Antonio Pezzano, Avvocato in Firenze
Massimiliano Ratti, Avvocato in La Spezia
IL “MAGGIOR VALORE” EX ART. 87, COMMA 1, LETT. C) CCII E L’EVANESCENZA DEL MINOR “VALORE EFFETTIVO” EX ART. 120-QUATER, COMMA 2, CCII”
1 Dicembre 2025
E quindi, oltre a non votare, oltre a non potersi opporre all’omologazione (e solo per le ragioni di cui al terzo comma dell’art. 120-quater, ovverosia per la violazione dei criteri distributivi dell’APR), i soci neppure potrebbero contraddire sul dissenso della classe “contestatrice” e sul “valore effettivo” ipoteticamente ed eventualmente “riservato” loro, anche indirettamente/tacitamente, da piano e proposta.
3 Dicembre 2025 17:58
6 Dicembre 2025 15:30
come scrivete voi avvocati, a me pare abbiate fatto mal governo degli insegnamenti contenuti nello scritto del prof. Bini e del collega Peracin, che si sono a lungo diffusi sul concetto di enterprise value e sulla sua misurazione - difficoltà di sua misurazione - nella contingenza della crisi.
Il valore, pur aleatorio, di un’impresa in crisi all’esito del concordato, ci hanno spiegato i due illustri autori, è un valore unitario che non può non ricomprendere anche il Terminal Value, meglio, preciserei, il valore oltre l’orizzonte del piano concordatario, come loro ben ci spiegano, che di norma è qualcosa di più del TV tecnico, atteso il limitato periodo dei piani concordatari.
Se è un valore unitario, e se esso è composto - nella scissione che il legislatore ha previsto ai fini della sua distribuzione - dal Valore di liquidazione, dal plusvalore della continuità nell’arco di piano, e dal TV successivo - così condivisibilmente affermano i due autori - è evidente che qualsiasi piano di concordato in continuità diretta incorpori sempre, e forzatamente, un valore riservato ai soci.
Più breve sarà l’arco di piano e maggiore sarà tale valore.
Così spiega un recentissimo arresto del tribunale di Milano, qui pubblicato, dove si afferma che di tale valore si debbano notiziare i creditori ai fini di un voto consapevolmente informato.
Non vado oltre, restando a a questa superficie, nel senso che non mi avventuro nei calcoli troppo complessi per un uomo di sintesi come sono, delle condizioni di omologabilità in caso di opposizione.
Quanto ci hanno spiegato il prof. Bini e il collega Peracin, riguardo alla previsione del 120 quater di un valore riservato ai soci, ha una sua logica economica, poichè l’EV post omologazione è frutto del sacrificio delle ragione dei creditori, il valore riservato ai quali non può essere limitato al solo plusvalore di piano così da privare di legittimità qualsiasi dissenso.
L’errore in cui, a mio sommesso parere, siete incorsi è generato dall’aver confuso la possibilità per il debitore di tenere per se una parte dell’EV, con l’omologabilità di un tal piano in caso di opposizioni.
La possibilità è nella legge, ed è assoluta se nessuno si oppone all’omologazione, o trova quei limiti distributivi complessi e astrusi, in caso di opposizione.
Non c’è nessun ostracismo interno alla continuità diretta, come avete al contrario denunciato, se ne perimetra solo le condizioni, poiché essa, come ho cercato di spiegare incorpora sempre una quota di valore per il debitore.
Se, dunque, tutto torna nella ricostruzione proposta dal prof. Bini e dal collega Peracin è la definizione contenuta dall’art. 87 del Valore di liquidazione che, come più volte ho cercato, inascoltato, di spiegare, fa “saltare il banco”.
Se il Valore di liquidazione, infatti, è, non solo il valore della liquidazione dei beni che compongono l’impresa, bensì anche il suo EV (anzi un valore maggiore giacché deve incorporare anche il valore delle azioni revocatorie non esperibili nel concordato) , risulta evidente che nessuna quota di questo potrà essere riservata ai soci, dato che il Valore di liquidazione andrebbe ripartito integralmente ai creditori secondo le regole dell’APR.
Il tema allora si sposta dal mondo delle scienze economiche del contributo dottrinario da cui siamo partiti al più etereo mondo delle realtà probabilistiche controfattuali, governate da valutazioni largamente soggettive, come la realizzabilità dell’esercizio provvisorio nella LG, che, a parte i casi di nuovi apporti di equity nel concordato, non si può escludere in assoluto, se non sulla base di valutazioni puramente soggettive, quando non interessate.
Il caso della continuità indiretta è ancora più eclatante, giacché l’interesse del terzo all’acquisto dell’azienda è neutro rispetto all’ambito in cui dovrà avvenire che deve solo garantire un acquisto esdebitato e la LG lo garantisce al pari del concordato.
Per altro, se esiste un EV solo in conseguenza del sacrificio dei creditori la continuità è perseguibile indipendentemente dalla cornice giuridica in cui si svolge.
Differentemente il legislatore non avrebbe incoraggiato già a partire dal lontano 2006 l’esercizio provvisorio.
Certo, calcolare l’EV di un’impresa in crisi, che deve effettuare un turnaround, è esercizio complesso, così come la determinazione della quota riservabile ai soci che non dia luogo a un’opposizione fondata è un esercizio di alta ingegneria, ma qualsiasi sforzo del migliore degli ingegneri s’infrange difronte alla definizione di “Valore di liquidazione” contenuta all’art. 87, per cui l’EV va destinato tutto ai creditori e secondo le regole dell’APR, salvo discettare degli eterei scenari controfattuali.
7 Dicembre 2025 9:54
come scrivete voi avvocati, a me pare abbiate fatto mal governo degli insegnamenti contenuti nello scritto del prof. Bini e del collega Peracin, che si sono a lungo diffusi sul concetto di enterprise value e sulla sua misurazione - difficoltà di sua misurazione - nella contingenza della crisi.
Il valore, pur aleatorio, di un’impresa in crisi all’esito del concordato, ci hanno spiegato i due illustri autori, è un valore unitario che non può non ricomprendere anche il Terminal Value, meglio, preciserei, il valore oltre l’orizzonte del piano concordatario, come loro ben ci spiegano, che di norma è qualcosa di più del TV tecnico, atteso il limitato periodo dei piani concordatari.
Se è un valore unitario, e se esso è composto - nella scissione che il legislatore ha previsto ai fini della sua distribuzione - dal Valore di liquidazione, dal plusvalore della continuità nell’arco di piano, e dal TV successivo - così condivisibilmente affermano i due autori - è evidente che qualsiasi piano di concordato in continuità diretta incorpori sempre, e forzatamente, un valore riservato ai soci.
Più breve sarà l’arco di piano e maggiore sarà tale valore.
Così spiega un recentissimo arresto del tribunale di Milano, qui pubblicato, dove si afferma che di tale valore si debbano notiziare i creditori ai fini di un voto consapevolmente informato.
Non vado oltre, restando a a questa superficie, nel senso che non mi avventuro nei calcoli troppo complessi per un uomo di sintesi come sono, delle condizioni di omologabilità in caso di opposizione.
Quanto ci hanno spiegato il prof. Bini e il collega Peracin, riguardo alla previsione del 120 quater di un valore riservato ai soci, ha una sua logica economica, poichè l’EV post omologazione è frutto del sacrificio delle ragione dei creditori, il valore riservato ai quali non può essere limitato al solo plusvalore di piano così da privare di legittimità qualsiasi dissenso.
L’errore in cui, a mio sommesso parere, siete incorsi è generato dall’aver confuso la possibilità per il debitore di tenere per se una parte dell’EV, con l’omologabilità di un tal piano in caso di opposizioni.
La possibilità è nella legge, ed è assoluta se nessuno si oppone all’omologazione, o trova quei limiti distributivi complessi e astrusi, in caso di opposizione.
Non c’è nessun ostracismo interno alla continuità diretta, come avete al contrario denunciato, se ne perimetra solo le condizioni, poiché essa, come ho cercato di spiegare incorpora sempre una quota di valore per il debitore.
Se, dunque, tutto torna nella ricostruzione proposta dal prof. Bini e dal collega Peracin è la definizione contenuta dall’art. 87 del Valore di liquidazione che, come più volte ho cercato, inascoltato, di spiegare, fa “saltare il banco”.
Se il Valore di liquidazione, infatti, è, non solo il valore della liquidazione dei beni che compongono l’impresa, bensì anche il suo EV (anzi un valore maggiore giacché deve incorporare anche il valore delle azioni revocatorie non esperibili nel concordato) , risulta evidente che nessuna quota di questo potrà essere riservata ai soci, dato che il Valore di liquidazione andrebbe ripartito integralmente ai creditori secondo le regole dell’APR.
Il tema allora si sposta dal mondo delle scienze economiche del contributo dottrinario da cui siamo partiti al più etereo mondo delle realtà probabilistiche controfattuali, governate da valutazioni largamente soggettive, come la realizzabilità dell’esercizio provvisorio nella LG, che, a parte i casi di nuovi apporti di equity nel concordato, non si può escludere in assoluto, se non sulla base di valutazioni puramente soggettive, quando non interessate.
Il caso della continuità indiretta è ancora più eclatante, giacché l’interesse del terzo all’acquisto dell’azienda è neutro rispetto all’ambito in cui dovrà avvenire che deve solo garantire un acquisto esdebitato e la LG lo garantisce al pari del concordato.
Per altro, se esiste un EV solo in conseguenza del sacrificio dei creditori la continuità è perseguibile indipendentemente dalla cornice giuridica in cui si svolge.
Differentemente il legislatore non avrebbe incoraggiato già a partire dal lontano 2006 l’esercizio provvisorio.
Certo, calcolare l’EV di un’impresa in crisi, che deve effettuare un turnaround, è esercizio complesso, così come la determinazione della quota riservabile ai soci che non dia luogo a un’opposizione fondata è un esercizio di alta ingegneria, ma qualsiasi sforzo del migliore degli ingegneri s’infrange difronte alla definizione di “Valore di liquidazione” contenuta all’art. 87, per cui l’EV va destinato tutto ai creditori e secondo le regole dell’APR, salvo discettare degli eterei scenari controfattuali.
la nostra riflessione (che in realtà ricalca obiettivamente più i caratteri della provocazione) è stata probabilmente malintesa, visto il disallineamento diacronico delle tue conseguenti considerazioni.
Il contributo citato, lungi dal voler essere interpretato, ha, innanzitutto, fornito uno spunto che poi è l’oggetto del blog: non può esistere un valore riservato ai soci post ristrutturazione se nell’alternativo e comparativo valore di liquidazione (a cui, sempre in termini comparativi, dovremmo sommare addirittura anche l’eccedenza), c’è già compresa ogni voce di attivo. In caso di diniego di omologa, l’alternativa sarebbe sempre la Liquidazione Giudiziale ove non ci sarebbe spazio né per l’eccedenza né per il terminal value: e allora a che serve far implodere un processo di ristrutturazione, persino in caso di limitato dissenso ad una sola classe, se poi tutti gli altri creditori (aderenti) si vedono costretti a soddisfare le loro pretese sul solo valore di liquidazione?
7 Dicembre 2025 16:24
la nostra riflessione (che in realtà ricalca obiettivamente più i caratteri della provocazione) è stata probabilmente malintesa, visto il disallineamento diacronico delle tue conseguenti considerazioni.
Il contributo citato, lungi dal voler essere interpretato, ha, innanzitutto, fornito uno spunto che poi è l’oggetto del blog: non può esistere un valore riservato ai soci post ristrutturazione se nell’alternativo e comparativo valore di liquidazione (a cui, sempre in termini comparativi, dovremmo sommare addirittura anche l’eccedenza), c’è già compresa ogni voce di attivo. In caso di diniego di omologa, l’alternativa sarebbe sempre la Liquidazione Giudiziale ove non ci sarebbe spazio né per l’eccedenza né per il terminal value: e allora a che serve far implodere un processo di ristrutturazione, persino in caso di limitato dissenso ad una sola classe, se poi tutti gli altri creditori (aderenti) si vedono costretti a soddisfare le loro pretese sul solo valore di liquidazione?
Le norme non le ho scritte io e con quelle bisogna fare i conti.
Su un punto il legislatore non ha sbagliato, quando ha deciso che si dovesse affrontare il tema del valore riservato ai soci nel concordato in continuità, dato che è una probabilità, più che una possibilità, che quel tipo di concordato lo incorpori.
Sotto questo profilo il contributo Bini-Peracin è illuminante: l’EV post ristrutturazione ne è il metro e nell’EV va ricompreso anche il TV, inteso come valore oltre l’orizzonte di piano. Questo ci dice la scienza dell’economia e come tale lo devi dare per postulato.
Se, dunque, assegni ai creditori solo il valore dell’arco di piano, per forza esiste un valore riservato ai soci.
Ma vorrei che ti soffermassi un momento prima e ragionassi sul fatto che se esiste un EV post ristrutturazione, per quanto aleatorio, questo può essere d’interesse del mercato. Non è un valore posticcio, per quanto aleatorio.
A questo punto sovvengono altre regole del CCII ad obbligare la regolamentazione della distribuzione di quello che per comodità chiameremo atecnicamente TV.
L’impresa non è liberamente contendibile, neppure con una proposta concorrente, se il concordato assicura una soddisfazione (attualizzata) dei creditori al 30%.
Ed allora, se per arrivare al 30% di soddisfo non devo intaccare tutto il TV, ovvio che sto riservando una quota di EV ai soci. Ed essendo la proposta blindata essa è vincolante per i creditori.
È altrettanto ovvio, quindi, che qualche creditore potrebbe legittimamente dolersene.
E qui sopraggiungono altre regole al nostro crocevia. Prima quella della non deteriorità della proposta rispetto all’alternativa della LG, che tu giustamente declini “rispetto al paradigma del Valore di liquidazione”.
E avresti perfettamente ragione se il legislatore avesse voluto riferirsi al valore di liquidazione dei beni disaggregati che compendiano l’impresa, arricchito dal valore delle azioni di massa.
In tal caso il confronto avrebbe avuto un senso, giacche avrebbe investito due aggregati diversi: da un lato l’EV (valore azienda in funzionamento) e dall’altro il VL con le sue addizioni giudiziarie.
Senonché il legislatore ha avuto l’ingegnosa idea di codificare che il valore di liquidazione può essere anche quello dell’impresa in funzionamento, ossia l’EV.
Una volta codificata l’equiparazione non si può sostenere che post ristrutturazione (che vuol dire post sacrificio dei creditori) il medesimo valore non sarebbe realizzabile nella LG. A quel punto l’impresa “girerebbe come un orologio”.
In ogni caso, come sostenevo ieri, anche a volerlo negare, si scivola nel pendio inclinato e sdrucciolevole degli scenari controfattuali, dove si può sostenere tutto e il contrario di tutto.
Ed è la strada che ha scelto, quella di evitare contenziosi basati su temi di controfattualità, il legislatore, spostando la regolazione degli interessi contrapposti sul fronte delle griglie distributive.
Griglie che, teniamo ben a mente, possono essere violate se, poi, nessuna classe dissente.
Dunque, non c’è nessun effetto negativo automatico sulla organizzazione della proposta in continuità diretta con una libera distribuzione del TV anche ai soci, tanto che la proposta è approvata se la classe dei dissenzienti riceve più di quanto riservato ai soci.
Il che ci porta a concludere che ai soci qualcosa del TV può restare comunque anche in presenza di dissensi.
Il concordato preventivo come opera di ingegneria giuridico- contabile, dunque.
Ultime chiose finali, per non tediarti troppo: (i) più ambizioso e ottimistico sarà il piano più alto sarà il TV, ossia il valore riservato ai soci; (ii) più lunghi saranno i piani meno TV sarà riservato ai soci.
Insomma c’è ancora ampio spazio per arbitrare.
8 Dicembre 2025 8:32
Le norme non le ho scritte io e con quelle bisogna fare i conti.
Su un punto il legislatore non ha sbagliato, quando ha deciso che si dovesse affrontare il tema del valore riservato ai soci nel concordato in continuità, dato che è una probabilità, più che una possibilità, che quel tipo di concordato lo incorpori.
Sotto questo profilo il contributo Bini-Peracin è illuminante: l’EV post ristrutturazione ne è il metro e nell’EV va ricompreso anche il TV, inteso come valore oltre l’orizzonte di piano. Questo ci dice la scienza dell’economia e come tale lo devi dare per postulato.
Se, dunque, assegni ai creditori solo il valore dell’arco di piano, per forza esiste un valore riservato ai soci.
Ma vorrei che ti soffermassi un momento prima e ragionassi sul fatto che se esiste un EV post ristrutturazione, per quanto aleatorio, questo può essere d’interesse del mercato. Non è un valore posticcio, per quanto aleatorio.
A questo punto sovvengono altre regole del CCII ad obbligare la regolamentazione della distribuzione di quello che per comodità chiameremo atecnicamente TV.
L’impresa non è liberamente contendibile, neppure con una proposta concorrente, se il concordato assicura una soddisfazione (attualizzata) dei creditori al 30%.
Ed allora, se per arrivare al 30% di soddisfo non devo intaccare tutto il TV, ovvio che sto riservando una quota di EV ai soci. Ed essendo la proposta blindata essa è vincolante per i creditori.
È altrettanto ovvio, quindi, che qualche creditore potrebbe legittimamente dolersene.
E qui sopraggiungono altre regole al nostro crocevia. Prima quella della non deteriorità della proposta rispetto all’alternativa della LG, che tu giustamente declini “rispetto al paradigma del Valore di liquidazione”.
E avresti perfettamente ragione se il legislatore avesse voluto riferirsi al valore di liquidazione dei beni disaggregati che compendiano l’impresa, arricchito dal valore delle azioni di massa.
In tal caso il confronto avrebbe avuto un senso, giacche avrebbe investito due aggregati diversi: da un lato l’EV (valore azienda in funzionamento) e dall’altro il VL con le sue addizioni giudiziarie.
Senonché il legislatore ha avuto l’ingegnosa idea di codificare che il valore di liquidazione può essere anche quello dell’impresa in funzionamento, ossia l’EV.
Una volta codificata l’equiparazione non si può sostenere che post ristrutturazione (che vuol dire post sacrificio dei creditori) il medesimo valore non sarebbe realizzabile nella LG. A quel punto l’impresa “girerebbe come un orologio”.
In ogni caso, come sostenevo ieri, anche a volerlo negare, si scivola nel pendio inclinato e sdrucciolevole degli scenari controfattuali, dove si può sostenere tutto e il contrario di tutto.
Ed è la strada che ha scelto, quella di evitare contenziosi basati su temi di controfattualità, il legislatore, spostando la regolazione degli interessi contrapposti sul fronte delle griglie distributive.
Griglie che, teniamo ben a mente, possono essere violate se, poi, nessuna classe dissente.
Dunque, non c’è nessun effetto negativo automatico sulla organizzazione della proposta in continuità diretta con una libera distribuzione del TV anche ai soci, tanto che la proposta è approvata se la classe dei dissenzienti riceve più di quanto riservato ai soci.
Il che ci porta a concludere che ai soci qualcosa del TV può restare comunque anche in presenza di dissensi.
Il concordato preventivo come opera di ingegneria giuridico- contabile, dunque.
Ultime chiose finali, per non tediarti troppo: (i) più ambizioso e ottimistico sarà il piano più alto sarà il TV, ossia il valore riservato ai soci; (ii) più lunghi saranno i piani meno TV sarà riservato ai soci.
Insomma c’è ancora ampio spazio per arbitrare.
8 Dicembre 2025 18:01
Certo che esiste, ma, ahi noi, è il valore dell’impresa in funzionamento, così hanno voluto gli estensori dell’ultimo correttivo, che mi dicono essere il secondo e non il terzo.
Le mie critiche - la vendita dell’impresa in funzionamento è una modalità di liquidazione della società, mentre la liquidazione dell’impresa è la vendita dei suoi beni disgregati e separati - … critiche da “contabile”, si disse. Già un passo avanti rispetto a critiche da “partita iva”.
Il problema di cui ti lamenti risiede tutto in quella scelta e, ovviamente, anche nell’uso di un linguaggio tecnico inappropriato: valore effettivo che tale non è nella conoscenza aziendalistica.
Non essendo, però, quello del 120 quater l’unico inciampo con cui siamo costretti a confrontarci, la soluzione non può che risiedere in un nuovo codice.
Intanto, nelle prossime domande, come ha affermato - condivisibilmente allo stato della norma - trib. Milano dovrai (pure io, s’intende) sempre indicare il valore riservato ai soci e calibrare in conseguenza le distribuzioni e le classi, per prevenire le opposizioni erariali.
Buona fortuna a entrambi.
14 Dicembre 2025 14:04
Il punto, però, è un altro: come si applicano queste norme nelle procedure vere, quando devi far sedere banche, erario, dipendenti, soci e tribunale attorno allo stesso tavolo e costruire una soluzione che stia in piedi?
E con essa, il 70–80% delle imprese che potrebbero salvarsi.
- Il nodo centrale: art. 87 vc art. 120-quater
che senso ha ipotizzare un valore ulteriore, “post omologa”, da togliere ai soci?
come può un valore che dipende dalla ristrutturazione essere “comparato” con un valore di liquidazione che, per definizione, prescinde dalla ristrutturazione stessa?
> E se ogni piano di continuità incorpora fisiologicamente un valore futuro, ogni piano diventa potenzialmente non omologabile.
Il suo suggerimento è pragmatico:
se l’art. 87 equipara il valore di liquidazione al valore d’azienda in funzionamento, allora:
> nessuno spazio effettivo per i soci.
> il 120-quater diventa quasi un miraggio regolatorio.
Nella pratica, rischia di sterilizzare la continuità diretta, che – ricordo – è il centro della Direttiva Insolvency.
non possiamo leggere il 120-quater come una clava che colpisce qualsiasi piano con un minimo valore residuo ai soci.
Se questo “di più” deve sempre andare ai creditori, nessuna impresa presenterà mai un piano in continuità.
- azienda risanata,
- azienda liquidata,
- azienda disgregata.
- corretto valore di liquidazione, non artificiosamente “gonfiato”;
- miglior soddisfacimento complessivo dei creditori;
- assenza di pregiudizi distorsivi a carico delle classi dissenzienti.
- rispetta la Direttiva Insolvency,
- rende praticabile il concordato in continuità,
- dà un ruolo reale – non simbolico – all’art. 120-quater.
l’interpretazione funzionale, che salva la procedura, tutela i creditori e consente ai soci di non essere giuridicamente annientati quando contribuiscono al risanamento.
20 Dicembre 2025 12:33
Il punto, però, è un altro: come si applicano queste norme nelle procedure vere, quando devi far sedere banche, erario, dipendenti, soci e tribunale attorno allo stesso tavolo e costruire una soluzione che stia in piedi?
E con essa, il 70–80% delle imprese che potrebbero salvarsi.
- Il nodo centrale: art. 87 vc art. 120-quater
che senso ha ipotizzare un valore ulteriore, “post omologa”, da togliere ai soci?
come può un valore che dipende dalla ristrutturazione essere “comparato” con un valore di liquidazione che, per definizione, prescinde dalla ristrutturazione stessa?
> E se ogni piano di continuità incorpora fisiologicamente un valore futuro, ogni piano diventa potenzialmente non omologabile.
Il suo suggerimento è pragmatico:
se l’art. 87 equipara il valore di liquidazione al valore d’azienda in funzionamento, allora:
> nessuno spazio effettivo per i soci.
> il 120-quater diventa quasi un miraggio regolatorio.
Nella pratica, rischia di sterilizzare la continuità diretta, che – ricordo – è il centro della Direttiva Insolvency.
non possiamo leggere il 120-quater come una clava che colpisce qualsiasi piano con un minimo valore residuo ai soci.
Se questo “di più” deve sempre andare ai creditori, nessuna impresa presenterà mai un piano in continuità.
- azienda risanata,
- azienda liquidata,
- azienda disgregata.
- corretto valore di liquidazione, non artificiosamente “gonfiato”;
- miglior soddisfacimento complessivo dei creditori;
- assenza di pregiudizi distorsivi a carico delle classi dissenzienti.
- rispetta la Direttiva Insolvency,
- rende praticabile il concordato in continuità,
- dà un ruolo reale – non simbolico – all’art. 120-quater.
l’interpretazione funzionale, che salva la procedura, tutela i creditori e consente ai soci di non essere giuridicamente annientati quando contribuiscono al risanamento.
Lei afferma incredulo che: “il legislatore non può aver codificato un istituto impraticabile”.
Si tratta di un postulato facilmente controvertibile, dunque un “non postulato”: il legislatore non è Dio e, dunque, non essendo tale, non è infallibile.
Detto ciò, come lei ha ben sottolineato, sintetizzando la mia radicalità - è vero non mi piacciono gli arabeschi, se non in architettura, ma con moderazione anche lì -, il primo ostacolo sta nell’aver equiparato il valore di liquidazione dell’impresa al valore di liquidazione della società.
Tanto è: lo imponeva la lotta all’abuso del diritto!!
Sta di fatto che ci si è ingessati, l’istituto stesso dell’RPR (la chiave dell’abuso?) è divenuto inapplicabile e chi lo applica lo fa praeter legem, e, prima o poi, il nodo arriverà al pettine della “legittimità”.
Eppure alla Commissione Senato avevano tentato di spiegarglielo, al legislatore ( a proposito del fatto che le leggi le fa il parlamento!), ma questi rimase fermo nelle sue pervicaci convinzioni (bias?)
Per il valore da riservare ai soci - avendo prima eliminato l’ostacolo del valore di liquidazione = valore dell’impresa in funzionamento - se il legislatore fosse stato Dio, infallibile, onniscente e onnivedente - avrebbe semplicemente gettato lo sguardo oltre oceano accorgendosi di ciò che lui aveva già congegnato da tempo e che funzionava a meraviglia:
(§ 1129 del Bankrupcy Code) che afferma che i soci possano restare in socetà con il consenso di tutte le classi, anche se i creditori vengono sacrificati, mentre, se anche una sola classe dissente, la distribuzione del valore opera secondo la regola della priorità assoluta. In presenza di dissenso i soci possono mantenere la propria partecipazione solo a fronte di un apporto di valore corrispondente.
Semplice e lineare, ma, forse, troppo calvinista per la nostra mentalità sempre propensa al compromesso.
20 Dicembre 2025 21:34
Lei afferma incredulo che: “il legislatore non può aver codificato un istituto impraticabile”.
Si tratta di un postulato facilmente controvertibile, dunque un “non postulato”: il legislatore non è Dio e, dunque, non essendo tale, non è infallibile.
Detto ciò, come lei ha ben sottolineato, sintetizzando la mia radicalità - è vero non mi piacciono gli arabeschi, se non in architettura, ma con moderazione anche lì -, il primo ostacolo sta nell’aver equiparato il valore di liquidazione dell’impresa al valore di liquidazione della società.
Tanto è: lo imponeva la lotta all’abuso del diritto!!
Sta di fatto che ci si è ingessati, l’istituto stesso dell’RPR (la chiave dell’abuso?) è divenuto inapplicabile e chi lo applica lo fa praeter legem, e, prima o poi, il nodo arriverà al pettine della “legittimità”.
Eppure alla Commissione Senato avevano tentato di spiegarglielo, al legislatore ( a proposito del fatto che le leggi le fa il parlamento!), ma questi rimase fermo nelle sue pervicaci convinzioni (bias?)
Per il valore da riservare ai soci - avendo prima eliminato l’ostacolo del valore di liquidazione = valore dell’impresa in funzionamento - se il legislatore fosse stato Dio, infallibile, onniscente e onnivedente - avrebbe semplicemente gettato lo sguardo oltre oceano accorgendosi di ciò che lui aveva già congegnato da tempo e che funzionava a meraviglia:
(§ 1129 del Bankrupcy Code) che afferma che i soci possano restare in socetà con il consenso di tutte le classi, anche se i creditori vengono sacrificati, mentre, se anche una sola classe dissente, la distribuzione del valore opera secondo la regola della priorità assoluta. In presenza di dissenso i soci possono mantenere la propria partecipazione solo a fronte di un apporto di valore corrispondente.
Semplice e lineare, ma, forse, troppo calvinista per la nostra mentalità sempre propensa al compromesso.
la ringrazio per il nuovo e articolato contributo, che aggiunge ulteriori elementi di riflessione sul tema, soprattutto in merito al rapporto – mai semplice – tra tecnica legislativa, lotta all’abuso del diritto e funzionamento reale degli istituti.
• distruzione di valore,
• perdita di posti di lavoro,
• incremento delle insolvenze,
• riduzione del gettito futuro,
• liquidazioni che non soddisfano nessuno, men che meno lo Stato.
Implica però riconoscere che vi sono numerose imprese – e lo riscontriamo quotidianamente sul campo – che, pur avendo accumulato debito fiscale e previdenziale, continuano a generare EBITDA positivo, lavoro, indotto e valore.
In questi casi, una logica esclusivamente afflittiva-punitiva rischia di penalizzare non l’imprenditore “furbo”, ma lo stesso sistema Paese.
• la sua radicalità ha il merito della coerenza;
• ma il nostro sistema produttivo richiede anche strumenti di cura, non solo di selezione;
• e la continuità – quando reale e misurabile – è un asset pubblico prima ancora che privato.
Avv. Aurelio Bentivegna