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Giovanni La Croce, Dottore Commercialista in Milano

IL RAPPORTO TRA SCIENZA E DIRITTO NEL CODICE DELLA CRISI: UNA SCIVOLOSA QUESTIONE DI METODO.

2 Settembre 2024

Un recente focus su questa rivista, con cui un illustre autore ha criticato la nuova versione dei “Principi di attestazione dei piani di risanamento”, in ragione della circostanza che i medesimi non avrebbero tenuto in considerazione le indicazioni contenute al comma 2 dell’art. 5 bis della lista di controllo particolareggiata di cui all’art. 13 del CCII e, neppure, più in generale, dei principi di cui alla premessa della Sezione II del decreto dirigenziale 21 marzo 2023 [1], mi induce a svolgere alcune considerazioni intorno al tema più generale del rapporto tra scienza e diritto e sulla opportunità/necessità di una precisa demarcazione dei perimetri del loro operare.

La questione può essere riassunta in un quesito intorno al quale si è intrecciato il dialogo tra un grande giurista e un grande filosofo: “se l’apparato tecnico- scientifico è incremento indefinito della capacità di raggiungere scopi, chi decide, nel silenzio della politica e del diritto, i concreti e determinanti scopi, a cui quella capacità può dare soddisfazione?” [2]

La visione che ne traspare è ancora quella classica: al diritto, e in ultima analisi, quindi, alla politica, intesa come soggetto che gli dà vita, il compito di definire gli scopi, alla scienza e alla tecnica il compito di fornire i mezzi per raggiungerli.

In questo quadro, non pare eccentrico ritenere che la tecnica e, a maggior ragione, la scienza di riferimento possa fornire “materiali direttamente utilizzabili, ed anzi necessari, per la costruzione di concetti giuridici” [3].

Più in generale si può affermare che il diritto possa fare propri taluni concetti tecnici, traducendoli in normativa giuridica [4]

A lato di questo pensiero, che abbiamo chiamato classico, che va dal mondo dell’antichità classica a quello della modernità dell’illuminismo, da tempo vi si contrappone una visione opposta, che intravvede nel crescente predominio della tecnica una pericolosa eterogenesi dei fini, il mezzo che diventa fine in ragione dell’aumento indefinito della sua potenza [5].

A ben vedere, però, le due visioni si contrappongono unicamente riguardo alla libertà della politica e dunque del diritto, di definire i fini, non riguardo al fatto che la legge possa sostituirsi alla scienza, anche in considerazione della rapidità con cui tecnica e scienza si autoriproducono.

Il dialogo tra scienza e tecnica può allora configurarsi unicamente nella capacità, nella definizione degli scopi, del diritto di prevalere sulla tecnica o viceversa. 

Da un lato, si può ritenere che la scienza debba sottostare a valutazioni extra-scientifiche e che, dunque, il diritto, pur necessitando spesso integrazioni da parte della scienza, possa anche accettare soluzioni limitative di questa e delle potenzialità di cui essa è capace, in nome di valutazioni di diversa natura, dall’altro che il fine della norma possa essere fissato solo in ragione della “verità” scientifica [6]

Inedita nel dibattito, invece, era la voce, come quella da cui traggono spunto queste riflessioni, che potesse il diritto sostituirsi alla tecnica scientifica.

Cioè che quanto definito all’interno di una normativa di rango per altro secondario, come il Decreto dirigenziale possa assumere, proprio per la sua collocazione, una qualche dignità scientifica.

Non siamo difronte al pericolo dell’eterogenesi dei fini, la tecnica che da mezzo si tramuta in scopo, ma difronte, al suo esatto contrario, a una volontà del diritto di fare scienza, per altro al di fuori dei rigorosi criteri di formazione del pensiero scientifico.

Seppure mi annoveri tra coloro che ritengono che occorra di smettere “di pensare il discorso giuridico come necessariamente correlato con l’orizzonte della scientificità”, e che si debba “piuttosto recuperare quello che è il vero paradigma alternativo … cioè il paradigma delle humanities” [7], mi troverei in grave imbarazzo a sostenere la tesi che il diritto possa non solo ignorare la scienza, ma che possa sostituirvisi.

Tale limite era ben noto al legislatore della riforma del diritto societario, il quale, definite le proprie finalità, quando è stato necessario ha fatto ampio riferimento alla scienza contabile attingendovi costrutti e concetti al fine della redazione delle formulazioni giuridiche. 

Ne sono plastico esempio le norme [artt. da 2423 a 2427 c.c.] che regolano la formazione dei bilanci delle società di capitali, che altro non sono che la trasposizione all’interno del corpo normativo di regole e formulazioni ampiamente discusse e condivise all’interno della comunità scientifica della computazione.

Tanto che si suole affermare che i principi contabili sono regole tecniche che rappresentano la migliore prassi operativa nella redazione dei documenti contabili, con la funzione di interpretare e integrare le norme di legge, cosa che non sarebbe possibile ove, a seguito di differenti scelte del legislatore, il dettato normativo fosse entrato in antinomia con i principi contabili.

La scelta del legislatore della riforma del diritto societario è stata, sotto questo profilo,  così rigorosa che per le società più rilevanti [art. 2 del D. lgs n. 38/2005, in ossequio alla Direttiva 2004/109/CE] – (i) società quotate, cioè quelle che emettono strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in mercati regolamentati di qualsiasi Stato membro dell'Unione europea;
(ii) società emittenti strumenti finanziari  diffusi tra il pubblico in misura rilevante, sebbene non quotati in mercati regolamentati;
(iii) banche, società finanziarie italiane e società di partecipazione finanziaria mista italiane che controllano banche o gruppi bancari, società di intermediazione mobiliare, società di gestione del risparmio, istituti di moneta elettronica ed istituti di pagamento;
(iv) società consolidate da quelle per le quali vige l'obbligo di adozione dei principi contabili internazionali, fatta eccezione per le società minori che possono redigere il bilancio in forma abbreviata, ai sensi dell'art. 2435 bis c.c.;
(v) imprese di assicurazione quotate, ovvero quelle che redigono il bilancio consolidato del gruppo assicurativo  [art. 95 del D.  lgs. n. 209/2005, “Codice delle assicurazioni private”] – ha previsto che i bilanci delle medesime debbano essere redatti direttamente applicando i principi contabili IAS/Ifrs, senza alcuna trasposizione a livello normativo delle relative disposizioni, neppure di quelle più rilevanti [8].
 
Scelta ancor più chiara, nel riconoscimento del valore normativo degli insegnamenti della tecnica contabile, avendo egli esteso anche alle società non quotate la possibilità di applicare gli standard internazionali.

La direttrice su cui si è mosso il legislatore del diritto commerciale è stata, dunque, quella di riconoscere pienamente la validità delle prassi e delle convenzioni stabilite dalla comunità scientifica riguardo ai criteri di formazione dei bilanci delle società commerciali.

Cosicché alla mutazione dei principi contabili, al loro affinamento, muta automaticamente il quadro giuridico di riferimento.

A ben vedere, tutto il diritto societario è connotato dalla medesima opzione di non entrare nel merito “del fare”, meglio, “di come si deve fare”.

Qui di seguito alcuni esempi in ordine sparso:
(i) l’art. 2487 c.c., in tema di modalità di svolgimento della liquidazione dell’ente, non fissa alcun criterio di formazione del piano di liquidazione se non alcuni criteri generalissimi alternativi tra cui optare;
(ii) l’art. 2343 c.c., in tema di valutazione dei conferimenti dei beni in natura, non si occupa di definire i criteri di valutazione che l’esperto designato dal tribunale deve adottare, analogamente dicasi per l’art. 2343 bis c.c. che dispone in tema di valutazione dei beni acquistati dai soci o dagli amministratori nei due anni dall’iscrizione della società al registro delle imprese;
(iii) anche l’art. 2437 c.c., in tema di determinazione del valore delle azioni del socio recedente, non fissa le modalità con cui gli amministratori, salvo che per il caso speciale di azioni quotate nei mercati regolamentati, debbono procedere alla valutazione;
(iv) così anche per la relazioni con cui gli esperti devono, ai sensi dell’art. 2501 sexies c.c. valutare il rapporto di cambio in caso di fusione e la capacità della incorporante di rimborsare l’eventuale debito contratto per l’acquisizione dell’incorporata [9].

Il come le perizie e le valutazioni debbano essere redatte non è, dunque, materia del diritto, bensì della scienza economica. 

Tale più che condivisibile indirizzo è stato immotivatamente abbandonato dai diversi legislatori delegati che si sono succeduti alla scrittura, e riscrittura, del Codice della Crisi, che, al contrario, hanno ritenuto di dover dare indicazioni cogenti su più di un aspetto tecnico, per altro divergendo in più punti dalle opinioni consolidate all’interno della comunità scientifica.

In particolare, con il decreto dirigenziale del 28 settembre 2021, aggiornato con analogo decreto 21 marzo 2023, il legislatore ha introdotto un “Test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento” e una “Check list (lista di controllo) particolareggiata per la redazione del piano di risanamento e per la analisi della sua coerenza”, mentre agli artt. 56 e 87 CCII sono dettate regole per la formazione dei piani; regole che sino all’ultimo correttivo presentavano tra loro significative differenze, come se la struttura di un piano di risanamento potesse dipendere dal tipo di strumento giuridico utilizzato [10].

I principi nazionali e internazionali per la redazione e la validazione dei piani industriali [11] sono i grandi assenti del Codice della crisi: di essi non vi è traccia neppure in un generico rinvio, sostituiti, come sono, da specifiche indicazioni normative [12], che, come affermato nell’intervento dell’illustre autore da cui trae origine il presente contributo, dovrebbero essere il punto di riferimento privilegiato degli operatori.

Non è questa certo la sede per approfondire i punti di divergenza tra scienza e diritto in tema di formazione e validazione dei piani di risanamento, ma, a mero titolo esemplificativo, non può non essere sottolineata l’atecnicità, genericità e incompletezza – ai limiti dell’ingenuità scientifica – delle formulazioni contenute alle lett. f) e g) del primo comma dell’art. 87 CCII, nonché quelle delle lett. a), d) ed e) del secondo comma dell’art. 56. 

Più complessa si rappresenterebbe l’opera che si prefiggesse di comparare gli standard nazionali e internazionali in materia con le indicazioni contenute nel “Decreto dirigenziale”, ponendosi queste ultime al massimo – almeno a mio parere – come un originale contributo dottrinario all’interno della discussione scientifica, piuttosto che essere sintesi di un pensiero generalmente condiviso dagli esperti, tale da determinarne la cogenza. 

Ed è per tali ragioni che ritengo infondate le preoccupazioni dell’illustre autore che vorrebbe passibile di chiamata in responsabilità quel “professionista indipendente” che avesse ispirato le proprie – eventualmente errate - valutazioni ai principi di attestazione emanati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, omettendo di far riferimento alle indicazioni del “Decreto dirigenziale” [13].

Nel caso specifico del “Decreto dirigenziale” occorre altresì considerare come le indicazioni contenute nello stesso abbiano una portata limitata all’istituto della “Composizione negoziata” di cui al Capo I del Titolo II del CCII, non rinvenendosi all’interno dell’ordinamento alcun richiamo alla loro applicazione negli altri strumenti di soluzione della crisi, e come qualsiasi invocazione del par. 2 dell’art. 8 della Direttiva Insolvency riguardo al “come” debbano essere redatte le attestazioni dei piani di risanamento, sia del tutto inappropriato, giacché la direttiva ivi prevede unicamente che gli Stati membri debbano – limitatamente alle esigenze delle PMI – mettere a disposizione on line una lista particolareggiata contenente indicazioni pratiche su come dovrebbe essere redatto un piano di ristrutturazione a norma del diritto nazionale, non, dunque, riguardo a come il medesimo piano debba essere attestato, e ciò anche considerato la non obbligatorietà, a livello unionale, dell’attestazione della sostenibilità economica del risanamento [14].

Venendo rapidamente alle conclusioni, temo che l’illustre autore sia stato condizionato, nelle sue poco generose critiche ai “Principi di attestazione dei piani di risanamento” recentemente aggiornati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, dall’infelice scelta di metodo dei vari legislatori del CCII di dettare regole a contenuto tecnico-scientifico astraendosi totalmente dagli standards in materia condivisi dall’accademia e dagli operatori, senza neppure rinviarvi a complemento di quanto normato. 

In particolare, pare aver dato troppo credito, per quanto riguarda la cogenza dei richiami ai contenuti nel “Decreto dirigenziale”, a quella che al più può essere qualificata come una voce di dottrina (molto originale), ma non certo uno standard.

Va, dunque, affermato con decisione che la migliore garanzia a tutela delle responsabilità dei redattori dei piani, di risanamento e di quelle di chi è chiamato a validarli, resta, come è sempre stato, la conformazione delle loro attività ai principi nazionali e internazionali in materia, accompagnata dalla specificazione delle ragioni di eventuali scostamenti da essi che si rendessero necessari – caso per nulla raro – in ragione della peculiarità del caso concreto. 

Al contrario, affidarsi alle indicazioni del “Decreto dirigenziale”, laddove confliggenti con gli standards nazionali e internazionali, o alle atecniche e scarne indicazioni delle norme primarie sopra richiamate, potrebbe, sì, condurre in responsabilità l’attestatore ove le sue conclusioni si rivelassero errate in funzione dell’applicazione di quei parametri.

Indubbiamente mi troverei più a mio agio a difendere un collega che avesse correttamente applicati i principi ODCEC di attestazione dei piani di risanamento, piuttosto se avesse, al contrario, applicato quelli del “Decreto dirigenziale” che non hanno, almeno ad oggi, trovato alcun riconoscimento di validità presso la comunità scientifica.
 
(NB: le note sono riportate nel commento che segue.)
Giovanni La Croce, Dottore Commercialista in Milano

2 Settembre 2024 23:17

[1] R. Ranalli, "I nuovi principi di attestazione. Un’occasione mancata", 21 agosto 2024.

[2] N. Irti e E. Severino, "Dialogo su diritto e tecnica", Roma-Bari, 2001, pag. 20.

[3] F. Ledda, "Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica", in Dir. proc. amm., 1983, pagg. 389/390.

[4] Ibidem.

[5] E. Severino, "La filosofia futura", Milano, 1989, 68/70; U. Galimberti, "L’etica del viandante", Milano, 2023, pag. 131, il quale afferma: “il mezzo tecnico si autonomizza da qualsiasi fine e diventa il primo fine, che subordina a sé tutti gli altri fini che solo con la tecnica si possono conseguire. Infatti, finché la tecnica a disposizione dell’uomo era appena sufficiente a raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione dei bisogni umani, la tecnica era un semplice mezzo, il cui significato era interamente assorbito dal fine, ma quando la tecnica aumenta quantitativamente , al punto di rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine a condizionare la ricerca dei mezzi tecnici, ma è l’accresciuta disponibilità tecnica a mettere a disposizione qualsiasi fine che per suo tramite può essere raggiunto”; G. Anders, "L’uomo è antiquato", Vol I: "Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale", Torino, 2003, pag. 262.

[6] Il L. Antonini, "Il problematico rapporto tra scienza e diritto: i fronti aperti, la questione del metodo" , in "La Domanda inevasa", a cura di L. Violini, Bologna, 2016, pag. 77.

[7] P. G. Monateri, "Il diritto e le scienze dello spirito", in "Scienza e diritto nel prisma del diritto comparato", a cura di G. Comandè e G. Ponzanelli, Torino, 2004, pag. 19.

[8] Per completezza va considerato come l'art. 1, comma 1070 della legge di bilancio 2019 ha stabilito che “I soggetti di cui all’articolo 2 [del D.lgs. 38/2005] i cui titoli non siano ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato hanno facoltà di applicare i principi contabili di cui al presente decreto”.

[9] Tipo di valutazione molto simile a quella cui è chiamato il “professionista indipendente” attestatore dei piani di risanamento.

[10] Così decisamente pervasiva è la scelta del legislatore del CCII, che con il correttivo ultimo si è spinto finanche a definire il “valore di liquidazione” in totale antitesi a quanto si può rinvenire nei testi di economia aziendale.

[11] La costruzione e validazione di un piano di risanamento non presentano alcuna distinzione, quanto a principi di redazione, rispetto ad un business plan ordinario.

[12] Di rango primario o secondario poco importa.

[13] Per altro, la specifica critica ai principi dedotta dall’illustre autore: “I Principi di Attestazione, ai §§ 6.1.9 e 6.9.1., per quanto richiedano l’esame dell’andamento corrente, non enfatizzano il tema in misura adeguata in relazione alla sua effettiva rilevanza, né esso pare sempre adeguatamente colto nel vaglio dei percorsi attestativi”, appare essa stessa infondata, stante la chiarezza e completezza dello specifico principio: “L’Attestatore considera in ogni caso l’andamento del current trading ai fini di svolgere le prime verifiche sull’evoluzione aziendale. Tale analisi costituisce un utile indicatore le cui risultanze dovranno essere valutate nel contesto da parte dell’Attestatore anche ai fini di formarsi un fondato convincimento sulla fattibilità del Piano.”

[14] Par. 3, art 4 della direttiva: “Gli Stati membri possono mantenere o introdurre una verifica di sostenibilità economica a norma del diritto nazionale, purché tale verifica abbia la finalità di escludere il debitore che non ha prospettive di sostenibilità economica, e possa essere effettuata senza pregiudicare gli attivi del debitore.”
Montecchi Gilberto, Dottore Commercialista in Modena

5 Settembre 2024 14:50

I Principi di attestazione indicano chiaramente (§ 3.1) come il Professionista indipendente debba (i) "espressamente formulare un giudizio sulla completezza e sulla adeguatezza formale del Piano", (ii) verificare "che la forma del Piano sia in linea con le disposizioni contenute nel CCII e con quanto previsto dai Principi di redazione dei piani di risanamento" e (iii), nel valutare la completezza del Piano, fare "riferimento ai Principi per la redazione del piano di risanamento e alle disposizioni contenute nel CCII".
I Principi per la redazione dei piani di risanamento (l'attuale versione, essendo del maggio 2022, fa riferimento alla Legge Fallimentare, al D.L. 118/2021 ed al decreto dirigenziale del 28/09/2021, per cui ci si attende un aggiornamento) contengono una tavola sinottica che associa ai paragrafi dei Principi di redazione, "i cui contenuti sono da prendere come riferimento per lo sviluppo del Piano, i punti della lista di controllo particolareggiata prevista dal Decreto dirigenziale del 28 settembre 2021", precisando che per "tutto quanto non previsto dalla check-list in termini di contenuti e indicazioni operative necessarie alla redazione di un attendibile e coerente piano di risanamento deve essere fatto riferimento alle indicazioni contenute nel presente Principio".
I Principi per la redazione dei piani di risanamento non si pongono dunque in contrasto con la check-list e ciò anche se questa riguarda la sola composizione negoziata, ma - in quanto applicabili a tutti gli strumenti - si pongono l'obiettivo dichiarato di completarla e svilupparla, considerato anche che la lista di controllo deve essere "adeguata anche alle esigenze delle micro, piccole e medie imprese". Il richiamo ai Principi di redazione (ed al CCII) contenuto nei Principi di attestazione in ordine alla verifiche sul Piano non implica, di conseguenza, l'esclusione della verifica del rispetto della check-list dai controlli che deve fare l'Attestatore e ciò poiché le valutazioni sul rispetto dei Principi di redazione sono, per quanto sopra esposto, di più ampia portata, andandole ad includere. Mi pare che la scienza aziendalistica sia andata, anche stavolta e per fortuna, oltre il dato normativo.

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