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Saggio

Note sparse in tema di interesse dei creditori e tutela dei posti di lavoro nel concordato preventivo in continuità*

Fabrizio Aprile, Consigliere della Corte d’Appello di Torino

28 Luglio 2022

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
L’ultima versione dell’art. 84, comma 2, CCII, introdotta dall’art. 19 D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83 (recante l’attuazione della Dir. 2019/1023/UE), indica quali finalità proprie e qualificanti della continuità aziendale quelle per cui essa “tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro”. Si tratta di una disposizione inedita e innovativa che va senz’altro apprezzata e salutata con favore e che, tuttavia, sollecita l’interprete a verificare se le due finalità condividano la medesima rilevanza e il medesimo spessore valoriale, o se, invece, le ragioni dei creditori debbano comunque prevalere, e in quale misura, su quelle dei lavoratori.
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1 . Un’importante novità…
In una celebre lettera del 1840, Stendhal scriveva a Balzac che “En composant la Chartreuse, pour prendre le ton, je lisais de temps en temps quelques pages du Code civil, afin d’être toujours naturel”.
C’è da dubitare che, oggi, un qualsiasi scrittore sano di mente possa pensare di “prendere il tono narrativo” e la “naturalezza stilistica” leggendo, invece che il Code Napoléon, il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (si parva licet…) e di ravvisare un pregevole modello letterario in un testo molto lungo e prolisso (che fa rimpiangere l’asciuttezza e la sinteticità della Legge fallimentare), a tratti disarmonico e pieno di rimandi interni che ne rendono disagevole la lettura[1]. È anche vero, però – ed è onesto ammetterlo – che a criticare si fa presto mentre a scrivere le leggi non altrettanto. Bisogna riconoscere che in quest’ultimo giro correttivo (e forse non definitivo) il legislatore ha fatto alcune cose lodevoli e, soprattutto, ha fatto qualcosa di nuovo: il concordato in continuità aziendale, a seguito della riscrittura dell’art. 84, comma 2, CCII, dimostra di non essere più esclusivamente orientato al “soddisfacimento dei creditori”, nel rispetto del loro “interesse prioritario” (come si leggeva nell’originario testo), ma trova ora giustapposta a questa finalità quella, ulteriore e particolare, della preservazione dei posti di lavoro. Un aliquid novi importante e inedito, ove solo si consideri come la tutela dei livelli occupazionali del datore di lavoro non sia mai stata un’insonne ossessione del diritto della crisi d’impresa[2] e, segnatamente, del concordato in continuità, se non in forma obliqua là dove il precedente e “famigerato”[3] testo dell’art. 84, comma 2, CCII (si parla, curiosamente, di norme mai entrate in vigore e ciononostante già abrogate…) pretendeva che, in caso di continuità indiretta, fossero garantiti “il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso” – parole di colore oscuro riguardo all’onere di riassunzione[4], nella misura in cui l’art. 47, comma 4-bis, L. 29 dicembre 1990, n. 428 (sta a ricordarlo anche l’art. 191 CCII), esattamente per le medesime finalità di “salvaguardia dell’occupazione”, non consente deroghe all’art. 2112, comma 1, c.c. e all’obbligo di “trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro” – e di tutti i rapporti, non solo della metà o di altre frazioni[5].
Si tratta, peraltro, di una novità non propriamente spontanea – è giusto ribadirlo, anche se ciò non ne sminuisce l’importanza e l’occorrenza di salutarla con affetto – bensì determinata (in perfetta sintonia) dal 4° considerando e, in particolare, dall’art. 4, comma 1, della Direttiva Insolvency, ove si attribuisce ai quadri di ristrutturazione preventiva lo scopo di “tutelare i posti di lavoro e preservare l’attività imprenditoriale”, in un’endiadi virtuosa in cui la prosecuzione dell’attività delle imprese, “che restano il primo driver dello sviluppo economico e quindi dell’occupazione”[6], è messa in stretta connessione con l’invarianza del tessuto occupazionale, quasi che l’una, come in un entanglement quantistico, sia essenzialmente funzionale all’altra. E non può che essere così, in quanto evidente che “per salvaguardare l’occupazione occorre in primis salvaguardare l’impresa”[7], difficile essendo il contrario; inoltre, parafrasando Milton Friedman, se continuità è continuità ed è continuità, allora (salve contraddizioni) non dovrebbero essere tollerate dis-continuità, specialmente quando si ripercuotono sui rapporti di lavoro, che, almeno in teoria, dovrebbero ab initio risultare adeguati e conformi ex art. 2086, comma 2, c.c. (in termini quantitativi e tipologici) alla natura e alla dimensione dell’impresa (non se n’è ancora discusso troppo) e che dovrebbero ostentare, sempre in teoria, un’olimpica indifferenza rispetto a una situazione datoriale sì di crisi, ma non tale da impedire o pregiudicare irreversibilmente le potenzialità economico-produttive – ciò che è pure intuito dall’art. 47, comma 4-bis, lett. a), L. n. 428/1990 che, non a caso, ancorché nel circoscritto ambito della cessione d’azienda, fa della continuazione dell’attività la ragione dell’inderogabilità dell’art. 2112, comma 1, c.c. e, come si è detto, dell’intonso e ineccettuato trasferimento al cessionario e all’affittuario di tutti i rapporti lavorativi in essere.
Proprio in quest’ottica va altresì vista l’ottima serie di disposizioni che tengono indenni i “crediti assistiti dal privilegio di cui all’art. 2751-bis, n. 1, del codice civile” dalla regola della priorità relativa sul valore della liquidazione e sul surplus concordatario (art. 84, comma 7, CCII) e dai pagamenti eccedenti i trenta giorni (art. 109, comma 5, CCII), mentre, ancora più a monte, a prescindere dalla stessa continuità aziendale, l’art. 97, comma 13, CCII certificherebbe (il condizionale, come dicono i giornalisti, è d’obbligo)[8] la tendenziale insensibilità dei rapporti di lavoro rispetto all’ammissione del datore al concordato preventivo[9] – dato questo appena offuscato dal fatto che il pagamento dei crediti di lavoro possa subire ex art. 86 CCII una moratoria di sei mesi, cosa che forse sarebbe stato meglio evitare a fronte del possibile contrasto con l’art. 36, comma 1, Cost. (che riconosce alla retribuzione un valore “sociale” eccedente il mero sinallagma negoziale con la prestazione lavorativa) e della sensibile distonia con l’art. 54, comma 7, CCII, che, da par suo, esclude, anche per la fase anteriore all’omologazione, il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari quand’esse abbiano per oggetto “i diritti di credito dei lavoratori”[10]: appare un tantino stravagante che questi ultimi, da un lato, possano sempre perseguire esecutivamente il pagamento delle proprie retribuzioni “a prescindere dal fatto che tali diritti siano sorti prima o dopo la concessione della sospensione” (61° considerando della Direttiva Insolvency), e però, dall’altro, debbano rinunciare a vedersi corrispondere, sia pure temporaneamente, quelle che maturano in corso di procedura, senza, quantomeno, che sia previsto come obbligatorio un livello di tutela analogo.
2 . …che sa d’antico
Qualcosa di nuovo, dunque, che germoglia in una direzione fototropica addirittura trascendente il mero dato giuridico, e d’impatto, per così dire, ‘culturale’ intorno al ruolo dei lavoratori (e dei loro rappresentanti sindacali) nella crisi d’impresa: per un verso, si esprime un premuroso intento, quello teso alla preservazione dei posti di lavoro, che dimostra di scorgere nel prestatore subordinato non soltanto un creditore (non essendo affatto detto che i due ruoli debbano per forza sussistere contestualmente o coincidere tra di loro: in questo senso non è irrilevante, ed è, anzi, meritorio, che il D.Lgs. n. 83/2022 non abbia pedissequamente recepito il 43° considerando per cui “Il concetto di parti interessate [dei quadri di ristrutturazione] dovrebbe includere i lavoratori unicamente in quanto creditori”), né uno stakeholder qualunque, ma un soggetto (con, sovente, una famiglia dietro di lui) che “collabora alla realizzazione degli scopi produttivi dell’impresa e alla gestione efficiente e competitiva della stessa, a fronte di retribuzione e sicurezza della persona, [e perciò meritevole] di un pieno “riconoscimento” del suo ruolo essenziale nell’attività di impresa e della conseguente valorizzazione delle sue competenze e capacità”[11]; per altro verso, si restituisce centralità alla tutela del posto di lavoro, nella consapevolezza (ma anche nell’ambiguità) “del ruolo di inevitabile protagonista ricoperto dal fattore lavoro, da un lato principale destinatario dei tristemente noti effetti della crisi, e dall’altro prioritario riferimento per uscirne il prima possibile”[12].
Dunque, c’è davvero qualcosa di nuovo nel diritto della crisi d’impresa e nei suoi riverberi giuslavoristici; ma si deve anche prendere atto, nell’eco pascoliana (la parola del legislatore, come del poeta, è performativa), che “C’è qualcosa di nuovo … anzi d’antico”, qualcosa di così nuovo da risultare antico, di così innovativo da non mettere in discussione la tradizione. L’entusiasmo filoneista, infatti, deve ora un po’ raffreddarsi, perché il discorso, in verità, non è così semplice e lineare, dovendosi verificare, vagliare e giustificare il rapporto critico tra le due finalità attribuite ex art. 84, comma 2, CCII alla continuità aziendale, se di autentica giustapposizione si tratta (necessitante, perciò, di un’identica valorizzazione), o se, invece, a una delle due debba riconoscersi una certa prevalenza.
L’endiadi virtuosa di cui sopra s’è detto tra tutela dei posti di lavoro e continuità dell’attività imprenditoriale sconta, d’altronde, la spiazzante dialettica di “due diverse, ma complementari precarietà: da una parte, quella dell’impresa, che da una condizione di crisi ha esigenza di ripristinarne una di efficiente funzionalità in vista di una ricollocazione competitiva sul mercato, attraverso un’opportuna ristrutturazione economica e organizzativa, quasi sempre comportante interventi di riduzione anche del personale in essa occupato; dall’altra, la situazione di precarietà del lavoratore, innestata nella prima quale sua componente, ma con la peculiare caratterizzazione – che la emancipa da quella – della titolarità di una posizione giuridica soggettiva meritevole di particolare protezione, non soltanto di natura economica”[13]. Un’endiadi virtuosa ma di precaria complementarità. Se si valuta questo assunto con la serietà che merita e se, d’altra parte, è maledettamente vero che non si conservano i posti di lavoro se prima non si risana l’impresa, allora non si fa fatica a comprendere come la prima esigenza sia inevitabilmente subordinata alla (e dipenda dalla) seconda, sicché il mantenimento della capacità competitiva dell’azienda ben può transitare (il servile di possibilità è eufemistico)[14] in ambito concordatario attraverso lo ‘snellimento’ dei livelli occupazionali, e, simmetricamente, la tutela ‘a oltranza’ dei posti di lavoro ben può dissipare energie ricollocative e risorse altrimenti spendibili in favore dei creditori. Ed è a questa Lichtung, a questa luce umbratile che, ciononostante, acquista nitidezza l’intima pericoresi delle due finalità: i creditori, di norma, non sono indifferenti “alla prosecuzione dell’attività, poiché solo mediante l’ulteriore gestione dell’impresa essi possono realizzare […] il suo valore, recuperando […] almeno parte del loro credito”[15]; ciò è tanto vero che il riscritto art. 84, comma 2, CCII sembra attestare un certo favor per la continuità aziendale (che, per virtù sua propria, “tutela l’interesse dei creditori”), quasi sia ‘naturalmente’ (e pressoché presuntivamente) volta a loro vantaggio – nei limiti, ovviamente, di un apprezzabile pregiudizio: arg. ex art. 7, comma 2, lett. c), CCII.
A questo proposito, ci sarebbe pure da chiedersi (ma se ne può solo accennare, perché il discorso porterebbe troppo lontano) se tanto ‘accanimento terapeutico’ a favore della continuità aziendale, al di là di tutte le benemerite giustificazioni dedotte comunemente a suffragio, non tradisca una sostanziale sfiducia sulla “capacità del mercato di liberare i fattori produttivi, non efficientemente impiegati, per consentirne la ricollocazione nell’ambito di altre iniziative imprenditoriali [poiché] si è partiti ormai dal presupposto che questa regola non sia in grado di assicurare l’efficienza dell’impiego dei fattori produttivi e che, quindi, possano esistere un nucleo dell’impresa e certi valori che debbono essere necessariamente conservati, senza affidarne la ricollocazione al mercato”[16]; sfiducia che, per gli stessi motivi, riguarderebbe parallelamente anche le politiche attive del lavoro e la loro sistemica incapacità (che verrebbe colmata proprio dal provvidenziale auspicio manutentivo dell’occupazione ex art. 84, comma 2, CCII) di fare sì che la domanda e l’offerta di lavoro s’incontrino proficuamente e i lavoratori accidentalmente inoccupati beneficino di una rapida “ricollocazione al mercato”. 
Ora, se l’intera questione viene romanticamente considerata dallo stretto punto di vista della protezione costituzionale, va da sé che la tutela del lavoro dipendente (e, di riflesso, dell’occupazione tout court) ha un suo peso specifico e si colloca sotto l’egida dell’art. 35, comma 1, Cost., mentre non altrettanto può dirsi per l’interesse dei creditori in quanto tale, che non pare avere analogo spessore costituzionale, se non (un po’ forzatamente, in verità) sub art. 41, comma 1, Cost.; constatazione ribadita anche dalla Suprema Corte, per la quale, benché a proposito di fallimento (ma il senso ultimo può essere esteso a tutti gli “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”), la “particolarità della disciplina lavoristica è diretta ad una finalità di tutela del lavoro che, per il suo specifico contenuto e per il suo rilievo costituzionale, prevale sulle pur importanti finalità alle quali è diretta la disciplina del fallimento” [17] e, si può aggiungere, quella del concordato preventivo. Se, invece, la questione si affronta frigido pacatoque animo, allora non si può non notare come l’art. 4, comma 2, lett. c), CCII, nonostante l’ultimo intervento correttivo, mantenga inalterata la primigenia espressione per cui il debitore (compreso, per dirla con l’inglese della Direttiva, il “debtor as a going concern” che chiede di accedere alla procedura di concordato) deve gestire l’impresa “nell’interesse prioritario dei creditori”.
È vero, si dirà, che il tenore riformulato dell’art. 47, comma 1, lett. b), CCII afferma che “La domanda di accesso al concordato in continuità aziendale è comunque inammissibile se il piano è manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali”, così come può darsi che tra questi ultimi trovi posto anche la salvaguardia dei livelli occupazionali[18]; però, il fatto stesso che si parli genericamente e indefinitamente di “valori aziendali” (che, tra l’altro, la Corte di Cassazione sembra avere sempre inteso in una ridotta accezione economica e patrimoniale, in termini, ad esempio, di avviamento o di beni immateriali)[19] depone nel senso che la preservazione dei posti di lavoro, a differenza dell’interesse dei creditori[20], non s’impone e non assume rilevanza come valore in sé, come elemento autonomo e distinto (anche solo nominativamente), ma come qualcosa da valutarsi, se del caso, assieme a (e amalgamato con) l’intero compendio valoriale dell’azienda e tutte le sue componenti positive. Né è privo di significato, in questa logica, che, ai sensi dell’art. 100, comma 1, CCII, l’eventuale autorizzazione tribunalizia al “pagamento della retribuzione dovuta per la mensilità antecedente il deposito del ricorso ai lavoratori addetti all’attività di cui è prevista la continuazione” debba soggiacere alla dichiarazione del professionista attestante che il pagamento sia funzionale, con la stessa monotona litania, “ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori” [21].
Non inganni ulteriormente la gentile ma solo apparente simmetria tra creditori e lavoratori espressa dall’art. 53, comma 5-bis, CCII: a parte il verosimilmente modesto impatto pratico di questa norma – che autorizza la Corte d’appello, in caso di accoglimento del reclamo avverso la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità, a una sorta di cram down quando, appunto, “l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori [non limitato, evidentemente, alla sola tutela del posto di lavoro] prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante” – è certamente da escludere che su di essa, così come formulata, possa fondarsi un principio generale che contraddica la preminenza dell’interesse creditoriale; a tutto concedere, “l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori” deve valutarsi congiuntamente, ma non possono mai le ragioni dei secondi prevalere e basta su quelle dei primi[22]. La questione, come si è avvertito, non è semplice e lineare, ma è arduo immaginare che (almeno sotto questo profilo) possa ritenersi in dubbio, come pure è stato autorevolmente scritto, il “dogma dell’interesse prioritario dei creditori”[23], di cui, tutt’al più, può ammettersi un lieve ridimensionamento, un piccolo cedimento per il fatto stesso d’essere stato avvicinato alla finalità della preservazione dei posti di lavoro; ma non di più.
3 . La “misura possibile”
Come si vede, quando si vanno poi a valutare “i fondamentali” del concordato preventivo in continuità, la tutela dei posti di lavoro un po’ si obnubila. Qualcosa di nuovo è sì normativamente germogliato, ma è difficile che giunga a fioritura. E c’è dell’altro: come se non bastasse, quella del verbo “preserva” usato dall’art. 84, comma 2, CCII (e ciò taglia la testa al toro) è una falsa perentorietà, in quanto immediatamente sconfessata e messa a freno dall’espressione “nella misura possibile”, anteposta (con limpido effetto di cesura limitante e ridimensionante) al complemento oggetto. Si è detto che l’art. 97, comma 13, CCII autorizza a ritenere che i rapporti di lavoro pendenti non subiscono dirette ricadute dall’ammissione del datore al concordato preventivo, per cui essi rimangono ancorati alla loro specifica disciplina; questo però non significa affatto (anzi, ne è la conferma) che non possano essere interessati e travolti, più o meno dolorosamente (anche in fatali termini risolutori), dalle previsioni risanative e ristrutturative contenute nel piano concordatario[24], tanto più che il “nuovo” art. 87, comma 1, CCII (graduato, sotto altra prospettiva, secondo un encomiabile approccio in chiave di sostenibilità economica, sociale e ambientale)[25] impone al debitore istante di indicare “gli effetti della ristrutturazione sui rapporti di lavoro, sulla loro organizzazione o sulle modalità di svolgimento delle prestazioni” (lett. o) – norma che, in tutta evidenza, dà per scontata la perturbazione dei rapporti di lavoro (senza escluderne lo scioglimento) e che va letta unitamente a quella, pressoché speculare, dell’art. 4, comma 3, CCII (effetto del “copia-incolla” dell’art. 4, comma 8, D.L. 24 agosto 2021, n. 118) sull’obbligo d’informazione alle organizzazioni sindacali[26] (in vista dell’eventuale esame congiunto) in ordine alle “rilevanti determinazioni” che il datore con più di quindici dipendenti[27] intende assumere nella predisposizione del piano, idonee a incidere “sui rapporti di lavoro di una pluralità di lavoratori, anche solo per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro o le modalità di svolgimento delle prestazioni”[28].
Le due finalità – lo si ripete, un po’ a malincuore – non sono e non possono essere complanari ed equipollenti; e tuttavia rimane importante che (l’aspirazione a) la tutela dei posti di lavoro sia entrata nello spirito e nella parola del concordato in continuità aziendale, perché le conseguenze che ciò determina, pur non deflagranti, sono comunque di un certo rilievo e impongono agli operatori il rispetto di taluni accorgimenti.
Uno di questi è legato a una prima sfumatura interpretativa (e, perciò, pratico-applicativa) dell’espressione “nella misura possibile” contenuta nell’art. 84, comma 2, CCII, sfumatura che si può dire ‘interna’, strettamente riferita, ossia, all’intenzione preservativa dei posti di lavoro. Detto altrimenti, quest’espressione vuole strutturare, orientare e dettare quello che dev’essere il contenuto lavoristico sub art. 87, comma 1, lett. o), CCII del piano di concordato, nel senso che quest’ultimo può eventualmente prevedere il livellamento dei posti di lavoro ma solo come extrema ratio, quando, cioè, non sia concretamente possibile adottare in prima battuta interventi a carattere conservativo. Il piano concordatario in continuità, se ritiene di perseguire “rilevanti determinazioni” incidenti sui rapporti lavorativi, deve inevitabilmente dimensionarle in una sorta di beneficium ordinis, dando perciò precedenza solamente a quelle che intervengano (anche non alternativamente) sull’assetto organizzativo (orario, turni, pause, ecc.), sulle mansioni (nelle forme e nei limiti previsti dall’art. 2103 c.c.[29]) e sul costo del lavoro, mediante eventuali decurtazioni stipendiali o il ricorso a strumenti di sostegno al reddito (l’ampia costellazione delle varie casse integrazione guadagni). Non è possibile, invece, gestire esuberi e disporre licenziamenti collettivi o, comunque, per giustificato motivo oggettivo[30] se non, appunto, “nella misura possibile”, dopo che ogni altra manovra alternativa risulti, in concreto, inattuabile o non funzionale alla prosecuzione dell’attività d’impresa o non in grado di garantire “ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza”, come recita l’art. 112, comma 1, lett. f), CCII.
Peraltro, tra misure conservative e misure espulsive (da mettersi in questa precisa sequenza assiologica) c’è una “terra di mezzo”, più o meno ampia, che propizia interventi, per quanto può sembrare strano, di natura promiscua e, quindi, potenzialmente compatibili con la priorità creditoriale; si allude, senza pretese esaustive: alla cessione dell’azienda o di una parte di essa, che consente, allo stesso tempo, la dismissione dei rapporti di lavoro e la loro intatta prosecuzione ex art. 47, comma 4-bis, L. n. 428/1990 presso il cessionario; al ricorso al c.d. work buyout, ossia all’acquisto dell’azienda da parte dei lavoratori stessi riuniti in cooperativa (cfr. art. 11, comma 2, D.L. 23 dicembre 2013, n. 145)[31]; al contratto di rete con causale di solidarietà (art. 3, comma 4-sexies, D.L. 10 febbraio 2009, n. 5); al distacco collettivo di personale presso altri imprenditori (art. 8, comma 3, D.L. 20 maggio 1993, n. 148); alla sottoscrizione di accordi di solidarietà e di espansione (artt. 21, comma 5, e 41 D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 148) o di transizione occupazionale per il recupero di lavoratori a rischio esubero (art. 1, comma 200, L. 30 dicembre 2021, n. 234).
Un’altra sfumatura interpretativa della “misura possibile” può invece dirsi ‘esterna’, relativa, ossia, proprio all’interesse dei creditori, nel senso che gli eventuali interventi conservativi dei posti di lavoro, quand’anche tecnicamente realizzabili, non devono comunque ostacolare l’idoneità del piano alla loro prioritaria soddisfazione, perché, in caso contrario, l’adozione di provvedimenti espulsivi e incidenti direttamente sui livelli occupazionali non solo è consentita, ma diviene addirittura necessaria; se, infatti, la previsione di qualunque espediente conservativo dovesse rendersi in concreto incompatibile con le risorse satisfattive dei creditori (eccedendo, ossia, la “misura possibile”), l’interesse dei lavoratori, di nuovo, deve retrocedere.
Superfluo precisare che, in entrambi i casi, l’imprenditore e il professionista incaricato devono mostrare particolare cura nell’indicare analiticamente nel piano concordatario e nella relazione accompagnatoria ex art. 87, comma 3, CCII (anche se la norma tace sul punto) le specifiche ragioni per cui si è optato per certe misure conservative invece che per altre, e nell’evidenziarne il rapporto ‘circolare’ con l’esigenza della “soddisfazione dei creditori” e della “conservazione dei valori aziendali”; così come, d’altronde, è necessario rendere convincente spiegazione per cui non possono essere attuati interventi soltanto conservativi e si deve ricorrere a risoluzioni espulsive e compressive delle risorse umane. Analogo scrupolo motivazionale occorre in parte qua nel parere e nella relazione del commissario giudiziale, nonché nei provvedimenti di ammissione e di omologazione del concordato. Inoltre, il rispetto degli obblighi informativi e di consultazione nei confronti delle organizzazioni sindacali[32] e la sollecitudine a evitare ogni forma di asimmetria conoscitiva diventano decisivi ed essenziali: è evidente che tanto più le opzioni lavoristiche sono illustrate in forma chiara, precisa, plausibile, esauriente e persuasiva, e tanto più si possono scongiurare (è questo il punto) defatiganti e spesso ingestibili contrapposizioni ‘ideologiche’ nell’ambito delle consultazioni con i rappresentanti dei lavoratori (non ultime quelle ex art. 4, comma 3, CCII) di volta in volta previste dalla legge o dai contratti collettivi. Né va dimenticato che, nell’eventualità (tutt’altro che remota) in cui non sia obiettivamente praticabile la preservazione dei posti di lavoro e s’inneschi il conseguente e prevedibile contezioso giudiziale (ed è questo l’altro punto), devono essere formalizzate nel piano concordatario, ai sensi dell’art. 87, comma 1, lett. i), CCII, “le iniziative da adottare qualora si verifichi uno scostamento dagli obiettivi pianificati” – ovverosia, le iniziative di ‘contenimento’ degli eventuali effetti delle pronunce sfavorevoli all’azienda, tenuto conto del progressivo smantellamento del Jobs Act operato dalla giurisprudenza costituzionale, in forza della quale per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e, in generale, per quelli c.d. “economici” la reintegrazione nel posto di lavoro, in luogo della sola tutela indennitaria, non è più prevista come facoltativa[33].
4 . Una discutibile (ma doverosa) proposta
A parere di chi scrive, questo fitto intreccio disciplinare, in ogni caso, dev’essere sorretto, in termini applicativi, da una giusta dose di buon senso che possa accettabilmente favorire, “nella misura possibile”, un equilibrio non dispotico, paretiano, tra le due finalità ex art. 84, comma 2, CCII: se, come si è cercato di illustrare, la preservazione dell’occupazione è destinata in fin dei conti a fare un passo (o vari passi) indietro, non è d’altronde pensabile, se continuità è continuità ed è continuità, che l’interesse dei creditori debba stravincere e risolversi a totale discapito dell’altra finalità. La “misura possibile” (o, meglio, “sostenibile”) dell’eventuale riduzione del personale (ove non siano percorribili, come si è detto, soluzioni alternative) andrebbe comunque contenuta entro un determinato limite quantitativo, oltre il quale si appaleserebbe intollerabilmente (perlomeno a latere prestatorum) la dis-continuità della continuità aziendale; la misura sostenibile non può e non deve acconsentire, se non a pena di un insensato e scriteriato svilimento della norma, a una sistematica falcidia dei livelli occupazionali, ancorché funzionale – ça va sans dire – alla soddisfazione dei creditori.
A tale scopo, può certamente ritornare utile – quale pratica e sana regola di buon senso, razionalizzante e non eversiva[34] – il (pur) soppresso riferimento (risalente, come si è visto, al precedente testo dell’art. 84, comma 2, CCII) al “numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso”; nel senso, cioè, che una riduzione dei posti di lavoro superiore a tale limite dovrebbe ritenersi pregiudizialmente squilibrata e incompatibile – almeno tendenzialmente, e fatte salve le specifiche contingenze e le particolarità delle singole situazioni – con il concetto stesso di continuità aziendale e la sua duplice finalità. In effetti, se il termine di paragone per valutare l’interesse e la soddisfazione dei creditori “è lo scenario liquidatorio […], non potendosi certo imporre di comparare il soddisfacimento offerto dalla specifica proposta avanzata dal debitore con ogni altra possibile e diversa ipotesi teorica di proposta in continuità”[35] – come appare confermato anche dal combinato disposto degli artt. 7, comma 2, e 87, comma 2, CCII, là dove obbligano il tribunale a esaminare in via prioritaria, tra più domande, quella “diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale”, e il debitore a indicare “le ragioni per cui la proposta concordataria è preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale” – allora questo stesso scenario dev’essere anche il limite estrinseco della conservazione dei valori aziendali, comprensivi del mantenimento dei posti di lavoro. Poiché la “contaminazione lavoristica”, com’è stato suggestivamente detto[36], del “vecchio” testo dell’art. 84, comma 2, CCII serviva, in verità, proprio a segnare quell’orizzonte liquidatorio qualificante l’estrema soglia della continuità aziendale[37], allora è giusto recuperarla in un ragionevole viatico interpretativo e operativo. Con questo non s’intende far rientrare dalla finestra quello che il legislatore ha fatto uscire dalla porta: si pretende semplicemente che la “misura possibile” resti conforme e orientata al disposto ex art. 35, comma 1, Cost. e non si presti a derive arbitrarie e incontrollate, che finiscono soltanto con l’alimentare il contenzioso – esattamente ciò di cui un’impresa in crisi non ha per nulla bisogno[38].

Note:

[1] 
Cfr. A. Vattermoli, Un Codice-spezzatino che richiede alta specializzazione agli operatori, in Il Sole-24 Ore-Focus, 6 luglio 2022, 2. A dirla tutta, non si tratta, tecnicamente, neppure di un codice (se non, eventualmente, di un codice già “decodificato”), poiché, ad esempio, vi rimangono fuori e affidate a leggi speciali (arg. ex art. 1, commi 2 e 3, CCII) la disciplina sul bail-in bancario e, soprattutto, quella sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese.
[2] 
Un pallido e generico invito a mostrare “riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali” è contenuto nell’art. 212, comma 2, CCII in tema di scelta dell’affittuario dell’azienda in liquidazione giudiziale. La premura del mantenimento dell’occupazione, invece, è esplicita e più intensa nell’art. 63 D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, nell’ambito della vendita di aziende in esercizio nell’amministrazione straordinaria.
[3] 
Cfr. S. Leuzzi, Appunti sul Concordato Preventivo ridisegnato, in www.dirittodellacrisi.it, 2022, 3.
[4] 
Non invece riguardo alla parte della norma in cui, opportunamente, si oneravano il cessionario e l’affittuario dell’azienda al mantenimento “per un anno dall’omologazione” di almeno la metà dei lavoratori ceduti; ed è un vero peccato che questa disposizione sia stata stralciata.
[5] 
Cfr. R. Brogi, Il concordato con continuità aziendale nel codice della crisi, in Fallimento, 2019, 850. 
[6] 
B. Caruso - R. Del Punta - T. Treu, Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile, in www.csdle.lex.unict.it, 2020, 13.
[7] 
G. Fava, Salvare l’impresa resta l’obiettivo più importante, in Il Sole-24 Ore, 24 giugno 2022, 16.
[8] 
Poiché il comma 13 esclude i contratti di lavoro subordinato dall’intera area di efficacia dell’art. 97 CCII, allora, dal punto di vista puramente sintattico, ciò fa sorgere il dubbio che non si debba applicare loro, a rigore, nemmeno il comma 1, ove è enunciata la regola generale per cui i contratti pendenti “proseguono anche durante il concordato”; è ovvio, invece, che, dal punto di vista semantico e precettivo, la norma intende affermare non l’automatica interruzione dei rapporti lavorativi (ci mancherebbe altro), ma l’applicazione della loro specifica normativa, programmaticamente (ma solo programmaticamente) indifferente alla vicenda concordataria dell’impresa datoriale. Cfr., sul punto, P. F. Censoni, Gli effetti del concordato preventivo sui contratti pendenti nel passaggio dalla legge fallimentare al CCII, in Fallimento, 2019, 872. 
[9] 
C’è da chiedersi, peraltro, se l’art. 94-bis, comma 1, CCII, che vieta ai creditori di risolvere unilateralmente i contratti pendenti “per il solo fatto del deposito della domanda di accesso al concordato in continuità aziendale”, valga anche per le dimissioni dei lavoratori-creditori; forse no, anche solo per il fatto che l’art. 2119, comma 2, c.c., a differenza di quanto previsto per la liquidazione giudiziale, non esprime alcuna clausola di riserva al CCII in relazione alla disciplina degli effetti del concordato preventivo sui rapporti di lavoro e sulla loro risoluzione hinc et inde.
[10] 
Il riferimento ai soli “diritti di credito” lascerebbe fuori i diritti non di credito (come, ad esempio, quello alla reintegrazione nel posto di lavoro o alla cessazione della condotta discriminatoria), che, però, in quanto relativi a un obbligo infungibile di facere, sono incoercibili e insuscettibili di esecuzione ex art. 612 c.p.c. 
[11] 
B. Caruso - R. Del Punta - T. Treu, op. cit., 24. È interessante che, ai sensi dell’art. 84, comma 3, CCII, l’”utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile” oggetto di possibile offerta ai creditori nella proposta di concordato possa consistere anche “nella prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore”, cosa che, per i lavoratori, potrebbe equivalere alla proroga di rapporti a termine o alla loro conversione a tempo indeterminato.
[12] 
F. Vella, Introduzione a FONDAZIONE UNIPOLIS, La partecipazione dei lavoratori nelle imprese, Bologna, 2017, 9.
[13] 
A. Patti, Rapporti di lavoro e impresa in crisi, in Questione Giustizia, 2, 2019, 302. 
[14] 
Per quanto l’art. 87, comma 1, lett. n), CCII ammetta l’eventualità di “parti non interessate dal piano”, quando in relazione ai lavoratori (non creditori) non venga disposto e previsto alcunché.
[15] 
L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, 50. 
[16] 
Così Renzo Costi nell’intervista contenuta in R. Costi - L. Enriques - F. Vella, Diritto commerciale. Una conversazione, Bologna, 2019, 89
[17] 
Cass., 14 luglio 2020, n. 14975. 
[18] 
Cfr. G. B. Nardecchia, La continuità aziendale nelle procedure concorsuali, in Questione Giustizia, 2, 2019, 196 e 201. 
[19] 
Cfr., da ultimo, Cass., 1 marzo 2022, n. 6772.
[20] 
Difetta quello che i filologi chiamano parallelismus membrorum tra il testo dell’art. 47, comma 1, lett. b), CCII e quello dell’art. 84, comma 2, CCII.
[21] 
Si può pure scartare l’eventualità che la mancata aggettivazione della formula “interesse dei creditori” contenuta nell’art. 84, comma 2, CCII sia così significativa da escluderne o da ridimensionarne il carattere comunque prevalente.
[22] 
Così L. Stanghellini, op. cit., 72. Anche G. D’ATTORRE, Sostenibilità e responsabilità sociale nella crisi d’impresa, in www.dirittodellacrisi.it, 2021, 10, pure sostenitore della tesi per cui le procedure d’insolvenza perseguono interessi non riducibili esclusivamente a quello dei creditori, ritiene a proposito del concordato preventivo che “l’esame della definizione degli interessi e dei diritti del creditori si arricchisce di una maggiore complessità in ragione degli immanenti problemi distributivi”.
[23] 
M. Fabiani, L’avvio del codice della crisi, in www.dirittodellacrisi.it, 2022, 16. 
[24] 
Risulta assolutamente opportuna in questo senso la previsione dell’art. 87, comma 1, lett. f), CCII per cui resta fuori discussione e dev’essere obbligatoriamente prevista la copertura delle spese necessarie “per assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro” e per scongiurare il rischio che la crisi dell’impresa datoriale diventi una scusa (come purtroppo è accaduto, con esiti spesso drammatici) per allentare i costi della sicurezza dei dipendenti e della manutenzione degli strumenti di lavoro.
[25] 
Già auspicata, con ammirevole lungimiranza, da G. D’attorre, op. cit., 11.
[26] 
Obbligo informativo che verrà esteso anche nei confronti dei singoli lavoratori una volta recepito l’art. 6 Dir. 2019/1152/UE sulla trasparenza delle condizioni di lavoro.
[27] 
È perciò assai utile che l’art. 87, comma 1, lett. a), CCII imponga l’indicazione nel piano di concordato della “posizione dei lavoratori”, inclusiva (oltre che della loro situazione iscrittiva, creditoria e contributiva) anche di quella legata alla tipologia dei contratti di lavoro, essenziale per il calcolo dell’effettivo livello occupazionale dell’impresa.
[28] 
È dubbio che, a mente dell’art. 1, comma 226, L. 30 dicembre 2021, n. 234, possa applicarsi alle imprese in concordato la disciplina sulle delocalizzazioni di sedi aziendali e di stabilimenti.
[29] 
Norma che può essere derogata, ai sensi dell’art. 4, comma 11, L. 23 luglio 1991, n. 223, dagli accordi sindacali stipulati nel corso della procedura di licenziamento collettivo quando siano finalizzati al riassorbimento totale o parziale dei lavoratori eccedenti.
[30] 
Sempre tenuto conto che “rientra nella nozione di «licenziamento» il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo”: Cass., 20 luglio 2020, n. 15401.
[31] 
Cfr. S. Pacchi, Una possibile alternativa per la continuità indiretta: l’acquisto dell’azienda da parte dei lavoratori, in www.ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 27, 2021, 10 ss.
[32] 
L’art. 87, comma 1, lett. o), CCII impone che le relative modalità siano preventivamente indicate nel piano concordatario, ma non è chiara l’esatta intenzione della norma, dato che già nella legge e nei contratti collettivi, almeno di regola, sono illustrati i tempi, i modi e le forme degli adempimenti comunicatori e consultivi di volta in volta a carico dell’imprenditore.
[33] 
[1] Cfr. C. Cost., 1 aprile 2021, n. 59, e 19 maggio 2022, n. 125.
[34] 
Cfr. A Scarpa, Normazione emergenziale e «buon senso» interpretativo, in www.giustiziainsieme.it, 2020. 
[35] 
G. D’Attorre, Le utilità conseguite con l’esecuzione del concordato in continuità spettano solo ai creditori o anche al debitore?, in Fallimento, 2017, 324. 
[36] 
M. Fabiani, op. cit., 2.
[37] 
Cfr. R. Brogi, op. cit., 849.
[38] 
Sicché si sottoscrive per filo e per segno che “finisce il tempo della tecnocrazia normativa e si apre lo scenario delle imprese, della vita reale, dei diritti compromessi e da tutelare; se vogliamo avere a cuore la dimensione reale del fenomeno delle crisi e cioè la vita delle imprese, sarà indispensabile un approccio costruttivo nell’interpretazione del codice perché è inutile negare che taluni conti non tornano e che una interpretazione che curasse solo le virgole e i lemmi potrebbe condurre ad esiti disastrosi”: M. Fabiani, op. cit., 21.

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