Qualcosa di nuovo, dunque, che germoglia in una direzione fototropica addirittura trascendente il mero dato giuridico, e d’impatto, per così dire, ‘culturale’ intorno al ruolo dei lavoratori (e dei loro rappresentanti sindacali) nella crisi d’impresa: per un verso, si esprime un premuroso intento, quello teso alla preservazione dei posti di lavoro, che dimostra di scorgere nel prestatore subordinato non soltanto un creditore (non essendo affatto detto che i due ruoli debbano per forza sussistere contestualmente o coincidere tra di loro: in questo senso non è irrilevante, ed è, anzi, meritorio, che il D.Lgs. n. 83/2022 non abbia pedissequamente recepito il 43° considerando per cui “Il concetto di parti interessate [dei quadri di ristrutturazione] dovrebbe includere i lavoratori unicamente in quanto creditori”), né uno stakeholder qualunque, ma un soggetto (con, sovente, una famiglia dietro di lui) che “collabora alla realizzazione degli scopi produttivi dell’impresa e alla gestione efficiente e competitiva della stessa, a fronte di retribuzione e sicurezza della persona, [e perciò meritevole] di un pieno “riconoscimento” del suo ruolo essenziale nell’attività di impresa e della conseguente valorizzazione delle sue competenze e capacità”[11]; per altro verso, si restituisce centralità alla tutela del posto di lavoro, nella consapevolezza (ma anche nell’ambiguità) “del ruolo di inevitabile protagonista ricoperto dal fattore lavoro, da un lato principale destinatario dei tristemente noti effetti della crisi, e dall’altro prioritario riferimento per uscirne il prima possibile”[12].
Dunque, c’è davvero qualcosa di nuovo nel diritto della crisi d’impresa e nei suoi riverberi giuslavoristici; ma si deve anche prendere atto, nell’eco pascoliana (la parola del legislatore, come del poeta, è performativa), che “C’è qualcosa di nuovo … anzi d’antico”, qualcosa di così nuovo da risultare antico, di così innovativo da non mettere in discussione la tradizione. L’entusiasmo filoneista, infatti, deve ora un po’ raffreddarsi, perché il discorso, in verità, non è così semplice e lineare, dovendosi verificare, vagliare e giustificare il rapporto critico tra le due finalità attribuite ex art. 84, comma 2, CCII alla continuità aziendale, se di autentica giustapposizione si tratta (necessitante, perciò, di un’identica valorizzazione), o se, invece, a una delle due debba riconoscersi una certa prevalenza.
L’endiadi virtuosa di cui sopra s’è detto tra tutela dei posti di lavoro e continuità dell’attività imprenditoriale sconta, d’altronde, la spiazzante dialettica di “due diverse, ma complementari precarietà: da una parte, quella dell’impresa, che da una condizione di crisi ha esigenza di ripristinarne una di efficiente funzionalità in vista di una ricollocazione competitiva sul mercato, attraverso un’opportuna ristrutturazione economica e organizzativa, quasi sempre comportante interventi di riduzione anche del personale in essa occupato; dall’altra, la situazione di precarietà del lavoratore, innestata nella prima quale sua componente, ma con la peculiare caratterizzazione – che la emancipa da quella – della titolarità di una posizione giuridica soggettiva meritevole di particolare protezione, non soltanto di natura economica”[13]. Un’endiadi virtuosa ma di precaria complementarità. Se si valuta questo assunto con la serietà che merita e se, d’altra parte, è maledettamente vero che non si conservano i posti di lavoro se prima non si risana l’impresa, allora non si fa fatica a comprendere come la prima esigenza sia inevitabilmente subordinata alla (e dipenda dalla) seconda, sicché il mantenimento della capacità competitiva dell’azienda ben può transitare (il servile di possibilità è eufemistico)[14] in ambito concordatario attraverso lo ‘snellimento’ dei livelli occupazionali, e, simmetricamente, la tutela ‘a oltranza’ dei posti di lavoro ben può dissipare energie ricollocative e risorse altrimenti spendibili in favore dei creditori. Ed è a questa Lichtung, a questa luce umbratile che, ciononostante, acquista nitidezza l’intima pericoresi delle due finalità: i creditori, di norma, non sono indifferenti “alla prosecuzione dell’attività, poiché solo mediante l’ulteriore gestione dell’impresa essi possono realizzare […] il suo valore, recuperando […] almeno parte del loro credito”[15]; ciò è tanto vero che il riscritto art. 84, comma 2, CCII sembra attestare un certo favor per la continuità aziendale (che, per virtù sua propria, “tutela l’interesse dei creditori”), quasi sia ‘naturalmente’ (e pressoché presuntivamente) volta a loro vantaggio – nei limiti, ovviamente, di un apprezzabile pregiudizio: arg. ex art. 7, comma 2, lett. c), CCII.
A questo proposito, ci sarebbe pure da chiedersi (ma se ne può solo accennare, perché il discorso porterebbe troppo lontano) se tanto ‘accanimento terapeutico’ a favore della continuità aziendale, al di là di tutte le benemerite giustificazioni dedotte comunemente a suffragio, non tradisca una sostanziale sfiducia sulla “capacità del mercato di liberare i fattori produttivi, non efficientemente impiegati, per consentirne la ricollocazione nell’ambito di altre iniziative imprenditoriali [poiché] si è partiti ormai dal presupposto che questa regola non sia in grado di assicurare l’efficienza dell’impiego dei fattori produttivi e che, quindi, possano esistere un nucleo dell’impresa e certi valori che debbono essere necessariamente conservati, senza affidarne la ricollocazione al mercato”[16]; sfiducia che, per gli stessi motivi, riguarderebbe parallelamente anche le politiche attive del lavoro e la loro sistemica incapacità (che verrebbe colmata proprio dal provvidenziale auspicio manutentivo dell’occupazione ex art. 84, comma 2, CCII) di fare sì che la domanda e l’offerta di lavoro s’incontrino proficuamente e i lavoratori accidentalmente inoccupati beneficino di una rapida “ricollocazione al mercato”.
Ora, se l’intera questione viene romanticamente considerata dallo stretto punto di vista della protezione costituzionale, va da sé che la tutela del lavoro dipendente (e, di riflesso, dell’occupazione tout court) ha un suo peso specifico e si colloca sotto l’egida dell’art. 35, comma 1, Cost., mentre non altrettanto può dirsi per l’interesse dei creditori in quanto tale, che non pare avere analogo spessore costituzionale, se non (un po’ forzatamente, in verità) sub art. 41, comma 1, Cost.; constatazione ribadita anche dalla Suprema Corte, per la quale, benché a proposito di fallimento (ma il senso ultimo può essere esteso a tutti gli “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”), la “particolarità della disciplina lavoristica è diretta ad una finalità di tutela del lavoro che, per il suo specifico contenuto e per il suo rilievo costituzionale, prevale sulle pur importanti finalità alle quali è diretta la disciplina del fallimento” [17] e, si può aggiungere, quella del concordato preventivo. Se, invece, la questione si affronta frigido pacatoque animo, allora non si può non notare come l’art. 4, comma 2, lett. c), CCII, nonostante l’ultimo intervento correttivo, mantenga inalterata la primigenia espressione per cui il debitore (compreso, per dirla con l’inglese della Direttiva, il “debtor as a going concern” che chiede di accedere alla procedura di concordato) deve gestire l’impresa “nell’interesse prioritario dei creditori”.
È vero, si dirà, che il tenore riformulato dell’art. 47, comma 1, lett. b), CCII afferma che “La domanda di accesso al concordato in continuità aziendale è comunque inammissibile se il piano è manifestamente inidoneo alla soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali”, così come può darsi che tra questi ultimi trovi posto anche la salvaguardia dei livelli occupazionali[18]; però, il fatto stesso che si parli genericamente e indefinitamente di “valori aziendali” (che, tra l’altro, la Corte di Cassazione sembra avere sempre inteso in una ridotta accezione economica e patrimoniale, in termini, ad esempio, di avviamento o di beni immateriali)[19] depone nel senso che la preservazione dei posti di lavoro, a differenza dell’interesse dei creditori[20], non s’impone e non assume rilevanza come valore in sé, come elemento autonomo e distinto (anche solo nominativamente), ma come qualcosa da valutarsi, se del caso, assieme a (e amalgamato con) l’intero compendio valoriale dell’azienda e tutte le sue componenti positive. Né è privo di significato, in questa logica, che, ai sensi dell’art. 100, comma 1, CCII, l’eventuale autorizzazione tribunalizia al “pagamento della retribuzione dovuta per la mensilità antecedente il deposito del ricorso ai lavoratori addetti all’attività di cui è prevista la continuazione” debba soggiacere alla dichiarazione del professionista attestante che il pagamento sia funzionale, con la stessa monotona litania, “ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori” [21].
Non inganni ulteriormente la gentile ma solo apparente simmetria tra creditori e lavoratori espressa dall’art. 53, comma 5-bis, CCII: a parte il verosimilmente modesto impatto pratico di questa norma – che autorizza la Corte d’appello, in caso di accoglimento del reclamo avverso la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità, a una sorta di cram down quando, appunto, “l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori [non limitato, evidentemente, alla sola tutela del posto di lavoro] prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante” – è certamente da escludere che su di essa, così come formulata, possa fondarsi un principio generale che contraddica la preminenza dell’interesse creditoriale; a tutto concedere, “l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori” deve valutarsi congiuntamente, ma non possono mai le ragioni dei secondi prevalere e basta su quelle dei primi[22]. La questione, come si è avvertito, non è semplice e lineare, ma è arduo immaginare che (almeno sotto questo profilo) possa ritenersi in dubbio, come pure è stato autorevolmente scritto, il “dogma dell’interesse prioritario dei creditori”[23], di cui, tutt’al più, può ammettersi un lieve ridimensionamento, un piccolo cedimento per il fatto stesso d’essere stato avvicinato alla finalità della preservazione dei posti di lavoro; ma non di più.