L’operatività della transazione fiscale è condizionata ad una serie di attestazioni:
1) nel concordato preventivo:
a) l’attestazione ex art. 160, comma 2, necessaria per il degrado dei debiti con prelazione e finalizzata ad attestare il pagamento dei prelatizi “in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione”;
b) l’attestazione ex art. 182-ter, comma 2, ai fini del trattamento dei crediti tributari e contributivi, e finalizzata alle medesime garanzie di cui al punto che precede. La terminologia è identica a quella di cui all’articolo 160, comma due e una ovvia lettura sistemica porta alla coincidenza delle attestazioni, come già nella prassi;
2) negli accordi di ristrutturazione:
a) l’attestazione ex art. 182-bis “sulla veridicità dei dati aziendali e dell’attuabilità dell’accordo”;
b) l’attestazione ex art. 182-ter, contenuta nella precedente, circa “la convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale”.
Il tema delle attestazioni viene ripreso in relazione al vaglio di omologa del Tribunale:
- nel concordato preventivo, ex art. 180 co 4 L. fall. il Tribunale omologa il concordato “anche in mancanza di voto da parte della amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatoria… quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista di cui all’articolo 161, terzo comma, la proposta… è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria”;
- negli accordi di ristrutturazione, il Tribunale ex art a 182-bis co 4 omologa l’accordo “anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatoria… quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista,… la proposta… è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria”.
Due distonie vengono in evidenza nella sequenza delle norme.
Quanto al concordato, la convenienza è vagliata “sulla base delle risultanze della relazione del professionista di cui all’articolo 161, terzo comma”.
Si rileva al riguardo che, in tale relazione, il giudizio di convenienza è riservato solo al caso del concordato in continuità, ex art 186-bis, secondo comma L. fall. Si hanno due prospettive:
- il richiamo all’articolo 161 va inteso estensivamente come richiamo all’articolo 160;
oppure
- anche nel concordato liquidatorio il professionista dovrà esprimere un giudizio di convenienza, sulla falsariga di quello di cui al concordato in continuità.
Volendo preservare il dato letterale della norma, si deve propendere per la seconda soluzione.
Quanto agli accordi di ristrutturazione, il giudizio di convenienza del professionista viene rilasciato ai sensi dell’articolo 182-ter rispetto alla alternativa della “liquidazione giudiziale”, da intendersi quindi come fallimento (ovvero come liquidazione coatta amministrativa). Peraltro, nelle valutazioni di convenienza del Tribunale ai sensi dell’articolo 182-bis co 4, la convenienza è vagliata rispetto “all’alternativa liquidatoria”, e non necessariamente all’alternativa della liquidazione giudiziale.
Giova un excursus circa i termini di paragone per i richiamati giudizi, muovendo dal concordato preventivo.
Innanzitutto, la data di riferimento per le valutazioni comparative è quella della data della domanda di concordato (o meglio, dell’iscrizione della stessa nel registro delle imprese), anche nella forma cosiddetta prenotativa di cui all’articolo 160, comma 6 della legge fallimentare.
Altro aspetto riguarda i criteri che portano all’espressione di un “valore di mercato” dei beni (e, per i privilegi generali, di tutti gli attivi).
Tenuto conto che le norme richiamano il concetto di ricavato in caso di liquidazione, senza altra precisazione, si pone il tema di come debbano essere valutate le prospettive e le modalità di liquidazione dei beni, tra le possibili alternative:
- della liquidazione ordinaria;
- del fallimento.
È opinione di chi scrive che, in primo luogo, debba guardarsi alla alternativa liberamente perseguibile dal debitore, ossia la liquidazione ordinaria. In conformità con questo indirizzo si pongono i “Principi di attestazione dei piani di risanamento” approvati dal CNDCEC il 3 settembre 2014, secondo cui “relativamente al termine di confronto rispetto al quale formulare il richiesto giudizio di comparazione quantitativa, [l’attestatore] deve considerare le sole ipotesi alternative di discontinuità concretamente praticabili. Quindi:
- la liquidazione del patrimonio del debitore, ove concretamente praticabile;
- il fallimento, in caso di impossibilità di procedere con una liquidazione in bonis”.
Ciò porta, in linea di principio, ad escludere quale termine di comparazione il fallimento, fatto salvo il caso in cui la liquidazione ordinaria non sia in concreto sostenibile.
Dunque, si deve guardare in primis alla prospettiva della liquidazione ordinaria, quale percorso per la chiusura dell’impresa e per il soddisfacimento dei creditori.
Laddove si debba guardare al fallimento quale unica alternativa percorribile, va ricordato come quest’ultimo potrebbe differenziarsi dagli altri percorsi quanto all’esercizio delle azioni revocatorie e risarcitorie da parte del curatore, a vantaggio dei creditori.
Peraltro trattasi di azioni che, anche al di fuori dell’alveo fallimentare, possono essere esercitate dai creditori, cosicché si può ragionevolmente sostenere che l’unica differenza riguardi i vantaggi probatori delle azioni revocatorie fallimentari rispetto a quelle ordinarie, nonché la revocabilità degli atti normali di gestione nei sei mesi e dei pagamenti anormali nell’anno e normali nei sei mesi antecedenti l’accesso alla procedura.
Inoltre, nel fallimento dovranno essere analizzate anche le prospettive di esercizio provvisorio, affitto e cessione d’azienda.
Le valutazioni comparative, peraltro, presuppongono che vengano tenuti presenti alcuni capisaldi, di cui di seguito si vuole fornire breve memoria:
1) gli attivi aziendali, dal fermo della gestione d’impresa propedeutico alla loro liquidazione, subiscono di regola un’importante perdita di valore. Altrettanto si può dire per le rimanenze che, perdendo i canali commerciali classici e le possibilità di riassortimento, conoscono sistematicamente valori liquidatori.
Ma anche gli stessi crediti, sebbene rappresentino spettanze dovute a valori numerari definiti, conoscono dal fermo di attività di norma un rilevante incremento degli incagli e delle insolvenze, venendo meno la continuità dei rapporti tra cliente e fornitore;
2) l’interruzione dell’attività d’impresa può comportare (come di norma avviene) l’insorgenza di significativi oneri e penali e di complesse (e costose) diatribe giuridiche, con evidenti riflessi sugli attivi destinabili ai creditori;
3) la liquidazione aziendale comporta in ogni caso, anche in fallimento, una serie di costi fissi che, nonostante l’interruzione della gestione operativa (o in alcuni casi proprio per tale motivo), vengono a manifestarsi per una corretta monetizzazione degli attivi e per i diversi adempimenti formali. Tra essi si possono rammentare, non a titolo esaustivo:
- i costi del personale amministrativo;
- i costi del personale/di terzi per la gestione delle vendite, ivi compreso eventualmente il personale di magazzino;
- i costi di vigilanza, di assicurazione, per utenze;
- le necessità logistiche, ivi compresi gli affitti di locali per lo stoccaggio dei beni (ovvero la prosecuzione, almeno fino ai termini contrattuali di recesso o cessazione pattizia, dei contratti di locazione in essere);
- i compensi professionali;
- gli oneri di pubblicità, provvigionali e fiscali connessi all’attività di vendita.
Al fine di determinare la capienza del patrimonio gravato da privilegio mobiliare, dunque, si deve ripercorrere l’analisi dell’attivo e del passivo a valori rispettivamente di mercato e di presumibile estinzione, per poi ricondurre le analisi all’alveo di una possibile procedura alternativa.
Ancora più controverso è il percorso interpretativo in caso di accordi di ristrutturazione (istituto, si ricorda di rilevante valenza privatistica).
Da un lato, pare ancor più condivisibile quanto sopra affermato, ossia che le valutazioni devono in primo luogo essere svolte in relazione alle alternative della liquidazione ordinaria o del concordato preventivo.
Tuttavia, la norma (art. 182-ter co 5) richiama espressamente la comparazione con la liquidazione giudiziale, il che non lascerebbe spazio a strade alternative.
Peraltro, tale riferimento specifico non è riproposto in sede di giudizio del Tribunale, laddove riprende la terminologia della “alternativa liquidatoria”.
A parere di chi scrive, per tutte le attestazioni e per i relativi fini, deve valere il principio per cui le valutazioni di una proposta, in sede di concordato o di accordo di ristrutturazione, devono essere comparate alla migliore soluzione alternativa percorribile. Che, non necessariamente, è sempre quella del fallimento.