Viviamo in un tempo sospeso. Lo scoppio della pandemia, imprevisto anche se forse non del tutto imprevedibile, ha introdotto una cesura nello scorrere della nostra vita quotidiana, rivoluzionando le nostre abitudini, modificando le prospettive ed imponendoci di guardare molte cose da un diverso punto di vista. Ma il nostro sguardo sul futuro è appannato. Non siamo in grado di sapere se e quando cesserà questa situazione, così straordinaria, né in qual misura la nostra organizzazione sociale tornerà ad istradarsi sui medesimi binari di prima, o magari assumerà invece aspetti del tutto nuovi. Anche l’attuazione di una riforma normativa da gran tempo attesa e lungamente elaborata, quale quella riguardante il diritto concorsuale, è perciò entrata in un cono d’ombra: uno stato di sospensione nel quale non si ha certezza non solo dei tempi di attuazione della riforma ma persino del se essa verrà mai attuata davvero.
Son già due anni da quando è stato emanato il D.Lgs 12 gennaio 2019, n. 14, che ci ha consegnato un nuovo codice, denominato Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (c.c.i.i.), per la cui entrata in vigore era stata prevista una dilazione di diciotto mesi (salvo che per un ristretto gruppo di articoli, entrati in vigore dopo il consueto termine di quindici giorni); e si trattava di una dilazione opportuna, dovendosi predisporre nuove strutture (in particolare quelle degli Organismi di composizione della crisi presso le Camere di commercio) e dare il tempo agli operatori tutti di assimilare un nuovo, assai corposo testo normativo. Ma in quel momento la pandemia non era ancora all’orizzonte, e quando poi, circa un anno dopo, essa si è drammaticamente profilata l’entrata in vigore del codice è stata ulteriormente differita al 1 settembre 2021, benché alcune delle disposizioni in esso contenute – in particolare nell’ambito del sovraindebitamento – siano state estrapolate ed inserite nel corpo della normativa pregressa. Sarebbe ozioso indugiare adesso a discutere se questo differimento fosse davvero necessario o comunque opportuno. Sta di fatto che, per ora, abbiano un codice che sta sulla soglia; un codice che, se non prevarranno le spinte regressive tese a demolire del tutto ciò che finora è stato fatto, non è improbabile possa essere ancora in diverse parti modificato.
A mio sommesso avviso varrebbe in effetti la pena di approfittare della situazione per opportuni interventi correttivi, non foss’altro al fine di meglio allineare le disposizioni del codice ai dettami della direttiva europea n. 2019/1023 frattanto emanata; ma sarebbe davvero un peccato rinunciare a portare a termine una riforma assolutamente necessaria per mettere la nostra normativa concorsuale all’altezza dei tempi e ridarle un minimo di sistematicità ed organicità dopo una lunga stagione di interventi legislativi parziali e disordinati, suggeriti da vere o presunte esigenze impellenti, ma privi di una visione d’insieme capace di dare coerenza a questo importantissimo settore dell’ordinamento. E credo proprio che, quale che sarà la situazione in cui ci troveremo dopo il passaggio della pandemia, le ragioni di fondo che hanno ispirato questa riforma non solo continueranno ad essere valide, ma lo saranno forse ancor di più. Merita perciò continuare a parlarne, anche perché, al di là della formulazione più o meno felice di questa o quella disposizione e della maggiore o minore condivisione di singole scelte operate dal legislatore nel disciplinare questo o quell’istituto, ciò che davvero è in gioco è un mutamento di mentalità e di cultura giuridica ed imprenditoriale. Un mutamento che certamente una riforma della normativa, sia pure ampia ed organica, da sola non è in grado di determinare ma che può grandemente favorire. Ed è a questo che vorrei dedicare alcune brevi considerazioni.
Già la denominazione Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza suggerisce alcune riflessioni di fondo. Le parole “crisi” ed “impresa” non erano familiari alla legge fallimentare del 1942. Lì non si parla di crisi, ma solo d’insolvenza; e se ne parla facendo riferimento non già all’impresa bensì alla persona dell’imprenditore, che può essere o meno assoggettato a fallimento e può – o deve – essere dichiarato insolvente in presenza di determinate condizioni. Può trattasi di una persona giuridica o di una persona fisica, ma resta il fatto che l’attenzione è focalizzata sul soggetto debitore e non sull’impresa come organizzazione di mezzi produttivi finalizzati a uno scopo economico.
La parola “crisi” era già entrata, per la verità, nel lessico normativo della stessa legge fallimentare, ma in un secondo momento, per effetto delle riforme parziali attuate negli anni 2005-2006, con alcune incertezze iniziali quanto alla precisa definizione del corrispondente concetto, la cui accezione ha finito poi per ricomprendere anche l’insolvenza oltre che le situazioni a questa prodromiche. Nel nuovo codice, invece, quella parola, “crisi”, assume una rilevanza centrale: non solo se ne dà una specifica e precisa definizione e la si distingue dall’insolvenza (la crisi implicando la probabilità di una futura insolvenza e collocandosi quindi in un momento precedente a questa), ma intorno ad essa si costruiscono nuovi istituti ed il legislatore mostra di volervi dedicare una particolare attenzione. Se la legge fallimentare del 1942 era prevalentemente focalizzata sull’insolvenza, ora lo sguardo si sposta sulla fase precedente, sul momento in cui l’impresa inizia a trovarsi in difficolta ed, appunto, entra in crisi.
Gli è che l’insolvenza, salvo casi eccezionali, non si manifesta all’improvviso ed in modo imprevedibile, ma costituisce il punto di arrivo di un processo di progressivo degrado dell’impresa. Gli aziendalisti infatti sogliono talvolta distinguere, all’interno di questo processo, quattro fasi: il declino, la crisi, l’insolvenza ed, infine, il vero e proprio dissesto. Assume perciò grande importanza la possibilità d’intervenire quando non si sia ancora in presenza di un debitore insolvente in senso tecnico o addirittura di un’insolvenza divenuta irreversibile, ormai sfociata in dissesto, ma già sono emersi elementi che rendono probabile un simile accadimento. Se un tempo il legislatore sembrava volersi disinteressare di questo sviluppo di eventi e (salvo il blando rimedio preventivo dell’amministrazione controllata, mai peraltro davvero efficace a questo scopo) limitarsi essenzialmente a disciplinare il concorso dei creditori nella fase della liquidazione del patrimonio del debitore insolvente, ora l’atteggiamento è mutato: il legislatore vuol farsi carico di prevenire l’insolvenza, finché possibile, e perciò mette a punto strumenti destinati ad entrare in scena efficacemente sin dal manifestarsi dei primi sintomi della crisi.
E’ però evidente che questo diverso approccio implica la necessità di guardare soprattutto al funzionamento dell’impresa, al modo in cui essa è organizzata, alle sue dinamiche ed alle sue prospettive di recupero e di futuro sviluppo. Insomma, un’ottica essenzialmente oggettiva, nella quale anche la valutazione dei comportamenti tenuti dall’imprenditore potrà rilevare ai fini dell’accertamento di una sua responsabilità (civile o anche eventualmente penale), ma non dovrebbe incidere più che tanto sulle scelte riguardanti il possibile recupero di funzionalità dell’impresa. E qui si fa particolarmente evidente la differenza rispetto alla logica che aveva ispirato il legislatore del 1942, il quale neppure prestava particolare attenzione all’impresa, sembrando piuttosto volersi occupare della persona dell’imprenditore. Ed anche il coevo codice civile (art. 2082) si preoccupa di delineare la nozione di imprenditore, colui che esercita un’attività economica organizzata, che solo di riflesso vale a definire anche l’impresa come, appunto, l’attività economica organizzata svolta dall’imprenditore medesimo.
Ma ora invece, come s’è detto, l’attenzione si sposta sulle fasi in cui la crisi dell’impresa inizia a manifestarsi, quando si è ancora in tempo ad intervenire prima che non ci sia altro da fare che accertare una situazione di insolvenza. Si vorrebbe, se possibile, non giungere al punto in cui diviene inevitabile procedere alla liquidazione del patrimonio dell’insolvente e limitarsi a soddisfare i creditori attraverso la vendita dei beni dai quali quel patrimonio è formato. Ed è questo uno degli obiettivi primari che il legislatore si propone: non soltanto una migliore e più soddisfacente liquidazione dei beni del debitore a vantaggio dei suoi creditori, quando non vi siano alternative, ma anche e soprattutto la prevenzione di un siffatto esito liquidatorio attraverso il salvataggio dell’impresa ed il mantenimento, ove possibile, della continuità aziendale attraverso una serie di strumenti destinati a questo scopo, volti a consentire la tempestiva percezione dei sintomi della crisi ed a fronteggiarli altrettanto tempestivamente. Ma è importante sottolineare che questo obiettivo, se perseguito con mezzi idonei, non contrasta con la prioritaria esigenza di soddisfare al meglio le ragioni dei creditori, i quali dal recupero di funzionalità dell’impresa loro debitrice possono sovente ricavare un soddisfacimento maggiore di quanto ne ricaverebbero dalla liquidazione dei beni, perché la liquidazione comporta inevitabilmente una dispersione di quei valori espressi dall’impresa nel suo insieme finché essa resta funzionante. Per non dire, poi, dei vantaggi che ne possono derivare per tutta quell’ampia platea di soggetti interessati alla vita dell’impresa: lavoratori dipendenti, fornitori, clienti, consumatori, e via elencando.
Questa finalità era già avvertita da tempo, non solo in ambito europeo ed internazionale, ma anche nell’ordinamento italiano, e gli interventi riformatori parziali intervenuti nel primo decennio di questo secolo se ne erano in qualche modo fatti carico, per esempio introducendo l’istituto degli accordi di ristrutturazione dei debiti, o ammettendo la possibilità di proposte di concordato con riserva e cercando di favorire i concordati in continuità aziendale. Ma si è trattato di interventi parziali, i cui risultati non sono sempre apparsi pari alle attese, soprattutto perché quasi sempre a quegli strumenti gli imprenditori in crisi hanno continuato a far ricorso troppo tardi, quando ormai l’insolvenza era divenuta inevitabile ed irreversibile. Donde l’impellente necessità, ben evidenziata sin dalla Raccomandazione della Commissione europea n. 2014/135, di mettere in campo anche strumenti ulteriori e diversi, specificamente volti a consentire la precoce percezione dei sintomi della crisi e l’utilizzo più tempestivo degli opportuni rimedi.
Non credo occorrano molte parole per dimostrare che il risanamento dell’impresa ed il recupero della continuità aziendale presuppongono anzitutto la capacità di cogliere il prima possibile i sintomi della crisi e poi la tempestività dell’intervento destinato a farvi fronte. E’ questa l’idea di fondo che sta alla base degli istituti dell’allerta e della composizione assistita della crisi: certamente le più importanti novità introdotte dalla riforma. Ed altrettanto importante è l’esplicita previsione del dovere dell’imprenditore di attrezzarsi organizzativamente in modo adeguato, anche e proprio per porsi in condizione d’intercettare per tempo le incipienti difficoltà che, se non immediatamente fronteggiate, potrebbero compromettere la continuità aziendale e sfociare in insolvenza.
Ma val la pena di osservare che la tempestività della reazione al primo manifestarsi dei sintomi di crisi non solo costituisce un’indispensabile condizione perché si possa procedere fruttuosamente al risanamento dell’impresa, ma è cosa utilissima anche qualora, nonostante ogni sforzo ed ogni buona intenzione, la degenerazione della crisi in insolvenza ed il conseguente esito liquidatorio risultino inevitabili. Lo mette bene in evidenza il considerando 22 della già citata direttiva europea n. 2019/1023 laddove ricorda che “Quanto prima un debitore è in grado di individuare le proprie difficoltà finanziarie e prendere le misure opportune, tanto maggiore è la probabilità che eviti un'insolvenza imminente o, nel caso di un'impresa la cui sostenibilità economica è definitivamente compromessa, tanto più ordinato ed efficace sarà il processo di liquidazione”. La percezione tempestiva della crisi, in altri termini, permette anche un processo di liquidazione più ordinato ed efficace: è funzionale alla prevenzione dell’insolvenza, ma è funzionale anche – nel caso l’insolvenza comunque si determini – alla corretta gestione della conseguente procedura concorsuale e ad una migliore liquidazione dell’azienda.
Ecco dunque la grande importanza del fatto che l’ordinamento italiano finalmente si doti di quegli strumenti di allerta e composizione assistita della crisi di cui da gran tempo si discuteva ma la cui introduzione ha finora sempre incontrato forti resistenze. Non mi nascondo che la specifica disciplina al riguardo prevista dal Codice della crisi e dell’insolvenza presenta anche aspetti discutibili, soprattutto laddove, a mio sommesso avviso, rischia di non mettere sufficientemente in luce la finalità di supporto all’impresa che dovrebbe ispirare tali nuovi istituti e, di conseguenza, non facilità abbastanza il mutamento di atteggiamento culturale che vi è sotteso: l’abbandono dell’attitudine dell’imprenditore a tenere nascoste la proprie difficoltà il più a lungo possibile. Non posso qui approfondire l’argomento, ma mi preme ancora una volta ribadire che, se per un verso può valer la pena di insistere per alcune modifiche del codice in questo settore, per altro verso l’introduzione degli istituti dell’allerta e della composizione assistita della crisi, per le ragioni che ho prima brevemente cercato di esporre, si pone ormai un’esigenza imprescindibile.
Mi rendo ben conto che, finché siamo ancora in pieno periodo di pandemia ed un buon numero di imprese si trova alla prese con una crisi economica esogena e generalizzata, non è agevole mettere in funzione un meccanismo di allerta concepito, invece, per fronteggiare crisi che colpiscono singole imprese e derivano da fattori a ciascuna di esse specificamente riferibili. Ma sono del pari convinto che, quando questo tormentato periodo sarà finalmente alle nostre spalle, gli istituti dell’allerta e della composizione assistita della crisi, se ben gestiti, torneranno utilissimi. Tanto più utili in quanto si tratterà anche di comprendere se e quali effettive potenzialità di ripresa vi siano per imprese venutesi a trovare in difficoltà a causa della pandemia e, quando tali potenzialità sussistano, di aiutare gli imprenditori a sfruttarle al meglio.
Occorre poi considerare che alcune parti del disegno riformatore sono già state attuate ed un’evidente esigenza sistematica suggerisce che quel disegno, appena possibile, venga condotto a compimento. Penso, in particolare, alle modifiche che il D.Lgs 12 gennaio 2019, n. 14, ha apportato alle disposizioni del codice civile in tema di impresa e di società. Come già accennavo, la possibilità di percepire tempestivamente i sintomi della crisi presuppone che l’impresa sia adeguatamente organizzata allo scopo. Ed è appunto per questo che il principio di adeguatezza organizzativa ed il correlato dovere di istituzione di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili, prima espressamente previsti solo per le società azionarie, sono stati estesi dal secondo comma dell’art. 2086 del codice civile – come modificato dal Codice della crisi e dell’insolvenza – a qualsiasi tipo di impresa collettiva (e sono poi ulteriormente richiamati anche da diposizioni riguardanti specificamente le società a responsabilità limitata e le società di persone). L’adeguata organizzazione dell’impresa – soprattutto dal punto di vista contabile, ma più in generale dal punto di vista strutturale ed amministrativo – è una condizione necessaria perché chi gestisce quell’impresa possa rendersi conto precocemente delle difficoltà in cui eventualmente l’impresa stessa si sta imbattendo. E quanto prima si coglie la necessità di intervenire tanto più l’intervento potrà essere efficace.
E’ indubbio che il dovere di istituzione di adeguati assetti è concepito dal novellato secondo comma dell’art. 2086 c.c. soprattutto in funzione della prevenzione dell’insolvenza e della tempestiva percezione della perdita della continuità aziendale di cui si è già parlato. Sarebbe però un errore credere che questa ne sia la sola finalità. Si tratta, infatti, di un dovere rispondente all’essenza stessa dell’attività imprenditoriale, che postula appunto un’organizzazione dei mezzi necessari al suo svolgimento e perciò richiede che l’organizzazione sia adeguata. Il che consente di affermare che, benché formalmente enunciato solo con riguardo alle imprese operanti in forma collettiva, il dovere di istituire un assetto organizzativo adeguato incombe necessariamente anche sull’imprenditore individuale; mentre però la sua violazione può assumere rilevanza autonoma quando sia imputabile ad amministratori di società e sia perciò prospettabile nei loro confronti l’esercizio delle azioni di responsabilità previste dal codice civile, nel caso di imprenditore individuale esso finisce di fatto col restare assorbito nell’eventuale violazione di altre norme di relazione derivanti dai rapporti instaurati con terzi.
L’art. 2086, secondo comma, più volte già menzionato, prevede anche il dovere di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi, a cominciare, ovviamente, proprio dagli strumenti dell’allerta e della composizione assistita predisposti dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Non bisogna tuttavia dimenticare che i doveri di cui si sta parlando – sia quello di istituire adeguati assetti organizzativi, anche ai fini di percepire tempestivamente i sintomi della crisi, sia quello di attivarsi tempestivamente per fronteggiare i sintomi della crisi e favorire il recupero della continuità aziendale – non sono circoscritti alle sole imprese alle quali, ai sensi dell’art. 12 del c.c.i.i., si applicheranno gli istituti dell’allerta e della composizione assistita. Il citato art. 2086 del codice civile riguarda qualsiasi impresa operante in forma collettiva, e quindi anche quelle non assoggettate alla disciplina dell’allerta, le quali debbono nondimeno essere organizzate in modo tale da poter percepire tempestivamente eventuali sintomi di crisi e poter ricorrere a strumenti, quali ad esempio piani attestati di risanamento, accordi di ristrutturazione dei debiti o concordati preventivi, che appaiano di volta in volta idonei a consentire, ove possibile, il recupero della continuità aziendale.
A tal proposito vorrei ancora soffermarmi brevemente su un aspetto che mi sembra particolarmente rilevante: la nozione di adeguatezza degli assetti organizzativi. E’ diffuso il timore che il dovere di istituire tali assetti possa risultare troppo gravoso per le imprese medie e piccole, le quali rischierebbero di essere gravate da oneri economici eccessivi. Non credo però che questa preoccupazione sia fondata. La nozione di adeguatezza implica una misura di relazione, ed infatti la stessa citata disposizione dell’art. 2086 non manca espressamente di rapportare l’adeguatezza organizzativa “alla natura e alle dimensioni dell’impresa”. Non è pensabile che anche una piccola o media impresa non debba essere organizzata, ma ovviamente l’adeguatezza della sua organizzazione andrà parametrata alla minore complessità della sua struttura aziendale, secondo un generale principio di proporzionalità che è destinato anche qui a trovare applicazione. Si manifesta anche a tal riguardo l’esigenza di mutare un atteggiamento culturale, frequente soprattutto nel mondo delle imprese minori a base fortemente proprietaria, che inclina spesso verso forme di gestione approssimative in cui sovente, quantunque l’impresa abbia forma societaria, il suo patrimonio e la sua contabilità si confondono con quelle personali del socio egemone, il quale considera e gestisce la società come cosa sua ed è restio a renderne conto. Occorre invece sviluppare l’idea che il fare impresa richiede serietà, professionalità ed assunzione di responsabilità anche se l’impresa è di piccole dimensioni. Il tessuto economico nazionale è fatto largamente da piccole imprese, ma non è accettabile che sia fatto da imprese disorganizzate.
Certo, il dovere di istituire assetti imprenditoriali adeguati – che è ormai, come s’è visto, un dovere giuridico, la cui violazione può dunque comportare responsabilità – porta con sé molti problemi, che non è qui possibile esaminare. Vorrei solo accennare alla questione se, nel valutare tale eventuale responsabilità, si debba o meno tener conto dei limiti imposti dalla cosiddetta business judgement rule, in base alla quale l’opportunità delle scelte inerenti al merito della gestione dell’impresa si sottrae al vaglio di legittimità. Alcuni lo negano perché quel principio atterrebbe alla gestione e non all’adeguata organizzazione dell’impresa, imposta da una precisa norma di legge. Comunque la si pensi, resta però il fatto che anche nelle scelte di carattere organizzativo non può mai del tutto escludersi un qualche margine di discrezionalità, non foss’altro perché si tratta pur sempre di destinare in un modo o nell’altro risorse dell’impresa. La valutazione di eventuale responsabilità dell’amministratore per non aver istituito assetti organizzativi adeguati (da operarsi sempre ex ante, e non col senno di poi) dovrà esser scevra da automatismi e tener conto dei margini di discrezionalità pur sempre insiti in un tal genere di vicende. Ed è chiaro che si tratta di valutazioni che quasi sempre coinvolgono nozioni aziendalistiche e richiedono, perciò, un approccio interdisciplinare tra il mondo del diritto e quello dell’economia.
Mi verrebbe spontaneo aggiungere che anche e proprio per questo, cioè per la complessità delle valutazioni richieste in questa materia al giudice e per i profili interdisciplinari che vi sono implicati, occorrerebbe favorire in massimo grado la specializzazione dei magistrati operanti in questo delicatissimo settore. Del che la legge delega n. 155 del 2015 di era fatta carico, senza che però il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza abbia poi recepito (o non del tutto) il relativo principio di delega. Ma questa – come si suol dire – è un’altra storia, e magari ne riparlerò in un’altra occasione.