Le premesse delineate nel paragrafo precedente valgono a confermare come il concetto di continuità aziendale sia stato trasposto nella disciplina civilistica e concorsuale ad essa collegata, mutuandolo dalle norme che disciplinano la predisposizione del bilancio d’esercizio le quali, a loro volta, recepiscono la nozione elaborata dalla scienza economico-aziendale. In particolare, l’art. 2423 bis, comma 1, n. 1, c.c.[11], dispone che la valutazione delle poste deve essere fatta, tra l’altro, nella «prospettiva della continuazione dell’attività». La continuità aziendale costituisce un postulato fondamentale per la redazione del bilancio di un’impresa in funzionamento, in forza del quale i valori devono essere iscritti sul presupposto che l’impresa proseguirà l’attività nel suo normale corso, non essendo ravvisabile, in un futuro prevedibile, tanto l’intenzione quanto la necessità di porla in liquidazione, di cessare l’attività ovvero di assoggettarla a una procedura concorsuale. Ne consegue allora che la mancanza del presupposto della continuazione dell’attività d’impresa, tendenzialmente riconducibile all’uscita della stessa dall’ordinaria dimensione del funzionamento fisiologico (break up), determina effetti senz’altro rilevanti sulla predisposizione del bilancio d’esercizio, tant’è che questo dovrà essere redatto su basi alternative e differenti rispetto all’applicazione dei normali criteri di valutazione[12].
In altri termini, nell’ottica della redazione del bilancio il presupposto della continuità aziendale si realizza quando “un’impresa viene considerata in grado di continuare a svolgere la propria attività in un prevedibile futuro”[13], sì che le attività e le passività vengono contabilizzate in base al presupposto che l’impresa sarà in grado di realizzare le proprie attività e far fronte alle proprie passività durante il normale svolgimento dell’attività aziendale. La complessa costruzione della situazione patrimoniale, con la correlazione degli elementi attivi e degli elementi passivi e, quindi, con la misurazione differenziale del patrimonio netto, quale “fondo di valori” dell’azienda in funzionamento, discende proprio dal presupposto della continuità aziendale e quindi dalla prospettazione di un flusso continuativo di redditi a valere nel tempo.
La determinazione del reddito d’esercizio, convenzionalmente riferita all’anno amministrativo, in ottemperanza peraltro al dettato codicistico, in osservanza del principio della competenza economica, comporta proprio la selezione e la valutazione (valorizzazione ragionata) di singoli elementi dell’attivo e del passivo, la cui quantificazione - che comporta la rappresentazione delle attività e delle passività patrimoniali - è strettamente connessa con la prosecuzione della gestione aziendale nel futuro, di breve e di lungo andare.
Le immobilizzazioni, così come le rimanenze, ad esempio, rappresentano costi esclusi dalla determinazione del reddito dell’esercizio di riferimento e quindi proiettati al futuro, rispettivamente, di lungo e di breve periodo: ciò in quanto concorreranno alla produzione di redditi futuri, sulla prospettazione, dunque, della continuità aziendale, potendosi così qualificare e non altrimenti, come investimenti.
Generalizzando, le attività esprimono investimenti in atto, quali “operazioni (ancora) in corso” a fine esercizio, avviate in precedenza e destinate, nella ragionevole aspettativa della continuità aziendale, a concorrere alle produzioni di redditi futuri, attraverso realizzi “diretti” (rimanenze finali di merci e di prodotti, crediti) e “indiretti” (immobilizzazioni e rimanenze di materie prime).
Analogamente, le passività esprimono finanziamenti in atto, quali “operazioni in corso” a fine esercizio, precisamente debiti da rimborsare in futuro, secondo riferimenti temporali legati alla continuità aziendale.
Gli elementi attivi e passivi del patrimonio aziendale sono quindi da considerarsi, secondo la Scienza aziendalistica[14], come “operazioni in corso”: investimenti (le attività) e finanziamenti (le passività), rispettivamente in attesa di realizzo e di rimborso e, pertanto, sussistenti solamente in ipotesi di continuità aziendale, ben oltre i limiti convenzionali di dodici mesi, ma finché le operazioni di cui l’attivo e il passivo sono espressione e rappresentazione, abbiamo una prospettiva di conclusione: si pensi ai terreni come attività di lunga durata e ai fondi TFR come passività di lunga durata.
Lo stesso principio di prudenza, che attualizza il rischio delle future gestioni, privilegiando soluzioni valutative delle attività ispirate al minor valore tra quello di costo e quello di presumibile realizzo (diretto e indiretto), trova significato esclusivamente in ragione della continuità aziendale. L’origine storica del principio della prudenza, quale principio in definitiva manageriale[15], volto a contenere la determinazione e quindi la possibilità di distribuzione degli utili d’impresa, trova un senso solo in funzione della continuità aziendale e della percezione del rischio ad essa connessa.
Il rischio d’impresa, connaturale al presupposto della continuità aziendale, legittima dunque e giustifica sul piano logico economico, i vincoli di destinazione a riserva degli utili, previsti dal codice civile, funzionali proprio a preservare le condizioni di continuità dell’azienda.
La perdita o mancanza della stessa, che impone il mutamento dei criteri valutativi ai fini bilancistici, sembra comportare invece una prospettiva di “cessazione dell’attività produttiva”[16], che, peraltro, può essere volontaria o necessitata (oggettiva). E infatti il normale presupposto della continuità aziendale, quale fondamento dei valori di funzionamento dei cespiti aziendali, viene meno se “la direzione intenda liquidare l’impresa o interromperne l’attività o (...) non abbia alternative realistiche a tale scelta”. Nell’ipotesi di cessazione volontaria dell’attività – identificabile nella prima parte della proposizione riportata e che può essere determinata anche dal verificarsi di una causa di scioglimento non incidente sulla situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società[17] – la perdita della continuità aziendale potrebbe essere completamente disgiunta dallo “stato di crisi” dell’impresa, dandosi vita a una “liquidazione ordinata” del complesso aziendale e a un regolare pagamento dei creditori: donde l’impossibilità in tale ipotesi di una sovrapposizione fra i due concetti di crisi e perdita del going concern. Anche nell’ipotesi di circostanze oggettive che incidono pregiudizievolmente sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, tali da rappresentare stati di crisi o addirittura di insolvenza, la direzione deve valutare se sussistano “alternative realistiche” alla liquidazione/interruzione dell’attività prima di modificare i criteri valutativi, tanto che nella stessa fase liquidatoria è possibile dar vita ad “esercizi provvisori” (anche per rami aziendali) o a cessioni in blocco di rami produttivi, senza che insorga pertanto la necessità di procedere ad un completo abbandono dei criteri valutativi di funzionamento. Lo stato di crisi o addirittura di insolvenza, in queste ipotesi, può convivere con il presupposto della continuità aziendale a fini valutativi di bilancio[18].
Ciò è tanto più vero se si considera il fatto che la letteratura aziendalistica sulla gestione della crisi considera questa circostanza come concreta e non inusuale possibilità di verificazione lungo il ciclo di vita dell’impresa o del business, specialmente nella visione strategica[19], oggi dominante, dell’azienda come “sistema aperto”, quindi in interazione dinamica con l’ambiente e, pertanto, esposta alle turbolenze ambientali sempre più ricorrenti.
La letteratura aziendalistica è infatti evoluta anche nella direzione di indicare all’imprenditore e al management degli strumenti non solo preventivi, ma anche “predittivi”, ovviamente secondo proporzione alle dimensioni e alle caratteristiche specifiche dell’impresa, volti a cogliere non solo i segnali “forti” degli indicatori di origine bilancistica e di natura economico-finanziaria, eventualmente ritratti da budget e piani aziendali; ma anche segnali “deboli”, ipotetici, da cui sviluppare simulazioni e stress test per ricercare con percorsi euristici potenziali tracce di rischio ed echi di criticità rivenienti dall’ambiente e non solo dalle dinamiche endogene della gestione aziendale[20].
La sola notizia della perdita di un significativo cliente può dunque essere un “segnale debole” che, ancor prima di misurarne a consuntivo gli effetti depressivi sul fatturato e sul flusso di cassa (quindi sulla liquidità), allarma per la sua potenziale rischiosità circa la continuità aziendale e l’equilibrio durevole.
Alla stregua di tali considerazioni, emerge in modo chiaro come la verifica della continuità aziendale richieda, ex ante, l’effettuazione di una valutazione prognostica da parte degli amministratori, che deve essere effettuata non soltanto in occasione della predisposizione del bilancio, ma in via continuativa anche nel corso dell’esercizio[21]. Una valutazione dovrà essere compiuta, più specificatamente, ogni qualvolta emergano eventi o circostanze tali da far sorgere dubbi significativi sulla capacità dell’impresa di realizzare le proprie attività e di far fronte alle proprie passività in un arco temporale di almeno dodici mesi.
È interessante osservare, inoltre, come il principio della continuità aziendale trovi espressa previsione anche nei principi contabili internazionali e, in particolare, nel principio IAS 1, il quale prevede che gli amministratori sono tenuti a effettuare una valutazione per esprimere un giudizio, in un dato momento, circa l’esito futuro di eventi ovvero circostanze per loro natura incerti: ciò al fine di individuare il momento in cui viene meno la capacità dell’impresa di operare nel rispetto del presupposto della continuità aziendale, al fine di preservare il patrimonio della società. Tale principio, attribuendo alla continuità aziendale la funzione di criterio guida della condotta del diligente amministratore, offre delle rilevanti precisazioni in merito al comportamento che l’organo di direzione deve tenere in considerazione della valutazione sulla redditività attuale e attesa, sui piani di rimborso dei debiti oltre che sulle presumibili fonti di finanziamento alternative.
Com’è facilmente intuibile, la valutazione dell’esistenza dell’anzidetto presupposto potrebbe essere particolarmente complicata, dato che agli amministratori è richiesto di esprimere un giudizio non in funzione di fattori certi e determinati, bensì su avvenimenti ancora soltanto potenzialmente realizzabili. Solo per le società caratterizzate da una storia di redditività e di facile accesso alle risorse finanziarie, il principio contabile internazionale prevede che la verifica del mantenimento del going concern possa essere semplificato, potendo questo prescindere dal compimento di analisi particolarmente dettagliate[22].
A tali conclusioni può aggiungersi che il documento congiunto Banca d’Italia, Consob e Isvap n. 2, del 6 febbraio 2009, ha messo in dovuta evidenza come le risultanze della verifica della sussistenza della prospettiva della continuità aziendale possano porre gli organi sociali dinanzi a differenti e variegati scenari, ciascuno dei quali è in grado di far scattare diversi obblighi di condotta in capo agli amministratori. Ciò è conseguenza del fatto che la mancanza della prospettiva del going concern può corrispondere a diverse situazioni di difficoltà, caratterizzate da una minore o una maggiore gravità, che non necessariamente coincidono con l’insolvenza conclamata[23].
A livello di principi contabili nazionali la tematica della continuità aziendale è trattata nell’OIC n. 11, titolata “Finalità e postulati del bilancio d’esercizio”. Nel documento, par. 22 dell’OIC n. 11, è previsto che «Nella fase di preparazione del bilancio, la direzione aziendale deve effettuare una valutazione prospettica della capacità dell’azienda di continuare a costituire un complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito per un prevedibile arco temporale futuro, relativo a un periodo di almeno dodici mesi dalla data di riferimento del bilancio. Nei casi in cui, a seguito di tale valutazione prospettica, siano identificate significative incertezze in merito a tale capacità, nella nota integrativa dovranno essere chiaramente fornite le informazioni relative ai fattori di rischio, alle assunzioni effettuate e alle incertezze identificate, nonché ai piani aziendali futuri per far fronte a tali rischi ed incertezze. Dovranno inoltre essere esplicitate le ragioni che qualificano come significative le incertezze esposte e le ricadute che esse possono avere sulla continuità aziendale». Il principio contabile richiama i due principali fattori che pongono limiti cognitivi al decision maker (incertezza e rischio) e che possono essere sì ridotti attraverso gli atteggiamenti corretti degli amministratori e gli strumenti indicati (secondo pluridecennale indicazione della dottrina), ma non eliminati, vuoi per l’estensione di tali condizioni, vuoi per i limiti fisiologici, anche in termini di “incompletezza informativa”, degli strumenti (piani aziendali)[24].
È interessante altresì osservare che, in tempi recenti, la prassi a livello nazionale ha sviluppato strumenti di particolare ausilio al fine di orientare le complesse valutazioni prospettiche operate dagli organi sociali in ordine alla verifica della sussistenza del presupposto della continuazione dell’attività d’impresa. A tal proposito, uno dei riferimenti maggiormente significativi è il principio di revisione ISA Italia 570 “Continuità aziendale”, in materia di responsabilità del revisore contabile nella valutazione dell’appropriato utilizzo da parte della direzione del principio della continuità aziendale. Dall’analisi di tale documento si rileva che l’assenza dell’anzidetto presupposto può emergere, sul piano applicativo, dal bilancio e, in particolare, da un’analisi fondata su indicatori, aventi natura finanziaria, gestionale o di altro genere[25]. Com’è stato osservato, alcuni indicatori – soprattutto finanziari – talvolta coincidono con fatti esteriori/indici di insolvenza vera e propria, altri – soprattutto quelli gestionali – con indici di crisi/declino in senso aziendalistico, altri ancora con squilibri finanziari o economici o patrimoniali. La portata di tutti questi indicatori è poi da valutare, tenendo conto dei piani di ristrutturazione programmati eventualmente dagli amministratori[26].
Tali indicatori, qualora presenti, costituiscono segnali presuntivi di una situazione di difficoltà, non sicuramente riconducibili a evidenze certe di una crisi, ma che comunque possono fungere da utile “campanello d’allarme” per segnalare il venir meno della capacità dell’impresa a operare efficientemente nel tempo[27].
La natura sistemica dell’azienda non permette peraltro di risolvere il giudizio sulla continuità aziendale con semplificazioni di metodo, tramite il solo ricorso a indicatori o ad altri segnali, nessuno dei quali ha la pretesa di possedere valenza segnaletica assoluta, ma semmai relativa: al contesto ambientale, al momento storico, alle specificità dell’azienda e dei suoi soggetti, all’interazione con altri dati, informazioni, valutazioni, che devono trovare una sintesi nell’interpretazione dell’organo amministrativo, sempre però con carattere probabilistico.
Va detto, peraltro, che la rilevazione di uno o più fattori, ritenuti come potenzialmente indicativi della perdita della continuazione, non implica, di per sé, il venir meno, in termini giuridici, di detto presupposto, in quanto ciò si verifica solo nel caso in cui l’organo gestorio abbia omesso di organizzare adeguate misure o strumenti per fronteggiare la condizione di declino[28]. In questo senso, se si intende valutare correttamente il postulato della continuazione, l’attenzione non va rivolta soltanto agli indici della crisi, i quali potrebbero far presupporre una situazione di carenza di continuità, ma anche all’attività concretamente compiuta dagli amministratori per garantire o ripristinare il going concern.
Da quanto precede, emerge la doppia anima del principio di continuità aziendale: da un lato, presupposto di rilevazione e valutazione delle voci di bilancio di un complesso produttivo in funzionamento, il cui venir meno si identifica con la cessazione effettiva dell’attività cui consegue la disgregazione di quel complesso; d’altro, prospettiva di funzionamento dell’impresa proiettata in un prevedibile futuro, la cui compromissione o la cui assenza determina l’insorgere di obblighi gestori e di controllo nei confronti degli amministratori, dei sindaci e dei revisori[29].
Anche da tale angolo prospettico risulta, pertanto, confermato l’indissolubile vincolo esistente tra azienda e continuità, nel senso che l’azienda esiste e raggiunge i propri fini attraverso il divenire della propria gestione, in quanto protesa al futuro[30]. Quindi, la dimensione temporale permea il complesso fenomeno economico in tutti i suoi aspetti, caratterizzando, a vario livello, la natura sistemica dell’impresa che opera in un contesto dinamico e complesso, risultando essa stessa un sistema dinamico e complesso inevitabilmente soggetto all’incertezza del futuro e che rivela, tuttavia, una vita continua, pur nel mutare di ogni suo elemento costitutivo. In definitiva, per perdurare, il sistema aziendale richiede la capacità di rispettare effettive condizioni di economicità, in termini di perseguimento dei propri fini istituzionali, poiché diversamente nemmeno l’azienda come istituto si manterrebbe tale.[31] Quindi, la produzione del reddito e in generale la creazione di valore rappresentano allo stesso tempo i fini dell’impresa e la ragione della continuità aziendale: il loro perseguimento è l’espressione della manifestazione di vita dell’azienda stessa. Per altro verso, è evidente che la creazione di valore richiede tempo, e quindi si appalesa l’evidente connessione tra continuità (vale a dire durabilità) aziendale ed economicità, che si pongono in relazione circolare con il perseguimento delle finalità istituzionali dell’azienda[32].
Il collegamento tra continuità aziendale e finalismo dell’azienda (redditività e creazione di valore) è rappresentato, sul piano formale dal bilancio d’esercizio, quale strumento a fruizione intersoggettiva, rivolto a molteplici destinatari.
La funzione del bilancio d’esercizio, oltre a quella pubblicistica, è però anche quella di rappresentare agli organi di amministrazione e di controllo un quadro conoscitivo non altrimenti disponibile e non visibile se non attraverso uno strumento che, nella duplice piattaforma metodologica della rilevazione contabile e dell’impianto valutativo, fornisce i razionali di comprensione e di giudizio sulla condizione in cui versa l’azienda.
Poiché tuttavia la continuità aziendale non è una situazione meramente inerziale pedissequa al trend storico degli esercizi pregressi, se non in parte, ma è una condizione prospettica e probabilistica, dominata da future circostanze esterne non controllabili e da scelte imprenditoriali e manageriali anche nuove e quindi rischiose, il comportamento virtuoso degli amministratori e degli organi di controllo, per scontare i limiti di razionalità insiti in ogni processo decisionale, deve basarsi su dei razionali condivisi dalla comunità scientifica e professionale, oltre che sulla discrezionalità ragionevolmente applicata riconducibile alla business judgement rule.
Tali razionali sono certamente rappresentati dai dati dei precedenti bilanci d’esercizio, nonché dagli anzidetti indici economico-finanziari e gestionali, ma vieppiù dai piani, dai programmi, dai budget, che, pur non potendo assicurare certezza di esito, trattandosi di strumenti comunque basati su delle assunzioni generali e su ipotesi gestionali, costituiscono i riferimenti che la scienza aziendalistica nazionale e internazionale ha sviluppato e accreditato da tempo.
Al riguardo, tuttavia, la formulazione di piani e di budget ragionevolmente perseguibili, assume vari livelli di affidabilità esecutiva, a seconda del grado di “controllabilità” delle assunzioni e delle ipotesi fondamentali. Se la controllabilità di tali ipotesi è significativamente ridotta, se il grado di vincolo dagli esiti di eventi esterni indipendenti è particolarmente intenso (si pensi alle scelte di un cliente dominante), se le alternative ad un evento incontrollabile sono scarse o nulle, anche la pianificazione tende a ridurre il suo grado di predittività e con essa la sua funzione di supporto razionale per le valutazioni e le decisioni manageriali. O quantomeno, la pianificazione, in tal caso, non è in grado di precostituire ex ante rimedi e soluzioni anticipatorie, incamerando oggettivamente un significativo execution risk.