
Luigi Bottai, Avvocato in Roma
I VERI INTERESSI TUTELATI NELL’ATTUALE CONCORDATO IN CONTINUITÀ : TRASPARE UNA REVISIONE DI FONDO DELLE PRIORITÀ
10 Marzo 2024
E sulla interpretazione già a livello unionale di questa “vera e propria clausola generale” della sostenibilità economica dell’impresa si legga S. Leuzzi, Il giudizio di omologazione del concordato preventivo: oggetto, regole, controlli, in questa Rivista, 9.10.2023 [che ha ricordato come le “norme codicistiche vanno, del resto, interpretate alla luce del diritto unionale e l’art. 10, comma 3, della Direttiva 1023/2019 (cd. Insolvency) pretende appunto che il piano non sia privo della prospettiva ragionevole di garantire la sostenibilità economica dell'impresa. Il concetto è menzionato in altre disposizioni del testo eurounitario, a cominciare dall’art. 1, lett. a), che lega teleologicamente i quadri di ristrutturazione preventiva all’obiettivo di impedire l'insolvenza e di assicurare la viability” (…)].
14 Marzo 2024 12:38
17 Marzo 2024 22:20
L’aggregazione delle preferenze individuali, secondo Pareto, è possibile se:
- (i) un insieme di individui migliora la propria soddisfazione passando dalla situazione a a quella b, se tutti gli individui sono più soddisfatti in b che in a;
L’art. 84 del CCII, al primo comma, introduce però un elemento d’invarianza tra a e b: l’insieme dei creditori deve essere soddisfatto dal concordato in misura non inferiore a quella realizzabile con la liquidazione giudiziale, mettendo in discussione l’essenza stessa della scelta che essi sono chiamati a fare.
Se, infatti, non c’è differenza tra a e b, nessuno starebbe peggio in b, ma neppure un creditore starebbe meglio in b che in a.
Se passiamo alle regole di approvazione/omologazione del concordato in continuità aziendale, ci imbattiamo, poi, nell’enigmatica lett. d) del secondo comma dell’art. 112, interpretata dai più nel senso che il concordato (il “b” paretiano) può essere omologato se anche un solo creditore che sta peggio in b rispetto a c - intendendosi per c la soluzione della distribuzione del valore eccedente di liquidazione rispettando le cause legittime di prelazione - lo approva.
In sostanza, dato che si suppone a = b, l’insieme dei creditori cui è imposta la soluzione b da un creditore che starebbe meglio in c non subisce alcun danno, giacché si presuppone che per l’insieme degli altri creditori b > c o quanto meno per alcuni b = c.
A ben vedere, però, tornando all’art. 84 - al sesto comma - ci accorgiamo che non è affatto vero, nel concordato in continuità aziendale, a = b, e ciò almeno nei casi in cui non si possa realizzare la liquidazione dell’impresa in funzionamento anche nella LG.
Se il concordato in continuità aziendale distribuisce ai creditori più del valore di liquidazione avremmo sempre b > a, ragione per cui almeno la maggioranza dei creditori, se non tutti, dovrebbero preferire b ad a.
Invece il legislatore ha previsto che l’insieme dei creditori - meglio la maggioranza di essi - nonostante b > a, possa preferire a a b, cioè possa comportarsi in modo antieconomico. Il legislatore così ha abbandonato il postulato e modello fondamentale dell’economia classica che presuppone che l’homo oeconomicus sia totalmente razionale e prenda le proprie decisioni in funzione del suo miglior interesse personale, introducendo, non so quanto consciamente, elementi delle teorie della scelta sociale (Arrow, Senn etc.), privi, però, di quella complessità matematica che li contraddistingue.
Lasciando in disparte i temi legati alle modalità di determinazione delle maggioranze, che scontano la perversa contaminazione dell’astensione = diniego, concentriamo l’attenzione sulle probabilità di successo di un piano di risanamento che abbia incontrato il favore di una sola classe di creditori, magari composta da un solo creditore, e che sia omologato in dispregio della volontà della maggioranza, sulla base del solo presupposto che esso “non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza”.
Si dovrebbe, quindi, presupporre, che il risanamento sia possibile anche senza la collaborazione dei creditori - la maggioranza - che avessero votato contro, con una conseguente necessità di sostituire nell’immediatezza la gran parte dei fornitori di beni, servizi e denaro.
Ma se così potesse essere, come non è in natura, il giudizio di fattibilità di quel piano dovrebbe presupporre anche la valutazione a monte di un simile scenario determinato dall’omologazione di un concordato contro la volontà dei creditori (della maggioranza). Gli è, però, che tale scenario si concretizza a valle dell’attestazione, sicché la stessa non potrà mai averlo presupposto, col che si giunge all’assurdo di legittimare l’omologazione in assenza di attestazione.
Il tema sollevato, può essere condensato tutto in un quesito: “quando la gran parte dei creditori vota contro il concordato si può affermare che il piano continui a non essere privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza, come lo era quando se ne presupponeva l’approvazione almeno a maggioranza ?”
29 Marzo 2024 0:22
L’aggregazione delle preferenze individuali, secondo Pareto, è possibile se:
- (i) un insieme di individui migliora la propria soddisfazione passando dalla situazione a a quella b, se tutti gli individui sono più soddisfatti in b che in a;
L’art. 84 del CCII, al primo comma, introduce però un elemento d’invarianza tra a e b: l’insieme dei creditori deve essere soddisfatto dal concordato in misura non inferiore a quella realizzabile con la liquidazione giudiziale, mettendo in discussione l’essenza stessa della scelta che essi sono chiamati a fare.
Se, infatti, non c’è differenza tra a e b, nessuno starebbe peggio in b, ma neppure un creditore starebbe meglio in b che in a.
Se passiamo alle regole di approvazione/omologazione del concordato in continuità aziendale, ci imbattiamo, poi, nell’enigmatica lett. d) del secondo comma dell’art. 112, interpretata dai più nel senso che il concordato (il “b” paretiano) può essere omologato se anche un solo creditore che sta peggio in b rispetto a c - intendendosi per c la soluzione della distribuzione del valore eccedente di liquidazione rispettando le cause legittime di prelazione - lo approva.
In sostanza, dato che si suppone a = b, l’insieme dei creditori cui è imposta la soluzione b da un creditore che starebbe meglio in c non subisce alcun danno, giacché si presuppone che per l’insieme degli altri creditori b > c o quanto meno per alcuni b = c.
A ben vedere, però, tornando all’art. 84 - al sesto comma - ci accorgiamo che non è affatto vero, nel concordato in continuità aziendale, a = b, e ciò almeno nei casi in cui non si possa realizzare la liquidazione dell’impresa in funzionamento anche nella LG.
Se il concordato in continuità aziendale distribuisce ai creditori più del valore di liquidazione avremmo sempre b > a, ragione per cui almeno la maggioranza dei creditori, se non tutti, dovrebbero preferire b ad a.
Invece il legislatore ha previsto che l’insieme dei creditori - meglio la maggioranza di essi - nonostante b > a, possa preferire a a b, cioè possa comportarsi in modo antieconomico. Il legislatore così ha abbandonato il postulato e modello fondamentale dell’economia classica che presuppone che l’homo oeconomicus sia totalmente razionale e prenda le proprie decisioni in funzione del suo miglior interesse personale, introducendo, non so quanto consciamente, elementi delle teorie della scelta sociale (Arrow, Senn etc.), privi, però, di quella complessità matematica che li contraddistingue.
Lasciando in disparte i temi legati alle modalità di determinazione delle maggioranze, che scontano la perversa contaminazione dell’astensione = diniego, concentriamo l’attenzione sulle probabilità di successo di un piano di risanamento che abbia incontrato il favore di una sola classe di creditori, magari composta da un solo creditore, e che sia omologato in dispregio della volontà della maggioranza, sulla base del solo presupposto che esso “non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza”.
Si dovrebbe, quindi, presupporre, che il risanamento sia possibile anche senza la collaborazione dei creditori - la maggioranza - che avessero votato contro, con una conseguente necessità di sostituire nell’immediatezza la gran parte dei fornitori di beni, servizi e denaro.
Ma se così potesse essere, come non è in natura, il giudizio di fattibilità di quel piano dovrebbe presupporre anche la valutazione a monte di un simile scenario determinato dall’omologazione di un concordato contro la volontà dei creditori (della maggioranza). Gli è, però, che tale scenario si concretizza a valle dell’attestazione, sicché la stessa non potrà mai averlo presupposto, col che si giunge all’assurdo di legittimare l’omologazione in assenza di attestazione.
Il tema sollevato, può essere condensato tutto in un quesito: “quando la gran parte dei creditori vota contro il concordato si può affermare che il piano continui a non essere privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza, come lo era quando se ne presupponeva l’approvazione almeno a maggioranza ?”
Ma allora si giunge al punto "politico": viene alla luce l'ambivalenza tipica del diritto con le frequenti ambiguità che ne accompagnano l'applicazione.
Il diritto, attraverso le classificazioni e le gerarchie che esprime, riproduce le relazioni di potere esistenti.
Nel nostro caso è in atto una redistribuzione di tali poteri in favore degli stakeholders?
30 Marzo 2024 19:06
Ma allora si giunge al punto "politico": viene alla luce l'ambivalenza tipica del diritto con le frequenti ambiguità che ne accompagnano l'applicazione.
Il diritto, attraverso le classificazioni e le gerarchie che esprime, riproduce le relazioni di potere esistenti.
Nel nostro caso è in atto una redistribuzione di tali poteri in favore degli stakeholders?
Il diritto non può essere ambivalente per postulato.
Il precetto astratto di legge dovrebbe essere valido in ogni occasione, ciò in relazione alla necessità di consentirgli di operare in un perimetro vasto.
La questione che ho sollevato in altra sede, è che nel momento in cui, invece, un codice si trasforma in circolare operativa, il diritto si riduce a tecnica; si riduce a mero strumento, perdendo qualsiasi connotazione esistenziale.
Il suo “sapere” diviene “prassi”.
Si genera così un fenomeno recessivo dove la negazione del “senso” si accompagna al primato della “funzione” e ogni anelito di giustizia, che dovrebbe stare alla base di qualsiasi atto giuridico, evapora sino a scomparire.
Dunque, continuando il percorso di analisi che parte da questa amara constatazione, non può affatto affermarsi che ci sia stata una redistribuzione dei poteri in favore degli stakeholder, perché non è questo il “senso” che si ricava dal codice nel suo complesso.
Non esiste neppure un termine all’interno del CCII che possa evocare una sì vasta prateria, all’interno della quale occorre ricordare pascolano anche i creditor e i supplier, per continuare con gli [odiati] anglicismi.
Osservo che tanto si può parlare di potere, quanto a tale potere corrisponda la possibilità di determinare le sorti del concordato e gli stakeholder, creditori a parte, non hanno legittimazione alcuna a “parlare” nel concordato. Neppure ai lavoratori e alle loro organizzazioni è concesso di partecipare attivamente alla ristrutturazione, nonostante la Direttiva lo consentisse.
Le regole di cui si discute sono semplici regole di “omologabilità” che espropriano i creditori di qualsiasi potere in favore del debitore, cui è demandata la decisione se ricorrere o meno all’approvazione trasversale del suo concordato, sulla base di prospettive soggettive non condivise dalla maggioranza dei creditori.
Gli stakeholder subiscono anch’essi e degli eventuali danni successivi nessuno risponde.
Come ho sostenuto nel mio primo intervento ci troviamo al cospetto di una norma che, superando in un balzo il brocardo id quod plerumque accidit , fa coesistere “la ragionevole idoneità del piano a superare l’insolvenza” con il voto contrario della stragrande maggioranza dei creditori, degradati a “femminucce capricciose”.
L’amministrazione statale vi è addirittura dipinta come ignava nonostante l’art. 97 Cost. non lo consenta per postulato.
Ecco, se si vuole, come ha sostenuto autorevole dottrina, i creditori nel CCII sono solo un accidente del processo di ristrutturazione. Ci sono perché altrimenti non ci sarebbe l’insolvenza, ma sono una mera constatazione, un paesaggio dipinto sullo sfondo, un avatar.
Appunto un avatar, che se non si esprime - d’altro canto come farebbe un avatar ad esprimersi ⁉️- è considerato dissenziente, ma il suo dissenso non espresso, pur determinando il mancato raggiungimento della maggioranza delle classi, non conta nulla ai fini dell’omologazione. Perché mai considerarlo allora dissenziente⁉️
Quale “senso esistenziale giuridico” si può rinvenire in siffatta “prassi”, dove l’astensione è considerata dissenso, ma il dissenso non conta nulla?
Chiudo richiamando il secondo periodo del 2° comma dell’art. 11 della Direttiva insolvency:
“Gli Stati membri possono mantenere o introdurre disposizioni che derogano al primo comma [la ristrutturazione trasversale], qualora queste siano necessarie per conseguire gli obiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate”.
È più determinate del consenso della maggioranza dei creditori per conseguire gli obiettivi di un piano cosa c’è⁉️
La ristrutturazione trasversale ha un “senso giuridico” solo nei piani dove il debito è convertito in equity, come accade nei grandi dossier USA, modalità assai rara nella esperienza italica..
1 Aprile 2024 1:39
Il diritto non può essere ambivalente per postulato.
Il precetto astratto di legge dovrebbe essere valido in ogni occasione, ciò in relazione alla necessità di consentirgli di operare in un perimetro vasto.
La questione che ho sollevato in altra sede, è che nel momento in cui, invece, un codice si trasforma in circolare operativa, il diritto si riduce a tecnica; si riduce a mero strumento, perdendo qualsiasi connotazione esistenziale.
Il suo “sapere” diviene “prassi”.
Si genera così un fenomeno recessivo dove la negazione del “senso” si accompagna al primato della “funzione” e ogni anelito di giustizia, che dovrebbe stare alla base di qualsiasi atto giuridico, evapora sino a scomparire.
Dunque, continuando il percorso di analisi che parte da questa amara constatazione, non può affatto affermarsi che ci sia stata una redistribuzione dei poteri in favore degli stakeholder, perché non è questo il “senso” che si ricava dal codice nel suo complesso.
Non esiste neppure un termine all’interno del CCII che possa evocare una sì vasta prateria, all’interno della quale occorre ricordare pascolano anche i creditor e i supplier, per continuare con gli [odiati] anglicismi.
Osservo che tanto si può parlare di potere, quanto a tale potere corrisponda la possibilità di determinare le sorti del concordato e gli stakeholder, creditori a parte, non hanno legittimazione alcuna a “parlare” nel concordato. Neppure ai lavoratori e alle loro organizzazioni è concesso di partecipare attivamente alla ristrutturazione, nonostante la Direttiva lo consentisse.
Le regole di cui si discute sono semplici regole di “omologabilità” che espropriano i creditori di qualsiasi potere in favore del debitore, cui è demandata la decisione se ricorrere o meno all’approvazione trasversale del suo concordato, sulla base di prospettive soggettive non condivise dalla maggioranza dei creditori.
Gli stakeholder subiscono anch’essi e degli eventuali danni successivi nessuno risponde.
Come ho sostenuto nel mio primo intervento ci troviamo al cospetto di una norma che, superando in un balzo il brocardo id quod plerumque accidit , fa coesistere “la ragionevole idoneità del piano a superare l’insolvenza” con il voto contrario della stragrande maggioranza dei creditori, degradati a “femminucce capricciose”.
L’amministrazione statale vi è addirittura dipinta come ignava nonostante l’art. 97 Cost. non lo consenta per postulato.
Ecco, se si vuole, come ha sostenuto autorevole dottrina, i creditori nel CCII sono solo un accidente del processo di ristrutturazione. Ci sono perché altrimenti non ci sarebbe l’insolvenza, ma sono una mera constatazione, un paesaggio dipinto sullo sfondo, un avatar.
Appunto un avatar, che se non si esprime - d’altro canto come farebbe un avatar ad esprimersi ⁉️- è considerato dissenziente, ma il suo dissenso non espresso, pur determinando il mancato raggiungimento della maggioranza delle classi, non conta nulla ai fini dell’omologazione. Perché mai considerarlo allora dissenziente⁉️
Quale “senso esistenziale giuridico” si può rinvenire in siffatta “prassi”, dove l’astensione è considerata dissenso, ma il dissenso non conta nulla?
Chiudo richiamando il secondo periodo del 2° comma dell’art. 11 della Direttiva insolvency:
“Gli Stati membri possono mantenere o introdurre disposizioni che derogano al primo comma [la ristrutturazione trasversale], qualora queste siano necessarie per conseguire gli obiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate”.
È più determinate del consenso della maggioranza dei creditori per conseguire gli obiettivi di un piano cosa c’è⁉️
La ristrutturazione trasversale ha un “senso giuridico” solo nei piani dove il debito è convertito in equity, come accade nei grandi dossier USA, modalità assai rara nella esperienza italica..
La discussione rischia di avvitarsi: le tue conclusioni, ineccepibili, contrastano con quanto affermi in apertura; tu sostieni che "Il diritto non può essere ambivalente per postulato.
Il precetto astratto di legge dovrebbe essere valido in ogni occasione".
Sarebbe opportuno che fosse così, ma 1) come definire una disciplina che in incipit detta regole in un senso (art. 84), mentre in explicit si accontenta dell'esatto contrario (112.2, d) ?
2) Rem tene: una sola classe di creditori, assolutamente minoritari (potenzialmente anche un solo professionista, salvo trovare un abuso del diritto in tale manovra), decide le sorti di tutti.
3) per stakeholders intendo ovviamente le controparti del debitore che siano anche creditori e non solo indirettamente interessati: quindi i dipendenti per gli arretrati, i consulenti, gli agenti, gli enti previdenziali, l'erario, i fornitori, le banche, etc.
Veniamo così al punto politico che avevo sollevato e che anche tu accogli: per dirla con Emanuele Severino (nel Dialogo su diritto e tecnica, con Natalino Irti, pag. 25), il corpo politico vorrebbe regolare, orientare, ordinare il capitalismo e la tecnica, ma non vi riesce. Il capitalismo tende alla deregulation: sarà ciò che vuole Bruxelles?
La tecnica, poi, è ancora più potente ed è destinata a diventare il principio ordinatore di ogni materia (p. 27).
Ora, senza farla troppo "filosofica", si tratta di capire chi vuole cambiare lo status quo e chi no.
Dall'esito di questo confronto avremo o un Correttivo chiarificatore oppure si rimane nel guado; zona in cui prevalgono i coccodrilli e chi ci capita è soltanto lo gnu più sfigato...