L’art. 2383, comma 3, c.c. riconosce all’assemblea la prerogativa di revocare “in qualunque tempo” gli amministratori. La “giusta causa” è prescindibile: dalla sua mancanza deriva un mero obbligo risarcitorio nei confronti dei soggetti rimossi.
Nella ricostruzione giurisprudenziale invalsa la “giusta causa” postula una rottura “pactum fiduciae” fra soci e amministratori: i primi non confidano più, sulla scorta di elementi circostanziati, nell’idoneità dei secondi a realizzare gli interessi dei titolari del capitale di rischio. I fatti e i comportamenti che possono rendere “giusta” la revoca coincidono, in linea di principio, con inadempimenti di doveri connessi all’incarico ricoperto, ma possono pure consistere in situazioni oggettive che, per quanto slegate dalle condotte gestorie del management, nondimeno compromettono l’affidamento sulle capacità di quest’ultimo ad assolvere al proprio mandato[35]. Non rileva mai come “giusta causa” il mero dissenso dei soci sull’operato degli amministratori, occorrendo l’allegazione di elementi pregnanti – secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità – che, sebbene esogeni rispetto all’adempimento dell’incarico, e correlati a contesti diversi dal perimetro dei doveri d’ufficio, revocano in dubbio la correttezza, la dedizione, l’adeguatezza, la professionalità, l’indipendenza, l’onorabilità degli amministratori, minando in radice la fiducia nei loro riguardi[36].
È da chiedersi in che termini questo palinsesto concettuale – che necessariamente si è inteso semplificare[37] – sia fungibile in ambiente di crisi ed entro quali limiti sia spendibile in rapporto all’art. 120 bis CCII[38].
La revoca introdotta da quest’ultima norma non sembra assimilabile alle normali delibere di revoca e sostituzione degli amministratori. Non solo perché – come si è argomentato (v. Par. 3) – la rimozione dall’incarico gestorio non spiega effetti fino al provvedimento di accertamento giudiziale della “giusta causa”, ma perché è quest’ultima ad assumere una fisionomia peculiare e cangiante.
Non è mai immune da contraccolpi il travaso di una clausola generale[39]. In ogni clausola generale c’è una fattispecie aperta, che va integrata dall’esterno, attraverso un giudizio di valore che il legislatore non ha compiuto e che è il giudice a dover svolgere. Il tribunale non può abdicare all’incombenza di mettere la clausola a contatto con la realtà pratica sulla quale deve incidere, di ricostruir detta clausola al lume del sistema entro cui essa deve operare; solo in tal modo, infatti, è possibile attribuire un significato non eccentrico a un concetto indeterminato.
La disposizione di nuovo conio ha inteso irrobustire la riserva di competenza degli amministratori in punto di scelte gestionali, tenendo la linea degli artt. 2380 bis e 2475 c.c. In quest’ottica, il disaccordo sul tipo di strumento e sulla programmazione che lo alimenta non può integrare la “giusta causa”, finendo per sostanziarsi in una sovrapposizione indebita su un ambito operativo altrui.
Che gli amministratori selezionino lo strumento sbagliato o non selezionino quello migliore è profilo che rimane confinato nello steccato delle loro eventuali responsabilità. La “giusta causa” non è il Cavallo di Troia per addentrarsi nel merito di decisioni che il comma 1 dell’art. 120 bis CCII demanda agli amministratori. Non solo perché le iniziative di contrasto dello stato di crisi non sono oggetto di un dovere a contenuto tipizzato, ma perché le modalità operative liberamente stabilite dall’amministratore sono coperte dalla business judgment rule e sembrano sindacabili nei soli limiti della ragionevolezza, secondo una valutazione da compiersi ex ante, tenendo conto della mancata adozione di cautele, verifiche, informazioni preventive finalizzate ad apprezzare i margini di rischio[40].
L’amministratore può finanche cambiare il core business dell’impresa, se questa scelta è calata in uno strumento di regolazione; che in astratto esista uno strumento più consono di quello cui governance ha fatto ricorso è circostanza che non sorregge la delibera di revoca e non ha probabilità alcuna d’esser presa in considerazione dal giudice. Nell’economia dell’ordinamento concorsuale la bontà della soluzione regolatoria è, d’altronde, rimessa al consenso o al dissenso dei creditori e, fra costoro, anche dei soci, appartati in una classe ad hoc[41].
Non ha rilevo nemmeno il fatto che l’accesso allo strumento sia l’esito finale di una rotta sbagliata che ha condotto alla crisi e che il nocchiero che l’ha scelta sia stato l’amministratore. Tale situazione, infatti, è un antecedente e non un dato sopravvenuto rispetto alla decisione di approdare al concorso. I soci avrebbero dovuto soffermarsi sull’eziologia della crisi a tempo debito, sotto la vigenza delle regole comuni.
In realtà, se l’ordinamento è orientato verso la sostenibilità dell’impresa, e se quest’ultima giustifica in prevalenza il rimaneggiamento di competenze quando si accede alla concorsualizzazione della crisi, la riserva di prerogative degli amministratori non va radicalizzata, tanto da renderla refrattaria e intangibile.
L’art. 120 bis, comma 4, esclude, infatti, possa connotarsi come “giusta causa” di revoca la domanda di accesso ad uno strumento, ma sempreché la relativa presentazione avvenga “in presenza delle condizioni di legge”. La locuzione adoperata sembra identificare una prima, possibile “giusta causa”: quella della carenza eclatante dei presupposti di utilizzabilità dello strumento. Entro queste paratie ristrette il tribunale può sindacare il modus agendi della governance. La crisi o l’insolvenza che siano contraddette per tabulas da evidenze documentali che testimonino l’accesso affrettato e prematuro allo strumento sono situazioni espressive di un atteggiamento sprovveduto degli amministratori, che può rientrare nel cono visivo della “giusta causa”.
Del pari, il piano correlato allo strumento che si mostri privo di un grado minimale di plausibilità, in quanto operativamente inagibile, è un elemento suscettibile d’essere preso in considerazione. La “giusta causa” di revoca può riguardare, sotto questo profilo, la rottura del vincolo fiduciario che si collega all’irragionevolezza della continuità ipotizzata, sia in funzione del soddisfacimento dei creditori, sia nell’ottica del perseguimento dell’obiettivo della conservazione dei valori aziendali[42]. Se la programmazione tratteggiata dagli amministratori appare, sulla base della scienza e della tecnica, apertamente inadatta a pervenire agli scopi predeterminati, i gestori possono essere rimossi.
L’art. 7 CCII, benché norma processuale, è nel contempo regola di sistema: lo strumento può guadagnare l’omologa non sulla scorta di una prognosi fausta, ma sulla base di una valutazione “non negativa”, potendo meritarsi la promozione, non in quanto presumibilmente idoneo ad assorbire la crisi, ma in quanto non palesemente inidoneo a regolarla, quindi non irrazionale, né implausibile[43]. In tal senso, il giudice alla cui approvazione sia rimessa una delibera di revoca ex art. 120 bis, comma 4, nella quale si faccia questione dell’assoluta inidoneità degli amministratori nell’approccio alla crisi, potrà valutare incidenter tantum, al solo fine di negare o accordare il platet alla disposta rimozione, se le prospettive di realizzo si presentino tecnicamente non irragionevoli, o se l’ipotesi programmata abbia o meno una connotazione peregrina, evincibile da assunti fallaci o assiomatici, o da tempi di recupero impronosticabili, oppure da un’attestazione carente, discordante, non emendabile[44].
Queste considerazioni ne suggeriscono una ulteriore. Sono indotto a pensare che la “giusta causa” dell’art. 120 bis, comma 4, non possa non essere scrutata secondo una lente finalistica, che guardi in principalità al valore della continuità aziendale e alla complessità variegata degli interessi che nella sua orbita convivono. Se la viability è il valore primario, esso deve riempire di senso e di contenuto la clausola generale di riferimento. Non può, dunque, rilevare la semplice frattura del rapporto fiduciario, perché il perno della valutazione del giudice, ogni qualvolta lo squilibrio viene vestito dallo strumento, è essenzialmente la tenuta di quest’ultimo[45].
Non si deve discutere in principalità della mala gestio pregressa, ma del mezzo di regolazione prescelto, della sua intrinseca razionalità.
Perché un inadempimento o un’irregolarità dell’amministratore valgano a detronizzare quest’ultimo non è sufficiente che abbiano suscitato la sfiducia dei soci – i cui interessi d’altronde coabitano con quelli dei creditori – ma devono essersi ripercossi sull’attuabilità del programma di risanamento, anche in ragione della conclamata inettitudine degli amministratori revocati a proseguire nell’incarico, spingendo a meta lo strumento. Sono possibili alcune esemplificazioni in cui ciò accade: l’amministratore è stato il regista di investimenti spericolati che lo hanno reso inviso ai mercati di riferimento; l’amministratore ha gestito in maniera irregolare i rapporti di lavoro creando conflittualità con le rappresentanze sindacali dei dipendenti; l’amministratore è stato reso destinatario di un’azione risarcitoria personale da parte di un istituto di credito vedendo compromessi i propri spazi di negoziazione; l’amministratore ha disorientato i fornitori strategici e li ha resi irreparabilmente riottosi.
Se la “giusta causa” delle regole comuni aderisce al versante soggettivo del rapporto fiduciario e valorizza qualsiasi circostanza lo sconvolga, nel campo della crisi, per converso, sembra venire alla ribalta un processo di “oggettivizzazione” della “giusta causa”. Il tribunale può dare risalto alla condotta o alla circostanza, non perché abbiano turbato i soci, ma perché siano concretamente suscettibili di far fortemente dubitare – al netto della diffidenza dell’assemblea verso i gestori – dell’attitudine dello strumento a regolare la crisi, in ragione dell’inaffidabilità o incapacità di colui che dovrebbe portarlo in omologa e poi attuarne le previsioni.
La bussola ermeneutica è, del resto, in una norma anch’essa solo in apparenza meramente processuale, l’art. 53, comma 5 bis, CCII: ogni qualvolta lo richieda l’interesse generale l’omologazione dello strumento prevale sulle ragioni dei singoli[46].
La revoca ex art. 120 bis, non giova, pertanto, a stigmatizzare la gestione trascorsa degli amministratori, né a sanzionarne i comportamenti poco commendevoli, né a mettere in luce circostanze indipendenti dalle condotte dei gestori che hanno convinto i soci dell’inadeguatezza della governance. La revoca, in tanto può avere adito in costanza di accesso allo strumento in quanto sia ancillare al suo ulteriore corso, funzionale al buon esito della regolazione.
Gli amministratori che siano incappati nella violazione di doveri verso i soci, disattendendo gli obblighi di istituzione degli adeguati assetti e attivandosi con vistoso ritardo, non solo per ciò stesso esposti, una volta assunta la decisione sullo strumento, ad una revoca per “giusta causa” ai sensi dell’art. 120 bis, comma 4, CCII. Nel momento in cui la decisione è stata pubblicata, la visuale del giudice in punto di “giusta causa” necessariamente slitta dalle imperizie o inadempienze individuali ancora una volta allo strumento. Se la situazione, ancorché sottovalutata dapprincipio, si presta ad essere presa in carico attraverso la soluzione concorsuale non irragionevole immaginata dagli amministratori, questi ultimi sconteranno solo in seconda battuta le proprie eventuali responsabilità; essi dovranno, fino all’omologa, rimanere in sella all’impresa, perché qualsiasi cambio della guardia potrebbe frustrare le chance del percorso intrapreso.
Se si rovescia il punto di osservazione e ci si pone dal lato degli amministratori, ci si avvede che è indubbio che costoro possano abusare delle competenze riservate ex art. 120 bis. Ma l’abuso ricorre solo se lo strumento, anziché volto alla tutela del patrimonio o dell’impresa, sia piegato a conseguire un risultato illecito o eccentrico rispetto alla sua funzione[47]. È il caso dell’amministratore che attraverso la concorsualizzazione miri semplicemente a crearsi un corridoio agevole attraverso il quale incidere sulla struttura finanziaria dell’impresa o sullo statuto dell’ente, comprimendo i diritti partecipativi di alcuni gruppi di soci. Naturale che, in tal caso, una “giusta causa” di revoca sussista.
È altrettanto naturale che sia sindacabile sul piano della “giusta causa” la decisione assunta dall’amministratore in conflitto di interessi.
Una “giusta causa” di revoca può scorgersi anche nella violazione dell’obbligo di informazione sull’accesso allo strumento e sul suo andamento, sempreché nelle more del vaglio da parte del giudice l’amministratore non colmi il deficit di notizie. In effetti, la revoca va proporzionata all’inadempimento riscontrato, che nell’esemplificazione effettuata risulta anticipatamente rimosso. La scarsa propensione a fornire notizie ai creditori mette in forse la correttezza dell’amministratore destinatario della delibera di revoca, ma non necessariamente le sue attitudini gestionali. Pertanto, se l’amministratore pone rimedio all’originaria lacuna, non vi è ragione di travolgerne la posizione, mettendo a repentaglio l’ulteriore corso dello strumento.
Sul piano processuale non sembra reggere in rapporto allo scrutinio demandato al tribunale ex art. 120 bis, comma 4, CCII, l’indirizzo sedimentatosi nel formante giurisprudenziale in punto di “giusta causa” di revoca ai sensi dell’art. 2383, comma 3, c.c., a tenore del quale i motivi di revoca dell’amministratore restano solo ed esclusivamente quelli indicati nella relativa deliberazione assembleare, non potendo gli stessi essere integrati da ulteriori motivi nel corso del giudizio[48]. Non sembra esservi previsione atta ad imporre che le circostanze rilevanti ai fini della sussistenza della giusta causa debbano rimanere solo quelle specificamente enunciate nella delibera di revoca dell’assemblea. Più plausibile ritenere, in difetto di precetti ostativi, che consti la possibilità di integrare quelle circostanze nel corso del processo così da fornire al giudice tenuto a compiere la valutazione di sintesi una mappa più completa degli interessi da soppesare.