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La governance dell’impresa in crisi: i rafforzamenti, le opportunità e i possibili sviluppi derivanti dalla composizione negoziata*

Riccardo Ranalli, Dottore Commercialista in Torino - Componente della Commissione ministeriale di riforma

17 Gennaio 2022

*Contributo redatto per Volume di studi in onore di Paolo Montalenti, a cura di S. Cerrato, in corso di pubblicazione.
L’Autore riflette sull’approccio della governance ala crisi che investe l’impresa, evidenziando i margini, i criteri e le opportunità, anche alla luce del nuovo istituto della composizione negoziata.
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1 . La governance con riferimento al rischio di crisi d’impresa
La governance dell’impresa si estende agli adeguati assetti organizzativi atti ad intercettare tempestivamente situazioni di crisi e ad adottare le iniziative idonee. Lo sottolinea l’art. 2086 c.c. e lo ribadisce l’art. 3 CCII. Chi scrive aveva osservato come di adeguati assetti in relazione alla crisi d’impresa si sia assai discusso ma la difficoltà maggiore restava quella di tradurre in pratica gli stessi[1]. La disciplina della composizione negoziata introdotta dal d.l. 118/2021 convertito nella L. 147/2021, istituto di nuovo conio nella gestione della crisi d’impresa che nasce con finalità emergenziali ma che ha l’ambizione di sostituirsi alla composizione assistita del titolo II del CCII[2], reca ora enunciazioni circostanziate che consentono di tradurre un concetto astratto e di complessa definizione (quello degli adeguati assetti) in principi concreti ed immediatamente fruibili dalle imprese[3]. 
Il fatto che la composizione negoziata poggi su una piattaforma telematica (art. 2) accessibile a tutti gli imprenditori attraverso il sito della camera di commercio comporta la diffusione dei contenuti aperti al pubblico di tale piattaforma. Ci si riferisce alle indicazioni operative per la redazione dei piani di risanamento (la lista di controllo di cui alla sezione II del decreto dirigenziale 28 settembre 2021 del Ministero della Giustizia[4]), al test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento accessibile da parte dell’imprenditore e dei suoi professionisti (di cui alla sezione I del decreto dirigenziale[5]), oltre che al protocollo di conduzione della composizione negoziata (sezione III del decreto dirigenziale).
Il decreto dirigenziale attribuisce un contenuto di dettaglio al quadro di riferimento che poteva essere tratto dalle disposizioni generali e specifiche in materia. Sotto questo profilo esso potrebbe costituire una pietra miliare di riferimento. In particolare il test di praticabilità e la lista di controllo consentono di declinare in indicazioni operative fruibili l’astratta enunciazione degli adeguati assetti atti sia ad intercettare tempestivamente la crisi d’impresa (in particolare il test ed i paragrafi 1 e 2 della lista di controllo) che ad assumere le idonee iniziative di cui all’art. 2086 c.c. e all’art. 3 del CCII (in particolare i paragrafi 3, 4 e 5 della lista di controllo). L’impresa per essere in grado di condurre l’esercizio del test di praticabilità e che redigere un piano di risanamento nel rispetto della lista di controllo dovrà aver preliminarmente organizzato processi interni atti a raccogliere, valutare ed impiegare le informazioni da immettere nelle caselle del test e quelle occorrenti per il rispetto della lista di controllo. Di talché l’assetto potrà ritenersi adeguato sul punto solo se è in grado di produrre i flussi informativi occorrenti[6]. 
Il disposto dell’art. 15, in tema di obblighi segnaletici all’organo amministrativo facenti capo a quello di controllo, prima ancora che essere allineato a quanto previsto dal codice della crisi, risponde alle clausole generali dell’obbligo di vigilanza gravante sul collegio sindacale. L’organo di controllo, infatti, da una parte, vigila verificando le valutazioni, la tempestività e l’appropriatezza delle iniziative assunte dall’organo amministrativo, dall’altra parte, è tenuto a segnalare all’organo amministrativo eventuali anomalie riscontrate nell’assetto organizzativo e anche la presenza di uno stato di crisi. L’art. 15 non prevede tanto l’introduzione di nuovi obblighi, quanto il mero richiamo e l’esplicitazione, in funzione dell’obbligo segnaletico, di un dovere comunque già insito nel ruolo dei diversi organi nella valutazione e vigilanza degli adeguati assetti organizzativi. Al punto che l’obbligo di verifica posto in capo all’organo di controllo rientrava già, ai sensi dell’art. 2403 c.c., nell’ambito dei doveri di vigilanza sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo e sul suo concreto funzionamento, al pari di quello di segnalazione all’organo amministrativo delle eventuali anomalie, come autorevolmente sostenuto[7].
2 . Il contesto nel quale vennero introdotte le modifiche all’art. 2086 c.c.
L’introduzione dell’espressa previsione degli assetti organizzativi adeguati in relazione al rischio di crisi d’impresa ebbe luogo con il CCII, la cui parte maggiormente innovativa era costituita dal titolo II sulle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi che la L. 147/2021 ha differito. La composizione assistita era il pilastro fondante delle procedure di allerta, nel senso che esse, per le PMI, sarebbero dovute sfociare naturalmente nel nuovo strumento introdotto dal CCII. Sulla concreta efficacia di esso erano però sorti più di un profilo di perplessità. Ci si riferisce, in primo luogo, al ruolo non ben definito del collegio degli esperti che era chiamato sia ad assistere l’imprenditore nell’individuare la soluzione, a redigerne la documentazione occorrente, a negoziare accanto all’imprenditore con i creditori, che ad attestarne i dati[8]. Il collegio degli esperti, del quale faceva parte un c.d. “membro amico”, in quanto individuato tra gli appartenenti all’associazione rappresentativa del debitore avendo sentito il debitore stesso, pur se costituito da membri indipendenti al momento dell’incarico, si sarebbe necessariamente schierato dalla parte dell’imprenditore nel momento stesso in cui avesse dovuto assisterlo. Il che avrebbe riprospettato le stesse criticità che cagionano la lunghezza delle trattative negli accordi sottostanti ai piani di risanamento di cui all’art. 67 l. fall. e negli accordi omologati di cui all’art. 182-bis l. fall., derivanti dalla contrapposizioni dell’imprenditore, da una parte, e dei creditori coinvolti, dall’altra, in assenza di un soggetto terzo, imparziale ed equidistante tra le parti che assistesse alle trattative facilitandone la conclusione nell’ambito di una soluzione atta al superamento della crisi. Ci si sarebbe dovuto attendere il prospettarsi dell’ostacolo, ricorrente nelle negoziazioni proprie in tutti gli accordi tra debitore e creditori, costituito dalla reciproca diffidenza tra le parti cui consegue la difficoltà di impostare le trattative su una base oggettiva, assicurando l’imparzialità di vedute e di giudizio a tutti coloro che vi partecipano. È a questo ostacolo che deve essere principalmente imputata la dilatazione dei tempi di raggiungimento degli accordi, spesso fonte di pregiudizio per l’effettivo risanamento dell’impresa: è, infatti, tutt’altro che infrequente assistere a negoziazioni che durano oltre i 18-24 mesi, in una situazione di precarietà della gestione dell’impresa nella quale gli approvvigionamenti sono spesso rarefatti e la capacità negoziale del debitore comunque menomata, oltre tutto in un contesto in cui il focus dell’imprenditore è costituito dalla gestione finanziaria e non dal porre con la massima rapidità rimedio alle carenze industriali che hanno condotto l’impresa nello stato di difficoltà o di crisi.
Mancava inoltre nella composizione assistita un insieme di strumenti atti a superare le difficoltà che la composizione della crisi richiede; era infatti assente una “cassetta degli attrezzi” veramente fornita ed adeguata ad affrontare le esigenze delle crisi aziendali. Non era possibile cedere rami aziendali spesso necessari per riorganizzare l’attività, rendendo maggiormente flessibile la struttura dei costi con esternalizzazioni di parte del processo o recuperando risorse attraverso la cessione di rami il cui sviluppo non sarebbe potuto essere assicurato dall’impresa, se non addirittura cedere l’intera azienda per perseguire la continuità in via indiretta quale unica forma di tutela della continuità d’impresa, e ciò in quanto nessun potenziale acquirente si sarebbe reso cessionario dell’azienda o di un suo ramo in assenza della deroga alla solidarietà patrimoniale di cui al co. 2 dell’art. 2560 c.c., prevista solo nel caso della cessione nel corso di una procedura concorsuale (fallimento, concordato preventivo o amministrazione straordinaria). Era inoltre precluso, per il mancato riconoscimento della prededuzione del credito derivante dai finanziamenti accordati, il ricorso alla nuova finanza, quasi sempre essenziale nei processi di risanamento di un’impresa, quanto meno perché le iniziative industriali di riorganizzazione comportano un costo che anticipa il rilascio dei relativi benefici. Mancava inoltre una disciplina per i gruppi aziendali la cui diffusione è quasi una costante per le medie e le grandi imprese. Non erano nemmeno praticabili finanziamenti infragruppo in esenzione della postergazione ex lege ai sensi degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. Non vi erano strumenti che consentissero la negoziazione o anche la mera rateazione delle esposizioni debitorie con l’erario e gli enti previdenziali. Non apparteneva allo strumento la coartazione dei creditori riottosi in presenza del consenso prestato da una maggioranza qualificata dei creditori con posizione giuridica ed interessi economici ad essi omogenei. Mancava infine, con riferimento al momento pandemico emergenziale, la possibilità di rinegoziare i contratti economici quando la prestazione fosse divenuta eccessivamente onerosa per effetto della crisi pandemica.
La carenza più grave della composizione assistita era peraltro un’altra ancora: l’assoluta indeterminatezza sia del percorso che avrebbe seguito il collegio degli esperti che di quanto avrebbe dovuto predisporre l’imprenditore. Quest’ultimo, anche qualora avesse fatto ricorso in via volontaria allo strumento, restava privo di un chiaro riferimento di che cosa avrebbe dovuto redigere e di come avrebbe dovuto farlo per consentire all’OCRI di raggiungere il risultato. Anzi, il riferimento contenuto al co. 2 dell’art. 19 CCII che rimetteva al collegio degli esperti la redazione di parte della documentazione, era un incentivo a presentarsi davanti al collegio dell’OCRI con immediatezza una volta percepito lo stato di crisi, pur senza aver svolto alcun ‘compito a casa’. Eppure è fin troppo evidente che in assenza di una base informativa appropriata ed evoluta poco o nulla avrebbe potuto fare il collegio e l’esito negativo sarebbe stato scontato: si sarebbe perso tempo per definire la situazione di partenza, individuare le azioni industriali occorrenti, confezionare un piano, avviare le trattative e presto si sarebbe raggiunto il termine massimo dei sei mesi previsto dall’art. 19 senza un nulla di fatto. Ancora più rilevante era però l’altra carenza costituita dall’indeterminatezza del percorso che avrebbe seguito il collegio, oltretutto aggravata dalla minaccia che al termine dello stesso, in presenza di uno stato di insolvenza irrisolto, che avrebbe potuto anche verificarsi a seguito e nel corso della composizione assistita, vi sarebbe stata la segnalazione al pubblico ministero anche se il mancato raggiungimento della composizione fosse dipeso dall’inerzia o dall’inadeguatezza del percorso individuato dal collegio degli esperti. Sarebbero state forti le perplessità di un imprenditore in difficoltà ad affidarsi ad un soggetto il cui operato non era in alcun modo disciplinato: quali valutazioni il collegio avrebbe condotto? come si sarebbe mosso nei confronti delle controparti? quale metodo avrebbe adottato per individuare la soluzione alla crisi? Sono queste domande legittime che sarebbero state fonte di preoccupazione tanto maggiore quanto più tempestivo fosse stato il coinvolgimento dell’OCRI. Il rischio di aver fatto accedere nella cristalleria un elefante goffo nei movimenti sarebbe stato sufficiente a dissuadere da un impiego dello strumento all’insorgenza delle prime difficoltà.
3 . La risposta della composizione negoziata alle criticità della composizione assistita
La composizione negoziata, anche grazie al decreto dirigenziale, non è invece più un percorso al buio; imprenditore, creditori, altre parti coinvolte, lo stesso esperto dispongono di una mappa del percorso attraverso la cui lettura è a loro chiaro quali sono le tappe da raggiungere per pervenire al risultato finale; il che vale sia per la redazione del piano di risanamento che per la conduzione delle trattative e la gestione dell’impresa, oltre che per l’espressione dei pareri eventualmente richiesti dal tribunale nei giudizi autorizzativi occorrenti ed in quelli di conferma o proroga delle misure protettive eventualmente richieste.
Il fulcro dello strumento è il ruolo dell’esperto che non ha precedenti storici nel nostro Paese con riferimento alla crisi d’impresa. Nonostante spesso erroneamente lo si qualifichi (anche nei corsi di formazione da più parti istituiti) quale ‘esperto negoziatore’, egli non è affatto un negoziatore, in quanto non deve porsi a fianco di nessuna delle parti coinvolte, ma è piuttosto un facilitatore o meglio ancora un mediatore in grado di stimolare l’individuazione di soluzioni e di proposte che comportino un sacrificio da parte degli stakeholder proporzionato al proprio interesse al risanamento dell’impresa e alla propria esposizione al rischio (punto 5.4. della sezione III del decreto dirigenziale).
Ma ciò che forse non è stato sufficientemente rimarcato è il passaggio del protocollo che chiede all’esperto una lettura critica del processo di confezionamento del piano, che il decreto dirigenziale ben individua in una successione ordinata di fasi, tale da consentirgli di rispondere in modo convincente alla fondamentale domanda che ogni lettore si pone di fronte ad un piano di risanamento: le strategie di intervento e le iniziative industriali individuate dall’imprenditore appaiono appropriate per il superamento della crisi?. Si tratta della domanda posta al punto 3.9. della sezione II della lista di controllo di redazione del piano. I dati qualito-quantitativi, esito del processo del piano, passano in secondo piano rispetto all’iter logico che deve condurre alla risposta. Solo un processo ordinato ed un iter logico privo di incoerenze consentono di rispondere in modo affermativo alla domanda e permettono all’esperto di esprimersi, una volta valutata la percorribilità delle proposte che l’imprenditore intende formulare alle parti interessate, ravvisando la concretezza delle prospettive di risanamento, in difetto della quale egli è chiamato a cessare il percorso, chiedendo l’archiviazione dell’istanza di nomina. La risposta alla domanda, per quanto semplice nella sua formulazione, presuppone un compendio informativo ampio ed articolato, in assenza del quale essa rischierebbe di essere subordinata ad una serie di condizioni che la rendono vana. Di qua l’esigenza di una chiara individuazione delle iniziative industriali che l’imprenditore intende intraprendere per superare il suo stato di crisi che presuppone l’individuazione delle cause della crisi o dello stato di difficoltà. È ben vero che tra i documenti da allegare all’istanza di nomina dell’esperto l’art. 5, co. 3, non individua il piano d’impresa ma si limita a richiedere la presentazione di un piano finanziario per i successivi sei mesi e l’indicazione delle iniziative industriali che si intendono adottare. È però altrettanto vero che sia il test pratico di cui alla sezione I del decreto dirigenziale che il capo 4 ed il capo 5 del protocollo dell’esperto (sezione III del decreto dirigenziale) presuppongono la redazione quanto meno di un proto-piano predisposto, ancorché in via sommaria, comunque secondo le indicazioni della lista di controllo contenute nella sezione II. In sua assenza l’esperto non potrà che rinviare ogni propria valutazione in ordine alle concrete prospettive di risanamento ad un momento successivo, quando l’imprenditore avrà svolto il proprio compito. 
Nel caso in cui fossero richieste le misure protettive, della mancata disponibilità anche solo di un proto-piano l’esperto non potrà non informare il tribunale, quando sentito nel giudizio di conferma delle stesse ed è ragionevole attendersi che il tribunale, qualora confermi le misure protettive lo faccia fissando un termine breve per consentire all’esperto di sciogliere la propria riserva.
La presenza di concrete prospettive di risanamento è senza alcun dubbio il momento più delicato dell’intero percorso. Ai sensi del co. 5 dell’art. 5, l’esperto, accettato l’incarico, convoca senza indugio l’imprenditore per valutare l’esistenza di una concreta prospettiva di risanamento, anche alla luce delle informazioni assunte dall’organo di controllo e dal revisore legale, ove in carica. Solo se ritiene che le prospettive di risanamento sono concrete, incontra le altre parti interessate al processo di risanamento e prospetta le possibili strategie di intervento fissando i successivi incontri con cadenza periodica ravvicinata. Se non ravvisa concrete prospettive di risanamento, all’esito della convocazione o in un momento successivo, l’esperto ne dà notizia all’imprenditore e al segretario generale della camera di commercio che dispone l’archiviazione dell’istanza di composizione negoziata. 
Questo quanto prevede la norma; di fatto egli, raccolte le informazioni iniziali ed in primo luogo il piano predisposto dall’imprenditore potrà rendersi conto se vi sia spazio per formulare proposte alle diverse parti interessate. Invero per comprendere se tali proposte siano accoglibili in modo tale da consentire il superamento dello stato di crisi è probabile che debbano essere attivate le trattative con le parti interessate. Vi è un momento in cui le concrete prospettive di risanamento vengono con evidenza meno ed è il momento in cui viene constatato che le risorse per rendere il debito sostenibile, comprese quelle messe a disposizione dai creditori attraverso il riconoscimento di stralci o la conversione in mezzi propri, e quelle messe a disposizione da terzi mediante apporti in capitale non possano avere un ritorno che riconosca all’interessato un premio adeguato al rischio di subire perdite. Con due precisazioni: a) il ritorno minimo occorrente per le risorse impiegate da coloro (creditori o soci) che sono già esposti al rischio di perdite in caso di insolvenza è più contenuto rispetto al loro valore nominale; non si deve, infatti, tenere conto di quella parte delle perdite che essi comunque subirebbero in assenza di una composizione della crisi; b) la valutazione del ritorno minimo necessario dell’impiego e quella dell’implicito premio per il rischio la può fare solo colui che mette a disposizione le risorse (creditore, cliente, socio o terzo che sia), anche sulla base del suo livello di appetito al rischio. Solo l’andamento delle trattative determinerà quindi la concretezza delle prospettive di risanamento.
Con una eccezione. Vi sono situazioni tanto deteriorate da escludere in partenza ogni concreta prospettiva di risanamento. Il punto 2.4. della sezione III relativa al protocollo chiede, già in sede di verifica del test pratico, di escludere che, in presenza di stato di insolvenza, l’impresa versi in una situazione di continuità aziendale che distrugge risorse, in presenza di un assetto proprietario non disposto ad immettere nuove risorse ed in assenza di un concreto valore dell’azienda. In tale ipotesi le probabilità che l’insolvenza sia reversibile sono assai remote indipendentemente dalle scelte dei creditori. Pertanto l’avvio delle trattative appare inutile e l’esperto dovrebbe chiedere l’archiviazione dell’istanza.
Giunti a questo punto pare opportuno svolgere un raffronto tra il ruolo dell’esperto e l’operato dell’attestatore. A ben vedere la lista di controllo di redazione del piano, nel momento stesso in cui è stata recepita nel decreto dirigenziale, diventa la base delle attività di attestazione di un piano di risanamento e non potrà in futuro essere trascurata nella redazione delle attestazioni. Vi è però una marcata differenza di ruolo, obiettivo e metodo tra attestatore ed esperto. 
Quanto al ruolo, nonostante attestatore ed esperto debbano essere entrambi rigorosamente imparziali e terzi rispetto alle parti, le differenze sono nette. L’attestatore, anche quando assiste alle trattative, lo fa in modo passivo e deve astenersi sia dall’individuare la soluzione che dal facilitare la conclusione degli accordi. Per contro l’esperto, nel facilitare l’individuazione della soluzione e l’accordo tra le parti, non attesta alcunché, né rende giudizi in ordine alla veridicità del dato ed alla fattibilità del piano[9]. Egli nondimeno deve formarsi il libero convincimento che il percorso indicato nel piano sia in grado di traghettare l’impresa da una situazione di crisi o di difficoltà ad una situazione di equilibrio patrimoniale ed economico-finanziario. La norma non chiede però all’esperto di esprimere il proprio convincimento ma unicamente di interrompere le trattative quando rilevi l’assenza o il venir meno della concretezza della prospettiva di risanamento. D’altronde la presenza dell’esperto e la sua imparzialità presuppone che egli abbia seguito il protocollo e abbia esaminato il rispetto della lista di controllo da parte dell’imprenditore. Il punto 4.3 del protocollo, in particolare, sottolinea che ove l’esperto ravvisi carenze od incongruenze della situazione contabile di partenza e del piano di risanamento, deve darne segnalazione all’imprenditore perché adotti interventi correttivi in tempi rapidi, anche, se del caso, in via sintetica attraverso interventi prudenziali quali l’iscrizione di un fondo rettificativo o il computo di un fabbisogno finanziario integrativo. D’altronde l’intervento dell’esperto è volto alla coerenza del processo di confezionamento del piano alla lista di controllo (punto 4.1 del protocollo): le indagini che egli compie sono pertanto analisi di processo anziché verifiche sostanziali del dato (diversamente rispetto a quanto previsto dalla verifica di veridicità richiesta all’attestatore dai principi di attestazione). Tali indagini, se condotte da un esperto effettivamente imparziale e terzo, consentono alle parti di formarsi il libero convincimento in ordine all’opportunità di accettare o meno le proposte formulate dall’imprenditore o di formulare eventuali controproposte.
L’obiettivo dell’esperto non è, quindi, quello di rendere un’attestazione di fattibilità del piano che l’esperienza insegna dipendere spesso da eventi esogeni all’impresa sui quali l’impresa stessa, sia essa in bonis che in crisi, non ha il controllo; tant’è che gli attestatori più consapevoli del proprio ruolo si esprimono in termini di punto di rottura del piano in dipendenza delle variabili esogene individuate quali critiche. Il che non toglie che la presenza dell’esperto rassereni le parti al tavolo sul rispetto della lista di controllo della sezione II del decreto dirigenziale e di conseguenza sulla credibilità della percorribilità del percorso individuato. Con l’adozione della lista di controllo l’imprenditore dà, ad esempio, atto dell’assenza di risorse chiave, sia tecniche che umane, della presenza di presidi organizzativi adeguati ad un efficace e tempestivo monitoraggio dell’andamento, della coerenza delle assunzioni del piano con la situazione di fatto dell’impresa e con le attese del marcato, dell’assenza di criticità di varia natura che costituiscono un impedimento all’approccio del percorso disegnato (ad esempio, la dipendenza dalla capacità di altre società del gruppo di soddisfare la domanda dell’impresa, l’irragionevolezza degli obiettivi reddituali prospettici in relazione alla situazione corrente, l’incoerenza dei tempi del ciclo di conversione in cassa rispetto all’esperienza storica).
Il metodo è ciò che maggiormente distanzia il modus operandi dell’esperto rispetto a quello dell’attestatore. L’attestatore segue una logica tendenzialmente bottom-up partendo dagli elementi fattuali ed oggettivi per pervenire a valutare la fattibilità di quelli costituenti assunzioni o mere stime. L’esperto, che fonda le proprie valutazioni sulla base del solo processo, invece si avvale di un compendio informativo più variegato. Accanto alle interviste delle funzioni aziendali, costituenti il cuore del processo informativo dell’attestatore, l’esperto può accertare la credibilità di dichiarazioni, assunzioni ed aspettative formulate dall’imprenditore direttamente con il confronto con le parti interessate. È dall’andamento delle trattative che l’esperto si forma il convincimento della credibilità delle dichiarazioni e dei fatti rappresentati. Ad esempio, la carenza dei livelli di servizio delle prestazioni rese dall’imprenditore, fondamentale per le valutazioni prospettiche, è più agevolmente riscontrabile nel corso delle trattative che dalle interviste con le funzioni operative dell’impresa. La stessa natura fisiologica o meno dei ritardi di pagamento delle forniture rispetto alle previsioni contrattuali è ben più agevolmente riscontrabile attraverso il dialogo con i fornitori che mediante il confronto di serie storiche dei tempi di pagamento o la disamina dell’anzianità dei debiti.
4 . La portata fortemente innovativa della composizione negoziata
Solo un esperto competente, adeguatamente formato ed imparziale sarà di fatto in grado di facilitare le trattative, stimolando le soluzioni più acconce per la composizione della crisi. Competenza, formazione ed imparzialità si traducono in un dato di fatto: la completezza, l’appropriatezza e l’affidabilità delle informazioni che sono condivise al tavolo delle trattative. È forse questo il primato della composizione negoziata che non è mai sufficientemente rimarcato nella disamina dello strumento: non vi è migliore contesto nel quale individuare le modalità di composizione della crisi che quello di un ambiente di trattative condotte tra parti informate. Chi scrive ritiene che, pur con la presenza della figura del commissario, non sia tale il contesto di un concordato preventivo e ciò per una pluralità di ragioni: a) nel concordato preventivo non vi è un tavolo di confronto dialettico tra il debitore ed i suoi creditori; b) il ruolo del commissario è comunque di tutela dei creditori e pertanto non gli permette l’equidistanza che caratterizza il ruolo dell’esperto; c) il rischio di proposte concorrenti di cui all’art. 163 l. fall. induce il debitore a non diffondere le informazioni industriali che potrebbero destare un appetito ai creditori, né può chiedersi al commissario una competenza industriale specifica che gli consenta di raccogliere e selezione le informazioni maggiormente appropriate.
La presenza ed il ruolo dell’esperto dovrebbe invece rendere l’ambiente del confronto informato alla trasparenza ed alla lealtà. Il che consente un compendio informativo impagabile e non raggiungibile con altrettanta efficacia osservando i soli dati aziendali che vengono messi a disposizione delle parti interessate. Numerosi sono i presidi normativi affinché buona fede, trasparenza e lealtà caratterizzino le trattative. L’art. 4. sancisce che: durante le trattative le parti si comportano secondo buona fede e correttezza; l’imprenditore ha il dovere di rappresentare la propria situazione all’esperto, ai creditori e agli altri soggetti interessati in modo completo e trasparente e di gestire il patrimonio e l’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori; le banche e gli intermediari finanziari, i loro mandatari e i cessionari dei loro crediti sono tenuti a partecipare alle trattative in modo attivo e informato; esse non potranno revocare gl affidamenti concessi per il solo fatto dell’accesso alla composizione negoziata; tutte le parti coinvolte nelle trattative hanno il dovere di collaborare lealmente e in modo sollecito con l’imprenditore e con l’esperto e rispettano l'obbligo di riservatezza sulla situazione dell’imprenditore, sulle iniziative da questi assunte o programmate e sulle informazioni acquisite nel corso delle trattative; le medesime parti danno riscontro alle proposte e alle richieste che ricevono durante le trattative con risposta tempestiva e motivata.
Trasparenza e lealtà si coniugano con la completezza e l’appropriatezza dell’informativa resa. A presidio della prima opera il disposto del co. 2 dell’art. 4 che attribuisce all’esperto il diritto di chiedere, sia all’imprenditore che ai creditori, tutte le informazioni utili o necessarie. Quanto all’appropriatezza delle informazioni militano la lista di controllo ed il protocollo delle sezioni II e III del decreto dirigenziale, rafforzate dalla facoltà dell’esperto di avvalersi, se del caso, seppure a proprie spese, di specifiche competenze esterne. 
Molti sono gli esempi di exit che verrebbero agevolati da un siffatto contesto. Basti qui un esempio per tutti: se il rafforzamento patrimoniale fosse un presupposto per il risanamento dell’impresa, solo attraverso una consapevole valutazione degli interessi e dei rischi di ciascuna parte al tavolo, sarà possibile raggiungere accordi di apertura del capitale sociale a fornitori strategici o al cliente di filiera; i primi in particolare non sarebbero meramente subiti come il risultato di una proposta concordataria, e tutti sarebbero voluti dalle parti nell’ottica della creazione reciproca di valore.
Vi è, a tale riguardo, un’informazione che riveste particolare rilevanza presso i creditori e che occorre per assumere decisioni in ordine alla proposta dell’imprenditore o per la formulazione di eventuali controproposte: essa è costituita dal tasso di recovery nell’alternativa concretamente praticabile. Si tratta del test di convenienza che il creditore interessato intende esperire prima di decidere. Per una piena consapevolezza delle reciproche utilità delle parti occorre quindi la stima affidabile della misura e dei tempi della liquidazione del patrimonio dell’impresa. Il protocollo contenuto nella sezione III del decreto dirigenziale, ai punti 13.1 e 14.8, suggerisce all’esperto di darvi corso già durante l’iter delle trattative per lasciarne traccia nella relazione finale. Il rischio che le valutazioni rese dall’esperto possano essere inadeguate o strumentalmente volte a costringere i creditori ad accettare sacrifici eccessivi è, ad avviso di chi scrive, fugato dalla sua credibilità e dalla sua imparzialità che, se sussistono, ben i creditori saranno in grado di apprezzare nel corso delle trattative, attribuendo affidabilità alle valutazioni rese. Diversamente alla valutazione dell’eserto non verrà dato alcun credito e l’esito delle trattative ne risentirà.
In tutto ciò la composizione negoziata costituisce una rivoluzione copernicana dei paradigmi di composizione della crisi sperimentati con gli accordi sottostanti ai piani di risanamento, con gli accordi omologati e con i concordati preventivi. L’asimmetria informativa che caratterizza sia gli accordi che il concordato, se l’esperto assume con piena consapevolezza il ruolo che gli è richiesto, viene meno a vantaggio della speditezza del raggiungimento di un punto di incontro equilibrato.
Anche il numero e la tipologia delle parti coinvolte al tavolo delle trattative si amplia notevolmente rispetto agli accordi nelle composizioni del passato. L’esperto (punto 5.2 del protocollo della sezione III del decreto dirigenziale) individua, con l’imprenditore, le parti con le quali è opportuno vengano intraprese trattative e nel farlo tiene conto dell’interesse di ciascuna singola parte commisurato alle conseguenze derivanti dal venir meno della continuità aziendale dell’impresa, alla misura di soddisfacimento dei diritti di credito realizzabili in caso di liquidazione dei beni o nelle alternative concretamente praticabili, alle conseguenze sui rapporti di credito ed economici con terze parti (ad esempio altre società del gruppo), alle conseguenze derivanti da una procedura concorsuale in capo all’imprenditore (ad esempio per responsabilità di concessione del credito o da garanzie concesse o da azioni revocatorie fallimentari azionabili). L’apertura ad altri stakeholder dei tavoli di trattative, compresi i dipendenti in relazione ai quali la norma prevede una procedura di informazione e consultazione sindacale ad integrazione di quanto previsto dalla legge e dai contratti collettivi, presenta una pluralità di vantaggi: quello della condivisione dei sacrifici presso una platea più ampia di interessati con una migliore propensione al loro accoglimento; quello della credibilità del risanamento che deriva da un tavolo di trattative più allargato; quello della trasparenza che evita il sospetto che l’imprenditore voglia ricostituire il valore dell’impresa solo a spese dei creditori, una volta superato il test della convenienza rispetto all’alternativa liquidatoria[10].
5 . Il rafforzamento dell’allerta
Da più parti[11] si è espresso il rincrescimento per il differimento del titolo II del CCII quasi che da esso derivasse un passo indietro nella tempestiva rilevazione dello stato di crisi. Chi scrive è convinto del contrario. 
Lo strumento si attaglia non solo alle situazioni di crisi ma anche alle mere difficoltà che inducano l’imprenditore a ritenere la crisi solo come un evento probabile[12]. La sola diffusione delle competenze di gestione della crisi, attraverso il decreto di dirigenziale e la sua pubblicazione nella parte aperta al pubblico della piattaforma telematica del sistema camerale, permetterà alle imprese di comprendere tempi e modi per affrontare le difficoltà delle imprese e le situazioni di crisi; l’adagio che la tempestività rende più agevole la gestione della crisi trova riscontri oggettivi nelle norme del d.l. 118 e nel contenuto del decreto dirigenziale tali da rendere evidente che il rischio di menomazione della riservatezza e le difficoltà di percorso sono tanto minori quanto più anticipato è il ricorso allo strumento. Ci si riferisce alle misure protettive, comunque subordinate all’ostensione al pubblico della loro richiesta con una ineludibile allerta da parte dei creditori in genere e dei fornitori in particolare, per le quali il giudice può in qualunque momento, su istanza di uno dei creditori o segnalazione dell’esperto, revocarle o abbreviarne la durata (art. 7 co. 6 e paragrafo 6 del protocollo)[13], nonché alla gestione dell’impresa quando sussiste uno stato di crisi, che deve evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività[14], o quando addirittura risulti che l’imprenditore è insolvente, che deve essere volta nel prevalente interesse dei creditori (art. 9 e paragrafo 7 del protocollo).
Per contro, in presenza di mere difficoltà che potrebbero condurre ad una crisi dell’impresa, lo strumento dimostra appieno la propria versatilità: la sola presenza di un esperto terzo ed imparziale consente di affrontare con una controparte, apparentemente ostiche, negoziazioni vantaggiose per entrambi. Anche la possibilità di differire l’assunzione dei provvedimenti di cui all’art 2447 c.c. in caso di perdita del capitale sociale costituisce un’opportunità preziosa per ristabilire l’adeguatezza patrimoniale con le variegate formule contemplate dall’allegato 1 al decreto dirigenziale, nel momento in cui essa è gestita alla presenza di una figura che attribuisce credibilità alla situazione dell’impresa ed ai fatti rappresentati. L’esperienza insegna che una corretta determinazione del patrimonio netto determina l’insufficienza dello stesso prima ancora che si manifestino ritardi nei pagamenti reiterati e significativi e che ciò abbia solide argomentazioni che derivano dagli stessi principi contabili[15]. In tali situazioni, le soluzioni che si potrebbero porre al tavolo della composizione negoziata per ristabilire l’equilibrio patrimoniale potrebbero di per sé essere sufficienti a superare le difficoltà dell’impresa in quanto dall’apertura del capitale sociale a terze parti interessate ci si deve attendere un impatto sull’efficientamento dei processi produttivi. Esse risiedono nella conversione di crediti in capitale sociale, con l’apertura dello stesso a fornitori strategici che hanno interesse nella prosecuzione dell’attività da parte del loro cliente, ovvero la conversione in strumenti finanziari di partecipazione volti a subordinare una parte del soddisfo al verificarsi di condizioni economiche che ci si attendono favorevoli, od ancora il rafforzamento patrimoniale con l’ingresso nel capitale sociale del cliente di filiera. 
Come si vede, le difficoltà possono essere circoscritte in ambiti contenuti e in tal caso lo strumento consente soluzioni mirate e altrettanto circoscritte. Rispetto all’impiego dello strumento del concordato preventivo, qui la differenza è siderale: le soluzioni concordatarie che si articolano sul piano della concorsualità debbono, infatti, comunque interessare l’universo dei creditori. È anche marcata la differenza rispetto agli accordi di ristrutturazione per le ragioni dianzi esposte che discendono dalla contrapposizione tra il debitore ed i creditori coinvolti senza la mediazione di chicchessia.
6 . Le conclusioni: gli ulteriori passi per il miglior sfruttamento delle potenzialità dello strumento
Il punto di forza costituito dal ruolo dell’esperto è però anche quello di debolezza dello strumento: è possibile che l’esperto, nonostante la formazione impartita, sia inadeguato o che assuma un atteggiamento di parzialità assecondando acriticamente le richieste di una delle parti. In questi casi, nonostante gli auspici più favorevoli e la tempestività più marcata, la composizione negoziata non potrà avere successo. È però una debolezza che consente rimedi. In caso di inadeguatezza è sufficiente che l’imprenditore, magari d’intesa con i creditori interessati, preso atto delle carenze dell’esperto, rinunzi alla domanda per proseguire le trattative in sua assenza. In caso di parzialità, saranno le altre parti a rilevarla ritirandosi dalle trattative e facendo constare l’intervenuto pregiudizio all’imparzialità dell’esperto. L’esito della composizione negoziata lascerà traccia di tali eventi anche ai fini del monitoraggio statistico, consentendo al sistema di auto-equilibrarsi, estromettendo di fatto dal novero degli esperti elegibili coloro che hanno dimostrato inadeguatezza o difetti di imparzialità in precedenti incarichi.
Nel concludere occorre domandarsi se e che cosa manchi alla composizione negoziata per costituire una svolta radicale nella gestione della crisi d’impresa. 
Ad avviso di chi scrive due potrebbero essere gli strumenti ancillari che il sistema potrebbe autonomamente creare e che comporterebbero un significativo rafforzamento dello strumento.
Il primo di questi è costituito dalla realizzazione, che ci si attende spontanea da parte del mercato, di strumenti informatici evoluti che rendano agevole la redazione di piani d’impresa per le PMI sulla base delle indicazioni contenute nella lista di controllo della sezione II del decreto dirigenziale. Tali strumenti informatici renderebbero più agevole la redazione di piani coerenti con la lista di controllo e costituirebbero lo strumento principe per consentire alle imprese di individuare se, quando e come agire. Essi, se messi a disposizione delle imprese interessate dal sistema camerale, consentirebbero inoltre di rafforzare ulteriormente quanto, peraltro, già esistente, nell’ottica di una piena attuazione del contenuto del par. 1 dell’art. 3 della Direttiva Insolvency (“Gli Stati membri provvedono affinché i debitori abbiano accesso a uno o più strumenti di allerta precoce chiari e trasparenti in grado di individuare situazioni che potrebbero comportare la probabilità di insolvenza e di segnalare al debitore la necessità di agire senza indugio”).
Il secondo di questi dovrebbe essere costituito dall’evolvere di iniziative, che hanno avuto precedenti in Europa e in Italia, volte a creare bacini di competenze assicurate da manager in pensione e da aziendalisti disposti ad operare, pro bono o con il sostegno economico di organizzazioni collettive[16], per un limitato numero di mesi a supporto delle imprese in qualità di mentore. In presenza di una crisi d’impresa il rischio più rilevante è, infatti, quello della sottrazione della più parte del tempo disponibile dell’imprenditore dalla gestione dell’impresa per dedicarlo alla gestione finanziaria e ciò nel momento in cui maggiormente occorre imprimere cambi di direzione o di metodo, se non addirittura del modello di business. L’esigenza di cambiamento, se per una impresa in difficoltà od in crisi è sempre vera, in questo momento storico inciso dal mutamento dei costumi dei consumatori e dei modelli operativi indotti da ormai quasi due anni di pandemia, oltre che dalle strategie di transizione (digitale e green) derivanti dal PNRR, assume carattere prioritario, diventando una precondizione per il successo del risanamento. Disporre di competenze specifiche che assistano l’imprenditore in difficoltà attraverso il confronto ed il dibattito e che apportino metodo ed ordine nell’affrontare i cambiamenti necessari si è dimostrato essere un elemento determinante nella gestione della crisi d’impresa[17]. Sono molti gli attori che potrebbero promuovere la creazione di tali bacini. Si pensi al mondo universitario, ma anche a quello delle associazioni datoriali e dei manager; lo stesso sistema camerale potrebbe contribuire a realizzare tali bacini di competenze che potrebbero essere messi a disposizione delle imprese nel momento in cui intendono accedere alla composizione negoziata[18]. 
La compresenza di un mentore che assiste l’imprenditore e quella di un facilitatore che stimola la ricerca della soluzione e il raggiungimento degli accordi con le parti interessate costituirebbe un unicum, anche a livello europeo, e risponderebbe appieno al par. 2, lett. b), dell’art. 3 della Direttiva Insolvency (Gli strumenti di allerta precoce possono includere … servizi di consulenza forniti da organizzazioni pubbliche o private).

Note:

[1] 
RANALLI, Adeguatezza degli assetti organizzativi, ‘indicatori’ e prevenzione della crisi tra tecnica e diritto., in  Atti del Convegno Courmayeur 20-21 settembre 2019, Milano, 2021, p. 56. In tale occasione aveva rilevato che utili indicazioni arrivano dall’art. 14 CCI che, integrato dal co. 1 dell’art. 13, ricostruisce a ben vedere il quadro di riferimento dei ruoli dell’organo amministrativo, di quello di controllo e del revisore e conseguentemente dell’assetto organizzativo che deve essere adottato. Da esso emergevano cinque specifici obblighi ai quali è tenuto l’organo amministrativo: a) la stima in continuo del prevedibile andamento aziendale (co. 1 dell’art. 14 CCII); b) la valutazione della sostenibilità del debito in via prospettica (art. 2 lett. a) e co. 1 art. 13 CCII); c) la valutazione dell’equilibrio economico finanziario (co. 1 dell’art. 14 e dall’art. 2 lett. a) CCII); d) la valutazione della continuità aziendale (co. 1 art. 13 CCII); e) il monitoraggio in continuo della situazione debitoria al fine di escludere la presenza di “ritardi nei pagamenti reiterati e significativi” (co. 1 art. 13 CCII). Restava comunque un grado di riferimento di alto livello che avrebbe necessitato di linee operative di dettaglio.
[2] 
PAGNI, FABIANI, La transizione dal codice della crisi alla composizione negoziata (e viceversa) in Diritto della crisi, novembre 2021: ‘la scelta venuta immediatamente a valle a quella del rinvio [del titolo II] è stata, allora, indirizzata alla ricerca di uno strumento compensativo che fornisse intanto all’imprenditore un percorso, guidato e protetto, sostitutivo non dell’allerta, ma della composizione assistita del codice della crisi, per coprire quello spazio che oggi precede la domanda ex art. 161 6° comma, l. fall.’
[3] 
[1] Ne ravvisa il presupposto sistematico nell’art. 2086 c.c. che impone l’istituzione di assetti organizzativi adeguati anche in funzione di prevenzione della crisi, riconducibile ai principi di corretta amministrazione e non al safe harbour della business judgement rule, MONTALENTI, Business crisis and corporate recovery: preliminary remarks, in Il nuovo diritto delle società, 10/2021.
[4] 
Il par. 2 dell’art. 8 della Direttiva 2019/1023 c.d. Insolvency chiede che “Gli Stati membri rendono disponibile online una lista di controllo particolareggiata per i piani di ristrutturazione, adeguata alle esigenze delle PMI. La lista di controllo include indicazioni pratiche su come deve essere redatto il piano di ristrutturazione a norma del diritto nazionale”.
[5] 
Il par. 4 dell’art. 3 della Direttiva Insolvency chiede che “Gli Stati membri provvedono affinché le informazioni sull'accesso agli strumenti di allerta precoce siano pubblicamente disponibili online, specialmente per le PMI, siano facilmente accessibili e di agevole consultazione”. Il test, pur non essendo un indice di crisi, consente la determinazione della difficoltà del percorso di superamento delle difficoltà dell’impresa.
[6] 
In tal senso tal senso v. M.IRRERA, P.RIVA La convergenza tra le indicazioni del codice della crisi e D.L 118/2021: is cash king? DSCR e TdR a confronto in Ristrutturazioni aziendali, 20 ottobre 2021.
[7] 
MONTALENTI, Gestione dell’impresa, assetti organizzativi e procedure di allerta dalla Proposta Rordorf al Codice della Crisi in Scritti in ricordo di M. Sandulli.
[8] 
Anche riferimento al ruolo di “mediatore attivo” contenuto nella relazione illustrativa del CCII aggiungeva ulteriori difficoltà di comprensione della propria identità da parte del collegio degli esperti.
[9] 
Fanno eccezione i casi delle soluzioni della composizione negoziata di cui alla lett. a) ed alla lett. c) del co. 1 dell’art. 11, nelle quali peraltro la relazione dell’esperto è circoscritta, nel primo di essi, al giudizio di idoneità ad assicurare la continuità aziendale per un periodo non inferiore a due anni, e, nel secondo, alla sottoscrizione del piano, come ricorda il punto 14.5 del protocollo,  qualora ritenga l’accordo idoneo al superamento dello squilibrio patrimoniale ed economico-finanziario, anche alla luce della lista di controllo contenuta nella sezione II del decreto dirigenziale. Ulteriore giudizio reso dall’esperto è quello previsto all’art. 14, co. 4, reso con la sottoscrizione della domanda di dilazione delle imposte sul reddito, ritenute alla fonte operate in qualità di sostituto d’imposta, IVA, IRAP e relativi accessori, non ancora iscritte a ruolo: esso è circoscritto alla sussistenza, al momento della sottoscrizione, di concrete prospettive di risanamento dell’impresa.
[10] 
STANGHELLINI, La legislazione d’emergenza in materia di crisi d’impresa, in Rivista delle Soceità, giugno 2020, 353, ravvisa l’esigenza che la ristrutturazione con sacrificio dei creditori sia sì più agevole ma anche più equa, concedendo a loro o a terzi un’opzione di acquistare l’impresa quando la valorizzazione che ne fa il debitore sia troppo bassa. 
Invero le proposte concorrenti introdotte con l’art. 3, d.l. 83/2015, avrebbero dovuto, nell’intenzione del Legislatore, essere un valido deterrente istituendo un procedimento competitivo capace di far leva sulla contendibilità dell’impresa in crisi e finanche agevolare la creazione di un mercato attivo dei distressed debts. Ne sarebbe derivata la massimizzazione del recupero per  creditori, evitando loro il ricorso al giudizio di cram down o alla soluzione estrema di rifiutare la proposta del debitore. L’istituto, con rarissime eccezioni, è rimasto però sulla carta a causa delle marcate asimmetrie informative tra il debitore ed i suoi creditori e del mantenimento del governo dell’impresa nelle salde mani del debitore fino all’omologa del concordato; tutto ciò aggravato dalla possibilità del debitore di vanificare le proposte concorrenti rinunziando alla proposta presentata.
Le asimmetrie informative tra il debitore e i suoi creditori sono invero l’elemento più rilevante in ogni passaggio di mano della titolarità dell’azienda. Ecco allora che una informativa trasparente, completa ed efficace assicurata da un esperto realmente terzo ed imparziale consentirebbe l’equo contemperamento delle opposte esigenze dei creditori e del debitore nel ricercare una soluzione che comporti l’apertura del capitale sociale.
[11] 
LAMANNA, Nuove misure sulla crisi d’impresa del D.L. 118/2921: Penelope disfa il Codice della crisi recitando il “de prufundis” per il sistema di allerta, in Il fallimentarista, 25 agosto 2021.
[12] 
PAGNI, FABIANI, op. cit., 7: ‘l’idea primigenia della precocità della reazione alla crisi non solo non è stata sconfessata, ma semmai al contrario, è stata enfatizzata, abilitando all’accesso alla composizione negoziata anche l’imprenditore che veda la crisi come un fatto solamente probabile’. 
[13] 
Lo stesso giudizio di conferma delle misure protettive ha luogo sentiti coloro i cui diritti sono incisi; il che comporta che della pendenza del giudizio siano informati i creditori nei confronti dei quali si chiede la conferma delle misure protettive.
[14] 
La sostenibilità economica è stata ritenuta priva di ogni ancoraggio concettuale ed operativo (LICCARDO, Neoliberismo concorsuale e le svalutazioni competitive: il mercato delle regole, in Giustizia Insieme, 6 settembre 2021) anche sotto il profilo aziendalistico (BASTIA, Prime considerazioni aziendalistiche sulla composizione negoziata, in Ristrutturazioni aziendali, 4 novembre 2021). Non si condivide tale opinione in quanto la sostenibilità economica trova enunciazione sia nella Direttiva unionale che nei principi contabili, mentre quella finanziaria risale al CCII (art. 13 e di riflesso art. 2).
[15] 
Si rinvia sul punto a RANALLI, La fattibilità del piano: luci, ombre e prospettive, in Le procedure concorsuali verso la riforma tra diritto italiano e diritto europeo, atti del XXX Convegno di Courmayeaur, in Quaderni di giurisprudenza commerciale a cura di MONTALENTI, febbraio 2018.
[16] 
È stato osservato (PAGNI, FABIANI, op cit., 17, e non si può condividerlo, che “uno spirito solidaristico non velleitario che potremmo definire la solidarietà dei vantaggi compensativi” trovi nella composizione negoziata il “luogo adatto per smussare gli angoli, per far percepire ad una collettività di soggetti che la crisi dell’impresa singola spesso sconfina nella crisi del mercato e che la crisi del mercato può essere più pericolosa e più dannosa di una qualche rinunzia”.
[17] 
A livello europeo è stato varato nel 2012 un circuito progettuale (Early Warning Europe) condotto da 15 organizzazioni provenienti da 7 Stati membri volto a fornire assistenza gratuita, imparziale e riservata alle PMI che si trovano in una situazione di squilibrio economico, patrimoniale o finanziario: ciò avviene affiancando agli imprenditori in difficoltà consulenti volontari che desiderano, in qualità di mentori, mettere a disposizione della collettività la propria esperienza e le conoscenze maturate nel corso della loro attività professionale. Si tratta di manager, prevalentemente in pensione, di imprese di grandi dimensioni e alcuni professionisti (commercialisti, avvocati, consulenti finanziari) che hanno conoscenza del settore di appartenenza dell’impresa oggetto di analisi. È previsto un supporto, attraverso un dialogo costruttivo tra imprenditore e consulente volontario, per realizzare un processo di turn-around aziendale, individuando i principali processi migliorabili e nuove soluzioni atte a risolvere problemi gestionali. Da uno studio condotto in una interessante tesi di laurea magistrale presso l’Università di Firenze di Marco Lucchesini (La ristrutturazione delle imprese in crisi nella transizione normativa: inquadramento, analisi e spunti di riflessione) emerge che il progetto ha interessato più di 20.000 casi in tutta Europa, di cui 7.500 in Danimarca, 14.000 in Germania e circa 700 in Francia. L’Italia ha aderito al progetto mediante l’Unione Industriale di Torino e successivamente tramite l’Università degli Studi di Firenze. La selezione dei consulenti avviene attraverso la realizzazione di incontri periodici e corsi di formazione, ove vengono dettate le linee guida da seguire per far sì che il servizio sia erogato in considerazione di tutti gli obiettivi che EWE intende raggiungere.
[18] 
Si tratterebbe di creare bacini di competenze professionali alle quali le imprese possano accedere fruendo del distacco a tempo determinato di manager, sostenuto volendo anche da parziale contribuzione pubblica sul modello del voucher per la internazionalizzazione di cui al d.m. 15 maggio 2015, giustificata da reskilling che questo periodo di marcata transizione richiede.

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