1. Il credito fondiario gode tradizionalmente di un trattamento di favore, rimasto sostanzialmente immutato malgrado esso abbia perso, nel tempo, i suoi originari e principali caratteri distintivi: a mente dell’art. 38, comma 1, T.u.b., “Il credito fondiario ha per oggetto la concessione, da parte di banche, di finanziamenti di medio e lungo termine garantiti da ipoteca di primo grado su immobili”, sì che non è più richiesto, come era nel vigore della previgente disciplina, che si tratti di mutuo di scopo, né è prescritta una particolare qualificazione soggettiva della banca che eroga il finanziamento – cosa che ha grandemente ampliato l’ambito di applicazione della disciplina di favore.
La ratio di questa speciale disciplina è quella di rendere la realizzazione coattiva del credito fondiario maggiormente sicura, veloce ed efficiente; ad essa rispondono: l’esonero dall’obbligo di notificare il titolo esecutivo prima di dare inizio all’esecuzione forzata (art. 41, comma 1, T.u.b.); la possibilità per il creditore fondiario di ottenere il versamento del prezzo della vendita direttamente dall’aggiudicatario, e quindi di ottenere l’immediata (ma provvisoria) soddisfazione del proprio credito senza necessità di attendere la predisposizione, approvazione ed esecuzione del progetto di distribuzione (art. 41, comma 4); l’esonero da revocatoria fallimentare delle ipoteche costituite a garanzia del finanziamento ed iscritte sino a dieci giorni prima della pubblicazione della sentenza di dichiarazione del fallimento (oggi, di apertura della liquidazione giudiziale) e dei pagamenti effettuati dal debitore a fronte del credito fondiario (art. 39, comma 4); la possibilità di iniziare o proseguire l’esecuzione forzata sui beni ipotecati a garanzia del finanziamento anche dopo l’apertura della procedura liquidatoria maggiore (art. 41, comma 2); il diritto di ottenere dal custode dei beni pignorati o dal curatore il versamento delle rendite degli immobili ipotecati, dedotte le spese di amministrazione ed i tributi, sino al soddisfacimento del credito vantato (art. 41, comma 3).
2. Di queste misure, quella di maggior impatto sulle procedure fallimentari è sempre stata l’esenzione dal divieto di iniziare e proseguire azioni esecutive individuali, prevista dall’art. 41, comma 2, T.u.b.[1].
Il privilegio accordato al creditore fondiario, pur confinato in ambito esclusivamente processuale[2], e pur mitigato dall’affermazione del principio per il quale il curatore, se non può impedire l’esercizio di azioni esecutive individuali al creditore fondiario, può però procedere egli stesso alla liquidazione del bene ipotecato[3], ha continuato a porre una pluralità di questioni interpretative e difficoltà operative.
La maggior parte di tali questioni è giunta via via a soluzione, da ultimo in virtù della fondamentale sentenza della Corte di Cassazione n. 23482 del 13 luglio 2018, ma ciò non ostante permangono casi in cui la (parziale) sottrazione del credito fondiario all’operatività di uno dei principi cardine delle procedure concorsuali, quello cioè dell’universalità soggettiva[4], condiziona pesantemente la gestione della procedura, causando inconvenienti, se non addirittura danno alla massa dei creditori: si pensi, ad es., alla ricezione di un’offerta di acquisto a prezzo congruo di un immobile pignorato dal creditore fondiario, offerta che il curatore avrebbe potuto porre a base di una procedura competitiva giungendo ad una più rapida vendita del bene; si pensi all’ipotesi in cui il pignoramento del creditore fondiario colpisca l’immobile ipotecato ma non una sua pertinenza, di nullo o poco valore se venduta separatamente; si pensi, ancora e soprattutto, al pignoramento dell’immobile sede dell’azienda di proprietà del fallito[5].
A ciò si aggiunga che il privilegio fondiario ha progressivamente perduto quella che storicamente ne è stata la ragione giustificatrice: si è detto in dottrina che essa risiede(va) nell’esigenza di “consentire alla banca un più celere realizzo della garanzia, senza dover attendere i tempi e la definizione della procedura fallimentare”[6], ma, ancor prima dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa, il sistema delle procedure concorsuali ha conosciuto interventi legislativi diretti a potenziare l’attività di liquidazione dei beni dell’attivo, rendendola più celere, trasparente ed efficace, al tempo stesso incentivando la distribuzione dell’attivo ai creditori nel corso della procedura.
In questa direzione si era già orientata la riforma del 2006, innestando nel corpo della legge fallimentare il nuovo art. 104 ter, e così facendo sì che la liquidazione dei beni acquisiti all’attivo sia frutto, non più di un’attività estemporanea del curatore, ma di una precisa programmazione compiuta sin dalla fase iniziale della procedura; alla medesima riforma si deve, poi, la scelta di rendere la liquidazione dell’attivo un’attività affidata non solo al giudice delegato, ma compiuta, per scelta del curatore, anche direttamente da quest’ultimo o da altri professionisti, con modalità che, pur necessariamente ispirate al principio della massima informazione e partecipazione degli interessati, si caratterizzano per maggiore snellezza e flessibilità rispetto a quelle disciplinate dal codice di procedura civile.
Successivamente, il D.L. n. 83/2015, convertito con modificazioni con L. n. 132/2015, oltre ad estendere alle vendite ed agli atti di liquidazione compiute nelle procedure concorsuali la possibilità di pagamento rateale del prezzo, ha rimaneggiato l’art. 104 ter L. fall., introducendo l’obbligo di specificare nel programma di liquidazione il termine entro il quale sarà completata l’attività di liquidazione, stabilendo che tale termine non può eccedere (tendenzialmente) i due anni dal deposito della sentenza di fallimento[7], e prevedendo, infine, quale causa di revoca del curatore, l’inosservanza senza giustificato motivo del termine di 180 giorni dalla dichiarazione di fallimento per la predisposizione del programma di liquidazione e dei termini previsti dal programma di liquidazione, nonché il mancato rispetto dell’obbligo di procedere a riparti parziali ogni quattro mesi, in presenza di somme disponibili per la ripartizione.
Il Codice della crisi è andato oltre: per l’art. 136, comma 2, le operazioni di liquidazione devono essere compiute contemporaneamente a quelle di accertamento del passivo; del resto, a mente dell’art. 213, comma 5, entro otto mesi dall’apertura della procedura deve aver luogo il primo esperimento di vendita; la medesima disposizione ha poi portato a cinque anni il termine per il completamento dell’attività di liquidazione (estensibile a sette in casi di eccezionale complessità), stabilendo peraltro che per i beni immobili devono essere fissati almeno tre esperimenti di vendita all’anno (art. 216, comma 2); sono state, infine, estese alla procedura di liquidazione giudiziale molte delle regole introdotte da tempo, e con risultati positivi, nel settore delle esecuzioni immobiliari (diritto degli interessati a presentare offerte di acquisto di visionare l’immobile entro un dato termine dalla richiesta; possibilità di offrire un prezzo inferiore di un quarto a quello base; possibilità di riduzione del prezzo base sino alla metà a partire dal quarto esperimento; emissione dell’ordine di liberazione, etc.). Insomma, l’attività di vendita di beni immobili nella liquidazione giudiziale è oggi disciplinata da regole largamente sovrapponibili a quelle dell’esecuzione immobiliare individuale; in particolare, in entrambi gli ambiti tale attività, nonché quella di distribuzione del ricavato delle vendite ai creditori, sono assoggettate ad una tempistica predeterminata e stringente[8], sì che può ben dirsi che “Il credito fondiario può ormai essere soddisfatto nella liquidazione giudiziale con tempistiche non superiori a quelle che caratterizzano le procedure esecutive individuali”[9].
3. Ancor prima dell’inizio del lungo processo che ha infine condotto all’entrata in vigore del Codice della crisi, i tempi erano, dunque, maturi per la soppressione dello speciale privilegio previsto dall’art. 41, comma 2, T.u.b.
La legge delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza ha, infatti, previsto, tra principi e criteri direttivi cui il Governo avrebbe dovuto attenersi, il potenziamento della procedura di liquidazione giudiziale mediante l’adozione di misure dirette, tra l’altro, a “escludere l’operatività di esecuzioni speciali e di privilegi processuali, anche fondiari; prevedere, in ogni caso, che il privilegio fondiario continui ad operare sino alla scadenza del secondo anno successivo a quello di entrata in vigore del decreto legislativo ovvero dell’ultimo dei decreti legislativi emanati in attuazione della delega di cui all’articolo 1” (art. 7, comma 4, lett. a).
Così però non è stato: l’art. 150 del Codice riproduce il contenuto dell’art. 51 della legge fallimentare, salvo gli adattamenti dovuti al mutamento della denominazione della procedura liquidatoria maggiore da “fallimento” a “liquidazione giudiziale”, e la stessa cosa accade per l’art. 151, comma 3, ripetitivo del contenuto dell’art. 52, comma 3, L. fall., e per l’art. 220, comma 1, che, come già l’art. 110, comma 1, L. fall., precisa che nel progetto di riparto sono collocati anche i crediti ai quali non si applica il divieto di inizio o prosecuzione delle azioni esecutive individuali.
È poi vero che l’art. 369 CCII, nel modificare varie disposizioni della L. n. 385/1993 al fine di coordinarle col Codice della crisi, non si occupa dell’art. 41[10], ma il precedente art. 349 stabilisce che nelle disposizioni normative vigenti il termine “fallimento” deve intendersi sostituito, con salvezza di continuità della fattispecie, dalla locuzione “liquidazione giudiziale”, e non vi è motivo di ritenere che l’art. 41 T.u.b. sfugga all’applicazione di tale regola[11]; non lo è, in particolare il fatto che tale disposizione non sia menzionata dall’art. 369, atteso che le norme del Testo Unico Bancario ivi considerate richiedevano, per essere armonizzate col nuovo impianto normativo, modifiche diverse e più articolate delle semplici sostituzioni lessicali disposte dall’art. 349.
Nella procedura di liquidazione giudiziale, pertanto, il privilegio fondiario è sopravvissuto e deve ritenersi tuttora operante, pur se ormai anacronistico e disfunzionale, atteso che il legislatore delegato non ne ha disposto la soppressione né all’attualità, né al termine del periodo di due anni dall’entrata in vigore del Codice della crisi[12].
Al termine di tale periodo, occorrerà poi stabilire se questa scelta del legislatore delegato[13] concretizzi una semplice mancata attuazione della delega ovvero un contrasto della normativa delegata con i principi e criteri direttivi fissati dalla L. n. 155/2017, ponendo, in questa seconda ipotesi, una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 76 Cost.[14]
4. Per le altre procedure concorsuali disciplinate dal Codice della crisi, diverse dalla liquidazione giudiziale, la questione dell’operatività del privilegio fondiario si pone in termini problematici soltanto rispetto alla liquidazione controllata[15].
In passato, nella vigenza della L. n. 3/2012, la giurisprudenza di merito ha escluso che nella procedura di liquidazione del patrimonio il creditore fondiario potesse avvalersi della disciplina di favore dettata dall’art. 41 T.u.b.[16]
La soluzione era, all’epoca, resa agevole dal fatto che il divieto di esercizio di azioni esecutive individuali dopo l’apertura della liquidazione del patrimonio, siccome sancito dall’art. 14 quinquies, comma 2, lett. b), della L. n. 3/2012, non conosceva eccezione alcuna. La questione si presentava, pertanto, in termini non dissimili da quella che aveva in precedenza interessato la procedura di concordato preventivo, in cui l’applicazione della disciplina del credito fondiario era stata esclusa dalla Suprema Corte proprio sul rilievo del carattere assoluto del divieto sancito dall’art. 168 L. fall.[17]
Il quadro normativo è però mutato con l’entrata in vigore del Codice della crisi, il cui art. 270, comma 5, rinvia all’art. 150.
Da qui il formarsi, in dottrina come nella giurisprudenza di merito, di due diversi orientamenti, rispettivamente favorevole e contrario alla tesi dell’intervenuta estensione del privilegio fondiario alla liquidazione controllata[18].
Il primo di questi orientamenti si fonda, appunto, sul rinvio all’art. 150 CCII operato dal quinto comma dell’art. 270, rinvio che – si osserva – non è limitato alla parte di tale articolo che sancisce il divieto di azioni esecutive e cautelari, né si accompagna (diversamente da quanto avviene per il rinvio all’art. 143) ad una riserva di compatibilità. Si tratta di un iter argomentativo simile a quello già tracciato in una risalente pronuncia della Corte di Cassazione[19], e che in quel caso condusse ad affermare l’integrale applicazione dell’art. 51 L. fall. alla liquidazione coatta amministrativa, in forza del richiamo disposto dal successivo art. 201.
Il primo snodo di questo percorso argomentativo può condividersi: si può, cioè, ritenere che il rinvio dell’art. 270, comma 5, riguardi l’intero art. 150, e quindi sia la regola che l’eccezione. Va tuttavia considerato che l’art. 150 CCII, come già l’art. 51 L. fall., è norma di diretto contenuto precettivo soltanto nella parte in cui impone, quale regola generale della procedura liquidatoria, il divieto di esercizio delle azioni cautelari ed esecutive individuali, mentre non lo è per la definizione dell’eccezione (o meglio delle eccezioni[20]), rimessa alle singole disposizioni di legge che di volta in volta le prevedono[21].
L’eccezione contemplata dall’art. 41, comma 2, T.u.b., già espressamente riferita alla sola procedura fallimentare, lo è oggi, in forza dell’art. 349 CCII, alla sola liquidazione giudiziale, sì che l’applicazione della relativa disciplina alla liquidazione controllata sarebbe frutto, non tanto del rinvio disposto dell’art. 270, comma 5, ma di un’applicazione analogica, non consentita dall’art. 14 delle preleggi[22].
Vi è poi altra ragione che induce ad escludere che il privilegio fondiario possa trovare spazio nella liquidazione controllata.
Come in precedenza ricordato, per l’art. 7 della legge delega le esecuzioni speciali ed i privilegi processuali avrebbero dovuto essere soppressi, salva l’operatività del privilegio fondiario per un periodo di due anni dall’entrata in vigore del Codice della crisi. L’estensione di tale privilegio alla liquidazione controllata porrebbe l’art. 270, comma 5, in diretto ed immediato contrasto con la legge delega, giacché non si tratterebbe soltanto di conservarne l’operatività in via temporanea, come consentito dall’art. 7 della L. n. 155/2017, ma di riconoscerlo ex novo riguardo ad una procedura cui tale privilegio era del tutto estraneo.
La tesi che qui si predilige fornisce, pertanto, anche un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 270, comma 5, CCII[23].