Antonio Pezzano, Avvocato in Firenze
Massimiliano Ratti, Avvocato in La Spezia
IL “MAGGIOR VALORE” EX ART. 87, COMMA 1, LETT. C) CCII E L’EVANESCENZA DEL MINOR “VALORE EFFETTIVO” EX ART. 120-QUATER, COMMA 2, CCII”
1 Dicembre 2025
E quindi, oltre a non votare, oltre a non potersi opporre all’omologazione (e solo per le ragioni di cui al terzo comma dell’art. 120-quater, ovverosia per la violazione dei criteri distributivi dell’APR), i soci neppure potrebbero contraddire sul dissenso della classe “contestatrice” e sul “valore effettivo” ipoteticamente ed eventualmente “riservato” loro, anche indirettamente/tacitamente, da piano e proposta.
3 Dicembre 2025 17:58
6 Dicembre 2025 15:30
come scrivete voi avvocati, a me pare abbiate fatto mal governo degli insegnamenti contenuti nello scritto del prof. Bini e del collega Peracin, che si sono a lungo diffusi sul concetto di enterprise value e sulla sua misurazione - difficoltà di sua misurazione - nella contingenza della crisi.
Il valore, pur aleatorio, di un’impresa in crisi all’esito del concordato, ci hanno spiegato i due illustri autori, è un valore unitario che non può non ricomprendere anche il Terminal Value, meglio, preciserei, il valore oltre l’orizzonte del piano concordatario, come loro ben ci spiegano, che di norma è qualcosa di più del TV tecnico, atteso il limitato periodo dei piani concordatari.
Se è un valore unitario, e se esso è composto - nella scissione che il legislatore ha previsto ai fini della sua distribuzione - dal Valore di liquidazione, dal plusvalore della continuità nell’arco di piano, e dal TV successivo - così condivisibilmente affermano i due autori - è evidente che qualsiasi piano di concordato in continuità diretta incorpori sempre, e forzatamente, un valore riservato ai soci.
Più breve sarà l’arco di piano e maggiore sarà tale valore.
Così spiega un recentissimo arresto del tribunale di Milano, qui pubblicato, dove si afferma che di tale valore si debbano notiziare i creditori ai fini di un voto consapevolmente informato.
Non vado oltre, restando a a questa superficie, nel senso che non mi avventuro nei calcoli troppo complessi per un uomo di sintesi come sono, delle condizioni di omologabilità in caso di opposizione.
Quanto ci hanno spiegato il prof. Bini e il collega Peracin, riguardo alla previsione del 120 quater di un valore riservato ai soci, ha una sua logica economica, poichè l’EV post omologazione è frutto del sacrificio delle ragione dei creditori, il valore riservato ai quali non può essere limitato al solo plusvalore di piano così da privare di legittimità qualsiasi dissenso.
L’errore in cui, a mio sommesso parere, siete incorsi è generato dall’aver confuso la possibilità per il debitore di tenere per se una parte dell’EV, con l’omologabilità di un tal piano in caso di opposizioni.
La possibilità è nella legge, ed è assoluta se nessuno si oppone all’omologazione, o trova quei limiti distributivi complessi e astrusi, in caso di opposizione.
Non c’è nessun ostracismo interno alla continuità diretta, come avete al contrario denunciato, se ne perimetra solo le condizioni, poiché essa, come ho cercato di spiegare incorpora sempre una quota di valore per il debitore.
Se, dunque, tutto torna nella ricostruzione proposta dal prof. Bini e dal collega Peracin è la definizione contenuta dall’art. 87 del Valore di liquidazione che, come più volte ho cercato, inascoltato, di spiegare, fa “saltare il banco”.
Se il Valore di liquidazione, infatti, è, non solo il valore della liquidazione dei beni che compongono l’impresa, bensì anche il suo EV (anzi un valore maggiore giacché deve incorporare anche il valore delle azioni revocatorie non esperibili nel concordato) , risulta evidente che nessuna quota di questo potrà essere riservata ai soci, dato che il Valore di liquidazione andrebbe ripartito integralmente ai creditori secondo le regole dell’APR.
Il tema allora si sposta dal mondo delle scienze economiche del contributo dottrinario da cui siamo partiti al più etereo mondo delle realtà probabilistiche controfattuali, governate da valutazioni largamente soggettive, come la realizzabilità dell’esercizio provvisorio nella LG, che, a parte i casi di nuovi apporti di equity nel concordato, non si può escludere in assoluto, se non sulla base di valutazioni puramente soggettive, quando non interessate.
Il caso della continuità indiretta è ancora più eclatante, giacché l’interesse del terzo all’acquisto dell’azienda è neutro rispetto all’ambito in cui dovrà avvenire che deve solo garantire un acquisto esdebitato e la LG lo garantisce al pari del concordato.
Per altro, se esiste un EV solo in conseguenza del sacrificio dei creditori la continuità è perseguibile indipendentemente dalla cornice giuridica in cui si svolge.
Differentemente il legislatore non avrebbe incoraggiato già a partire dal lontano 2006 l’esercizio provvisorio.
Certo, calcolare l’EV di un’impresa in crisi, che deve effettuare un turnaround, è esercizio complesso, così come la determinazione della quota riservabile ai soci che non dia luogo a un’opposizione fondata è un esercizio di alta ingegneria, ma qualsiasi sforzo del migliore degli ingegneri s’infrange difronte alla definizione di “Valore di liquidazione” contenuta all’art. 87, per cui l’EV va destinato tutto ai creditori e secondo le regole dell’APR, salvo discettare degli eterei scenari controfattuali.
7 Dicembre 2025 9:54
come scrivete voi avvocati, a me pare abbiate fatto mal governo degli insegnamenti contenuti nello scritto del prof. Bini e del collega Peracin, che si sono a lungo diffusi sul concetto di enterprise value e sulla sua misurazione - difficoltà di sua misurazione - nella contingenza della crisi.
Il valore, pur aleatorio, di un’impresa in crisi all’esito del concordato, ci hanno spiegato i due illustri autori, è un valore unitario che non può non ricomprendere anche il Terminal Value, meglio, preciserei, il valore oltre l’orizzonte del piano concordatario, come loro ben ci spiegano, che di norma è qualcosa di più del TV tecnico, atteso il limitato periodo dei piani concordatari.
Se è un valore unitario, e se esso è composto - nella scissione che il legislatore ha previsto ai fini della sua distribuzione - dal Valore di liquidazione, dal plusvalore della continuità nell’arco di piano, e dal TV successivo - così condivisibilmente affermano i due autori - è evidente che qualsiasi piano di concordato in continuità diretta incorpori sempre, e forzatamente, un valore riservato ai soci.
Più breve sarà l’arco di piano e maggiore sarà tale valore.
Così spiega un recentissimo arresto del tribunale di Milano, qui pubblicato, dove si afferma che di tale valore si debbano notiziare i creditori ai fini di un voto consapevolmente informato.
Non vado oltre, restando a a questa superficie, nel senso che non mi avventuro nei calcoli troppo complessi per un uomo di sintesi come sono, delle condizioni di omologabilità in caso di opposizione.
Quanto ci hanno spiegato il prof. Bini e il collega Peracin, riguardo alla previsione del 120 quater di un valore riservato ai soci, ha una sua logica economica, poichè l’EV post omologazione è frutto del sacrificio delle ragione dei creditori, il valore riservato ai quali non può essere limitato al solo plusvalore di piano così da privare di legittimità qualsiasi dissenso.
L’errore in cui, a mio sommesso parere, siete incorsi è generato dall’aver confuso la possibilità per il debitore di tenere per se una parte dell’EV, con l’omologabilità di un tal piano in caso di opposizioni.
La possibilità è nella legge, ed è assoluta se nessuno si oppone all’omologazione, o trova quei limiti distributivi complessi e astrusi, in caso di opposizione.
Non c’è nessun ostracismo interno alla continuità diretta, come avete al contrario denunciato, se ne perimetra solo le condizioni, poiché essa, come ho cercato di spiegare incorpora sempre una quota di valore per il debitore.
Se, dunque, tutto torna nella ricostruzione proposta dal prof. Bini e dal collega Peracin è la definizione contenuta dall’art. 87 del Valore di liquidazione che, come più volte ho cercato, inascoltato, di spiegare, fa “saltare il banco”.
Se il Valore di liquidazione, infatti, è, non solo il valore della liquidazione dei beni che compongono l’impresa, bensì anche il suo EV (anzi un valore maggiore giacché deve incorporare anche il valore delle azioni revocatorie non esperibili nel concordato) , risulta evidente che nessuna quota di questo potrà essere riservata ai soci, dato che il Valore di liquidazione andrebbe ripartito integralmente ai creditori secondo le regole dell’APR.
Il tema allora si sposta dal mondo delle scienze economiche del contributo dottrinario da cui siamo partiti al più etereo mondo delle realtà probabilistiche controfattuali, governate da valutazioni largamente soggettive, come la realizzabilità dell’esercizio provvisorio nella LG, che, a parte i casi di nuovi apporti di equity nel concordato, non si può escludere in assoluto, se non sulla base di valutazioni puramente soggettive, quando non interessate.
Il caso della continuità indiretta è ancora più eclatante, giacché l’interesse del terzo all’acquisto dell’azienda è neutro rispetto all’ambito in cui dovrà avvenire che deve solo garantire un acquisto esdebitato e la LG lo garantisce al pari del concordato.
Per altro, se esiste un EV solo in conseguenza del sacrificio dei creditori la continuità è perseguibile indipendentemente dalla cornice giuridica in cui si svolge.
Differentemente il legislatore non avrebbe incoraggiato già a partire dal lontano 2006 l’esercizio provvisorio.
Certo, calcolare l’EV di un’impresa in crisi, che deve effettuare un turnaround, è esercizio complesso, così come la determinazione della quota riservabile ai soci che non dia luogo a un’opposizione fondata è un esercizio di alta ingegneria, ma qualsiasi sforzo del migliore degli ingegneri s’infrange difronte alla definizione di “Valore di liquidazione” contenuta all’art. 87, per cui l’EV va destinato tutto ai creditori e secondo le regole dell’APR, salvo discettare degli eterei scenari controfattuali.
la nostra riflessione (che in realtà ricalca obiettivamente più i caratteri della provocazione) è stata probabilmente malintesa, visto il disallineamento diacronico delle tue conseguenti considerazioni.
Il contributo citato, lungi dal voler essere interpretato, ha, innanzitutto, fornito uno spunto che poi è l’oggetto del blog: non può esistere un valore riservato ai soci post ristrutturazione se nell’alternativo e comparativo valore di liquidazione (a cui, sempre in termini comparativi, dovremmo sommare addirittura anche l’eccedenza), c’è già compresa ogni voce di attivo. In caso di diniego di omologa, l’alternativa sarebbe sempre la Liquidazione Giudiziale ove non ci sarebbe spazio né per l’eccedenza né per il terminal value: e allora a che serve far implodere un processo di ristrutturazione, persino in caso di limitato dissenso ad una sola classe, se poi tutti gli altri creditori (aderenti) si vedono costretti a soddisfare le loro pretese sul solo valore di liquidazione?