Il quadro che si è venuto delineando alla luce della giurisprudenza previgente, pur nel tentativo, non riuscito, delle Sezioni Unite nel 2015 di porre ordine nelle pronunce sul danno sociale da responsabilità degli amministratori e dei sindaci, in maggiore coerenza con i principi di legge dettati dagli artt. 1223, 1225 e 1226 c.c., è di grande incertezza, con una persistente oscillazione delle pronunce tra l’introduzione di criteri astratti poco rispondenti alla realtà (il deficit concorsuale o i “netti patrimoniali”) e l’introduzione di criteri che rispondono maggiormente alla fattispecie concreta offerta dall’allegazione di singole condotte o omissioni e dei loro effetti direttamente dannosi per il patrimonio sociale.
A fronte della difficoltà della giurisprudenza di dare una soluzione certa e coerente con i principi fissati dalla legge, il legislatore del Codice della crisi si è cimentato a introdurre soluzioni che siano in grado di offrire certezza all’applicazione del diritto, in una materia così delicata come quella della responsabilità degli amministratori e dei sindaci. Ne è risultata una disciplina che ha legittimato la lettura più severa della giurisprudenza.
Già la legge delega n. 155/2017 si affidava all’esecutivo nella riformulazione delle norme sul danno che avevano generato i rilevati contrasti giurisprudenziali, in particolare per il caso della violazione dell’art. 2486 c.c. da parte di amministratori e sindaci.
Il legislatore delegato è intervento mediante l’art. 378 CCII, che ha introdotto il comma 3 dell’art. 2486 c.c.: “[q]uando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa della irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”.
Nonostante i lavori preparatori, è venuta a mancare un’ulteriore espressione del terzo comma dell’art. 2486, comma 3, c.c.: “Il danno risarcibile è determinato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1225, 1226 e 1227, in quanto compatibili con la natura della responsabilità, in relazione al pregiudizio arrecato al patrimonio sociale dei singoli atti compiuti in violazione del dovere previsto dal comma primo”. Il testo non risulta più nella sua originale letterale espressione, approvato dalla Commissione ministeriale e nello schema del decreto legislativo, approvato dal Consiglio dei Ministri l’8 novembre 2018, e si perde del tutto ogni riferimento alle norme generali del Codice civile.
Deve sottolinearsi sul piano interpretativo che la nuova norma ha fattispecie astratta ben definita, costituita dal verificarsi di una causa di scioglimento di cui all’art. 2484 c.c. e quindi legifera, con una regola speciale, esclusivamente in questo ambito particolare, ovverosia quello della mancata rilevazione, dolosa o colposa, della causa di scioglimento da parte degli amministratori e della mancata vigilanza e reazione da parte dei sindaci.
Ogni altro aspetto, relativo alla violazione degli obblighi di diligenza degli amministratori e sindaci, resta fuori dalla regola speciale e, quindi, è soggetta ai principi generali in materia di quantificazione del danno. Il mancato richiamo letterale agli artt. 1223 ss. c.c. non può avere certamente significato abrogativo delle norme nei casi diversi da quelli disciplinati dall’art. 2486, comma 3, c.c. che restano quindi disciplinati dalle disposizioni generali. Gli artt. 1223 ss. c.c., pienamente vigenti anche in materia societaria, restano in vigore laddove non siano introdotte regole speciali.
Ogni qualvolta si tratti di atti e condotte di amministratori e sindaci corrispondenti a specifici obblighi, diversi dalle reazioni ai casi di perdita del capitale sociale che incidono sulla continuità dell’impresa, il nesso di causalità è rigorosamente imposto dall’art. 1223 c.c., con il rilievo dei profili dettati dall’art. 1225 e 1227 c.c., nonché, in caso di prova impossibile, dall’art. 1226 c.c.[161].
Il caso più eloquente è rappresentato dalle condotte distrattive degli amministratori, a beneficio di se stessi e quindi in una condizione di conflitto di interessi oppure a favore di imprese estranee, senza alcun beneficio per la società: il danno è da calcolare con il valore venale dei beni o delle somme distratte (danno emergente) e di benefici che nell’utilizzo di tali beni la società avrebbe potuto conseguire (lucro cessante). Ma anche questo valore, in alcune circostanze, deve essere corretto, ad esempio se il valore in bilancio del bene distratto è, come spesso accade, sopravalutato, deve farsi riferimento al valore effettivo[162]. Quando poi il valore del cespite distratto non è determinabile a causa delle scritture contabili, si è fatto riferimento al valore indicato nell’ultimo bilancio depositato[163].
Altro caso di violazione di obblighi tipici, si può rinvenire nel caso di operazioni compiuti fuori dall’oggetto sociale e allora, con criterio di rigorosa conseguenzialità, si è valutato il danno attraverso la determinazione del valore delle risorse destinate a operazioni estranee e dei mancati profitti discendenti dal mancato investimento in operazioni coerenti con l’oggetto sociale[164]. Ancora un’ipotesi di violazione di obblighi tipici si rinviene nel mancato pagamento di debiti sociali: in tal caso il danno non può essere commisurato al valore del debito non pagato, ma alle conseguenze del ritardo (interessi, danni, sanzioni)[165].
Quindi, quando l’obbligo violato è specifico perché la legge impone all’amministratore e al sindaco un singolo e concreto atto, è inevitabile che, nella determinazione del danno, si applichino rigorosamente i criteri della conseguenzialità causale. Questo principio resta intatto nell’attuale ordinamento.
Quando invece la condotta contestata all’amministratore e al sindaco è generalizzata e si riferisce a una pluralità di atti, qualche volta neppure identificabili nello specifico e ciò particolarmente nelle operazioni attive compiute dagli amministratori nonostante lo status di scioglimento della società per la perdita del capitale sociale, quando invece gli amministratori avrebbero potuto compiere esclusivamente atti conservativi e liquidatori nell’interesse dei creditori, è applicabile la regola speciale dell’art. 2486, comma 3, c.c.
Tale principio deve, tuttavia, fare i “conti” con l’espressione pur contenuta nel comma in esame circa la salvezza della prova contraria. La disposizione, infatti, introduce una presunzione iuris tantum e non iuris et de iure: si presume, salvo prova contraria, che il danno si determini nella differenza dei valori dei netti patrimoniali (v. supra par. 2.2).
Ecco allora che amministratori e sindaci potrebbero dedurre nessi di conseguenzialità specifica in cui il danno non è determinato dal criterio differenziale degli stati patrimoniali nel tempo, bensì dagli effetti degli atti indicati (e provati) dai convenuti nell’azione di responsabilità. Questo conduce ad applicare anche in questa ipotesi il criterio della “prevedibilità del danno” (art. 1225 c.c.) e del “concorso del fatto colposo” del creditore (art. 1227 c.c.), la cui applicazione resta sullo sfondo del nuovo criterio, il quale sarà applicabile laddove il convenuto in causa non è in grado di dimostrare effetti consequenziali diversi.
Ne risulta certamente un forte contributo ad alleggerire gli oneri probatori a carico della curatela, a fronte di oneri particolarmente intensi e qualche volta insostenibili nell’applicazione rigorosa dei principi comuni dettati dall’art. 1223 c.c., ma questo non può condurre – laddove i nessi di causalità incidenti diversamente sul patrimonio fossero dimostrati dall’amministratore o dal sindaco – a imporre il criterio dei “netti patrimoniali”.
Certamente il ricorso ai “netti patrimoniali” non è più criterio sussidiario, applicabile ai sensi dell’art. 1226 c.c., nel caso in cui sia difficoltosa se non impossibile la prova di quantificazione del danno, bensì criterio immediatamente applicabile: la sussidiarietà è spostata sulla prova contraria che può recuperare nessi di causalità certi e consequenziali[166], su iniziativa dell’amministratore o del sindaco.
Nell’applicazione dei “netti patrimoniali”, restano aperte alcune questioni dubbie: (i) quando è che si può dire configurata la causa di scioglimento e (ii) quando, invece, l’apertura della liquidazione volontaria o il verificarsi dell’apertura di una liquidazione giudiziale.
Quanto (i) al primo tema non deve valutarsi il profilo obiettivo bensì quello soggettivo: devono essere consapevoli gli amministratori, secondo la diligenza richiesta, del verificarsi della causa di scioglimento[167]. Quanto (ii) al secondo profilo, è l’evidenza rispetto ai terzi ad avere rilievo: l’iscrizione nel registro delle imprese della delibera di messa in liquidazione della società e la pubblicazione della sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale (a cui deve assimilarsi l’iscrizione nel registro delle imprese della domanda prenotativa o di ammissione al concordato preventivo o per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione[168], in quanto tali procedimenti implicano nella sostanza una condizione di liquidazione della società, se non vi è continuità di impresa).
Se l’apertura del procedimento concorsuale è preceduta da una formale delibera di messa in liquidazione, è ovviamente a quest’ultima che deve farsi riferimento per il “netto patrimoniale” finale con cui confrontare il “netto patrimoniale” al momento del configurarsi della causa di scioglimento[169].
La norma, nella sua prima parte, infine, attenua le conseguenze dei “netti patrimoniali” epurando la differenza dei costi della liquidazione della società. Questi, infatti, interrompono il nesso di causalità poiché detti costi sarebbero stati comunque sostenuti anche se la liquidazione fosse stata disposta tempestivamente.
Per quanto non evidenziato nella norma, deve ritenersi applicabile anche un’ulteriore attenuazione del danno derivante dalla necessità di valutare nuovamente alcuni cespiti dell’attivo in entrambi i netti patrimoniali, in quanto essi, a seguito della causa di scioglimento, perdono con effetti immediati valore (si pensi a componenti come l’avviamento, oppure a immobilizzazioni materiali o immateriali, come il valore dell’opificio e dei macchinari, che al momento della cessazione dell’attività aziendale perdono con effetto immediato valore, o al valore della ditta o dell’insegna sul piano commerciale)[170]. Tale correttivo si impone, infatti, nell’esercizio della prova contraria consentita al convenuto, il quale avrà agio di provare che il “netto patrimoniale”, al momento del verificarsi della causa di scioglimento, deve essere calcolato con un abbattimento di quei valori, in modo tale da rendere lo stato patrimoniale di riferimento coerente con la realtà[171].
Infine, l’ultima parte della disposizione riesuma, dandone piena legittimità, il criterio del deficit concorsuale: “differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura” come criterio di calcolo del danno in assenza o grave irregolarità delle scritture contabili o altre ragioni che impediscono di determinare i “netti patrimoniali”. La norma, seppure come criterio residuale della meno gravosa teoria dei “netti patrimoniali”, quando questa non è applicabile in quanto è impedito al curatore di ricostruirne l’esatta dimensione per difetto di intellegibilità delle scritture contabili o per altri fattori, codifica il criterio, già adottato dalla giurisprudenza, del deficit fallimentare, oggi diremo concorsuale[172].
Non si può negare che la norma fuoriesce dall’impostazione del danno per responsabilità civile ed entra ormai in maniera evidente nell’ambito del danno punitivo: la mancata tenuta della contabilità si sanziona con i benefici per il curatore sul piano probatorio derivante dal dato del deficit patrimoniale.
Le “altre ragioni” vanno identificate nell’ipotesi in cui, seppur formalmente tenuta una contabilità, questa offra una ricostruzione del tutto falsificata e non corrispondente alla realtà (per beneficiare del criterio del deficit patrimoniale, il curatore ne dovrà dare prova).
La norma sembra addirittura escludere la prova contraria: dunque, se amministratori o sindaci fossero in grado di ricostruire una contabilità credibile che consenta al curatore in sede processuale di trarre conseguentemente i dati necessari per l’allegazione e prova dei “netti patrimoniali”, sarebbe possibile evitare l’applicazione di un regime così rigido? Potrebbe l’amministratore o il sindaco dimostrare che il dissesto ha esclusivamente origine da un improvviso calo sul mercato della domanda, dovuto a una congiuntura economica protrattasi nel tempo, rispetto alla quale resta del tutto neutra o irrilevante la prosecuzione della gestione nonostante il verificarsi di una causa di scioglimento.
Se non si inquadra la norma destinata alla disciplina della prova, nei diversi termini di una qualificazione sul piano sostanziale degli effetti dell’illecito, non più come danno da responsabilità civile, ma come danno punitivo, è inevitabile pensare a una presunzione iuris et de iure, insuscettibile di prova contraria, con irrilevanza degli elementi di fatto volti ad attenuare il danno che l’amministratore o il sindaco potrebbe allegare e provare.
Questa è una lettura che non pare corrispondere alla ratio che ha ispirato il legislatore, che era quella di introdurre solo norme di natura processuale e non di diritto sostanziale. Si ritiene, quindi, si debba opportunamente suggerire, in linea con ragioni di eguaglianza ex art. 3 Cost., in relazione alla responsabilità per prestazioni d’opera intellettuale, e con i principi espressi convincentemente dalle Sezioni unite con la sentenza n. 9100/2015, la diversa soluzione che consenta di superare il criterio del deficit concorsuale, se l’amministratore o il sindaco sia in grado di dimostrare l’irrilevanza, ai fini del dissesto, della loro condotta che ha ritardato la messa in liquidazione della società[173].
In tal senso potrebbe essere di aiuto l’inciso, pur contenuto, nella norma “i netti patrimoniali non possono essere determinati” per irregolarità delle scritture, la cui applicazione consentirebbe agli amministratori e sindaci di allegare e produrre, se pure a posteriori, una contabilità regolare che consenta al giudice di applicare il criterio più tenue, con gli aggiustamenti esaminati, dei “netti patrimoniali”. Ecco allora che sarebbe possibile una prova contraria, il cui onere è tutto a carico dei convenuti nel giudizio di responsabilità.