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Antonio Pezzano, Avvocato in Firenze

Massimiliano Ratti, Avvocato in La Spezia

IL “MAGGIOR VALORE” EX ART. 87, COMMA 1, LETT. C) CCII E L’EVANESCENZA DEL MINOR “VALORE EFFETTIVO” EX ART. 120-QUATER, COMMA 2, CCII”

1 Dicembre 2025

I - Prognosi di una fine 
 
Lo stimolante contributo del Prof M. Bini e del Dr. G. Peracin, (“La distribuzione del valore nel concordato in continuità con attribuzioni ai soci: il difficile equilibrio tra principi di equa ripartizione e criteri di valutazione delle aziende in crisi”, in questa Rivista, 7 novembre 2025), relativo alla tematica della qualificazione (e quantificazione) del “valore effettivo” riservato ai soci, rappresenta l’ennesima e ben argomentata conferma della autolesionista vocazione “estintiva” del concordato in continuità diretta che, a dispetto dei principi riformatori (tra l’altro, a lume dell’art. 11, par. 2, Dir. Ins., in un contesto normativo unionale non precettivo per il legislatore domestico) e in una sorta di eterogenesi dei fini, trova un imprevedibile detonatore proprio nelle stesse norme di “chiusura” del concordato (Capo III-bis), specificamente all’art. 120-quater CCII (“Condizioni di omologazione del concordato con attribuzione ai soci”), come già  si preconizzava ante riforma del “120-quater (A.L. Bottai, A. Pezzano, M. Ratti, M. Spadaro, “Il concordato con attribuzioni ai soci: criticità e prospettive del nuovo art. 120 quater CCII”, in questa Rivista, 8 novembre 2022).
 
II - L’esegesi letterale dovrebbe essere quella prevalente (giusta, ex multis, Cass. 3220/2025) …
 
Già il titolo della norma, ove non interpretato per quello che letteralmente esprime, appalesa la sua ambiguità rispetto al contenuto della stessa: “l’attribuzione” - così come, d’altra parte, “il riservare” previsto nei primi due commi - presuppone una opzione (dunque soggettiva) rispetto ad una determinata scelta dispositiva.

L’oggetto di quella che, a tutti gli effetti, è un’offerta di un’entità satisfattiva di carattere economico o un’utilità, per la cui accettazione non si dovrebbe dunque prescindere dalla sede naturale procedimentale - concordataria in cui essa dovrebbe avvenire (che prima e ancor più del giudizio di omologazione, è quella dell’approvazione), ovverosia nell’espressione di adesione o meno alla proposta formulata (anche ai fini delle maggioranze di cui all’art. 112, comma 2, lett. d), primo scenario, CCII vista la salvezza al riguardo dell’incipit dell’art. 120-quater CCII), secondo la classazione - obbligatoria, trattandosi di concordato in continuità - dei soggetti interessati, non a caso espressamente regolamentata anche per i soci all’art. 120-ter CCII.

Anche perché, in difetto di classazione, ai soci non si applicano le disposizioni degli articoli da 107 a 110 CCII, invocabili, appunto, solamente ove “I soci, [siano] inseriti in una o più classi, [ed] esprimono il proprio voto nelle forme e nei termini previsti per l’espressione del voto da parte dei creditori” (art. 120-ter, comma 3, CCII).

E quindi, oltre a non votare, oltre a non potersi opporre all’omologazione (e solo per le ragioni di cui al terzo comma dell’art. 120-quater, ovverosia per la violazione dei criteri distributivi dell’APR), i soci neppure potrebbero contraddire sul dissenso della classe “contestatrice” e sul “valore effettivo” ipoteticamente ed eventualmente “riservato” loro, anche indirettamente/tacitamente, da piano e proposta.

Logico corollario di dette considerazioni sarebbe quello di affermare che la disciplina del “valore effettivo” sarebbe applicabile esclusivamente laddove da parte degli organi societari deputati dall’art. 120-bis CCII - che non sono e non possono essere i soci, che anzi ne subiscono le determinazioni, senza neppure poterli sostituire - si giunga alla conclusione che detto valore realmente sussista, con la conseguente assegnazione, recte attribuzione riservata in piano ai soci medesimi, i quali, quindi, come qualsiasi  altra parte interessata, devono aver diritto a potersi pienamente  esprimere
 
III - …ma invece  - almeno per ora - così non è: il “valore effettivo” come (presunto) effetto automatico 
 
A quanto pare, tuttavia, dottrina e giurisprudenza maggioritaria (esaustivamente richiamate nel suddetto contributo) sarebbero assestate su posizioni più draconiane, prevedendo tale riserva di valore ai soci come quasi un effetto automatico ex lege di ogni concordato in continuità diretta,  con quindi l’obbligo di quantificazione di tale valore riservato ai soci sin dalla fase di deposito del concordato (a prescindere peraltro dalla necessità, in tal caso, della previa formazione di una o più classe di soci, come invece indispensabile per quanto sopra osservato) . 

Con la conseguenza che tale omissione risulterebbe persino sindacabile in sede di apertura del concordato (vd. recente Trib. Milano, 23 settembre 2025 in questa Rivista).  

Quando, invece, allorché si argomenti in piano (ed attestazione) che detto “valore effettivo” non sussiste (anche perché assorbito dall’eventuale maggior valore di cui all’art. 87, comma 3, lett. c), CCII ovvero escluso per l’insussistenza di tale maggior valore che comunque l’avrebbe incluso, come vedremo meglio in seguito), nulla dovrebbe essere indicato.

Né potendo una valutazione del Giudice, ove anche supportata da un parere del Commissario, far giungere a conclusioni diverse, men che mai sul piano dell’ammissibilità del concordato, trattandosi sempre e solo di sindacati di merito e di convenienza - come anche quelle sulle ricadute delle azioni risarcitorie e restitutorie, ovviamente una volta esposte in piano -, da rimettere, dunque, esclusivamente alla titolata valutazione delle singole parti interessate (cfr. sulla stessa linea Cass. 1393/2024, punti 6 e 7 e prima ancora Cass. 23882/2016, che ha cassato il decreto con il quale la corte d'appello aveva negato l'omologazione di un concordato preventivo in ragione della maggiore attendibilità della stima del valore di un immobile operata dal commissario giudiziale rispetto a quella eseguita dall'attestatore, le cui conclusioni non erano peraltro mai state poste in dubbio sotto il profilo della correttezza argomentativa).
 
IV - Valore di Liquidazione: la sola bussola 
 
L’unico strumento di comparazione sensato sarebbe dovuto rimanere, dunque, il valore non inferiore a quello ricavabile in sede di Liquidazione Giudiziale (come peraltro torna a fare nella stessa norma il terzo comma rispetto all’eventuale opposizione dei soci).  

Infatti, nel valore di liquidazione assoggettabile al regime dell’APR (quindi in caso di Liquidazione giudiziale della società), non entrerebbero mai in gioco patrimoni terzi o comunque residui e futuri, quanto del tutto eventuali dei soci; e ciò neppure nel caso in cui la classe dissenziente “120-quater,  comma 1, CCII” portasse il proprio dissenso all’estrema conseguenza di far dichiarare la Liquidazione giudiziale con il proprio dissenso o con l’opposizione all’omologazione: la ‘coperta’ a disposizione dei creditori resterebbe sempre quella del Valore di Liquidazione, prognosticamente valutata alla data di apertura del concordato preventivo.

Certamente, nella liquidazione giudiziale, non si potrebbe materializzare (quasi per magia) un  “T.V.C.” - “Terminal Value Concorsuale”, anche perché lo stesso rappresenta una contraddizione in termini, non potendo avere nulla a che vedere, obiettivamente e aziendalmente parlando, con un serio calcolo prospettico del valore di un’impresa allorché la stessa risulti ancora da risanare. 
 
V - Il “maggior valore” dell’azienda “in esercizio” ex art. 87, comma 1, lett.c), CCII: il “massimo” dei valori conseguibili nella Liquidazione Giudiziale che assorbe anche ogni valore “effettivo”
 
Ancor più oggi, perché, ove l’azienda risulti contendibile al meglio in esercizio anche in sede di Liquidazione Giudiziale, allora saremmo in pieno regime di APR ai sensi del novellato art. 87, comma 1, lett. c), CCII, anche rispetto al maggior valore, appunto, aziendale e quindi a fortiori il “valore effettivo” dell’art. 120-quater CCII risulterebbe assorbito, essendo sostanzialmente un doppione della nuova disposizione sul (maggior) calcolo del Valore di Liquidazione rispetto all’azienda “in esercizio”.

Anzi, ancor meno, atteso che dovrebbe  scontare - a differenza che nel predetto calcolo dell’art. 87 cit. (che infatti, del valore  “in detrazione” che segue, potrebbe avvantaggiarsene, quanto meno per il 20% privo di prededuzione di cui all’art. 102, comma 1 CCII ) - il valore eventualmente apportato dai soci “ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto oppure, per le imprese aventi i requisiti dimensionali di cui all’articolo 85, comma 3, terzo periodo, anche in altra forma” (art. 120- quater, comma 2, CCII, che peraltro, per tali interventi finanziari, neppure sembra richiedere la previa autorizzazione giudiziale ex art. 102 CCII).

Non solo: sensibilmente ancor meno, perché esclusivamente tale eventuale maggiore entità di cui all’art. 87 co. 1 lett. c CCII risulterebbe calcolata senza considerare le passività aziendali, che resterebbero a solo  carico della società concordataria e quindi da computarsi, alternativamente, nell’onirico “valore effettivo”.

Pertanto, non potrebbe esservi, ontologicamente (almeno sul piano economico/aziendale di promanazione concorsuale), un “valore effettivo conseguente all’omologazione” esuberante l’aggiunta di valore ora prevista in forza della necessità di computo “dell’eventuale maggior valore economico realizzabile nella medesima sede [ndr: L.G.] dalla cessione dell’azienda in esercizio” (novellato art. 87, co. 1, lett. c), CCII).

E se tale “maggior valore” non è stato ritenuto sussistente nel piano poi attestato ai sensi dell’art. 87, co. 3, CCII , a maggior ragione nessun esuberante “valore effettivo conseguente all’omologazione” potrà ritenersi esistente nel piano proposto.

Salvo risulti condotta con successo un’opposizione di convenienza ex art. 112, commi 3 e 4 CCII (ovvero la speculare “120-quater, comma 1 CCII”), ma unicamente perché, a differenza di quanto sostenuto dal debitore, l’azienda risultava, non a seguito dell’omologazione, bensì ab initio (“alla data della domanda di concordato” e se fosse invece intervenuta la Liquidazione Giudiziale, recita sempre l’art. 87 cit., richiamato proprio alla lett. c) dal novellato art. 120, comma 3, CCII) cedibile in esercizio, come la stima di cui al successivo comma 4 mira a verificare. 

E nella conseguente Liquidazione Giudiziale entrerebbe in gioco, ovviamente, sempre e solo il Valore di Liquidazione con le regole dell’APR e non di certo un vacuo, recte inesistente - non fosse altro perché l’omologazione difetterà ! - “valore effettivo”, peraltro di assunta titolarità dei soci e quindi rappresentante patrimonio terzo rispetto a quello del debitore (società di capitale) insolvente, all’evidenza giammai monetizzabile in sede liquidatoria, al di fuori ed al di là dell’eventuale predetto “maggior valoreex art. 87 cit..


D’altra parte, il “valore effettivo”, per come declinato dalla norma in esame, non potrà mai essere comparabile, per evidenti ragioni di disomogeneità, con nessun altro valore disciplinato dal Codice, neppure, paradossalmente, con la stessa eccedenza concordataria che lo stesso primo comma dell’art. 120-quater pone a parametro aritmetico di raffronto. 

Dunque, dopo tale ultima novella, insistere sulla valenza economica, prima ancora che giuridica - dell’attuale disciplina dell’art. 120-quater, co. 1-2 CCII pare del tutto irragionevole, mirando in ultima analisi - quasi in una logica punitiva - a privare solo di eventuali futuri vantaggi, (ma) estranei all’omologazione, i vecchi soci.

Peraltro, tutto ciò a costo anche di boicottare il salvataggio aziendale diretto, nonostante acclarato come privo di maggior valenza in esercizio - o se si preferisce di germinabile Terminal Value - in sede di Liquidazione Giudiziale ai sensi (e per gli effetti dell’aumento del valore di liquidazione da destinare ai creditori) dell’art. 87 cit.. 

Il che è del tutto incompatibile, per non dire incomprensibile, anche rispetto agli stessi precetti di fondo della Direttiva Insolvency, tesi come sono a preservare in primis la continuità aziendale diretta. 

Naturalmente, la soluzione ideale - che sgombrerebbe qualsiasi dubbio - sarebbe l’aprire pienamente, cioè senza limiti (se non quello ovvio della preferenza pro-debitore a parità di condizioni), alle proposte concorrenti, ma solo degli unici interessati che si possono dolere di un piano che ritengono non soddisfacente: i creditori ab origine non totalmente soddisfatti ed i soci. 
 
VI - Il regno dell’incertezza 
 
Altrimenti prepariamoci a voli pindarici o quantomeno soggettivi e pertanto tutti meritevoli quanto opinabili (e gli esempi del contributo citato lo confermano plasticamente).

Così come a tentativi, anche maldestri, di elusione, innanzi ad una norma davvero scritta male, oltre che, a questo punto, ancor più insensata.

O ancora ad interpretazioni le più svariate possibili e che per anni susciteranno dibattiti a fiumi …sino a quando le SSUU proveranno a scrivere la parola “fine” sull’esegesi della norma de qua.

Norma, comunque, di certo non giustificabile per un ritenuto rispetto del generale principio di cui all’art. 2740, co. 1 c.c., secondo cui il debitore, rispondendo anche con i propri beni futuri, non può “arricchirsi” a danno dei creditori con il riacquisto valore della sua impresa risanata.

Anche perché così si dimostra di dimenticare l’esistenza del relativo secondo comma che legittima eccezioni legali alla predetta regola, come accade, appunto, in conseguenza degli effetti ristrutturatori ed esdebitatori tipici della causa del concordato preventivo al cui ricorso precoce si è spinti solo grazie a disposizioni ragionevoli e certe, tra le quali sicuramente non può annoverarsi l’art. 120-quater, commi 1-2 CCII. 
GIANFRANCO PERACIN, DOTTORE COMMERCIALISTA IN PADOVA

3 Dicembre 2025 17:58

Carissimi, come sempre un'analisi attenta e approfondita della norma e della ratio sottostante. E' evidente che il tentativo del legislatore, in assonanza con la Direttiva, è quello di riconoscere l'esistenza di un diritto dei soci che prima del CCII nel concordato in continuità era dato per implicito. Allo stesso tempo ci si è preoccupati di evitare che questo diritto fosse esercitato "approfittando" dei creditori.  Il tutto rifacendosi ad esperienze oltreoceano riguardanti imprese di dimensioni non elevate nelle quali la continuità della compagine sociale aveva rilievo ai fini del mantenimento del valore e quindi della capacità di soddisfare al meglio i creditori. Detto questo e detto che il valore "attribuito" tutto può essere tranne che "effettivo" essendo frutto di una stima e basato quasi esclusivamente sull'attualizzazione del terminal value alla data di esaurimento del piano concordatario, forse il lasciapassare in sede di omologazione poteva essere più morbido, fino a limitare ogni valutazione ancora una volta al miglior soddisfacimento rispetto all'alternativa liquidatoria. Quest'ultima però (l'alternativa liquidatoria) calcolata secondo standard corretti dal punto di vista aziendale e non su supposizioni o forzature molto spesso utilizzate in ambito giudiziale.
Giovanni La Croce, dottore commercialista

6 Dicembre 2025 15:30

Cari amici,
come scrivete voi avvocati, a me pare abbiate fatto mal governo degli insegnamenti contenuti nello scritto del prof. Bini e del collega Peracin, che si sono a lungo diffusi sul concetto di enterprise value e sulla sua misurazione - difficoltà di sua misurazione - nella contingenza della crisi.
Il valore, pur aleatorio, di un’impresa in crisi all’esito del concordato, ci hanno spiegato i due illustri autori, è un valore unitario che non può non ricomprendere anche il Terminal Value,  meglio, preciserei, il valore oltre l’orizzonte del piano concordatario, come loro ben ci spiegano, che di norma è qualcosa di più del TV tecnico, atteso il limitato periodo dei piani concordatari.
Se è un valore unitario, e se esso è composto - nella scissione che il legislatore ha previsto ai fini della sua distribuzione - dal Valore di liquidazione, dal plusvalore della continuità nell’arco di piano, e dal TV successivo  - così condivisibilmente affermano i due autori - è evidente che qualsiasi piano di concordato in continuità diretta incorpori sempre, e forzatamente, un valore riservato ai soci.
Più breve sarà l’arco di piano e maggiore sarà tale valore.
Così spiega un recentissimo arresto del tribunale di Milano, qui pubblicato, dove si afferma che di tale valore si debbano notiziare i creditori ai fini di un voto consapevolmente informato.
Non vado oltre, restando a a questa superficie, nel senso che non mi avventuro nei calcoli troppo complessi per un uomo di sintesi come sono, delle condizioni di omologabilità in caso di opposizione.
Quanto ci hanno spiegato il prof. Bini e il collega Peracin, riguardo alla previsione del 120 quater di un valore riservato ai soci, ha una sua logica economica, poichè l’EV post omologazione è frutto del sacrificio delle ragione dei creditori, il valore riservato ai quali non può essere limitato al solo plusvalore di piano così da privare di legittimità qualsiasi dissenso.
L’errore in cui, a mio sommesso parere, siete incorsi è generato dall’aver confuso la possibilità per il debitore di tenere per se una parte dell’EV, con l’omologabilità di un tal piano in caso di opposizioni.  
La possibilità è nella legge, ed è assoluta se nessuno si oppone all’omologazione, o trova quei limiti distributivi complessi e astrusi, in caso di opposizione.
Non c’è nessun ostracismo interno alla continuità diretta, come avete al contrario denunciato, se ne perimetra solo le condizioni, poiché essa, come ho cercato di spiegare incorpora sempre una quota di valore per il debitore.
Se, dunque, tutto torna nella ricostruzione proposta dal prof. Bini e dal collega Peracin è la definizione contenuta dall’art. 87 del Valore di liquidazione che, come più volte ho cercato, inascoltato, di spiegare, fa “saltare il banco”.
Se il Valore di liquidazione, infatti, è, non solo il valore della liquidazione dei beni che compongono l’impresa, bensì anche il suo EV (anzi un valore maggiore giacché deve incorporare anche il valore delle azioni revocatorie non esperibili nel concordato) ,   risulta evidente che nessuna quota di questo potrà essere riservata ai soci, dato che il Valore di liquidazione andrebbe ripartito integralmente ai creditori secondo le regole dell’APR.
Il tema allora si sposta dal mondo delle scienze economiche del contributo dottrinario da cui siamo partiti al più etereo mondo delle realtà probabilistiche  controfattuali, governate da valutazioni largamente soggettive, come la realizzabilità dell’esercizio provvisorio nella LG, che, a parte i casi di nuovi apporti di equity nel concordato, non si può escludere in assoluto, se non sulla base di valutazioni puramente soggettive, quando non interessate.
Il caso della continuità indiretta è ancora più eclatante, giacché l’interesse del terzo all’acquisto dell’azienda è neutro rispetto all’ambito in cui dovrà avvenire che deve solo garantire un acquisto esdebitato e la LG lo garantisce al pari del concordato.
Per altro, se esiste un EV solo in conseguenza del sacrificio dei creditori la continuità è perseguibile indipendentemente dalla cornice giuridica in cui si svolge.
Differentemente il legislatore non avrebbe incoraggiato già a partire dal lontano 2006 l’esercizio provvisorio.
Certo, calcolare l’EV di un’impresa in crisi, che deve effettuare un turnaround, è esercizio complesso, così come la determinazione della quota riservabile ai soci che non dia luogo a un’opposizione fondata è un esercizio di alta ingegneria, ma qualsiasi sforzo del migliore degli ingegneri  s’infrange difronte alla definizione di “Valore di liquidazione” contenuta all’art. 87, per cui l’EV va destinato tutto ai creditori e secondo le regole dell’APR, salvo discettare degli eterei scenari controfattuali.

Ratti Massimiliano, Avvocato

7 Dicembre 2025 9:54

Cari amici,
come scrivete voi avvocati, a me pare abbiate fatto mal governo degli insegnamenti contenuti nello scritto del prof. Bini e del collega Peracin, che si sono a lungo diffusi sul concetto di enterprise value e sulla sua misurazione - difficoltà di sua misurazione - nella contingenza della crisi.
Il valore, pur aleatorio, di un’impresa in crisi all’esito del concordato, ci hanno spiegato i due illustri autori, è un valore unitario che non può non ricomprendere anche il Terminal Value,  meglio, preciserei, il valore oltre l’orizzonte del piano concordatario, come loro ben ci spiegano, che di norma è qualcosa di più del TV tecnico, atteso il limitato periodo dei piani concordatari.
Se è un valore unitario, e se esso è composto - nella scissione che il legislatore ha previsto ai fini della sua distribuzione - dal Valore di liquidazione, dal plusvalore della continuità nell’arco di piano, e dal TV successivo  - così condivisibilmente affermano i due autori - è evidente che qualsiasi piano di concordato in continuità diretta incorpori sempre, e forzatamente, un valore riservato ai soci.
Più breve sarà l’arco di piano e maggiore sarà tale valore.
Così spiega un recentissimo arresto del tribunale di Milano, qui pubblicato, dove si afferma che di tale valore si debbano notiziare i creditori ai fini di un voto consapevolmente informato.
Non vado oltre, restando a a questa superficie, nel senso che non mi avventuro nei calcoli troppo complessi per un uomo di sintesi come sono, delle condizioni di omologabilità in caso di opposizione.
Quanto ci hanno spiegato il prof. Bini e il collega Peracin, riguardo alla previsione del 120 quater di un valore riservato ai soci, ha una sua logica economica, poichè l’EV post omologazione è frutto del sacrificio delle ragione dei creditori, il valore riservato ai quali non può essere limitato al solo plusvalore di piano così da privare di legittimità qualsiasi dissenso.
L’errore in cui, a mio sommesso parere, siete incorsi è generato dall’aver confuso la possibilità per il debitore di tenere per se una parte dell’EV, con l’omologabilità di un tal piano in caso di opposizioni.  
La possibilità è nella legge, ed è assoluta se nessuno si oppone all’omologazione, o trova quei limiti distributivi complessi e astrusi, in caso di opposizione.
Non c’è nessun ostracismo interno alla continuità diretta, come avete al contrario denunciato, se ne perimetra solo le condizioni, poiché essa, come ho cercato di spiegare incorpora sempre una quota di valore per il debitore.
Se, dunque, tutto torna nella ricostruzione proposta dal prof. Bini e dal collega Peracin è la definizione contenuta dall’art. 87 del Valore di liquidazione che, come più volte ho cercato, inascoltato, di spiegare, fa “saltare il banco”.
Se il Valore di liquidazione, infatti, è, non solo il valore della liquidazione dei beni che compongono l’impresa, bensì anche il suo EV (anzi un valore maggiore giacché deve incorporare anche il valore delle azioni revocatorie non esperibili nel concordato) ,   risulta evidente che nessuna quota di questo potrà essere riservata ai soci, dato che il Valore di liquidazione andrebbe ripartito integralmente ai creditori secondo le regole dell’APR.
Il tema allora si sposta dal mondo delle scienze economiche del contributo dottrinario da cui siamo partiti al più etereo mondo delle realtà probabilistiche  controfattuali, governate da valutazioni largamente soggettive, come la realizzabilità dell’esercizio provvisorio nella LG, che, a parte i casi di nuovi apporti di equity nel concordato, non si può escludere in assoluto, se non sulla base di valutazioni puramente soggettive, quando non interessate.
Il caso della continuità indiretta è ancora più eclatante, giacché l’interesse del terzo all’acquisto dell’azienda è neutro rispetto all’ambito in cui dovrà avvenire che deve solo garantire un acquisto esdebitato e la LG lo garantisce al pari del concordato.
Per altro, se esiste un EV solo in conseguenza del sacrificio dei creditori la continuità è perseguibile indipendentemente dalla cornice giuridica in cui si svolge.
Differentemente il legislatore non avrebbe incoraggiato già a partire dal lontano 2006 l’esercizio provvisorio.
Certo, calcolare l’EV di un’impresa in crisi, che deve effettuare un turnaround, è esercizio complesso, così come la determinazione della quota riservabile ai soci che non dia luogo a un’opposizione fondata è un esercizio di alta ingegneria, ma qualsiasi sforzo del migliore degli ingegneri  s’infrange difronte alla definizione di “Valore di liquidazione” contenuta all’art. 87, per cui l’EV va destinato tutto ai creditori e secondo le regole dell’APR, salvo discettare degli eterei scenari controfattuali.

Caro Giovanni,
la nostra riflessione (che in realtà ricalca obiettivamente più i caratteri della provocazione) è stata probabilmente malintesa, visto il disallineamento diacronico delle tue conseguenti considerazioni.
Il contributo citato, lungi dal voler essere interpretato, ha, innanzitutto, fornito uno spunto che poi è l’oggetto del blog: non può esistere un valore riservato ai soci post ristrutturazione se nell’alternativo e comparativo valore di liquidazione (a cui, sempre in termini comparativi, dovremmo sommare addirittura anche l’eccedenza), c’è già compresa ogni voce di attivo. In caso di diniego di omologa, l’alternativa sarebbe sempre la Liquidazione Giudiziale ove non ci sarebbe spazio né per l’eccedenza né per il terminal value: e allora a che serve far implodere un processo di ristrutturazione, persino in caso di limitato dissenso ad una sola classe, se poi tutti gli altri creditori (aderenti) si vedono costretti a soddisfare le loro pretese sul solo valore di liquidazione? 
Giovanni La Croce, dottore commercialista

7 Dicembre 2025 16:24

Caro Giovanni,
la nostra riflessione (che in realtà ricalca obiettivamente più i caratteri della provocazione) è stata probabilmente malintesa, visto il disallineamento diacronico delle tue conseguenti considerazioni.
Il contributo citato, lungi dal voler essere interpretato, ha, innanzitutto, fornito uno spunto che poi è l’oggetto del blog: non può esistere un valore riservato ai soci post ristrutturazione se nell’alternativo e comparativo valore di liquidazione (a cui, sempre in termini comparativi, dovremmo sommare addirittura anche l’eccedenza), c’è già compresa ogni voce di attivo. In caso di diniego di omologa, l’alternativa sarebbe sempre la Liquidazione Giudiziale ove non ci sarebbe spazio né per l’eccedenza né per il terminal value: e allora a che serve far implodere un processo di ristrutturazione, persino in caso di limitato dissenso ad una sola classe, se poi tutti gli altri creditori (aderenti) si vedono costretti a soddisfare le loro pretese sul solo valore di liquidazione? 
Max,
Le norme non le ho scritte io e con quelle bisogna fare i conti.
Su un punto il legislatore non ha sbagliato, quando ha deciso che si dovesse affrontare il tema del valore riservato ai soci nel concordato in continuità, dato che è una probabilità, più che una possibilità, che quel tipo di concordato lo incorpori.
Sotto questo profilo il contributo Bini-Peracin è illuminante: l’EV post ristrutturazione ne è il metro e nell’EV va ricompreso anche il TV, inteso come valore oltre l’orizzonte di piano. Questo ci dice la scienza dell’economia e come tale lo devi dare per postulato.
Se, dunque, assegni ai creditori solo il valore dell’arco di piano, per forza esiste un valore riservato ai soci.
Ma vorrei che ti soffermassi un momento prima e ragionassi sul fatto che se esiste un EV post ristrutturazione, per quanto aleatorio, questo può essere d’interesse del mercato. Non è un valore posticcio, per quanto aleatorio.
A questo punto sovvengono altre regole del CCII ad obbligare la regolamentazione della distribuzione di quello che per comodità chiameremo atecnicamente TV. 
L’impresa non è liberamente  contendibile, neppure con una proposta concorrente, se il concordato assicura una soddisfazione (attualizzata) dei creditori al 30%.
Ed allora, se per arrivare al 30% di soddisfo non devo intaccare tutto il TV, ovvio che sto riservando una quota di EV ai soci. Ed essendo la proposta blindata essa è vincolante per i creditori.
È altrettanto ovvio, quindi, che qualche creditore potrebbe legittimamente dolersene.
E qui sopraggiungono altre regole al nostro crocevia. Prima quella della non deteriorità della proposta rispetto all’alternativa della LG, che tu giustamente declini  “rispetto al paradigma del Valore di liquidazione”.
E avresti perfettamente ragione se il legislatore avesse voluto riferirsi al valore di liquidazione dei beni disaggregati che compendiano l’impresa, arricchito dal valore delle azioni di massa.
In tal caso il confronto avrebbe avuto un senso, giacche avrebbe investito due aggregati diversi: da un lato l’EV (valore azienda in funzionamento) e dall’altro il VL con le sue addizioni giudiziarie.
Senonché il legislatore ha avuto l’ingegnosa idea di codificare che il valore di liquidazione può essere anche quello dell’impresa in funzionamento, ossia l’EV.
Una volta codificata l’equiparazione non si può sostenere che post ristrutturazione (che vuol dire post sacrificio dei creditori) il medesimo valore non sarebbe realizzabile nella LG. A quel punto l’impresa “girerebbe come un orologio”.
In ogni caso, come sostenevo ieri, anche a volerlo negare, si scivola nel pendio inclinato e sdrucciolevole degli scenari controfattuali,  dove si può sostenere tutto e il contrario di tutto.
Ed è la strada che ha scelto, quella di evitare contenziosi basati su temi di controfattualità, il legislatore, spostando la regolazione degli interessi contrapposti sul fronte delle griglie distributive.
Griglie che, teniamo ben a mente, possono essere violate se, poi, nessuna classe dissente.
Dunque, non c’è nessun effetto negativo automatico sulla organizzazione della proposta in continuità diretta con una libera distribuzione del TV anche ai soci, tanto che la proposta è approvata se la classe dei dissenzienti riceve più di quanto riservato ai soci.
Il che ci porta a concludere che ai soci qualcosa del TV può restare comunque anche in presenza di dissensi.
Il concordato preventivo come opera di ingegneria giuridico- contabile, dunque.
Ultime chiose finali, per non tediarti troppo: (i) più ambizioso e ottimistico sarà il piano più alto sarà il TV, ossia il valore riservato ai soci; (ii) più lunghi saranno i piani meno TV sarà riservato ai soci.
Insomma  c’è ancora ampio spazio per arbitrare.


Antonio Pezzano, Avvocato in Firenze

8 Dicembre 2025 8:32

Max,
Le norme non le ho scritte io e con quelle bisogna fare i conti.
Su un punto il legislatore non ha sbagliato, quando ha deciso che si dovesse affrontare il tema del valore riservato ai soci nel concordato in continuità, dato che è una probabilità, più che una possibilità, che quel tipo di concordato lo incorpori.
Sotto questo profilo il contributo Bini-Peracin è illuminante: l’EV post ristrutturazione ne è il metro e nell’EV va ricompreso anche il TV, inteso come valore oltre l’orizzonte di piano. Questo ci dice la scienza dell’economia e come tale lo devi dare per postulato.
Se, dunque, assegni ai creditori solo il valore dell’arco di piano, per forza esiste un valore riservato ai soci.
Ma vorrei che ti soffermassi un momento prima e ragionassi sul fatto che se esiste un EV post ristrutturazione, per quanto aleatorio, questo può essere d’interesse del mercato. Non è un valore posticcio, per quanto aleatorio.
A questo punto sovvengono altre regole del CCII ad obbligare la regolamentazione della distribuzione di quello che per comodità chiameremo atecnicamente TV. 
L’impresa non è liberamente  contendibile, neppure con una proposta concorrente, se il concordato assicura una soddisfazione (attualizzata) dei creditori al 30%.
Ed allora, se per arrivare al 30% di soddisfo non devo intaccare tutto il TV, ovvio che sto riservando una quota di EV ai soci. Ed essendo la proposta blindata essa è vincolante per i creditori.
È altrettanto ovvio, quindi, che qualche creditore potrebbe legittimamente dolersene.
E qui sopraggiungono altre regole al nostro crocevia. Prima quella della non deteriorità della proposta rispetto all’alternativa della LG, che tu giustamente declini  “rispetto al paradigma del Valore di liquidazione”.
E avresti perfettamente ragione se il legislatore avesse voluto riferirsi al valore di liquidazione dei beni disaggregati che compendiano l’impresa, arricchito dal valore delle azioni di massa.
In tal caso il confronto avrebbe avuto un senso, giacche avrebbe investito due aggregati diversi: da un lato l’EV (valore azienda in funzionamento) e dall’altro il VL con le sue addizioni giudiziarie.
Senonché il legislatore ha avuto l’ingegnosa idea di codificare che il valore di liquidazione può essere anche quello dell’impresa in funzionamento, ossia l’EV.
Una volta codificata l’equiparazione non si può sostenere che post ristrutturazione (che vuol dire post sacrificio dei creditori) il medesimo valore non sarebbe realizzabile nella LG. A quel punto l’impresa “girerebbe come un orologio”.
In ogni caso, come sostenevo ieri, anche a volerlo negare, si scivola nel pendio inclinato e sdrucciolevole degli scenari controfattuali,  dove si può sostenere tutto e il contrario di tutto.
Ed è la strada che ha scelto, quella di evitare contenziosi basati su temi di controfattualità, il legislatore, spostando la regolazione degli interessi contrapposti sul fronte delle griglie distributive.
Griglie che, teniamo ben a mente, possono essere violate se, poi, nessuna classe dissente.
Dunque, non c’è nessun effetto negativo automatico sulla organizzazione della proposta in continuità diretta con una libera distribuzione del TV anche ai soci, tanto che la proposta è approvata se la classe dei dissenzienti riceve più di quanto riservato ai soci.
Il che ci porta a concludere che ai soci qualcosa del TV può restare comunque anche in presenza di dissensi.
Il concordato preventivo come opera di ingegneria giuridico- contabile, dunque.
Ultime chiose finali, per non tediarti troppo: (i) più ambizioso e ottimistico sarà il piano più alto sarà il TV, ossia il valore riservato ai soci; (ii) più lunghi saranno i piani meno TV sarà riservato ai soci.
Insomma  c’è ancora ampio spazio per arbitrare.


Caro Giovanni ,
a me sembra che per Te il novello art.87, co.1, lett. c), CCII, sul comparativo (massimo) VdLG, inclusivo quindi dell’eventuale maggior valore derivante della cedibilita’ anche in LG  dell’azienda in esercizio,   proprio non esista.

Eppure è la chiave : o tale maggior valore, illegittimamente non dichiarato  dal debitore,  esiste (ma) gia’ al momento della domanda di CP  come massima espansione del VdLG — ovviamente come  accertato  secondo le uniche regole possibili, cioè quelle oppositive di cui all’art.112, co.3 e 4 , CCII,  cui sono assoggettati anche i “dissensori120quater”, ove si trasformino  in oppositori vincenti, ma sempre secondo le predette regole “APR”  , visto infatti il rinvio al 112 dell’ incipit del 120quater — oppure si sta parlando proprio del nulla rispetto al magico “valore effettivo”. 

E sai (ulteriormente) perché ?

Perché,  o l’ opposizione risulterà rigettata    e quindi si starà parlando (appunto) del nulla rispetto al fantomatico “valore effettivo”  oppure, vinta il “dissensore” l’opposizione , l’omologazione  non ci sarà  e quindi a maggior ragione difettera’ il fantasmagorico “valore effettivo conseguente [appunto]all’omologazione ”, con tutti gli ipotetici calcoli sul TVC che tu fai, ma che nella realtà della LG che segue mai troverai, dovendo “accontentarti” sempre e solo del suddetto maggior valore APR  “87/1/c” (che comunque, a parte perche e’ reale o quantomeno verosimile, è tanto di più rispetto al “valore effettivo” declinato dall’ art.120quater, co.2, CCII, come abbiamo cercato di argomentare nel blog sub par. V).

Dunque, di che stiamo parlando ?

Del mondo, appunto, onirico “del nulla”, 
che però  sembra piacere tanto anche a Te. E non solo, invero . 

Almeno per ora . 

Ps: Naturalmente, come già detto in blog, la soluzione, che sgombrerebbe ogni dubbio,   sarebbe quella di affiancare, all’ opposizione di convenienza “112/3-4” , la possibilità di formulare proposte concorrenti senza limiti (se non quello ovvio della preferenza pro debitore a parità di condizioni), ma solo a cura  degli unici interessati che si possono dolere di un proposta che non ritengono soddisfacente: dunque, oltre che i soci, i creditori ab origine non totalmente soddisfatti .
Giovanni La Croce, dottore commercialista

8 Dicembre 2025 18:01

Caro Giovanni ,
a me sembra che per Te il novello art.87, co.1, lett. c), CCII, sul comparativo (massimo) VdLG, inclusivo quindi dell’eventuale maggior valore derivante della cedibilita’ anche in LG  dell’azienda in esercizio,   proprio non esista.

Eppure è la chiave : o tale maggior valore, illegittimamente non dichiarato  dal debitore,  esiste (ma) gia’ al momento della domanda di CP  come massima espansione del VdLG — ovviamente come  accertato  secondo le uniche regole possibili, cioè quelle oppositive di cui all’art.112, co.3 e 4 , CCII,  cui sono assoggettati anche i “dissensori120quater”, ove si trasformino  in oppositori vincenti, ma sempre secondo le predette regole “APR”  , visto infatti il rinvio al 112 dell’ incipit del 120quater — oppure si sta parlando proprio del nulla rispetto al magico “valore effettivo”. 

E sai (ulteriormente) perché ?

Perché,  o l’ opposizione risulterà rigettata    e quindi si starà parlando (appunto) del nulla rispetto al fantomatico “valore effettivo”  oppure, vinta il “dissensore” l’opposizione , l’omologazione  non ci sarà  e quindi a maggior ragione difettera’ il fantasmagorico “valore effettivo conseguente [appunto]all’omologazione ”, con tutti gli ipotetici calcoli sul TVC che tu fai, ma che nella realtà della LG che segue mai troverai, dovendo “accontentarti” sempre e solo del suddetto maggior valore APR  “87/1/c” (che comunque, a parte perche e’ reale o quantomeno verosimile, è tanto di più rispetto al “valore effettivo” declinato dall’ art.120quater, co.2, CCII, come abbiamo cercato di argomentare nel blog sub par. V).

Dunque, di che stiamo parlando ?

Del mondo, appunto, onirico “del nulla”, 
che però  sembra piacere tanto anche a Te. E non solo, invero . 

Almeno per ora . 

Ps: Naturalmente, come già detto in blog, la soluzione, che sgombrerebbe ogni dubbio,   sarebbe quella di affiancare, all’ opposizione di convenienza “112/3-4” , la possibilità di formulare proposte concorrenti senza limiti (se non quello ovvio della preferenza pro debitore a parità di condizioni), ma solo a cura  degli unici interessati che si possono dolere di un proposta che non ritengono soddisfacente: dunque, oltre che i soci, i creditori ab origine non totalmente soddisfatti .
Caro Antonio,
Certo che esiste, ma, ahi noi, è il valore dell’impresa in funzionamento, così hanno voluto gli estensori dell’ultimo correttivo, che mi dicono essere il secondo e non il terzo.
Le mie critiche - la vendita dell’impresa in funzionamento è una modalità di liquidazione della società, mentre la liquidazione dell’impresa è la vendita dei suoi beni disgregati e separati - … critiche da “contabile”, si disse. Già un passo avanti rispetto a critiche da “partita iva”.
Il problema di cui ti lamenti risiede tutto in quella scelta e, ovviamente, anche nell’uso di un linguaggio tecnico inappropriato: valore effettivo che tale non è nella conoscenza aziendalistica.
Non essendo, però, quello del 120 quater l’unico inciampo con cui siamo costretti a confrontarci, la soluzione non può che risiedere in un nuovo codice.
Intanto, nelle prossime domande, come ha affermato - condivisibilmente allo stato della norma - trib. Milano dovrai (pure io, s’intende) sempre indicare il valore riservato ai soci e calibrare in conseguenza le distribuzioni e le classi, per prevenire le opposizioni erariali.
Buona fortuna a entrambi.
Aurelio Bentivegna, Avvocato - Foro di Palermo

14 Dicembre 2025 14:04

L’articolo di Pezzano e Ratti ha il merito – raro, nel panorama attuale – di sollevare una questione cruciale: la tensione crescente tra tecnica valutativa e funzionalità della continuità aziendale. È un tema che, da pratico delle procedure, vedo ogni giorno nei numeri delle imprese che assisto.

La dottrina “alta” (Bini–Peracin) e quella “critica” (La Croce) hanno argomenti solidissimi.
 Il punto, però, è un altro: come si applicano queste norme nelle procedure vere, quando devi far sedere banche, erario, dipendenti, soci e tribunale attorno allo stesso tavolo e costruire una soluzione che stia in piedi?

Qui il rischio è chiaro: se la lettura diventa troppo ideologica, la continuità diretta implode.
E con essa, il 70–80% delle imprese che potrebbero salvarsi.

  1. Il nodo centrale: art. 87 vc art. 120-quater
Pezzano mette in luce un’evidenza che, in pratica, vediamo ogni giorno:

> Il “maggior valore” ex art. 87, co.1 lett. c) CCII – cioè il valore dell’azienda “in esercizio” realizzabile anche in LG – assorbe totalmente il presunto “valore effettivo” da riservare ai soci ex art. 120-quater.

Se nella LG sarebbe possibile vendere l’azienda in esercizio,
 che senso ha ipotizzare un valore ulteriore, “post omologa”, da togliere ai soci?

E soprattutto:
 come può un valore che dipende dalla ristrutturazione essere “comparato” con un valore di liquidazione che, per definizione, prescinde dalla ristrutturazione stessa?

È proprio qui che nasce il paradosso che Pezzano denuncia:

> Se il valore di liquidazione coincide con l’EV dell’impresa risanata, ogni spazio per i soci scompare.
> E se ogni piano di continuità incorpora fisiologicamente un valore futuro, ogni piano diventa potenzialmente non omologabile.

Questo non è un problema teorico: è un problema sistemico.

2. I commenti di Peracin e La Croce: utili ma rischiosi in pratica

Il punto di Peracin

Peracin riconosce che il valore “riservato” è inevitabilmente una stima e che il TV è una componente intrinsecamente aleatoria.
Il suo suggerimento è pragmatico:

> concentrare la verifica sul miglior soddisfacimento rispetto alla LG, calcolata correttamente.

Condivisibile. È, di fatto, l’unico piano terra solido su cui stare.

Il punto di La Croce 

La Croce porta la discussione su un livello più radicale:
 se l’art. 87 equipara il valore di liquidazione al valore d’azienda in funzionamento, allora:

> qualsiasi valore dell’impresa risanata dovrebbe restare ai creditori.
> nessuno spazio effettivo per i soci.
> il 120-quater diventa quasi un miraggio regolatorio.

In astratto è impeccabile.
 Nella pratica, rischia di sterilizzare la continuità diretta, che – ricordo – è il centro della Direttiva Insolvency.

3. La mia posizione: serva una lettura che non uccida la continuità.

Da operatore, vedo un punto chiaro:
 non possiamo leggere il 120-quater come una clava che colpisce qualsiasi piano con un minimo valore residuo ai soci.

Perché?

> PRIMO: il legislatore non può aver codificato un istituto impraticabile.

L’idea che ogni EV post omologa debba essere “assorbito” nella LG è tecnicamente elegante, ma incompatibile con la fisiologia del risanamento.

Un’impresa risanata vale sempre più di un’impresa da liquidare.
 Se questo “di più” deve sempre andare ai creditori, nessuna impresa presenterà mai un piano in continuità.

> SECONDO: la continuità comporta investimenti, rischio, capacità organizzativa.

Il sacrificio dei soci non può essere assoluto e illimitato.

> TERZO: il mercato – non il giurista – misura il valore.

E il mercato distingue perfettamente tra:

  • azienda risanata,
  • azienda liquidata,
  • azienda disgregata.
Equipararle è un artificio, non una realtà.


4. Una lettura funzionale: la bussola resta l’art. 87, ma non per annullare il 120-quater

Propongo una lettura operativa, coerente con la ratio complessiva del CCII:

> Il “maggior valore” ex art. 87 serve a garantire i creditori contro sottovalutazioni dell’azienda.

Non a negare ex ante ogni valore ai soci.

> Il “valore riservato ai soci” deve essere stimato, comunicato e reso trasparente.

Non demonizzato.

> La verifica in omologazione deve essere fondata su:

  1. corretto valore di liquidazione, non artificiosamente “gonfiato”;
  2. miglior soddisfacimento complessivo dei creditori;
  3. assenza di pregiudizi distorsivi a carico delle classi dissenzienti.
Questa impostazione:

  • rispetta la Direttiva Insolvency,
  • rende praticabile il concordato in continuità,
  • dà un ruolo reale – non simbolico – all’art. 120-quater.

5. Conclusione: la tecnica non può diventare un ostacolo al risanamento.

Il rischio maggiore, oggi, è quello di spostare il baricentro del concordato:

dalla soluzione della crisi → alla risoluzione di un teorema valutativo.

Io credo che la giustizia concorsuale debba restare ancorata a tre principi:

> Prima si salva l’impresa.

Senza impresa, non c’è valore da distribuire.

> L’interesse dei creditori è primario, ma non assoluto né tirannico.

Lo è nei limiti della ragionevolezza economica.

> Il sistema deve incentivare il ricorso precoce e le soluzioni negoziate.

Non generare norme che, come nota Pezzano, rischiano di essere “autolesioniste”.

Per questo, tra l’interpretazione rigida e quella evanescente, scelgo una terza via:
 l’interpretazione funzionale, che salva la procedura, tutela i creditori e consente ai soci di non essere giuridicamente annientati quando contribuiscono al risanamento.


Giovanni La Croce, dottore commercialista

20 Dicembre 2025 12:33

L’articolo di Pezzano e Ratti ha il merito – raro, nel panorama attuale – di sollevare una questione cruciale: la tensione crescente tra tecnica valutativa e funzionalità della continuità aziendale. È un tema che, da pratico delle procedure, vedo ogni giorno nei numeri delle imprese che assisto.

La dottrina “alta” (Bini–Peracin) e quella “critica” (La Croce) hanno argomenti solidissimi.
 Il punto, però, è un altro: come si applicano queste norme nelle procedure vere, quando devi far sedere banche, erario, dipendenti, soci e tribunale attorno allo stesso tavolo e costruire una soluzione che stia in piedi?

Qui il rischio è chiaro: se la lettura diventa troppo ideologica, la continuità diretta implode.
E con essa, il 70–80% delle imprese che potrebbero salvarsi.

  1. Il nodo centrale: art. 87 vc art. 120-quater
Pezzano mette in luce un’evidenza che, in pratica, vediamo ogni giorno:

> Il “maggior valore” ex art. 87, co.1 lett. c) CCII – cioè il valore dell’azienda “in esercizio” realizzabile anche in LG – assorbe totalmente il presunto “valore effettivo” da riservare ai soci ex art. 120-quater.

Se nella LG sarebbe possibile vendere l’azienda in esercizio,
 che senso ha ipotizzare un valore ulteriore, “post omologa”, da togliere ai soci?

E soprattutto:
 come può un valore che dipende dalla ristrutturazione essere “comparato” con un valore di liquidazione che, per definizione, prescinde dalla ristrutturazione stessa?

È proprio qui che nasce il paradosso che Pezzano denuncia:

> Se il valore di liquidazione coincide con l’EV dell’impresa risanata, ogni spazio per i soci scompare.
> E se ogni piano di continuità incorpora fisiologicamente un valore futuro, ogni piano diventa potenzialmente non omologabile.

Questo non è un problema teorico: è un problema sistemico.

2. I commenti di Peracin e La Croce: utili ma rischiosi in pratica

Il punto di Peracin

Peracin riconosce che il valore “riservato” è inevitabilmente una stima e che il TV è una componente intrinsecamente aleatoria.
Il suo suggerimento è pragmatico:

> concentrare la verifica sul miglior soddisfacimento rispetto alla LG, calcolata correttamente.

Condivisibile. È, di fatto, l’unico piano terra solido su cui stare.

Il punto di La Croce 

La Croce porta la discussione su un livello più radicale:
 se l’art. 87 equipara il valore di liquidazione al valore d’azienda in funzionamento, allora:

> qualsiasi valore dell’impresa risanata dovrebbe restare ai creditori.
> nessuno spazio effettivo per i soci.
> il 120-quater diventa quasi un miraggio regolatorio.

In astratto è impeccabile.
 Nella pratica, rischia di sterilizzare la continuità diretta, che – ricordo – è il centro della Direttiva Insolvency.

3. La mia posizione: serva una lettura che non uccida la continuità.

Da operatore, vedo un punto chiaro:
 non possiamo leggere il 120-quater come una clava che colpisce qualsiasi piano con un minimo valore residuo ai soci.

Perché?

> PRIMO: il legislatore non può aver codificato un istituto impraticabile.

L’idea che ogni EV post omologa debba essere “assorbito” nella LG è tecnicamente elegante, ma incompatibile con la fisiologia del risanamento.

Un’impresa risanata vale sempre più di un’impresa da liquidare.
 Se questo “di più” deve sempre andare ai creditori, nessuna impresa presenterà mai un piano in continuità.

> SECONDO: la continuità comporta investimenti, rischio, capacità organizzativa.

Il sacrificio dei soci non può essere assoluto e illimitato.

> TERZO: il mercato – non il giurista – misura il valore.

E il mercato distingue perfettamente tra:

  • azienda risanata,
  • azienda liquidata,
  • azienda disgregata.
Equipararle è un artificio, non una realtà.


4. Una lettura funzionale: la bussola resta l’art. 87, ma non per annullare il 120-quater

Propongo una lettura operativa, coerente con la ratio complessiva del CCII:

> Il “maggior valore” ex art. 87 serve a garantire i creditori contro sottovalutazioni dell’azienda.

Non a negare ex ante ogni valore ai soci.

> Il “valore riservato ai soci” deve essere stimato, comunicato e reso trasparente.

Non demonizzato.

> La verifica in omologazione deve essere fondata su:

  1. corretto valore di liquidazione, non artificiosamente “gonfiato”;
  2. miglior soddisfacimento complessivo dei creditori;
  3. assenza di pregiudizi distorsivi a carico delle classi dissenzienti.
Questa impostazione:

  • rispetta la Direttiva Insolvency,
  • rende praticabile il concordato in continuità,
  • dà un ruolo reale – non simbolico – all’art. 120-quater.

5. Conclusione: la tecnica non può diventare un ostacolo al risanamento.

Il rischio maggiore, oggi, è quello di spostare il baricentro del concordato:

dalla soluzione della crisi → alla risoluzione di un teorema valutativo.

Io credo che la giustizia concorsuale debba restare ancorata a tre principi:

> Prima si salva l’impresa.

Senza impresa, non c’è valore da distribuire.

> L’interesse dei creditori è primario, ma non assoluto né tirannico.

Lo è nei limiti della ragionevolezza economica.

> Il sistema deve incentivare il ricorso precoce e le soluzioni negoziate.

Non generare norme che, come nota Pezzano, rischiano di essere “autolesioniste”.

Per questo, tra l’interpretazione rigida e quella evanescente, scelgo una terza via:
 l’interpretazione funzionale, che salva la procedura, tutela i creditori e consente ai soci di non essere giuridicamente annientati quando contribuiscono al risanamento.


Gentile avvocato,
Lei afferma incredulo che:  “il legislatore non può aver codificato un istituto impraticabile”.
Si tratta di un postulato facilmente controvertibile, dunque un “non postulato”: il legislatore non è Dio e, dunque, non essendo tale, non è infallibile.
Detto ciò, come lei ha ben sottolineato, sintetizzando la mia radicalità - è vero non mi piacciono gli arabeschi, se non in architettura, ma con moderazione anche lì -, il primo ostacolo sta nell’aver equiparato il valore di liquidazione dell’impresa al valore di liquidazione della società.
Tanto è: lo imponeva la lotta all’abuso del diritto!!
Sta di fatto che ci si è ingessati, l’istituto stesso dell’RPR (la chiave dell’abuso?) è divenuto inapplicabile e chi lo applica lo fa praeter legem, e, prima o poi, il nodo arriverà al pettine della “legittimità”.
Eppure alla Commissione Senato avevano tentato di spiegarglielo, al legislatore ( a proposito del fatto che le leggi le fa il parlamento!), ma questi rimase fermo nelle sue pervicaci convinzioni (bias?)
Per il valore da riservare ai soci - avendo prima eliminato l’ostacolo del valore di liquidazione  = valore dell’impresa in funzionamento - se il legislatore fosse stato Dio, infallibile, onniscente e onnivedente - avrebbe semplicemente gettato lo sguardo oltre oceano accorgendosi di ciò che lui aveva già congegnato da tempo e che funzionava a meraviglia:   
(§ 1129 del Bankrupcy Code) che afferma che i soci possano restare in socetà con il consenso di tutte le classi, anche se i creditori vengono sacrificati, mentre, se anche una sola classe dissente, la distribuzione del valore opera  secondo la regola della priorità assoluta. In presenza di dissenso i soci possono mantenere la propria partecipazione solo a fronte di un apporto di valore corrispondente.
Semplice e lineare, ma, forse, troppo calvinista per la nostra mentalità sempre propensa al compromesso.

Aurelio Bentivegna, Avvocato - Foro di Palermo

20 Dicembre 2025 21:34

Gentile avvocato,
Lei afferma incredulo che:  “il legislatore non può aver codificato un istituto impraticabile”.
Si tratta di un postulato facilmente controvertibile, dunque un “non postulato”: il legislatore non è Dio e, dunque, non essendo tale, non è infallibile.
Detto ciò, come lei ha ben sottolineato, sintetizzando la mia radicalità - è vero non mi piacciono gli arabeschi, se non in architettura, ma con moderazione anche lì -, il primo ostacolo sta nell’aver equiparato il valore di liquidazione dell’impresa al valore di liquidazione della società.
Tanto è: lo imponeva la lotta all’abuso del diritto!!
Sta di fatto che ci si è ingessati, l’istituto stesso dell’RPR (la chiave dell’abuso?) è divenuto inapplicabile e chi lo applica lo fa praeter legem, e, prima o poi, il nodo arriverà al pettine della “legittimità”.
Eppure alla Commissione Senato avevano tentato di spiegarglielo, al legislatore ( a proposito del fatto che le leggi le fa il parlamento!), ma questi rimase fermo nelle sue pervicaci convinzioni (bias?)
Per il valore da riservare ai soci - avendo prima eliminato l’ostacolo del valore di liquidazione  = valore dell’impresa in funzionamento - se il legislatore fosse stato Dio, infallibile, onniscente e onnivedente - avrebbe semplicemente gettato lo sguardo oltre oceano accorgendosi di ciò che lui aveva già congegnato da tempo e che funzionava a meraviglia:   
(§ 1129 del Bankrupcy Code) che afferma che i soci possano restare in socetà con il consenso di tutte le classi, anche se i creditori vengono sacrificati, mentre, se anche una sola classe dissente, la distribuzione del valore opera  secondo la regola della priorità assoluta. In presenza di dissenso i soci possono mantenere la propria partecipazione solo a fronte di un apporto di valore corrispondente.
Semplice e lineare, ma, forse, troppo calvinista per la nostra mentalità sempre propensa al compromesso.

Gentile dott. La Croce,
la ringrazio per il nuovo e articolato contributo, che aggiunge ulteriori elementi di riflessione sul tema, soprattutto in merito al rapporto – mai semplice – tra tecnica legislativa, lotta all’abuso del diritto e funzionamento reale degli istituti.
Consentirà però una puntualizzazione, che riprende il nucleo della mia precedente osservazione: nel confronto tra modelli teorici e prassi applicative occorre sempre fare i conti con la realtà economica e sistemica del Paese.
Lei evidenzia giustamente che il legislatore non è infallibile e che può produrre norme impraticabili. Ma proprio per questo – ed è il senso della mia riflessione – occorre interrogarsi non tanto sulla loro purezza dogmatica, quanto sulla loro effettività.
L’Italia vive un problema strutturale di indebitamento patologico, trasversale ai settori e agli anni, aggravato da fattori straordinari (crisi finanziarie, Covid, shock energetici) e da una fisiologia imprenditoriale spesso fragile sul piano finanziario pur non essendo decotta sul piano economico.
In questo contesto, l’idea che la priorità del sistema sia una funzione “calvinista” di deterrenza – pur comprensibile sul piano astratto – rischia di produrre effetti contrari all’interesse pubblico:
• distruzione di valore,
• perdita di posti di lavoro,
• incremento delle insolvenze,
• riduzione del gettito futuro,
• liquidazioni che non soddisfano nessuno, men che meno lo Stato.
La direttiva Insolvency – prima ancora del legislatore nazionale – parte da un presupposto molto pragmatico: la continuità aziendale, quando economicamente sostenibile, produce più valore della liquidazione.
Questo non implica salvare “chiunque”, né tollerare comportamenti opportunistici, né piegare gli istituti a usi distorti.
Implica però riconoscere che vi sono numerose imprese – e lo riscontriamo quotidianamente sul campo – che, pur avendo accumulato debito fiscale e previdenziale, continuano a generare EBITDA positivo, lavoro, indotto e valore.
In questi casi, una logica esclusivamente afflittiva-punitiva rischia di penalizzare non l’imprenditore “furbo”, ma lo stesso sistema Paese.
Ecco perché guardo con attenzione al modello statunitense da lei richiamato, che ha il pregio della linearità e della chiarezza nei meccanismi di priorità e apporto dei soci. Ma proprio quel modello funziona perché non sacrifica la continuità economica sull’altare della deterrenza: la deterrenza si esercita altrove, non nel luogo della ristrutturazione.
In sintesi:
• la sua radicalità ha il merito della coerenza;
• ma il nostro sistema produttivo richiede anche strumenti di cura, non solo di selezione;
• e la continuità – quando reale e misurabile – è un asset pubblico prima ancora che privato.
La ringrazio ancora per aver alimentato un confronto che, per profondità e rigore, è raro trovare oggi nel dibattito sulla crisi d’impresa. Sono certo che il dialogo tra visioni diverse possa solo migliorare la nostra capacità di leggere un fenomeno complesso che ha ricadute economiche, sociali e culturali non marginali.
Con sincera stima.
Avv. Aurelio Bentivegna

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I sistemi informatici e le procedure software preposte al funzionamento di questo sito web acquisiscono, nel corso del loro normale esercizio, alcuni dati personali la cui trasmissione è implicita nell'uso dei protocolli di comunicazione di Internet. In questa categoria di dati rientrano gli indirizzi IP, gli indirizzi in notazione URI (Uniform Resource Identifier) delle risorse richieste, l'orario della richiesta, il metodo utilizzato nel sottoporre la richiesta al server, la dimensione del file ottenuto in risposta, il codice numerico indicante lo stato della risposta data dal server (buon fine, errore, ecc.) ed altri parametri relativi al sistema operativo dell'utente.

Tempi di conservazione dei Suoi dati - I dati personali raccolti durante la navigazione saranno conservati per il tempo necessario a svolgere le attività precisate e non oltre 24 mesi.

Modalità del trattamento - Ai sensi e per gli effetti degli artt. 12 e ss. del GDPR, i dati personali degli interessati saranno registrati, trattati e conservati presso gli archivi elettronici delle Società, adottando misure tecniche e organizzative volte alla tutela dei dati stessi. Il trattamento dei dati personali degli interessati può consistere in qualunque operazione o complesso di operazioni tra quelle indicate all' art. 4, comma 1, punto 2 del GDPR.

Comunicazione e diffusione - I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati, intendendosi con tale termine il darne conoscenza ad uno o più soggetti determinati, dalla Società a terzi per dare attuazione a tutti i necessari adempimenti di legge. In particolare i dati personali dell’interessato potranno essere comunicati a Enti o Uffici Pubblici o autorità di controllo in funzione degli obblighi di legge.

I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati nei seguenti termini:

  • - a soggetti che possono accedere ai dati in forza di disposizione di legge, di regolamento o di normativa comunitaria, nei limiti previsti da tali norme;
  • - a soggetti che hanno necessità di accedere ai dati per finalità ausiliare al rapporto che intercorre tra l’interessato e la Società, nei limiti strettamente necessari per svolgere i compiti ausiliari.

Diritti dell’interessato - Ai sensi degli artt. 15 e ss GDPR, l’interessato potrà esercitare i seguenti diritti:

  • 1. accesso: conferma o meno che sia in corso un trattamento dei dati personali dell’interessato e diritto di accesso agli stessi; non è possibile rispondere a richieste manifestamente infondate, eccessive o ripetitive;
  • 2. rettifica: correggere/ottenere la correzione dei dati personali se errati o obsoleti e di completarli, se incompleti;
  • 3. cancellazione/oblio: ottenere, in alcuni casi, la cancellazione dei dati personali forniti; questo non è un diritto assoluto, in quanto le Società potrebbero avere motivi legittimi o legali per conservarli;
  • 4. limitazione: i dati saranno archiviati, ma non potranno essere né trattati, né elaborati ulteriormente, nei casi previsti dalla normativa;
  • 5. portabilità: spostare, copiare o trasferire i dati dai database delle Società a terzi. Questo vale solo per i dati forniti dall’interessato per l’esecuzione di un contratto o per i quali è stato fornito consenso e espresso e il trattamento viene eseguito con mezzi automatizzati;
  • 6. opposizione al marketing diretto;
  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

Dati di contatto - Società per lo studio del diritto della crisi con sede in via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN); email: ssdirittodellacrisi@gmail.com.

Responsabile della protezione dei dati - Il Responsabile della protezione dei dati non è stato nominato perché non ricorrono i presupposti di cui all’art 37 del Regolamento (UE) 2016/679.

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