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Luigi Bottai, Avvocato in Roma

I VERI INTERESSI TUTELATI NELL’ATTUALE CONCORDATO IN CONTINUITÀ : TRASPARE UNA REVISIONE DI FONDO DELLE PRIORITÀ

10 Marzo 2024

A seguito della lettura dei primi provvedimenti emessi da vari Tribunali italiani sull’interpretazione della c.d. ristrutturazione trasversale dei debiti di cui all’art. 112, 2° comma, CCI (preziosamente raccolti in questa Rivista da A. Turchi, Il valore di liquidazione alla luce delle prime pronunce di merito, 11.12.2023, oltre ai successivi qui pubblicati), sorge un dubbio di fondo sulla reale prevalenza della tutela dell’interesse dei creditori nella nuova disciplina del concordato preventivo in continuità; dubbio, peraltro, posto e acuito dalle considerazioni (sempre illuminanti) di illustri maitres a penser della materia. 

Se è innegabile che, dal punto di vista dei principi generali e della collocazione codicistica delle norme (artt. 4, 7, 53, 84, 87, 112, etc.), la preoccupazione del legislatore per i creditori dell’impresa in crisi rimanga il caposaldo della disciplina – e, come tale, viene ribadito anche da taluni provvedimenti giudiziali -, non altrettanto sembra potersi affermare dopo aver approfondito l’applicazione pratica del disposto di cui all’art. 112, comma 2, lett. d), del Codice, in virtù del quale basta l’approvazione di una sola classe dei creditori (purché “maltrattata” o “in the money”, come ora usa dirsi) per far omologare il concordato. 

Con la consueta efficacia il Prof. Alessandro Nigro (in Il diritto della crisi oggi fra tradizione e innovazione, in Riv. dir. comm., n. 2/2023, 185 ss., spec. 190) ha indicato la tendenza del nuovo “diritto della ristrutturazione delle imprese” a far emergere il problema della rilevanza degli interessi esterni diversi da quelli classici dei creditori e del debitore: “è, in altri termini, il profilo della sostenibilità, in tutte le sue accezioni (sociale, ambientale, ecc.), che sta affiorando anche nella nostra materia” rispetto all’esercizio dell’impresa; ciò comporta la necessità di integrare nelle strategie aziendali quei processi di mitigazione dei rischi e degli impatti sulla collettività e sull’ambiente imposti oggi finanche a livello costituzionale (nuovo art. 41 Cost.). “Di questa “cedevolezza” [della tutela del diritto di credito tout court] comincia ad esservi traccia nelle normative: e v. ad esempio l’art. 87, co. 1, (…) lett. f)”.

E sulla interpretazione già a livello unionale di questa “vera e propria clausola generale” della sostenibilità economica dell’impresa si legga S. Leuzzi, Il giudizio di omologazione del concordato preventivo: oggetto, regole, controlli, in questa Rivista, 9.10.2023 [che ha ricordato come le “norme codicistiche vanno, del resto, interpretate alla luce del diritto unionale e l’art. 10, comma 3, della Direttiva 1023/2019 (cd. Insolvency) pretende appunto che il piano non sia privo della prospettiva ragionevole di garantire la sostenibilità economica dell'impresa. Il concetto è menzionato in altre disposizioni del testo eurounitario, a cominciare dall’art. 1, lett. a), che lega teleologicamente i quadri di ristrutturazione preventiva all’obiettivo di impedire l'insolvenza e di assicurare la viability” (…)]. 

Più avanti ancora si sono spinti F. Di Marzio (Sulla omologazione del concordato preventivo, in giustiziacivile.com, 22.8.2023) e A. Ghedini (L’omologa del concordato preventivo in continuità: il cross class "cram down", in questa Rivista - slides, 23.5.2023), i quali hanno plasticamente rilevato, in estrema sintesi (per ragioni di spazio), come il soddisfacimento congiunto delle condizioni poste dal 2° comma dell’art. 112 CCI per l’omologazione consenta di affermare la ragionevolezza economica della soluzione concordataria e l'accettabilità dei sacrifici proposti ai creditori dissenzienti. 

Sicché il voto negativo finanche della maggioranza delle classi, non apparendo sorretto da buone motivazioni né giustificato dalla tutela dell'interesse egoistico del creditore, viene sterilizzato e reso ininfluente. 

Ma così viene meno la regola della maggioranza, perché la legge tutela in primis la conservazione dei valori aziendali, ritenuta per definizione della Direttiva UE 2019/1023 più conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria. 

Di più: nel concordato in continuità è proprio la voce dei creditori a non essere più determinante, salvo che le singole opposizioni di ciascun creditore dimostrino il pregiudizio subìto (in raffronto allo scenario della LG).  

Come segnalato, infatti, da L. Panzani, Analisi economica del diritto delle imprese e della crisi, in questa Rivista, 7.2.2024, “L’interesse dei creditori è dunque tutelato, ma nei limiti in cui è ritenuto razionale favorire la ristrutturazione, procedimento questo che tutela i creditori nei limiti ora detti, ma che consente di tener anche conto di altri interessi, ugualmente compromessi dalla crisi d’impresa.  
La possibilità di compressione del diritto di credito lascia spazio alla tutela di altri diritti, anch’essi lesi dalla crisi o dall’insolvenza dell’impresa, in primo luogo la conservazione dei posti di lavoro, il mantenimento dell’impresa nell’interesse dei fornitori a continuare i rapporti contrattuali in essere, il recupero dell’equilibrio economico dell’impresa nell’interesse dell’economia in generale, l’interesse dell’imprenditore persona fisica e dei soci dell’impresa costituita in forma collettiva a proseguire l’attività”. 

Per effetto di queste regole, dunque, l'autotutela dei creditori attraverso l'espressione del voto subisce una forte limitazione, poiché è sopravanzata dalla eterotutela di tutti gli interessi coinvolti ad opera del tribunale. Su questo piano i creditori sono avvicinati a tutti gli altri soggetti interessati alla procedura, che tuttavia non hanno diritto di voto nella stessa. 

Ma così si perde la natura negoziale del concordato (in continuità) e si perviene alla conclusione anticipata da Floriano d’Alessandro a proposito del concordato fallimentare proposto da un terzo già nel 2008 (in Giur. Comm., 2008, I, 349). 

Quel che più interessa sottolineare è, in conclusione, che nella predisposizione della proposta di concordato (in continuità) le regole sulla “produzione” dell’attivo (art. 87), al pari di quelle sulla sua distribuzione (artt. 84, 112, etc.), debbano essere più rigidamente controllate dall’eterotutela giudiziale proprio al fine di precludere sottrazioni di attività ai creditori, a beneficio di altre categorie di soggetti. 
Pezzano Antonio, Avvocato in Firenze

14 Marzo 2024 12:38

Purtroppo, la visione ( quasi) propositiva sul nostro  concordato preventivo   in continuità non può condividersi ( salvo miracoli ad opera di un traumaturgico  “correttivo”, che oramai sembra più… onirico che reale).
 
A partire proprio dalla  “promiscuità”  dei valori tutelati .
 
Difatti, come vedremo , le norme del CCII non hanno effettuato una netta scelta tra - per sintetizzare - tutela dell’impresa e tutela del credito   
 
Lasciando quindi al Giudice (a differenza della tanta vituperata A.S. in cui però gli obiettivi, anche subordinati, risultano chiari) l’ingrato - e forse neppure delegabile -  compito di districarsi nell’amletico dubbio : continuità o non continuità , anche senza miglior soddisfacimento dei creditori ?
 
 Il tutto, però, in  un contesto in cui la Dir. Ins. la scelta l’ha fatta ed e’, di regola, pro continuità’.
 
E che sia nettamente pro continuità lo cofermano le seguenti norme  congenti ( cioè non derogabili dagli Stari ) : 
 
 4/1.- “Gli Stati membri provvedono affinché, qualora sussista una probabilità di insolvenza, il debitore abbia accesso a un quadro di ristrutturazione preventiva che gli consenta la ristrutturazione, al fine di impedire l'insolvenza e di assicurare la loro sostenibilità economica, fatte salve altre soluzioni volte a evitare l'insolvenza, così da tutelare i posti di lavoro e preservare l'attività imprenditoriale” ( idem artt. 8/1/h e 10/3)
 
Invece , nel CCII di leggano gli artt. 7/2/c, 47/1/b, 53/5bis, 84/2, 87/2 e 3, 112/1/f per rendersi subito conto che sono  tutte norme in cui non è chiaro cosa debba  privilegiarsi come interesse da tutelare ove ambedue non risultino parimenti e pariteticamente  perseguibili.
 
Analogamente, rispetto ai finanziamenti, in cui la Dir. Ins. e’ chiara nella previsione dell ‘ Art.10/2/e ( “se del caso, qualsiasi nuovo finanziamento sia necessario per attuare il piano di ristrutturazione e non pregiudichi ingiustamente gli interessi dei creditori”) 
 
Mentre nel CCII, se l’art.112/1/f  risulta in linea con la Dir. Ins., lo stesso non può certo dirsi rispetto all’ art. 99/1 e 2  in cui, oltre a parlarsi del diverso concetto di miglior soddisfacimento ( che presuppone che alcun pregiudizio via sia , per quanto “giusto”) , non è chiaro - ancora un volta -  se prevalga  la tutela di in un interesse o dell’altro.
 
D’ altra parte, mentre nel CCII continua a porsi in più norme il tema della comparazione , sempre relativamente al miglior soddisfacimento dei creditori, con la  liquidazione giudiziale ( con mille ricadute , a partire dal profilo di ritualità/ ammissibilità della domanda), quest’ “ansia”  non si registra in  sede di Dir. Ins.
 
Si’ non c’è, perché la tematica entra in gioco solo se il creditore si duole - ed a ragione -  ai sensi delle previsioni chiarissime degli artt. 10/2/d e 16/4.
 
Anche in caso di omologazione trasversale, visto l’art.11/1/a.
 
Ovviamente, tralascio qui di entrare nel merito del diabolico  meccanismo, appunto, dell’omologazione trasversale (ma sempre e solo) nel CCII,  per via del canonizzato generale  possibile utilizzo dell’ RPR di cui all’ art. 84/6 ( anziché limitato allo scenario “112/2/b” dell’omologazione trasversale), ma ancor  più per l’infelice previsione dell’art.120-quater/1 e 2  ( tra l’altro, forse poco comprensibilmente non prevista anche  in sede di cp di  gruppo; v. art.285), che la Dir. Ins. in alcuna modo imponeva ( pur se consentiva).
 
 
Giovanni La Croce, Dottore commercialista

17 Marzo 2024 22:20

L’EVAPORAZIONE DELL’HOMO OECONOMICUS NELLA COMPLESSA LOGICA DEL CCII

L’aggregazione delle preferenze individuali, secondo Pareto, è possibile se:
  1. (i) un insieme di individui migliora la propria soddisfazione passando dalla situazione a a quella b, se tutti gli individui sono più soddisfatti in b che in a;
(ii) quell’insieme migliora la propria soddisfazione passando da a a b  se alcuni (al limite un solo individuo) stanno meglio in b che in a e nessuno sta peggio in b che in a.

L’art. 84 del CCII, al primo comma, introduce però un elemento d’invarianza tra a e b: l’insieme dei creditori deve essere soddisfatto dal concordato in misura non inferiore a quella realizzabile con la liquidazione giudiziale, mettendo in discussione l’essenza stessa della scelta che essi sono chiamati a fare.

Se, infatti, non c’è differenza tra b, nessuno starebbe peggio in b, ma neppure un creditore starebbe meglio in che in a.

Se passiamo alle regole di approvazione/omologazione del concordato in continuità aziendale, ci imbattiamo, poi, nell’enigmatica lett. d) del secondo comma dell’art. 112, interpretata dai più nel senso che il concordato (il “b” paretiano) può essere omologato se anche un solo creditore che sta peggio in b rispetto a - intendendosi per c la soluzione della distribuzione del valore eccedente di liquidazione rispettando le cause legittime di prelazione -  lo approva.

In sostanza, dato che si suppone a = b, l’insieme dei creditori cui è imposta la soluzione da un creditore che starebbe meglio in c non subisce alcun danno, giacché si presuppone che per l’insieme degli altri creditori b > c o quanto meno per alcuni b = c.

A ben vedere, però, tornando all’art. 84 - al sesto comma - ci accorgiamo che non è affatto vero, nel concordato in continuità aziendale, a = b, e ciò almeno nei casi in cui non si possa realizzare la liquidazione dell’impresa in funzionamento anche nella LG.

Se il concordato in continuità aziendale distribuisce ai creditori più del valore di liquidazione avremmo sempre b > a, ragione per cui almeno la maggioranza dei creditori, se non tutti, dovrebbero preferire b ad a.

Invece il legislatore ha previsto che l’insieme dei creditori - meglio la maggioranza di essi - nonostante b > a, possa preferire b, cioè possa comportarsi in modo antieconomico. Il legislatore così ha abbandonato il postulato e modello fondamentale dell’economia classica che presuppone che l’homo oeconomicus  sia totalmente razionale e prenda le proprie decisioni in funzione del suo miglior interesse personale, introducendo, non so quanto consciamente, elementi delle teorie della scelta sociale (Arrow, Senn etc.), privi, però, di quella complessità matematica che li contraddistingue.

Lasciando in disparte i temi legati alle modalità di determinazione delle maggioranze, che scontano la perversa contaminazione dell’astensione = diniego, concentriamo l’attenzione sulle probabilità di successo di un piano di risanamento che abbia incontrato il favore di una sola classe di creditori, magari composta da un solo creditore, e che sia omologato in dispregio della volontà della maggioranza, sulla base del solo presupposto che esso “non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza”.

Si dovrebbe, quindi, presupporre, che il risanamento sia possibile anche senza la collaborazione dei creditori - la maggioranza - che avessero votato contro, con una conseguente necessità di sostituire nell’immediatezza la gran parte dei fornitori di beni, servizi e denaro.

Ma se così potesse essere, come non è in natura, il giudizio di fattibilità di quel piano dovrebbe presupporre anche la valutazione a monte di un simile scenario determinato dall’omologazione di un concordato contro la volontà dei creditori (della maggioranza). Gli è, però, che tale scenario si concretizza a valle dell’attestazione, sicché la stessa non potrà mai averlo presupposto, col che si giunge all’assurdo di legittimare l’omologazione in assenza di attestazione.

Il tema sollevato, può essere condensato tutto in un quesito: “quando la gran parte dei creditori vota contro il concordato si può affermare che il piano continui a non essere privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza, come lo era quando se ne presupponeva l’approvazione almeno a maggioranza ?”




Luigi Bottai, Avvocato

29 Marzo 2024 0:22

L’EVAPORAZIONE DELL’HOMO OECONOMICUS NELLA COMPLESSA LOGICA DEL CCII

L’aggregazione delle preferenze individuali, secondo Pareto, è possibile se:
  1. (i) un insieme di individui migliora la propria soddisfazione passando dalla situazione a a quella b, se tutti gli individui sono più soddisfatti in b che in a;
(ii) quell’insieme migliora la propria soddisfazione passando da a a b  se alcuni (al limite un solo individuo) stanno meglio in b che in a e nessuno sta peggio in b che in a.

L’art. 84 del CCII, al primo comma, introduce però un elemento d’invarianza tra a e b: l’insieme dei creditori deve essere soddisfatto dal concordato in misura non inferiore a quella realizzabile con la liquidazione giudiziale, mettendo in discussione l’essenza stessa della scelta che essi sono chiamati a fare.

Se, infatti, non c’è differenza tra b, nessuno starebbe peggio in b, ma neppure un creditore starebbe meglio in che in a.

Se passiamo alle regole di approvazione/omologazione del concordato in continuità aziendale, ci imbattiamo, poi, nell’enigmatica lett. d) del secondo comma dell’art. 112, interpretata dai più nel senso che il concordato (il “b” paretiano) può essere omologato se anche un solo creditore che sta peggio in b rispetto a - intendendosi per c la soluzione della distribuzione del valore eccedente di liquidazione rispettando le cause legittime di prelazione -  lo approva.

In sostanza, dato che si suppone a = b, l’insieme dei creditori cui è imposta la soluzione da un creditore che starebbe meglio in c non subisce alcun danno, giacché si presuppone che per l’insieme degli altri creditori b > c o quanto meno per alcuni b = c.

A ben vedere, però, tornando all’art. 84 - al sesto comma - ci accorgiamo che non è affatto vero, nel concordato in continuità aziendale, a = b, e ciò almeno nei casi in cui non si possa realizzare la liquidazione dell’impresa in funzionamento anche nella LG.

Se il concordato in continuità aziendale distribuisce ai creditori più del valore di liquidazione avremmo sempre b > a, ragione per cui almeno la maggioranza dei creditori, se non tutti, dovrebbero preferire b ad a.

Invece il legislatore ha previsto che l’insieme dei creditori - meglio la maggioranza di essi - nonostante b > a, possa preferire b, cioè possa comportarsi in modo antieconomico. Il legislatore così ha abbandonato il postulato e modello fondamentale dell’economia classica che presuppone che l’homo oeconomicus  sia totalmente razionale e prenda le proprie decisioni in funzione del suo miglior interesse personale, introducendo, non so quanto consciamente, elementi delle teorie della scelta sociale (Arrow, Senn etc.), privi, però, di quella complessità matematica che li contraddistingue.

Lasciando in disparte i temi legati alle modalità di determinazione delle maggioranze, che scontano la perversa contaminazione dell’astensione = diniego, concentriamo l’attenzione sulle probabilità di successo di un piano di risanamento che abbia incontrato il favore di una sola classe di creditori, magari composta da un solo creditore, e che sia omologato in dispregio della volontà della maggioranza, sulla base del solo presupposto che esso “non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza”.

Si dovrebbe, quindi, presupporre, che il risanamento sia possibile anche senza la collaborazione dei creditori - la maggioranza - che avessero votato contro, con una conseguente necessità di sostituire nell’immediatezza la gran parte dei fornitori di beni, servizi e denaro.

Ma se così potesse essere, come non è in natura, il giudizio di fattibilità di quel piano dovrebbe presupporre anche la valutazione a monte di un simile scenario determinato dall’omologazione di un concordato contro la volontà dei creditori (della maggioranza). Gli è, però, che tale scenario si concretizza a valle dell’attestazione, sicché la stessa non potrà mai averlo presupposto, col che si giunge all’assurdo di legittimare l’omologazione in assenza di attestazione.

Il tema sollevato, può essere condensato tutto in un quesito: “quando la gran parte dei creditori vota contro il concordato si può affermare che il piano continui a non essere privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza, come lo era quando se ne presupponeva l’approvazione almeno a maggioranza ?”




Condivido le Vostre osservazioni e il quesito finale di GLC, ricordando comunque che la bussola orientatrice la fornisce la Direttiva (di cui il D. Lgs. 83/2022 e l'odierno CCI, in parte qua, costituiscono attuazione).
Ma allora si giunge al punto "politico": viene alla luce l'ambivalenza tipica del diritto con le frequenti ambiguità che ne accompagnano l'applicazione.
Il diritto, attraverso le classificazioni e le gerarchie che esprime, riproduce le relazioni di potere esistenti.
Nel nostro caso è in atto una redistribuzione di tali poteri in favore degli stakeholders?  
Giovanni La Croce, Dottore commercialista

30 Marzo 2024 19:06

Condivido le Vostre osservazioni e il quesito finale di GLC, ricordando comunque che la bussola orientatrice la fornisce la Direttiva (di cui il D. Lgs. 83/2022 e l'odierno CCI, in parte qua, costituiscono attuazione).
Ma allora si giunge al punto "politico": viene alla luce l'ambivalenza tipica del diritto con le frequenti ambiguità che ne accompagnano l'applicazione.
Il diritto, attraverso le classificazioni e le gerarchie che esprime, riproduce le relazioni di potere esistenti.
Nel nostro caso è in atto una redistribuzione di tali poteri in favore degli stakeholders?  
Non direi.
Il diritto non può essere ambivalente per postulato.
Il precetto astratto di legge dovrebbe essere valido in ogni occasione, ciò in relazione alla necessità di consentirgli di operare in un perimetro vasto.
La questione che ho sollevato in altra sede, è che nel momento in cui, invece, un codice si trasforma in circolare operativa, il diritto si riduce a tecnica; si riduce a mero strumento, perdendo qualsiasi connotazione esistenziale.
Il suo “sapere” diviene “prassi”.
Si genera così un fenomeno recessivo dove la negazione del “senso” si accompagna al primato della “funzione” e ogni anelito di giustizia, che dovrebbe stare alla base di qualsiasi atto giuridico, evapora sino a scomparire.
Dunque, continuando il percorso di analisi che parte da questa amara constatazione, non può affatto affermarsi che ci sia stata una redistribuzione dei poteri in favore degli stakeholder, perché non è questo il “senso” che si ricava dal codice nel suo complesso.
Non esiste neppure un termine all’interno del CCII che possa evocare una sì vasta prateria, all’interno della quale occorre ricordare pascolano anche i creditor e i supplier, per continuare con gli [odiati] anglicismi.
Osservo che tanto si può parlare di potere, quanto a tale potere corrisponda la possibilità di determinare le sorti del concordato e gli stakeholder, creditori a parte, non hanno legittimazione alcuna a “parlare” nel concordato. Neppure ai lavoratori e alle loro organizzazioni è concesso di partecipare attivamente alla ristrutturazione, nonostante la Direttiva lo consentisse.
Le regole di cui si discute sono semplici regole di “omologabilità” che espropriano i creditori di qualsiasi potere in favore del debitore, cui è demandata la decisione se ricorrere o meno all’approvazione trasversale del suo concordato, sulla base di prospettive soggettive non condivise dalla maggioranza dei creditori.
Gli stakeholder subiscono anch’essi e degli eventuali danni successivi nessuno risponde.
Come ho sostenuto nel mio primo intervento ci troviamo al cospetto di una norma che, superando in un balzo il brocardo id quod plerumque accidit , fa coesistere “la ragionevole idoneità del piano a superare l’insolvenza” con il voto contrario della stragrande maggioranza dei creditori, degradati a “femminucce capricciose”.
L’amministrazione statale vi è addirittura dipinta come ignava nonostante l’art. 97 Cost. non lo consenta per postulato.
Ecco, se si vuole, come ha sostenuto autorevole dottrina, i creditori nel CCII sono solo un accidente del processo di ristrutturazione. Ci sono perché altrimenti non ci sarebbe l’insolvenza, ma sono una mera constatazione, un paesaggio dipinto sullo sfondo, un avatar.
Appunto un avatar, che se non si esprime - d’altro canto come farebbe un avatar ad esprimersi ⁉️- è considerato dissenziente, ma il suo dissenso non espresso, pur determinando il mancato raggiungimento della maggioranza delle classi, non conta nulla ai fini dell’omologazione. Perché mai considerarlo allora dissenziente⁉️
Quale “senso esistenziale giuridico” si può rinvenire in siffatta “prassi”, dove l’astensione è considerata dissenso, ma il dissenso non conta nulla?
Chiudo richiamando il secondo periodo del 2° comma dell’art. 11 della Direttiva insolvency:
Gli Stati membri possono mantenere o introdurre disposizioni che derogano al primo comma [la ristrutturazione trasversale], qualora queste siano necessarie per conseguire gli obiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate”.
È più determinate del consenso della maggioranza dei creditori per conseguire gli obiettivi di un piano cosa c’è⁉️
La ristrutturazione trasversale ha un “senso giuridico” solo nei piani dove il debito è convertito in equity, come accade nei grandi dossier USA, modalità assai rara nella esperienza italica..
Luigi Bottai, Avvocato

1 Aprile 2024 1:39

Non direi.
Il diritto non può essere ambivalente per postulato.
Il precetto astratto di legge dovrebbe essere valido in ogni occasione, ciò in relazione alla necessità di consentirgli di operare in un perimetro vasto.
La questione che ho sollevato in altra sede, è che nel momento in cui, invece, un codice si trasforma in circolare operativa, il diritto si riduce a tecnica; si riduce a mero strumento, perdendo qualsiasi connotazione esistenziale.
Il suo “sapere” diviene “prassi”.
Si genera così un fenomeno recessivo dove la negazione del “senso” si accompagna al primato della “funzione” e ogni anelito di giustizia, che dovrebbe stare alla base di qualsiasi atto giuridico, evapora sino a scomparire.
Dunque, continuando il percorso di analisi che parte da questa amara constatazione, non può affatto affermarsi che ci sia stata una redistribuzione dei poteri in favore degli stakeholder, perché non è questo il “senso” che si ricava dal codice nel suo complesso.
Non esiste neppure un termine all’interno del CCII che possa evocare una sì vasta prateria, all’interno della quale occorre ricordare pascolano anche i creditor e i supplier, per continuare con gli [odiati] anglicismi.
Osservo che tanto si può parlare di potere, quanto a tale potere corrisponda la possibilità di determinare le sorti del concordato e gli stakeholder, creditori a parte, non hanno legittimazione alcuna a “parlare” nel concordato. Neppure ai lavoratori e alle loro organizzazioni è concesso di partecipare attivamente alla ristrutturazione, nonostante la Direttiva lo consentisse.
Le regole di cui si discute sono semplici regole di “omologabilità” che espropriano i creditori di qualsiasi potere in favore del debitore, cui è demandata la decisione se ricorrere o meno all’approvazione trasversale del suo concordato, sulla base di prospettive soggettive non condivise dalla maggioranza dei creditori.
Gli stakeholder subiscono anch’essi e degli eventuali danni successivi nessuno risponde.
Come ho sostenuto nel mio primo intervento ci troviamo al cospetto di una norma che, superando in un balzo il brocardo id quod plerumque accidit , fa coesistere “la ragionevole idoneità del piano a superare l’insolvenza” con il voto contrario della stragrande maggioranza dei creditori, degradati a “femminucce capricciose”.
L’amministrazione statale vi è addirittura dipinta come ignava nonostante l’art. 97 Cost. non lo consenta per postulato.
Ecco, se si vuole, come ha sostenuto autorevole dottrina, i creditori nel CCII sono solo un accidente del processo di ristrutturazione. Ci sono perché altrimenti non ci sarebbe l’insolvenza, ma sono una mera constatazione, un paesaggio dipinto sullo sfondo, un avatar.
Appunto un avatar, che se non si esprime - d’altro canto come farebbe un avatar ad esprimersi ⁉️- è considerato dissenziente, ma il suo dissenso non espresso, pur determinando il mancato raggiungimento della maggioranza delle classi, non conta nulla ai fini dell’omologazione. Perché mai considerarlo allora dissenziente⁉️
Quale “senso esistenziale giuridico” si può rinvenire in siffatta “prassi”, dove l’astensione è considerata dissenso, ma il dissenso non conta nulla?
Chiudo richiamando il secondo periodo del 2° comma dell’art. 11 della Direttiva insolvency:
Gli Stati membri possono mantenere o introdurre disposizioni che derogano al primo comma [la ristrutturazione trasversale], qualora queste siano necessarie per conseguire gli obiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate”.
È più determinate del consenso della maggioranza dei creditori per conseguire gli obiettivi di un piano cosa c’è⁉️
La ristrutturazione trasversale ha un “senso giuridico” solo nei piani dove il debito è convertito in equity, come accade nei grandi dossier USA, modalità assai rara nella esperienza italica..
Caro Giovanni, 
La discussione rischia di avvitarsi: le tue conclusioni, ineccepibili, contrastano con quanto affermi in apertura; tu sostieni che "Il diritto non può essere ambivalente per postulato.
Il precetto astratto di legge dovrebbe essere valido in ogni occasione".
Sarebbe opportuno che fosse così, ma 1) come definire una disciplina che in incipit detta regole in un senso (art. 84), mentre in explicit si accontenta dell'esatto contrario (112.2, d) ?
2) Rem tene: una sola classe di creditori, assolutamente minoritari (potenzialmente anche un solo professionista,  salvo trovare un abuso del diritto in tale manovra), decide le sorti di tutti. 
3) per stakeholders intendo ovviamente le controparti del debitore che siano anche creditori e non solo indirettamente interessati: quindi i dipendenti per gli arretrati, i consulenti, gli agenti, gli enti previdenziali, l'erario, i fornitori, le banche, etc.

Veniamo così al punto politico che avevo sollevato e che anche tu accogli: per dirla con Emanuele Severino (nel Dialogo su diritto e tecnica, con Natalino Irti, pag. 25), il corpo politico vorrebbe regolare, orientare, ordinare il capitalismo e la tecnica, ma non vi riesce. Il capitalismo tende alla deregulation: sarà ciò che vuole Bruxelles?
La tecnica, poi, è ancora più potente ed è destinata a diventare il principio ordinatore di ogni materia (p. 27).
Ora, senza farla troppo "filosofica", si tratta di capire chi vuole cambiare lo status quo e chi no.
Dall'esito di questo confronto avremo o un Correttivo chiarificatore oppure si rimane nel guado; zona in cui prevalgono i coccodrilli e chi ci capita è soltanto lo gnu più sfigato...

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