 2 dicembre 2019, cit.; Trib. Venezia, 29 maggio 2023, cit. Favorevoli alla liquidazione del danno in misura pari al deficit fallimentare, in totale assenza di contabilità sociale, anche Trib. Firenze, 7 ottobre 2020, cit.; Trib. Napoli, 26 ottobre 2022, cit., Trib. Napoli, 20 ottobre 2022, cit., Trib. Torino, 4 ottobre 2023, cit.
[159] 
Trib. Napoli, 14 dicembre 2022, cit.
[160] 
Cfr. Trib. Cagliari, 7 dicembre 2021, cit., il quale ha affermato che “il presupposto per l’applicazione del draconiano criterio del deficit fallimentare è la carenza assoluta di informazioni in merito all’andamento degli affari, tale da impedire la ricostruzione del patrimonio netto al momento del verificarsi della causa di scioglimento”, e per l’effetto ha escluso che tale criterio potesse trovare ingresso nel caso di specie, in cui la società fallita aveva approvato e pubblicato i bilanci relativi ad alcuni esercizi ed il curatore aveva ricevuto una consistente parte delle scritture contabili fino ad una determinata annualità. Analogamente Trib. Venezia, 28 aprile 2022, in giurisprudenzadelleimprese.it, in relazione ad una fattispecie in cui i bilanci di esercizio della fallita erano stati depositati almeno fino ad un certo anno, e da un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza risultava l’acquisizione del libro giornale, del libro inventari, del libro dei cespiti ammortizzabili, dei registri Iva, dei conti di mastro, di fatture e di estratti conto riferiti ad alcune annualità; Trib. Firenze, 29 maggio 2023, cit., in un caso in cui la documentazione contabile, “pur non consentendo la ricostruzione analitica delle operazioni societarie compiute dopo il palesarsi del dissesto” (in mancanza di bilanci successivi ad un certo esercizio ed anche delle altre scritture contabili), non ostava d’altro canto “alla ricostruzione ed alla comparazione, periodo per periodo, dello stato patrimoniale e del conto economico (stente l’equipollenza, a livello strutturale e contenutistico, dei prodotti documenti raffiguranti la situazione patrimoniale per i singoli trimestri, con i bilanci relativi agli esercizi precedenti, benché non oggetto di approvazione dell’organo assembleare), e alla conseguente determinazione dei patrimoni netti”.
[161] 
Così anche R. Rordorf, Doveri e responsabilità, cit., 949; R. Sacchi, Sull’amministrazione nella s.r.l., cit., 693; C. Ibba, Codice della crisi, cit., 623; P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 178; E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1326; M. Fabiani, Sistema, principi e regole, cit., 538, per il quale la mancata disponibilità delle scritture contabili non è imputabile agli amministratori solo in presenza di caso fortuito o di forza maggiore.
[162] 
Cfr. in questo senso Trib. Torino, 3 aprile 2023, in ristrutturazioniaziendali.it, e Trib. Torino, 29 marzo 2024, ibidem.
[163] 
Trib. Milano, 17 aprile 2023, cit.; Trib. Palermo, 26 luglio 2023, cit., in un caso in cui l’impossibilità di quantificare il danno da indebita prosecuzione era da ascrivere a carenze probatorie imputabili alla stessa curatela, che non aveva validamente prodotto in giudizio la documentazione contabile all’uopo necessaria. Conf. in dottrina D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 319, per il quale nessun ricorso al criterio del deficit concorsuale è ammissibile laddove le scritture manchino perché l’attore ha omesso di produrle in giudizio.
[164] 
Diversamente orientato A. Bartalena, Le azioni di responsabilità, cit., 307. 
[165] 
Trib. Milano, 5 maggio 2017, in giurisprudenzadelleimprese.it; conf. App. Firenze, 10 ottobre 2022, cit.: “la prosecuzione dell’attività sociale in forma non conservativa ed in presenza della perdita dell’intero capitale necessariamente determina la responsabilità dell’intero organo amministrativo, in modo indistinto, sia degli amministratori che abbiano concretamente operato nel compimento degli atti gestori, in quanto delegati a gestire, per espressa delibera o di fatto, sia degli amministratori che si sono limitati a prendere parte alle delibere collegiali dell’organo, fosse anche per la sola approvazione del progetto di bilancio (documento nel quale, guarda caso, viene esplicitata la presenza – o meno – del capitale sociale), ma senza mai esercitare il benché minimo controllo. Del resto, sia la redazione del bilancio, sia gli adempimenti degli artt. 2446 e 2447 c.c., per le s.p.a., ovvero degli artt. 2482 bis e 2482 ter c.c., per le s.r.l., sono funzioni tipicamente collegiali (…) non delegabili a singoli amministratori (cfr. art. 2381 c.c.)”. In dottrina v. L. Pecorella, Sub art. 378, cit., 2624, P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 178, G. Dongiacomo, Il giudizio di responsabilità, cit., 751.
[166] 
D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 319 ss.
[167] 
R. Rordorf, Doveri e responsabilità, cit., 949. Diversamente C. Ibba, Codice della crisi, cit., 623, secondo il quale le “altre ragioni” potrebbero eventualmente risultare anche non riconducibili agli amministratori, ma a scelte negative compiute dal curatore nel corso della procedura.
[168] 
Adesivamente S. Ambrosini, Appunti sui doveri degli amministratori, cit., 18, pur soggiungendo che l’ipotesi di cui al testo non esaurisce forse l’intero spettro della possibile casistica. Secondo F. Terrusi, Liquidazione ed estinzione, cit., 480, le “altre ragioni” potrebbero riferirsi ad altre situazioni di grave inadempimento ad obblighi di diligenza, quali ad es. quelle in cui sia trascorso un considerevole periodo di tempo dal verificarsi della causa di scioglimento, perché in questi casi il metodo dei netti patrimoniali diventa inattendibile ai fini della corretta quantificazione del danno.
[169] 
In senso contrario D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 321, sul rilievo che la legge persegue con il criterio in questione l’obiettivo di imporre a carico dei responsabili integralmente gli effetti del dissesto.
[170] 
P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 177; Cass., 29 luglio 2014, n. 17235; Cass., 22 aprile 2009, n. 9619. Secondo D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 322, si tratta dell’attivo già realizzato e di quello realizzabile, secondo un criterio “normale”, che tenga conto anche dello iato tra valutazione dei beni e possibile ricavato.
[171] 
Cfr. fra gli altri N. Abriani, A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa, cit., 411; D. Galletti, La liquidazione giudiziale del danno, cit., 321; V. Sanna, Scioglimento e liquidazione, cit., 1493; in termini dubitativi V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione, cit., 21, F. Terrusi, Liquidazione ed estinzione, cit., 478, e M. Martino, La responsabilità degli amministratori, cit., 179; A. Fidanzia, L’azione di responsabilità degli amministratori, cit., 7; M. Rossi, Prime note, cit., 1144; D. Cesiano, La responsabilità degli amministratori, cit., 721.
[172] 
V. in particolare Trib. Milano, 24 aprile 2023, cit., per il quale il criterio dello sbilancio fallimentare, stabilendo “una misura legale del danno risarcibile, (…) semplifica e alleggerisce notevolmente l’onere della prova gravante sul danneggiato chiamato a dimostrare solo la potenzialità lesiva della condotta dell’amministratore ma preclude sia la possibilità per l’amministratore convenuto di offrire una prova contraria, sia la possibilità per il fallimento attore di ottenere il risarcimento di un danno diverso ed ulteriore rispetto a quello quantificabile alla stregua del confronto tra l’attivo e il passivo fallimentari”; Trib. Milano, 26 luglio 2021, cit., il quale ha affermato che il novellato art. 2486 c.c. è “una norma che introduce nell’ordinamento, con riferimento alla quantificazione del danno, una presunzione assoluta di corrispondenza dell’entità del pregiudizio alla differenza tra attivo e passivo fallimentare, a superamento dell’elaborazione giurisprudenziale precedente che aveva costantemente escluso la possibilità per il giudice del ricorso automatico ed indiscriminato ad un simile criterio di liquidazione equitativa”; per la natura assoluta della presunzione che, secondo il novellato art. 2486 c.c., assiste la liquidazione secondo il criterio del deficit concorsuale v. anche, sia pure senza particolare motivazione, Trib. Napoli, 8 agosto 2022, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Napoli, 26 ottobre 2022, cit.; Trib. Napoli, 19 luglio 2023, cit.; in termini dubitativi Trib. Terni, 29 ottobre 2020, cit., App. Catania, 16 gennaio 2020, cit., e App. Catania, 24 aprile 2020, cit.
[173] 
V. in questa direzione Trib. Terni, 29 ottobre 2020, cit.; Trib. Milano, 24 aprile 2023, cit., il quale – muovendo appunto dalla differenza nella formulazione tra il primo e il secondo periodo del nuovo terzo comma dell’art. 2486 c.c. – afferma che “il dato letterale appare, in una dimensione di fatto quasi sanzionatoria, superare il regime della presunzione iuris tantum istituendo un criterio di liquidazione legale”, e ciò “preclude sia la possibilità per l’amministratore convenuto di offrire una prova contraria, sia la possibilità per il fallimento attore di ottenere il risarcimento di un danno diverso ed ulteriore rispetto a quello quantificabile alla stregua del confronto tra l’attivo e il passivo fallimentari”. In letteratura v. R. Rordorf, Doveri e responsabilità, op. loc. citt., il quale osserva che la previsione in parola ha una funzione essenzialmente punitiva, in quanto principalmente volta a sanzionare la violazione dell'obbligo di corretta tenuta delle scritture contabili gravante sugli amministratori di società, e presuppone quindi che la violazione di quell'obbligo sia imputabile ai medesimi amministratori ai quali il risarcimento sanzionatorio viene addebitato, venendo altrimenti meno qualsiasi plausibile giustificazione logica della norma; C. Ibba, Codice della crisi e codice civile, cit., 623, secondo il quale “la norma non pone dunque una presunzione ma enuncia un criterio rigido e automatico, non mediato da una valutazione equitativa o da correttivi di sorta”; N. Abriani, A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa, cit., 411; G. Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell'insolvenza, Torino, 2019, 241; V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione, cit., 21; G. Riolfo, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza e le modifiche al codice civile: il diritto societario tra “rivisitazione” e “restaurazione”, in Contr. impr., 2019, 419; L. Pecorella, Sub art. 378, cit., 2623.
[174] 
In dottrina v. S. Monti, Violazione del dovere di gestione conservativa e danno: “an, quantum” e... quando?, in Società, 2020, 831-832, e R. Rosapepe, Le presunzioni, cit., 1384 ss., il quale osserva che l’introduzione di una sanzione civile punitiva a carico degli amministratori sarebbe difficilmente comprensibile, posto che la mancata tenuta delle scritture contabili è già penalmente punita, e si rivelerebbe sproporzionata ed incompatibile con il principio di proporzionalità di cui all’art. 49 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione.
[175] 
S. Patti, Prove, in Commentario al cod. civ., dir. da A. Scialoja- G. Branca, Bologna, 2015, 634 e 636.
[176] 
P. Ghionni Crivelli, Scioglimento e liquidazione, cit., 177; S. Delle Monache, Il nesso di causalità, cit., 455; E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1325.
[177] 
In questo senso S. Fortunato, Codice della crisi e Codice civile, cit., 982, il quale segnala anche “il tenore letterale del disposto che presuppone l'impossibilità di determinare i patrimoni netti anche aliunde rispetto alla regolare tenuta delle scritture contabili”; in senso analogo E. Pederzini, Amministratori e responsabilità, cit., 1326, la quale rimarca l’incoerenza di ricostruire un criterio vincolato ad una presunzione assoluta previsto come alternativo e sussidiario rispetto ad un criterio principale vincibile invece da prova contraria.
[178] 
In questa direzione, sia pure dubitativamente, V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione, cit., 21; Assonime, Le nuove regole societarie sull'emersione anticipata della crisi d'impresa e gli strumenti di allerta, Circ. n. 19/2019, 101.
[179] 
G. Dongiacomo, Il giudizio di responsabilità, cit., 752; M. Fabiani, Sistema, principi e regole, cit., 538-539; M. Franchi, Perdita di capitale e gestione non conservativa degli amministratori fra vecchia e nuova disciplina, in Dir. fall., 2021, II, 199; L. Romualdi, La quantificazione del danno risarcibile, cit., 630; S. Monti, Violazione del dovere di gestione conservativa, cit., 831; A. Caruso, La quantificazione del danno da responsabilità̀ degli amministratori al verificarsi di una causa di scioglimento, in ilsocietario.it, 2019.
[180] 
R. Rordorf, Doveri e responsabilità, cit., 945-946; nella medesima direzione M. Fabiani, Le azioni di responsabilità, cit., 164, il quale osserva che la nuova disposizione “mira a fissare un ordine di grandezza abbastanza facilmente riconoscibile”, nell’intento di semplificare le liti in materia di azioni di responsabilità, agevolandone la definizione transattiva ed il percorso istruttorio.
[181] 
Cass., SS.UU., 5 luglio 2017, n. 16601. Per la ricostruzione del dibattito in materia v. i vari contributi pubblicati in Giur. it., 2018, 2274, I danni punitivi dopo le Sezioni Unite.
[182] 
Secondo S. Delle Monache, Il nesso di causalità, 457, l’inversione dell’onere della prova trova giustificazione nel principio della vicinanza della prova, intendendo per vicinanza non tanto in termini di disponibilità materiale da parte dell’amministratore convenuto in giudizio, quanto come necessità che il relativo onere gravi su colui che aveva l’obbligo di predisporre la documentazione sulla cui base la prova avrebbe potuto essere offerta, e che, non avendola predisposta, abbia reso impossibile all’altra parte rendere la prova stessa.
[183] 
In questo senso Trib. Milano, 30 aprile 2022 (Fall. Alma Media Italia s.r.l. c. A. e altri, inedita). Cfr. anche Trib. Perugia, 21 luglio 2021, n. 1078/2021, in Banca Dati Pubblica, il quale, in mancanza di alcuna allegazione delle parti relativa all’eventuale attivo accertato nella procedura, ha calcolato equitativamente il danno nella misura dei debiti ammessi al passivo della fallita, detratti i costi che si sarebbero dovuti sostenere anche in caso di tempestiva liquidazione della società.
[184] 
Così Trib. Venezia, 29 maggio 2023, cit., sul rilievo che “è un dato di comune esperienza che le vendite in sede fallimentare scontano spesso valori di realizzo inferiori al prezzo di stima posto a base d'asta, e ciò sarebbe probabilmente avvenuto, stante il fatto che il mercato non è cambiato in modo significativo nell'arco temporale di riferimento, anche in caso di tempestiva dichiarazione di fallimento: la decurtazione effettuata dal CTU nell'ambito del giudizio equitativo di danno di cui trattasi, parametrata a valori di realizzo fallimentare, appare pertanto con riferimento alla peculiare fattispecie del tutto ragionevole”.
[185] 
Trib. Ancona, 24 gennaio 2024, cit.
[186] 
Si tratta della proposta di “modifica dell’articolo 2407 del codice civile, in materia di responsabilità̀ dei componenti del collegio sindacale”, avanzata il 4 luglio 2023 dall’On. M. Schifone (AC 1276), che il 9 aprile 2024 ha ottenuto l’approvazione della Commissione Giustizia della Camera. Secondo tale proposta, il primo comma dell’art. 2407 c.c. dovrebbe essere così modificato: “i sindaci devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico; sono responsabili della verità delle loro attestazioni e devono conservare il segreto sui fatti e sui documenti di cui hanno conoscenza per ragione del loro ufficio.Al di fuori delle ipotesi in cui hanno agito con dolo, anche nei casi in cui la revisione legale è esercitata da collegio sindacale a norma dell’articolo 2409 bis, secondo comma, i sindaci che violano i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati alla società che ha conferito l’incarico, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni:per i compensi fino a 10.000 euro, quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, dodici volte il compenso; per i compensi maggiori di 50.000 euro, dieci volte il compenso. All’azione di responsabilità contro i sindaci si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 2393, 2393 bis, 2394, 2394 bis e 2395. L’azione di responsabilità verso i sindaci si prescrive nel termine di cinque anni dal deposito della relazione di cui all’articolo 2429 relativa all’esercizio in cui si è verificato il danno”.
[187] 
Per tale inquadramento v. B. Inzitari, Crisi, insolvenza, insolvenza prospettica, cit., 17 ss.

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