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Saggio

L’impatto sistematico dell’art. 120 bis CCII e la revoca degli amministratori dopo l’accesso allo strumento

Salvo Leuzzi, Consigliere della Suprema Corte di Cassazione

16 Aprile 2025

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
*Il saggio costituisce un primo sviluppo delle riflessioni svolte dall’A. nella relazione tenuta al Convegno “Il diritto societario della crisi di impresa”, il 27 marzo 2025, presso l’Università Sapienza di Roma, Facoltà di Giurisprudenza.
L’A. indaga l’assetto di competenze tratteggiato dall’art. 120 bis CCII, soffermandosi, in particolare, sulla revoca degli amministratori per “giusta causa” nel periodo successivo all’accesso allo strumento di regolazione concorsuale. Dall’analisi, in uno alle maggiori prerogative della governance, emerge l’accresciuto ruolo dell’autorità giudiziaria.  
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1 . Contenuti e implicazioni dell’art. 120 bis CCII
L’art. 120 bis, comma 1, CCII, innestato dall’art. 25, D.Lgs. n. 83/2022, attribuisce la scelta di accedere allo strumento di regolazione all’organo amministrativo, che la esplica al riparo da preventivi confronti interorganici e ingerenze assembleari[1]. 
Si tratta di norma transtipica[2], la cui genesi risponde a una duplice necessità: ridurre il tempo e innalzare l’efficienza delle dinamiche decisionali interne alle società, nel frangente tumultuoso della crisi o dell’insolvenza. In controluce, si scorge la presa d’atto normativa dell’inadeguatezza congiunturale delle regole comuni del Codice civile sul riparto di poteri fra gli organi[3]. 
Su queste basi il totem della neutralità organizzativa viene abbattuto[4]. Il che non avviene in favore di una franchigia transitoria dalle regole ordinarie, ma della costruzione – senz’altro percorribile per norma di legge – di un diverso assetto di competenze endosocietarie, sintonizzato sull’emergenza[5]. 
Le competenze, in concomitanza, non con l’affacciarsi dello squilibrio grave, ma con la sua successiva concorsualizzazione davanti al tribunale, mutano plesso e cardine[6]. 
Il plesso diventa il Codice della crisi, in rapporto al quale le disposizioni del Libro V del Codice Civile mantengono uno spazio ausiliario e di complemento, che ne comprime l’incidenza entro i limiti della compatibilità. 
Il cardine si ritrova nel potere degli amministratori di accentrare il governo della situazione, selezionando il tipo di strumento e, con esso, il contenuto e le condizioni del piano[7]. 
L’apparato delle competenze racchiuso negli artt. 2364-2365 c.c. cede il passo ad una diversa configurazione di poteri, che non punta sull’autarchia degli amministratori, ma chiama in causa, alla stregua di equilibratore, il giudice, trovando nei suoi provvedimenti – di omologa dello strumento prescelto, di approvazione o meno della revoca degli amministratori ex comma 4 dell’art. 120 bis – altrettante camere di compensazione di interessi intrinsecamente divaricati: quelli dei creditori, quelli dei soci[8]. 
Sotto questa luce si comprende la dilatazione dell’area di manovra dei gestori, con l’opportunità di congegnare qualsiasi modificazione statutaria e di intervenire sulla struttura finanziaria dell’impresa (art. 120 bis, comma 2, CCII). Il target del risanamento non è perseguito unicamente attraverso gli assets, ma passa per la struttura organizzativa e finanziaria dell’impresa, eretta a sua volta a mezzo di contrasto dello squilibrio[9]. All’azione individuale degli amministratori sono affidate le operazioni straordinarie: fusioni, scissioni e trasformazioni. Gli aumenti e le riduzioni di capitale diventano, in punto di crisi, un cimento della governance, cui si dà agio di condizionare la fisionomia stessa delle operazioni, limitando o escludendo i diritti d’opzione, o comunque incidendo, per quel che serve all’obiettivo programmato, direttamente sui diritti di partecipazione dei soci[10]. 
Il contrappeso che giustifica traiettorie a tutt’oggi poco assecondate nelle prassi nostrane – anzi avvertite quasi come esotiche – è proprio il ruolo penetrante attribuito all’autorità giudiziaria nel contesto degli strumenti[11]. A recintare il monopolio degli amministratori non è, infatti, la garanzia legalitaria e di superficie, data dalla verbalizzazione notarile dell’esercizio delle competenze allargate. L’impalcatura dei poteri mostra un’architrave più massiccia: il giudice quale garante di posizioni. 
È il punto centrale: le “operazioni societarie” non costituiscono un’avventura autopoietica (e autoreferenziale) dell’amministratore, sono il prodotto di una sentenza omologatoria che “tiene luogo” (art. 120 quinquies, comma 1, CCII) di deliberazioni assembleari che non vi è tempo di attendere. La statuizione giudiziale è suppletiva della volontà assembleare, ma pur sempre adottata in conformità (anche) agli interessi e alle aspettative dei soci[12]. 
Se la definizione specifica degli adeguati assetti è rimessa alle cure degli amministratori, la cui responsabilità si misura nella tempestiva rilevazione dello squilibrio e nell’assunzione subitanea di “iniziative idonee”, è coerente che gli amministratori tali iniziative possano immantinente adottarle, pianificando senza passaggi intermedi le contromisure utili (artt. 3, comma 2, CCII, e 2086 c.c.)[13]. 
L’opzione dei conditores – pur eterodossa per lo studioso del diritto societario – non va, dunque, soltanto nel verso della maggiore efficienza organizzativa, si muove pure sul binario di un’allocazione certa delle responsabilità. La concentrazione sugli amministratori del potere di gestire la crisi li chiama a rispondere sia in ipotesi di contestata indefinizione degli assetti, sia nell’evenienza dell’aggravamento del dissesto perpetrato con lo strumento. La responsabilità sarebbe in astratto condivisa, eppure in concreto inevitabilmente diluita, ove l’an e il quomodo della regolazione della crisi dovessero avere genitori incerti, in virtù del coinvolgimento anche in limine di soci radunati per contingenza in assemblea permanente[14]. 
La crisi impone agli amministratori di indirizzare la gestione del patrimonio e dell’impresa all’”interesse prioritario dei creditori”. Significa intonare l’amministrazione a un canone di prudenza, che eviti perdite ulteriori, destinate a riflettersi sui creditori attuali, e assuma la ristrutturazione delle obbligazioni scadute come precondizione dell’ulteriore corso dell’attività. Questo mutamento di modello operativo non è efficacemente protetto da un frazionamento di competenze che affianca agli amministratori l’assemblea dei soci, testimoni – questi ultimi – di un interesse quasi sempre antagonistico rispetto ai titolari dei debiti da onorare. 
La saldatura fra l’art 120 bis e il diritto civile, a ben guardare, è solida: la gestione societaria e il compimento delle “operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale” sono ascritte in via esclusiva agli amministratori ex art. 2380 bis c.c. anche quando l’impresa naviga in calma piatta e la crisi è un iceberg invisibile; la scelta dello strumento di regolazione è – eminentemente – un atto di gestione dell’impresa. 
Lo schema alla base dell’art. 120 bis non è estremizzato dal legislatore. Esso postula l’esigenza – certificata sotto la propria responsabilità dagli amministratori di turno – di regolare la crisi dinanzi a un giudice, con l’impiego di uno strumento di concorso strutturato: concordato preventivo, accordo di ristrutturazione, piano di ristrutturazione soggetto a omologazione. Il riferimento all’omologazione contenuto nel comma 4 della norma lascia fuori dal suo perimetro, non solo la composizione negoziata (che strumento in senso stretto non è), ma anche il piano attestato e la convenzione di moratoria (che omologa non contemplano); per l’utilizzo di questi istituti rimangono in auge, nel riparto di competenze, le regole del Libro V del codice civile.  
Il diritto degli amministratori di scegliere lo strumento si accompagna a un dovere di corretta informazione postuma verso i soci. Solo in esito alle proprie determinazioni, la governance dell’impresa è, infatti, chiamata, da un lato, all’ostensione erga omnes della decisione assunta mediante il suo deposito nel registro delle imprese[15], dall’altro lato, all’avvio di un flusso informativo all’indirizzo dei soci, resi edotti a posteriori della scelta concorsuale. 
Vi è, in questo peculiare atteggiarsi dell’informazione, la necessità di procrastinare lo spazio delle reazioni dei soci, temperandone l’impatto di breve periodo. Nel momento topico della decisione la governance viene isolata dalle possibili inframettenze e messa in condizione di convogliare fuori dall’impresa gli sforzi di amministrazione e negoziazione. Le iniziative lato sensu autodifensive dei soci sono, dunque, esternalizzate rispetto alle dinamiche interorganiche, col loro dirottamento verso il tribunale delle imprese per quanto concerne la verifica della “giusta causa” di revoca degli amministratori, verso il recinto concorsuale per tutto il resto: è qui che i soci potranno formulare “in condominio” proposte concorrenti[16], esprimersi come classe sull’eventuale proposta di concordato, opporsi ad un’omologazione che sentano viziata e penalizzante[17].
2 . L’irrevocabilità degli amministratori che hanno scelto lo strumento
A mente dell’art. 120 bis, comma 4, CCII, la scelta di accedere allo strumento non può condurre di per sé alla revoca dalla carica di amministratore. Dall’iscrizione della decisione nel Registro delle imprese e fino all’invocata omologa, il rapporto fra gli organi sociali è sotto questo aspetto devitalizzato e la delibera di rimozione è conseguentemente improduttiva di effetti, salvo non ricorra una “giusta causa”, previamente accertata dal tribunale delle imprese[18]. 
Il solco entro cui la disposizione di nuovo conio si incanala a me pare quello tracciato dalla Direttiva UE 2019/1023, il cui art. 12 ha comandato agli Stati di inertizzare i detentori degli strumenti di capitale di modo che non finiscano per “impedire o … ostacolare irragionevolmente l’adozione e l’omologazione di un piano di ristrutturazione”[19]. Del resto, il considerando 96 della Direttiva esclude che il processo di ristrutturazione possa essere “compromesso dalle norme di diritto societario”, ove cozzino con l’obiettivo-principe del ripristino della “sostenibilità economica dell’impresa”[20]. 
Il terreno eurounitario è stato dissodato in profondità dal nostro legislatore, che ha optato per un trasferimento globale agli amministratori delle valutazioni funzionali all’avvio di una regolazione concorsuale della crisi. È sulla scorta – se si vuole – di una presunzione assoluta di conflitto di interessi dei soci nell’approccio allo squilibrio grave, che il legislatore ha edificato un sistema alternativo di competenze, distribuendo secondo l’urgenza della crisi i compiti e le responsabilità e dosando coerentemente anche gli spazi di revoca degli amministratori. 
La sterilizzazione del potere di revoca è il precipitato del riassetto di competenze: se la prerogativa di scegliere lo strumento è esclusiva non può essere contraddetta dall’allontanamento repentino di chi quella competenza ha legittimamente esercitato. Il che vuol dire che dalla messa a registro della decisione assunta “in presenza delle condizioni di legge” e fino alla statuizione giudiziale sullo strumento, la revoca degli amministratori è inefficace a meno che non sia corroborata da una “giusta causa”, che non può combaciare con l’atto della presentazione della domanda di accesso allo strumento, ché altrimenti la prerogativa di decidere se e come regolare la crisi sarebbe affermata per un istante per essere confutata quello dopo. 
L’irrevocabilità dei gestori è innalzata a principio di sistema. Inibisce perciò ogni intervento dei soci idoneo a contaminare in itinere l’esercizio della competenza riservata. Deve pertanto escludersi – nel lasso temporale pubblicazione-omologa – la possibilità di nuovi ingressi all’interno del consiglio di amministrazione, mediante l’aumento del numero di componenti tatticamente mirato a modificare il valore ponderale delle maggioranze. Deve escludersi, a monte, anche la validità di clausole statutarie volte a collegare le decadenze di poteri connessi all’ufficio gestorio all’ingresso in un procedimento di ristrutturazione dell’impresa. 
Sebbene la voce dei soci si abbassi fino a spegnersi nei rapporti interni, per riprendere un reale vigore solo nella sede concorsuale, gli amministratori non solo eletti a un soglio inamovibile. Se si ribalta la prospettiva ad essere attenuato al tempo della crisi è, in realtà, lo strapotere dei soci, dei quali si inertizza la facoltà di recesso ad nutum, ma si mantiene la facoltà di recesso per “giusta causa”, facendo operare preventivamente un controbilanciamento rigoroso: a salvaguardia delle posizioni di tutti il comma 4 dell’art. 120 bis, chiama in causa, infatti, un organo terzo ed esterno, non uno qualsiasi, ma il tribunale delle imprese. È a quest’ultimo che viene affidato il compito di misurare valori e interessi, attraverso uno scrutinio delle ragioni che suggeriscono ai soci di recidere in un periodo convulso il vincolo con la governance
La prospettiva assiologica che orienta il legislatore è nitida: blindare la cabina di comando nel tragitto dall’accesso all’omologa serve a rendere più abbordabile il risanamento dell’impresa. 
Non ritengo si possa indulgere in una lettura incline ad esasperare il senso dell’art. 4, comma 2, CCII, sull’”interesse prioritario” dei creditori, fino a farne la stella polare della rifondata concorsualità codicistica. Quell’interesse vale nei limiti che si sono enunciati prima (v. 1.). Nell’azienda di un soggetto in crisi non si rintraccia un bankruptcy asset al servizio delle aspettative del ceto creditorio. Lo squilibrio conclamato non implica un meccanico di duty shifting – uno slittamento radicale del complesso dei doveri degli amministratori – verso la massimizzazione del patrimonio sociale in funzione del soddisfacimento dei creditori[21]. Per il legislatore unionale, sulla cui scia si è immesso quello interno, la tutela del credito è una delle coordinate del sistema[22]. Il disagio economico-finanziario dell’impresa ne mette senz’altro in evidenza i creditori, ma pone pur sempre in apice il valore della continuità della realtà produttiva, che qualora risanabile merita di resistere come organismo attivo: è quello il risultato di mercato che l’ordinamento insegue. 
Piuttosto, la “rafforzata stabilità della carica” vale a rendere i gestori della società, deputati a scegliere il mezzo e il programma di risanamento, per quanto possibile indipendenti dal gruppo predominante che li ha nominati[23]. La prossimità dell’organo gestorio alla maggioranza che lo ha investito della carica non deve influenzare la scelta dello strumento di uscita dalla crisi. La pianificazione non può avvenire “a comando”, né svilupparsi a detrimento dei gruppi minoritari di soci; deve armonizzarsi al parametro della salvaguardia dell’attività d’impresa, all’ombra da condizionamenti. 
È anche indispensabile scongiurare che i soci, ancorché come si suol dire residual claimants in coda ai creditori[24], facciano pesare dall’interno il proprio interesse rispetto a quelli altrui, provando a recuperare alla svelta, per quanto possibile, quel che rimane del capitale investito nell’attività. In pendenza di crisi, in realtà i soci non sono più i destinatari unici dei risultati dell’attività economica e trasmettono ai creditori la posizione di primazia (v. 1.). Ciò fa venir meno la ratio del regime di revoca degli amministratori tratteggiato dall’art. 2383, comma 3, c.c. 
Vi è, poi, l’impellenza di disinnescare il rischio che ad ispirare i soci sia, tra l’altro, uno strisciante disinteresse e che la strategia assembleare viaggi verso la chiusura dell’attività, in direzione ostinata e contraria rispetto all’obiettivo precipuo della viability
I soci devono aver scelto per tempo di monitorare la salute dell’impresa, non esserci arrivati per contrarietà. L’art. 2365 c.c. riconosce all’assemblea straordinaria il compito di disporre le necessarie modificazioni dell’organizzazione sociale, quando occorrono. Se i soci non sfruttano l’opportunità, trascurando di lanciare segnali di vita durante l’incubazione della crisi, vanno estromessi dalle successive scelte di gestione dello squilibrio. Quand’anche tali scelte siano modificative dell’organizzazione dell’impresa esse devono slegarsi almeno in limine mortis – si rammenti che la crisi è già un embrione di insolvenza – dalla volontà dei titolari degli strumenti di capitale. 
È difficilmente ipotizzabile che l’accesso allo strumento venga alla luce alla stregua di decisione carbonara degli amministratori. Nei mesi che precedono l’epifania della crisi, la vita interna alla società deve aver censito momenti di confronto. È da augurarsi che gli amministratori non abbiano obliterato i propri doveri di informazione e che i soci, dal canto loro, abbiano reclamato, anche per le vie formali, l’adempimento puntuale di quegli stessi doveri. 
Vigilantibus non dormientibus iura succurrunt: i soci hanno l’onere di verificare in anticipo la prospettiva dei propri investimenti e hanno facoltà di scongiurare che gli amministratori proseguano in una gestione che reputano incongrua o poco assennata. 
La cristallizzazione della carica di amministratore e la sua sostanziale irrevocabilità scatta con l’ostensione, tramite il Registro delle imprese, della domanda giudiziale di accesso allo strumento. Fino ad un istante prima il governo dei rapporti fra gli organi avviene sotto l’egida delle regole comuni. 
Si è giustamente sottolineato in dottrina che la mancata predisposizione degli assetti, rilevando sul piano della regolarità della gestione, costituisce presupposto di denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c., nonché di convocazione dell’assemblea da parte del collegio sindacale ex art. 2406, comma 2, c.c., oltre che di revoca per giusta causa degli amministratori. Già la scelta deliberata di non strutturare gli assetti dovrebbe mettere in guardia i soci ed esporre il consiglio di amministrazione ad una censura da parte loro[25]. 
È sufficiente che i titolari del capitale di rischio si servano, anche alle viste della crisi – durante la twilight zone, quando l’impresa è in declino – dei mezzi di tutela che le regole comuni allestiscono in loro favore: il potere di stigmatizzare la governance inefficiente, revocandone i membri per giusta causa; il potere di rimuovere gli amministratori ad nutum, semplicemente ristorandoli (art. 2383, comma 3, c.c.); il diritto di riunirsi in assemblea ex art. 2367 c.c. e di formulare per quel tramite soluzioni utili a far fronte ai cali di rendimento, soffermandosi sui temi della riorganizzazione patrimoniale e della ricapitalizzazione. 
Per converso, è logico che quando lo squilibrio grave ha infettato la realtà produttiva ed ex art. 3, comma 2, CCII gli amministratori hanno dovuto adottare una terapia d’urto, i soci non vadano più convocati al capezzale dell’impresa, essendo giunto il tempo di affidarsi agli specialisti e loro tramite al giudice. 
Se i soci non hanno inteso sorvegliare, se hanno ritenuto di non introdurre nell’impresa nuove risorse, se si sono astenuti dall’intervenire sul capitale e sulla struttura finanziaria della realtà produttiva, è perché dal loro punto di vista il dato è tratto: non hanno più nulla da offrire a supporto del salvataggio dell’attività produttiva; hanno inesorabilmente cessato di comportarsi da titolari di un capitale di rischio, per proiettare al ribasso le proprie mire sul patrimonio sociale, al pari di normali creditori, ai quali vanno giocoforza equiparati, benché con un grado sott’ordinato. 
È su questo filo conduttore che il comma 4 dell’art. 120 bis ragionevolmente si situa. Non può dunque rilevare nel momento in cui la crisi giunge sul tavolo del giudice che il management dell’impresa abbia avuto un ruolo cruciale sull’origine della crisi. La responsabilità degli amministratori andrà discussa e accertata ad altri fini e in un distinto luogo, non potrà esser fatta pesare in funzione della revoca. 
All’attualità a rilevare sono altri profili: l’inerzia prolungata dei soci anteriormente alla proposizione dello strumento; il correlato stallo dell’assemblea; la centralità, a quel punto, dello strumento, che qualora adoperato in ossequio alle “condizioni di legge” deve rimanere in piedi perché può valere a risolvere la crisi.
3 . I profili processuali della revoca ex art. 120 bis, comma 4, CCII
Sebbene un recente provvedimento abruzzese abbia sostenuto il contrario[26], l’atto di revoca è privo di effetti finché il tribunale non lo ha positivamente vagliato. 
La funzione della norma è quella di disarticolare la comune disciplina del rapporto gestorio, per incardinare la revoca sul preventivo intervento del tribunale, sicché la delibera attende che il giudice appuri la sussistenza del suo presupposto. 
In una trama di competenze che lega inscindibilmente quella gestoria alla sfera esclusiva degli amministratori, la “giusta causa” non è elemento che possa reputarsi rimesso ad una bizzarra “autocertificazione” dell’assemblea dei soci. Piuttosto, è aspetto perspicuamente consegnato dalla norma all’accertamento del giudice, dal quale dev’essere preventivamente “approvata”. 
L’uso del verbo non è accidentale. Secondo la dogmatica civilistica “l’approvazione è un negozio unilaterale, mediante il quale un soggetto, esprimendo il proprio consenso in ordine a un negozio giuridico altrui, influisce sull’efficacia di esso”[27]. Nel contesto del diritto pubblico, l’approvazione è un "atto, mediante il quale un soggetto o un organo dichiara di aver constatata l'intrinseca bontà dell'atto, posto in essere da un altro soggetto o da un altro organo, e dal quale la legge fa dipendere l'efficacia del secondo"[28]. Si tratta di prospettive che si amalgamano su un nucleo saliente: l’approvazione è atto di un valutatore in punto di legittimità e opportunità di un atto perfetto emesso da un diverso organo, rispetto al quale il secondo atto si colloca in una fase integrativa dell’efficacia, venendo in rilievo quale condicio juris di produzione degli effetti. 
Si è, perciò, al cospetto di una fattispecie di revoca a formazione progressiva o complessa[29]. 
L’archetipo di riferimento è rappresentato, con buona evidenza, dall’art. 2400, comma 2, c.c. in tema di revoca dei sindaci[30]. La linea retta che collega le due fattispecie è il mantenimento di una composizione invariata dell’ufficio, a salvaguardia dell’esercizio libero delle annesse competenze. Al pari di quanto accade per la revoca dei controllori, gli effetti del provvedimento di rimozione sono subordinati alla verifica della giusta causa, cui soltanto si aggancia l’estinzione del rapporto. L’essenza della scelta normativa è, in entrambi i casi, nell’attribuzione al giudice del ruolo di cauta difesa di tutti gli interessi coinvolti. L’attività del tribunale integra la volontà dell’assemblea in una cornice di sintesi di quegli interessi, limitandosi a riscontrare i presupposti previsti dalla legge per la revoca degli amministratori. 
Il decreto ha natura di giurisdizione volontaria. Il tribunale non risolve un conflitto, ma pone in essere un atto di gestione di interessi larvatamente contrapposti (quelli dei soci, quelli dei creditori) in funzione di un interesse prevalente: la continuità dell’impresa, il suo risanamento. 
Non vi è nel decreto del tribunale la definizione di una controversia sui diritti. La stessa incidenza che la revoca produce sulla sfera giuridica degli amministratori è un mero effetto collaterale. 
L’intervento tutelare del giudice è teso a dipanare un dissidio di valutazioni fra gli organi dell’ente, assicurando che lo svolgimento dell’iter processuale dello strumento di regolazione si snodi regolarmente e non comporti una compressione di posizioni individuali non calibrata su di un criterio di razionalità e proporzionalità. 
L’impronta del rito che conduce all’approvazione della revoca è spiccatamente camerale. Depone in tal senso la semplificazione evocativa degli adempimenti, essendo prescritto soltanto che dal giudice siano “sentiti gli interessati” (ossia gli amministratori). Concorre nel medesimo senso la forma di decreto del provvedimento finale. 
L’applicazione delle norme sui procedimenti camerali è assicurata dall’art. 74 bis c.p.c., che alle relative norme sottopone anche la giurisdizione volontaria. La cameralità delinea, del resto, un tracciato minimo e irrinunziabile di garanzie processuali[31]. 
Da quest’ultimo punto di vista, sebbene manchi una specifica previsione di reclamabilità, il decreto del giudice sembra perciò reclamabile ex art. 739 c.p.c., tanto da acquisire efficacia solo con la definizione del gravame o in ragione del decorso dei termini previsti per la relativa proposizione (art. 741 c.p.c.)[32]. 
Va da sé che l’interesse dell’amministratore a reclamare l’approvazione della delibera finisca per presentarsi ibrido, in quanto anche di carattere individuale e non univocamente mirato alla soddisfazione di una finalità istituzionale. 
La natura di volontaria giurisdizione priva il decreto dei caratteri della decisorietà e definitività: il provvedimento, per quanto destinato a stabilizzarsi, non racchiude un accertamento con attitudine al giudicato, rimane viceversa revocabile anche d’ufficio[33], non si offre, pertanto, al ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. 
L’art. 120 bis, comma 4, non specifica – ed è un punto critico – a chi spetti l’iniziativa giudiziaria mirata ad ottenere l’approvazione della revoca da parte del tribunale. 
L’urgenza della materia mi pare poco compatibile con la nomina di un curatore speciale che s’incarichi di richiedere il decreto di approvazione della delibera in nome e per conto dell’assemblea che l’ha adottata[34]. Ci troviamo al cospetto di un “conflitto interorganico”: non vi è un organo acefalo e senza rappresentanza, ma un’assemblea che ha pienamente funzionato e che è in grado d’interfacciarsi col giudice. 
Il silenzio della norma è, in realtà, la riprova della difficoltà di trapiantare nel sedime della volontaria giurisdizione societaria le categorie processualcivilistiche. Disagevole è, infatti, mettersi alla ricerca della legitimatio ad causam, provando a identificare una situazione giuridica univoca, per la cui tutela l’assemblea dei soci agisce nel momento in cui, revocato senza immediata efficacia l’amministratore, invoca un beneplacito del giudice: è forse il diritto a vedere rispettate le proprie competenze? Oppure è il diritto al rispetto delle forme e della legge? O ancora è il diritto a regolare la crisi con uno strumento più razionale di quello prescelto? O è in ipotesi il diritto a conseguire una regolazione equa e non punitiva per i soci? O non è forse il coacervo di queste e di altre situazioni soggettive? 
La verità è che nel contesto dell’impresa in crisi si agita sottotraccia una congerie di interessi e posizioni di cui i soci, al di là dell’involucro assembleare, sono i titolari sostanziali, interessi e posizioni di cui essi ben possono farsi portatori verso il giudice. A muovere i soci è perlomeno un interesse ad agire biunivoco, che per un verso presidia i diritti partecipativi individuali, per altro verso protegge l’interesse sociale
Che il socio possa farsi interprete anche di quest’ultimo, del resto, è previsto a livello di paradigma dall’art. 2476, comma 3, c.c., che al socio attribuisce, indipendentemente dalla misura della partecipazione, finanche la titolarità dell’esercizio dell’azione sociale di responsabilità. 
Nulla esclude, ad ogni buon conto, che, in quanto egli stesso socio, sia il presidente dell’organo assembleare a far da cinghia di trasmissione rispetto al tribunale, veicolando le determinazioni maggioritarie dell’assemblea e sollecitando un responso giudiziale che non ammette indugi.
4 . La “giusta causa” di revoca e la dimensione del controllo
L’art. 2383, comma 3, c.c. riconosce all’assemblea la prerogativa di revocare “in qualunque tempo” gli amministratori. La “giusta causa” è prescindibile: dalla sua mancanza deriva un mero obbligo risarcitorio nei confronti dei soggetti rimossi. 
Nella ricostruzione giurisprudenziale invalsa la “giusta causa” postula una rottura “pactum fiduciae” fra soci e amministratori: i primi non confidano più, sulla scorta di elementi circostanziati, nell’idoneità dei secondi a realizzare gli interessi dei titolari del capitale di rischio. I fatti e i comportamenti che possono rendere “giusta” la revoca coincidono, in linea di principio, con inadempimenti di doveri connessi all’incarico ricoperto, ma possono pure consistere in situazioni oggettive che, per quanto slegate dalle condotte gestorie del management, nondimeno compromettono l’affidamento sulle capacità di quest’ultimo ad assolvere al proprio mandato[35]. Non rileva mai come “giusta causa” il mero dissenso dei soci sull’operato degli amministratori, occorrendo l’allegazione di elementi pregnanti – secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità – che, sebbene esogeni rispetto all’adempimento dell’incarico, e correlati a contesti diversi dal perimetro dei doveri d’ufficio, revocano in dubbio la correttezza, la dedizione, l’adeguatezza, la professionalità, l’indipendenza, l’onorabilità degli amministratori, minando in radice la fiducia nei loro riguardi[36]. 
È da chiedersi in che termini questo palinsesto concettuale – che necessariamente si è inteso semplificare[37] – sia fungibile in ambiente di crisi ed entro quali limiti sia spendibile in rapporto all’art. 120 bis CCII[38]. 
La revoca introdotta da quest’ultima norma non sembra assimilabile alle normali delibere di revoca e sostituzione degli amministratori. Non solo perché – come si è argomentato (v. Par. 3) – la rimozione dall’incarico gestorio non spiega effetti fino al provvedimento di accertamento giudiziale della “giusta causa”, ma perché è quest’ultima ad assumere una fisionomia peculiare e cangiante. 
Non è mai immune da contraccolpi il travaso di una clausola generale[39]. In ogni clausola generale c’è una fattispecie aperta, che va integrata dall’esterno, attraverso un giudizio di valore che il legislatore non ha compiuto e che è il giudice a dover svolgere. Il tribunale non può abdicare all’incombenza di mettere la clausola a contatto con la realtà pratica sulla quale deve incidere, di ricostruir detta clausola al lume del sistema entro cui essa deve operare; solo in tal modo, infatti, è possibile attribuire un significato non eccentrico a un concetto indeterminato. 
La disposizione di nuovo conio ha inteso irrobustire la riserva di competenza degli amministratori in punto di scelte gestionali, tenendo la linea degli artt. 2380 bis e 2475 c.c. In quest’ottica, il disaccordo sul tipo di strumento e sulla programmazione che lo alimenta non può integrare la “giusta causa”, finendo per sostanziarsi in una sovrapposizione indebita su un ambito operativo altrui. 
Che gli amministratori selezionino lo strumento sbagliato o non selezionino quello migliore è profilo che rimane confinato nello steccato delle loro eventuali responsabilità. La “giusta causa” non è il Cavallo di Troia per addentrarsi nel merito di decisioni che il comma 1 dell’art. 120 bis CCII demanda agli amministratori. Non solo perché le iniziative di contrasto dello stato di crisi non sono oggetto di un dovere a contenuto tipizzato, ma perché le modalità operative liberamente stabilite dall’amministratore sono coperte dalla business judgment rule e sembrano sindacabili nei soli limiti della ragionevolezza, secondo una valutazione da compiersi ex ante, tenendo conto della mancata adozione di cautele, verifiche, informazioni preventive finalizzate ad apprezzare i margini di rischio[40]. 
L’amministratore può finanche cambiare il core business dell’impresa, se questa scelta è calata in uno strumento di regolazione; che in astratto esista uno strumento più consono di quello cui governance ha fatto ricorso è circostanza che non sorregge la delibera di revoca e non ha probabilità alcuna d’esser presa in considerazione dal giudice. Nell’economia dell’ordinamento concorsuale la bontà della soluzione regolatoria è, d’altronde, rimessa al consenso o al dissenso dei creditori e, fra costoro, anche dei soci, appartati in una classe ad hoc[41]. 
Non ha rilevo nemmeno il fatto che l’accesso allo strumento sia l’esito finale di una rotta sbagliata che ha condotto alla crisi e che il nocchiero che l’ha scelta sia stato l’amministratore. Tale situazione, infatti, è un antecedente e non un dato sopravvenuto rispetto alla decisione di approdare al concorso. I soci avrebbero dovuto soffermarsi sull’eziologia della crisi a tempo debito, sotto la vigenza delle regole comuni. 
In realtà, se l’ordinamento è orientato verso la sostenibilità dell’impresa, e se quest’ultima giustifica in prevalenza il rimaneggiamento di competenze quando si accede alla concorsualizzazione della crisi, la riserva di prerogative degli amministratori non va radicalizzata, tanto da renderla refrattaria e intangibile. 
L’art. 120 bis, comma 4, esclude, infatti, possa connotarsi come “giusta causa” di revoca la domanda di accesso ad uno strumento, ma sempreché la relativa presentazione avvenga “in presenza delle condizioni di legge”. La locuzione adoperata sembra identificare una prima, possibile “giusta causa”: quella della carenza eclatante dei presupposti di utilizzabilità dello strumento. Entro queste paratie ristrette il tribunale può sindacare il modus agendi della governance. La crisi o l’insolvenza che siano contraddette per tabulas da evidenze documentali che testimonino l’accesso affrettato e prematuro allo strumento sono situazioni espressive di un atteggiamento sprovveduto degli amministratori, che può rientrare nel cono visivo della “giusta causa”. 
Del pari, il piano correlato allo strumento che si mostri privo di un grado minimale di plausibilità, in quanto operativamente inagibile, è un elemento suscettibile d’essere preso in considerazione. La “giusta causa” di revoca può riguardare, sotto questo profilo, la rottura del vincolo fiduciario che si collega all’irragionevolezza della continuità ipotizzata, sia in funzione del soddisfacimento dei creditori, sia nell’ottica del perseguimento dell’obiettivo della conservazione dei valori aziendali[42]. Se la programmazione tratteggiata dagli amministratori appare, sulla base della scienza e della tecnica, apertamente inadatta a pervenire agli scopi predeterminati, i gestori possono essere rimossi. 
L’art. 7 CCII, benché norma processuale, è nel contempo regola di sistema: lo strumento può guadagnare l’omologa non sulla scorta di una prognosi fausta, ma sulla base di una valutazione “non negativa”, potendo meritarsi la promozione, non in quanto presumibilmente idoneo ad assorbire la crisi, ma in quanto non palesemente inidoneo a regolarla, quindi non irrazionale, né implausibile[43]. In tal senso, il giudice alla cui approvazione sia rimessa una delibera di revoca ex art. 120 bis, comma 4, nella quale si faccia questione dell’assoluta inidoneità degli amministratori nell’approccio alla crisi, potrà valutare incidenter tantum, al solo fine di negare o accordare il platet alla disposta rimozione, se le prospettive di realizzo si presentino tecnicamente non irragionevoli, o se l’ipotesi programmata abbia o meno una connotazione peregrina, evincibile da assunti fallaci o assiomatici, o da tempi di recupero impronosticabili, oppure da un’attestazione carente, discordante, non emendabile[44]. 
Queste considerazioni ne suggeriscono una ulteriore. Sono indotto a pensare che la “giusta causa” dell’art. 120 bis, comma 4, non possa non essere scrutata secondo una lente finalistica, che guardi in principalità al valore della continuità aziendale e alla complessità variegata degli interessi che nella sua orbita convivono. Se la viability è il valore primario, esso deve riempire di senso e di contenuto la clausola generale di riferimento. Non può, dunque, rilevare la semplice frattura del rapporto fiduciario, perché il perno della valutazione del giudice, ogni qualvolta lo squilibrio viene vestito dallo strumento, è essenzialmente la tenuta di quest’ultimo[45]. 
Non si deve discutere in principalità della mala gestio pregressa, ma del mezzo di regolazione prescelto, della sua intrinseca razionalità. 
Perché un inadempimento o un’irregolarità dell’amministratore valgano a detronizzare quest’ultimo non è sufficiente che abbiano suscitato la sfiducia dei soci – i cui interessi d’altronde coabitano con quelli dei creditori – ma devono essersi ripercossi sull’attuabilità del programma di risanamento, anche in ragione della conclamata inettitudine degli amministratori revocati a proseguire nell’incarico, spingendo a meta lo strumento. Sono possibili alcune esemplificazioni in cui ciò accade: l’amministratore è stato il regista di investimenti spericolati che lo hanno reso inviso ai mercati di riferimento; l’amministratore ha gestito in maniera irregolare i rapporti di lavoro creando conflittualità con le rappresentanze sindacali dei dipendenti; l’amministratore è stato reso destinatario di un’azione risarcitoria personale da parte di un istituto di credito vedendo compromessi i propri spazi di negoziazione; l’amministratore ha disorientato i fornitori strategici e li ha resi irreparabilmente riottosi. 
Se la “giusta causa” delle regole comuni aderisce al versante soggettivo del rapporto fiduciario e valorizza qualsiasi circostanza lo sconvolga, nel campo della crisi, per converso, sembra venire alla ribalta un processo di “oggettivizzazione” della “giusta causa”. Il tribunale può dare risalto alla condotta o alla circostanza, non perché abbiano turbato i soci, ma perché siano concretamente suscettibili di far fortemente dubitare – al netto della diffidenza dell’assemblea verso i gestori – dell’attitudine dello strumento a regolare la crisi, in ragione dell’inaffidabilità o incapacità di colui che dovrebbe portarlo in omologa e poi attuarne le previsioni. 
La bussola ermeneutica è, del resto, in una norma anch’essa solo in apparenza meramente processuale, l’art. 53, comma 5 bis, CCII: ogni qualvolta lo richieda l’interesse generale l’omologazione dello strumento prevale sulle ragioni dei singoli[46]. 
La revoca ex art. 120 bis, non giova, pertanto, a stigmatizzare la gestione trascorsa degli amministratori, né a sanzionarne i comportamenti poco commendevoli, né a mettere in luce circostanze indipendenti dalle condotte dei gestori che hanno convinto i soci dell’inadeguatezza della governance. La revoca, in tanto può avere adito in costanza di accesso allo strumento in quanto sia ancillare al suo ulteriore corso, funzionale al buon esito della regolazione. 
Gli amministratori che siano incappati nella violazione di doveri verso i soci, disattendendo gli obblighi di istituzione degli adeguati assetti e attivandosi con vistoso ritardo, non solo per ciò stesso esposti, una volta assunta la decisione sullo strumento, ad una revoca per “giusta causa” ai sensi dell’art. 120 bis, comma 4, CCII. Nel momento in cui la decisione è stata pubblicata, la visuale del giudice in punto di “giusta causa” necessariamente slitta dalle imperizie o inadempienze individuali ancora una volta allo strumento. Se la situazione, ancorché sottovalutata dapprincipio, si presta ad essere presa in carico attraverso la soluzione concorsuale non irragionevole immaginata dagli amministratori, questi ultimi sconteranno solo in seconda battuta le proprie eventuali responsabilità; essi dovranno, fino all’omologa, rimanere in sella all’impresa, perché qualsiasi cambio della guardia potrebbe frustrare le chance del percorso intrapreso. 
Se si rovescia il punto di osservazione e ci si pone dal lato degli amministratori, ci si avvede che è indubbio che costoro possano abusare delle competenze riservate ex art. 120­ bis. Ma l’abuso ricorre solo se lo strumento, anziché volto alla tutela del patrimonio o dell’impresa, sia piegato a conseguire un risultato illecito o eccentrico rispetto alla sua funzione[47]. È il caso dell’amministratore che attraverso la concorsualizzazione miri semplicemente a crearsi un corridoio agevole attraverso il quale incidere sulla struttura finanziaria dell’impresa o sullo statuto dell’ente, comprimendo i diritti partecipativi di alcuni gruppi di soci. Naturale che, in tal caso, una “giusta causa” di revoca sussista. 
È altrettanto naturale che sia sindacabile sul piano della “giusta causa” la decisione assunta dall’amministratore in conflitto di interessi. 
Una “giusta causa” di revoca può scorgersi anche nella violazione dell’obbligo di informazione sull’accesso allo strumento e sul suo andamento, sempreché nelle more del vaglio da parte del giudice l’amministratore non colmi il deficit di notizie. In effetti, la revoca va proporzionata all’inadempimento riscontrato, che nell’esemplificazione effettuata risulta anticipatamente rimosso. La scarsa propensione a fornire notizie ai creditori mette in forse la correttezza dell’amministratore destinatario della delibera di revoca, ma non necessariamente le sue attitudini gestionali. Pertanto, se l’amministratore pone rimedio all’originaria lacuna, non vi è ragione di travolgerne la posizione, mettendo a repentaglio l’ulteriore corso dello strumento. 
Sul piano processuale non sembra reggere in rapporto allo scrutinio demandato al tribunale ex art. 120 bis, comma 4, CCII, l’indirizzo sedimentatosi nel formante giurisprudenziale in punto di “giusta causa” di revoca ai sensi dell’art. 2383, comma 3, c.c., a tenore del quale i motivi di revoca dell’amministratore restano solo ed esclusivamente quelli indicati nella relativa deliberazione assembleare, non potendo gli stessi essere integrati da ulteriori motivi nel corso del giudizio[48]. Non sembra esservi previsione atta ad imporre che le circostanze rilevanti ai fini della sussistenza della giusta causa debbano rimanere solo quelle specificamente enunciate nella delibera di revoca dell’assemblea. Più plausibile ritenere, in difetto di precetti ostativi, che consti la possibilità di integrare quelle circostanze nel corso del processo così da fornire al giudice tenuto a compiere la valutazione di sintesi una mappa più completa degli interessi da soppesare.
5 . Lo spostamento dell’asse delle tutele dei soci
I luoghi di tutela dei soci mutano e con essi cambiano i mezzi adoperabili[49]. 
In presenza di una disfunzione dell’impresa, le regole societarie devono, d’altronde, adattarsi anche sul piano dei rimedi a quelle concorsuali, non solo in funzione della tutela dei creditori, ma di un’esigenza di salvaguardia della continuità del complesso produttivo. 
Non è sottratta ai soci la facoltà di presentare una denuncia di gravi irregolarità ex art. 2409 c.c., che può sortire “opportuni provvedimenti” e condurre – sempreché il giudice non reputi la soluzione di continuità nella carica pregiudizievole per il buon esito dello strumento – finanche alla nomina di un amministratore giudiziario. 
In realtà, la protezione del going concern è la chiave teleologica che innerva il nuovo sistema e che vincola anche i comportamenti dei soci. Qualora essi disapprovino l’operato degli amministratori la via maestra non è, perlomeno sul piano delle tempistiche dilatate, la denuncia ai sensi dell’art. 2409. 
I soci che avvertano come impercorribile il tentativo di formulare una proposta concorrente o reputino inappagante, perché temporalmente procrastinata, l’opposizione all’omologa, potranno contare sull’art. 54, comma 1, CCII, che inserisce nel novero delle misure cautelari la nomina di un custode dell’azienda (oltre che del patrimonio) del debitore. La custodia, pur senza comportare la rimozione dalla carica degli amministratori, permette in astratto ai soci di puntare sull’ausilio di un altro soggetto, che affiancherà i gestori o li soppianterà in concreto nell’amministrazione del complesso produttivo. 
Non sembra spendibile ogni qualvolta intercetti un profilo connesso alla regolazione della crisi realizzata mediante lo strumento, toccando uno dei contenuti del piano, la tutela preordinata a vantaggio dei soci dall’art. 2388, comma 4, c.c. Detta norma, nel quadro delle regole comuni, legittima ai soci ad impugnare le delibere del consiglio di amministrazione “lesive dei loro diritti”. Su questo rimedio generale fa premio infatti il mezzo speciale dell’opposizione all’omologa contemplato dall’art. 120 quater, comma 3, CCII, che permette ai soci, sulla scorta del criterio dell’assenza di pregiudizio, di pretendere un trattamento almeno equipollente a quello che conseguirebbero nell’alternativa della liquidazione giudiziale[50]. L’opposizione è un veicolo di contestazione onnicomprensivo. Su di esso i soci faranno affidamento anche per lamentare la costruzione di un piano che sia discriminatorio delle loro posizioni o che sia irragionevolmente lesivo dei loro diritti partecipativi in rapporto agli obiettivi programmati di regolazione della crisi. 
La lesione dei diritti partecipativi – se colposa o dolosa – riemerge, in ogni caso, sul crinale della responsabilità degli amministratori, nei confronti dei quali ciascun socio è legittimato ad esperire fin da subito l’azione di responsabilità ex art. 2395 c.c. 
Naturalmente niente esclude che le deliberazioni degli amministratori siano contrastate dall’assemblea attraverso l’esercizio di una azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c. Detta previsione non è derogata, quand’anche fisiologicamente non si produce la revoca d’ufficio del destinatario dell’azione prevista dal suo comma 5[51]. 
Ai soci è poi attribuita una forma di tutela per così dire proattiva. 
Ancorché, in effetti, non possano avviare soluzioni concorsuali alternative, non è fatto loro divieto di assumere deliberazioni di supporto alla soluzione della crisi. 
Il loro limite di manovra sembra quello sancito dall’art. 2499 c.c., in materia di operazioni straordinarie: la praticabilità delle iniziative dei soci è demarcata dalla non incompatibilità con le finalità e lo stato della procedura concorsuale. Pertanto, sembrano in linea di principio attuabili le azioni dei soci tese al celere ristabilimento delle condizioni di equilibrio patrimoniale e finanziario, mediante l’azzeramento dello stato di crisi[52]. Non è escluso, cioè, che i soci ripianino le perdite con un aumento di capitale in misura suscettibile di colmare il deficit finanziario, anche mediante il coinvolgimento di terzi. 
Le delibere dell’assemblea vanno sottoposte ad una “prova di resistenza” rispetto ai dettami del piano collegato allo strumento, in rapporto al quale non devono porsi in attrito funzionale. Ogni qualvolta la delibera lambisca l’attuazione del programma dettato dai gestori o produca su di esso ripercussioni finanziarie o dissemini ostacoli e complicazioni, essa è viziata e gli amministratori possono impugnarla ed evitare di darvi corso.
6 . Alcuni rilievi conclusivi
L’art. 120 bis CCII ridisegna l’assetto delle competenze interne alle società optando per il primato degli amministratori e per il parallelo affievolimento delle prerogative assembleari. 
L’accesso allo strumento diviene affare gestito unilateralmente dalla governance societaria, che dal momento dell’accesso allo strumento concorsuale a quello in cui ne viene scandita l’omologa, è impermeabile rispetto alle determinazioni dei soci idonee ad attingere, per un verso, la posizione degli amministratori, per altro verso, il contenuto dello strumento. 
I soci, che sono protetti per altra via, dalle regole sul classamento obbligatorio, e attraverso la legittimazione a formulare proposte concorrenti rispetto a quella assunta dagli amministratori. 
Per quanto l’interesse dei titolari del capitale di rischio non sia scevro – in tesi – dalla conservazione del valore dell’investimento in una prospettiva di continuità aziendale e di recupero della redditività d’impresa, quando quell’interesse non si è rivelato tale da incoraggiarli a un aumento di capitale idoneo ad azzerare la crisi, è coerente essi si esprimano, non nelle dinamiche del rapporto interorganico con gli amministratori, ma rimarcando le rispettive posizioni all’interno della classe in cui gli amministratori stessi, nel predisporre lo strumento, li avranno collocati. 
Di fronte a soci intempestivi o taciturni nell’approccio agli squilibri dell’impresa, tocca agli amministratori, nell’ottica del sistema, muoversi in autonomia e salvare il salvabile. Riposizionare in equilibrio, entro l’arco piano, la barra economico-finanziaria è un uffizio delicato, che si alimenta di spazi di negoziazione non ingessati, di interlocuzioni a schema libero, e che non può prestarsi a disarcionamenti operati al di fuori di un vaglio giudiziale: da qui l’irrevocabilità degli amministratori, salva una “giusta causa” che si oggettivizza, tanto da dover essere scrutata anche rispetto all’orizzonte dello strumento. 
Gli stessi poteri di controllo ex artt. 2408, 2409 e 2476 c.c. risentono della contingenza, arretrando, in costanza di procedura concorsuale e almeno fino all’omologa, verso un diritto di informazione pieno, ma non strutturato, che l’art. 120 bis, comma 3, soddisfa ad un livello di completezza, ma secondo la periodicità individuata dagli amministratori. 
L’idea del legislatore è che gli organi sociali non possano seguitare a suonare gli spartiti consueti mentre la nave è in procinto di affondare, perché il ritmo cadenzato delle partiture che si ritrovano nelle norme comuni del codice della crisi è eccentrico rispetto alle impellenze della crisi. 
Il proscenio delle relazioni fra amministratori e soci, dall’accesso all’omologa, viene allora occupato in pianta stabile dal giudice, il cui ruolo baricentrico non è solo di difesa degli interessi dei soci e dei creditori, ma di perseguimento del vero obiettivo di vertice: la conservazione dell’impresa, il suo risanamento. Se in funzione di questa finalità primaria i creditori subiscono il dazio della decurtazione o spalmatura delle proprie ragioni, i soci possono pagare lo scotto dell’arretramento transitorio delle loro competenze. 

Note:

[1] 
L’art. 120 bis, nella totalità dei suoi commi, non sembra riferibile ai liquidatori. Non tanto perché il riferimento testuale attiene agli amministratori, ma perché per i liquidatori non si pone un problema di risanamento, quindi di accesso agli strumenti, salva la revoca dello stato di liquidazione. 
[2] 
La norma si applica a tutti i tipi societari dal momento che non ne richiama ad excludendum alcuno. 
[3] 
N. Michieli, Il ruolo dell’assemblea dei soci nei processi ristrutturativi dell’impresa in crisi alla luce del d.lgs. n. 83/2022, in Riv. Soc., 2022, 843 ss. 
[4] 
L’impermeabilità dell’organizzazione societaria rispetto all’ingresso dell’ente in una procedura di concorso ha rappresentato un tratto caratteristico della legge fallimentare fatto oggetto, in realtà, di progressiva erosione: v. ex multis A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in Trattato delle società per azioni Colombo-Portale, IX, 2, Torino, 1993, 336; P.P. Ferraro, Il governo delle società in liquidazione concorsuale, Milano, 2020, pp. 69 ss. e 239 ss.; V. Pinto, Concordato preventivo e organizzazione sociale, in Riv. soc., 2017, 100 ss. 
[5] 
C. Esposito, Lo statuto delle società in crisi e l’esilio della neutralità organizzativa, in Giust. Civ., 3, 2021, 667, osserva condivisibilmente che “le società, colpite da una disfunzione, vengono irradiate da una costellazione normativa differente, rispetto alla costellazione normativa che disciplina le società in equilibrio”. 
[6] 
Critico al riguardo è F. Guerrera, L’espansione della regola di competenza esclusiva degli amministratori nel diritto societario della crisi fra dogmatismo del legislatore e criticità operative, in Riv. Soc., 5-6, 2022, 1271 ss. 
[7] 
A mente del comma 1 dell’art. 120 bis CCII, il potere di decidere sia l’an, sia il quomodo della regolazione della crisi è rimesso unicamente all’organo di amministrazione, sicché lo statuto non può riservare il potere in parola all’assemblea, come invece consentiva l’art. 152 L. fall. 
[8] 
Sulla disciplina di cui alla Sezione VI bis del Codice della Crisi e sulle ricadute che le nuove norme hanno sui diritti corporativi v. P. Benazzo, Gli strumenti di regolazione della crisi delle società e i diritti “ corporativi”: che ne resta dei soci?, in Dirittodellacrisi.it, 4 dicembre 2023. 
[9] 
Nel mondo anglosassone le operazioni di corporate governance finalizzate all’affronto delle situazioni di crisi sono tutt’altro che insolite. Ed anzi, le compressioni e i ribaltamenti di ruoli all’interno delle società, in quei contesti suonano come note ricorrenti: nella cornice in certo senso paradigmatica dell'Administration, l'obiettivo della ristrutturazione dell'impresa si svolge attraverso modelli di corporate governance, che implicano addirittura la sostituzione dell'organo amministrativo della società con un bankruptcy director estraneo alla compagine amministrativa. 
[10] 
R. Rordorf, I soci di società in crisi, in Società, 10, 2023, 1146, ritiene che la “trasformazione regressiva” presupponga in ogni caso il consenso dei soci, in quanto destinati a divenire illimitatamente responsabili, ex art. 2500 sexies, comma 1, c.c. L’illustre Autore individua nella disposizione che esige il consenso anzidetto un precetto inderogabile. Non si dissente su tale connotazione, ma si è indotti a pensare che l’inderogabilità valga per gli organi sociali, non certo all’indirizzo del legislatore, che infatti quel precetto lo ha derogato tout court, senza distinguo, ammettendo qualsiasi modificazione incidente sui diritti dei soci che sia ancillare ad un obiettivo di risanamento. 
[11] 
V. in particolare M. Fabiani, S. Leuzzi, Il controllo giudiziale nei concordati – La ristrutturazione trasversale, in Dirittodellacrisi.it, 18 dicembre 2024. Di diverso avviso è M. Campobasso, La posizione dei soci nel concordato preventivo della società, in Banca, borsa, titoli di credito, I, 2023, 185, secondo cui “la riduzione del potere di voice dei destinatari della proposta” non è stata bilanciata “mediante un rafforzamento del ruolo del giudice in sede di omologazione”. 
[12] 
Il legislatore sceglie quello che un illustre A. definisce “esautoramento dell’assemblea nella predisposizione degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”: v. G.B. Portale, Il codice italiano della crisi d’impresa e dell’insolvenza: tra fratture e modernizzazione del diritto societario, in Analisi giuridica dell’economia, 1-2, 2023, 1150. 
[13] 
A. Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Società, 8-9, 2022, 946; M. Arato, Il ruolo di soci e amministratori nei quadri di ristrutturazione preventiva, in Dirittodellacrisi.it, 10 maggio 2022. 
[14] 
Sul tema della posizione dei soci nelle procedure di ristrutturazione dell’impresa G. Scognamiglio, F. Viola, I soci nella ristrutturazione dell’impresa. Prime riflessioni, in Nuovo dir. soc., 2022, 1163 ss. 
[15] 
La decisione è sottoscritta dai rappresentanti pro tempore dell’ente (comma 2, secondo inciso). 
[16] 
Il comma 5 dell’art. 120 bis CCII prevede che i soci rappresentativi del dieci per cento del capitale siano legittimati alla presentazione di proposte concorrenti. 
[17] 
Parlano di “contraltare dei poteri attribuiti agli amministratori” O Cagnasso, C.F. Giuliani, G.M. Miceli, L’accesso delle società al concordato preventivo, in Società, 8-9, 2023, 1000. 
[18] 
Del tema si occupano funditus G. Fauceglia, Osservazioni sull’art. 120-bis, comma 4, ccii e su qualche pericolosa aporia interpretativa, in Dir. Fall., 1, 2025, 36 ss.; S. D’Orsi, La revoca degli amministratori negli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, in Dir. Fall., 1, 2025, 39 ss. V. anche F. Briolini, I conflitti tra amministratori e soci in sede di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza. Prime riflessioni, Il Nuovo Diritto delle Società, 1, 2023, 5 ss. 
[19] 
In tema v. D. Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine?, in Riv. soc., 2018, 885 ss.; G. Ferri jr, Il ruolo dei soci nella ristrutturazione finanziaria dell’impresa alla luce di una recente proposta di direttiva europea, in Dir. fall., 2018, I, 543; M. Maugeri, Partecipazione sociale e valore dell’impresa in crisi, in Osservatorio dir. civ. comm., 2021, 11. 
[20] 
V. tuttavia la diversa opinione di un prestigioso A.: A. Nigro, Codice della crisi, secondo correttivo e diritto societario della crisi, in Diritto della banca e del mercato finanziario, 3, 2022, 98 ss. 
[21] 
In tema v., in luogo di altri, A. Santoni, Doveri degli amministratori e interessi dei creditori nelle società in crisi: spunti da una recente decisione della UK Supreme Court, in Riv. dir. soc., 2023, pp. 619 ss. 
[22] 
S. Leuzzi, L’evoluzione del valore della continuità aziendale, in Nuove Leggi Civili Commentate, 2, 2022, 479 ss. 
[23] 
S. Ambrosini, Profili societari degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, in S. Pacchi, S. Ambrosini, Diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2023, p. 339. 
[24] 
L’art. 2467 c.c., nel prevedere la postergazione dei soci ai fini del rimborso dei finanziamenti, esprime un principio generale. 
[25] 
L. Petrone, La governance dell’impresa e gli adeguati assetti, in Contratto e Impresa, n. 3, 2024, p. 775; M. Irrera, Assetti organizzativi adeguati e governo delle società di capitali, Milano, 2005, p. 85 ss.; L. Benedetti, L’applicabilità della business judgment rule alle decisioni organizzative degli amministratori, in Riv. soc., 2019, p. 413. 
[26] 
Trib. L’Aquila, 18 aprile 2023, in Dirittodellacrisi.it, ha infatti ritenuto che la delibera di revoca dei membri del c.d.a., con contestuale nomina dell’amministratore unico, sia da considerarsi immediatamente efficace, benché sottoposta all’approvazione del Tribunale delle imprese, non venendo in questione il diverso istituto della prorogatio del precedente organo amministrativo e producendo il contratto concluso tra la società e gli amministratori i propri effetti sin dal momento della sua conclusione, anche ai profili legati alla rappresentanza. La pronuncia è annotata da E. Codazzi, Accesso agli strumenti di regolazione della crisi e revoca degli amministratori di società in house: un’applicazione dell’art. 120-bis, comma 4, CCII, in Le Società, 100/2023, pp. 1100 ss. 
[27] 
L. Carraro, Approvazione (dir. civ.), in Enc. dir., II, Milano, 1958, p. 852. 
[28] 
D. Donati, Atto complesso, autorizzazione, approvazione, in Arch. Giur., Modena, 1903, 447. 
[29] 
Così correttamente M. Spadaro, Il concordato delle società, in Dirittodellacrisi.it, 13 ottobre 2022. 
[30] 
Nel quadro dell’art. 2400 c.c. in tema di revoca dei sindaci, d’altronde, il provvedimento di approvazione della relativa delibera costituisce la fase necessaria e terminale di una vera e propria sequenza procedimentale alla produzione degli effetti propri della revoca: v. Cass., 4 settembre 2012, n. 14778, in Rep. Foro.it, 2012, voce Società, n. 579. 
[31] 
E. Fazzalari, Giurisdizione volontaria (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 331-332; L.P. Comoglio, Difesa e contraddittorio nei procedimenti in camera di consiglio, in Riv. dir. proc., 1997, 727. 
[32] 
Nulla è detto dalla norma sull’impugnabilità del decreto, ma la natura camerale suggerisce di ipotizzarne la reclamabilità in Corte d’Appello; va invece esclusa la ricorribilità per cassazione del provvedimento emesso dal giudice del reclamo. Su questi profili v. M. Spadaro, Il concordato delle società cit. 
[33] 
La revocabilità persiste anche a seguito della preclusione o della reiezione del reclamo: v. A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, 97 ss., p. 266 ss.; A. Carratta, Provvedimenti cameral-sommari, “decisorietà” e ricorso per cassazione, in Fam. dir., 2007, 125 ss., in part. 128. 
[34] 
V., peraltro, Trib. Venezia, 27 giugno 2024, in Fallimenti e Società.it, il quale, proprio nell’ipotesi di cui all’art. 120 bis, comma 4, CCII richiede la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. 
[35] 
Cass., 15 ottobre 2013, n. 23381, in Italgiure. V. anche Cass. 26 gennaio 2018, n. 2037, in Giur.it., 2018, p. 645, secondo cui “La ‘giusta causa’ di revoca è nozione distinta sia dal mero ‘inadempimento’, sia dalle ‘gravi irregolarità’ di cui all'art. 2409 c.c.: essa riguarda circostanze sopravvenute, anche non integranti inadempimento, provocate o no dall'amministratore stesso, che però pregiudicano l'affidamento dei soci nelle sue attitudini e capacità: in una parola, il rapporto fiduciario tra le parti”. 
[36] 
Trib. Milano, 6 maggio 2013, in Società, 2013, p. 857. 
[37] 
Di esso forniscono una rappresentazione recente ed efficace V. Di Cataldo, S. Rossi, Osservazioni in tema di revoca per giusta causa degli amministratori di società di capitali, in Giur. Com., 2022, 535 ss. Viceversa, per la giusta causa di revoca degli amministratori di società personali, v. L. Nazzicone, La revoca della facoltà di amministrare nelle società di persone, in Codice delle misure cautelari societarie, a cura di L. Nazzicone, Torino, 2012, 259 s. 
[38] 
In tema v. anche M.S. Spolidoro, I soci dopo l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi, in Riv. soc., 2022, 1261. 
[39] 
In tema magistralmente F. Di Marzio, La ricerca del diritto, Bari, 2021, p. 88 e ss. 
[40] 
Cass. Civ., Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15470, in Società, 2017, 1040 ss. Per una recente indagine sul rapporto che insiste fra decisione sullo strumento di regolazione business judgment rule, v. G. D’Attorre, Scelta dello strumento di gestione della crisi e business judgment rule, in Analisi Giuridica dell’Economia, 1-2, 2023, 149 ss. 
[41] 
L’equiparazione dei detentori di strumenti di capitale ai creditori sociali sembra suggellata anche dalle regole del loro classamento obbligatorio. 
[42] 
L’idea che passa è quella di programmare il superamento dello squilibrio o della difficoltà sulla base di un binomio ormai inscindibile di elementi paritari: la tutela del credito e la salvaguardia dell’attività produttiva. La combinazione equilibrata fra tutela del credito e continuità aziendale emerge anche in altre norme del nuovo CCII, tra cui significativamente nell’art. 52 che in ipotesi, tra l’altro, di opposizione avverso l’omologazione del concordato attribuisce alla Corte d’Appello la prerogativa di “disporre le opportune tutele per i creditori e per la continuità aziendale”. 
[43] 
Ricostruisce pionieristicamente nei termini della non implausibilità la valutazione giudiziale in relazione alla fase di ammissione Trib. Udine, Sez. II Civ., 27 gennaio 2020, in Dirittodellacrisi.it: “In tema di concordato preventivo, il giudizio che il tribunale è chiamato a rendere sulla fattibilità economica, in sede di ammissione, è limitato, in negativo, all’apprezzamento della “non implausibilità” delle previsioni del piano, essendo riservato ai creditori scegliere, in positivo, il grado di ragionevole certezza delle previsioni sulla base del quale sono disposti a dare fiducia al piano”. 
[44] 
L'art. 8, par. 1, lett. h) della Direttiva prevede che al piano debba essere allegata un'attestazione del debitore, eventualmente convalidata da un esperto esterno o da un professionista nel campo della ristrutturazione, che conferma la sussistenza di questo requisito. 
[45] 
Non si condivide l’opinione espressa in dottrina che riduce il controllo del giudice sulla delibera ad una verifica di superficie, reputando che si esaurisca in uno “specifico controllo di legalità sui motivi addotti a fondamento della decisione della maggioranza dei soci di fare interrompere anzi tempo il rapporto di amministrazione. Sembra, infatti, chiaro che una simile decisione che entra nel merito di un rapporto altamente fiduciario e di carattere gestorio, non possa essere demandata sul versante dell’an ad un organo giurisprudenziale”: così E. Rimini, Concordato preventivo e gruppi di imprese: attività deliberative, in Analisi Giuridica dell’Economia, 1-2, 2023, 335. 
[46] 
Art. 53, comma 5 bis: In caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la corte d’appello, su richiesta delle parti, può confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno”
[47] 
In tema v. L. Stanghellini, Il governo delle società fra codice civile e codice della crisi, in Analisi Giuridica dell’Economia, 1-2, 2023, 64, che ravvisa l’abuso in ipotesi in cui gli amministratori “accedano a uno strumento in assenza di reale necessità o per finalità diverse dalla tutela del patrimonio sociale, è possibile la loro revoca per giusta causa”
[48] 
Cass., 12 settembre 2008, n. 23557, in Foro it., 2009, 1525; Trib. Torino, 17 novembre 2021, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 20 giugno 2022, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 14 febbraio 2004, in Giur. it., 2004, 1209; Trib. Milano, 20 dicembre 2005, ivi, 2006, 983, con nota di WEIGMANN; Trib. Milano, 22 marzo 2007, in Giur. merito, 2008, 3177. 
[49] 
Sui mezzi di tutela v. D. Santosuosso, Il principio di correttezza nel diritto societario della crisi (abuso o eccesso di potere nel procedimento di ristrutturazione). Doveri degli amministratori e posizione dei soci, in Analisi Giuridica dell’Economia 1-2, 2023, 249 ss. 
[50] 
Almeno nel concordato con attribuzione ai soci, questi ultimi vantano il diritto di opporsi all’omologazione per far valere il pregiudizio sofferto rispetto all’alternativa liquidatoria. 
[51] 
Non è neutralizzato dall’avvenuto accesso allo strumento neppure il disposto dell’art. 2476 c.c. in tema di s.r.l. 
[52] 
Di quest’opinione anche G. Trimarchi, L’intervento notarile nel contesto degli strumenti di regolazione della crisi, in Notariato, 1, 2024, 88. 

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