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L’ incertezza economica e l’art. 2086 c.c.: la business judgment rule

Francesco Felis, Notaio in Genova

4 Agosto 2025

Jorge Luis Borges in un paragrafo beve intitolato "Del rigore nella scienza" descrive un mitico impero del lontano passato in cui i cartografi avevano preso il loro lavoro molto sul serio e ambivano alla perfezione. Nel loro tentativo di cogliere più dettagli possibili, disegnavano mappe sempre più grandi. La mappa di una provincia occupava tutta la città e la mappa dell'impero occupava tutta la provincia. Con il tempo, anche questo dettaglio divenne insufficiente e i Collegi dei cartografi tracciarono una mappa dell'impero in scala 1:1, ossia della dimensione dell'impero stesso. Ma le successive generazioni, meno appassionate all'arte della cartografia e più interessate a favorire la navigazione, trovarono inutili quelle mappe e le abbandonarono. La tesi che i modelli, gli assetti, i piani, devono essere sempre più complessi per essere più utili fa andare il processo all'indietro. Un modello soprattutto economico se deve essere operativo economicamente per essere rilevante e insegnarci qualcosa almeno deve essere semplice. 
La rilevanza non richiede la complessità e la complessità può precludere la rilevanza. I modelli semplici sono indispensabili: i modelli non sono mai veri ma c'è della verità nei modelli. Possiamo capire il mondo solo se lo semplifichiamo. 
La lezione di Borges può essere utile per interpretare anche l'art. 2086, comma 2. 
Spesso come sostiene l'economa comportamento si devono ricercare solo soluzioni soddisfacenti. Indagare sugli adeguati assetti in tema di gestione societaria coinvolge sia un piano giuridico, come fare impresa, sia economico. 
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1 . Impostazione del problema: un’introduzione economica
Può il diritto, le norme giuridiche, rispettando la regola del business judgment rule, prevedere assetti e, di fatto, tramite l’esame della loro esistenza ed effettività e/o efficienza, introdursi nella conduzione di un’impresa?
La risposta, posta la domanda in termini generali è negativa. 
Ma, in realtà molto dipende dalle opinioni che si hanno sul tema “incertezza”, sull’operare dell’incertezza nelle scelte economiche e, di conseguenza, su come bisogna agire di fronte ad essa. 
Nel mio lavoro partirò da chi, in economia, si è occupato del tema “incertezza”, facendone il perno centrale della sua teoria e delle proposte di politica economica (Knight, Keynes, i post-keynesiani) per arrivare a conclusioni giuridiche. 
Mi occuperò soprattutto degli autori citati non perché siano i soli o più rilevanti ad aver affrontato il tema ma perché partono dal presupposto (realistico, mi sembra) che le decisioni importanti sono quelle nelle quali un agente “ragionevole” non può completamente ignorare “la paura legata a cambiamenti imprevedibili fra il tempo della scelta e quello dei risultati “(Davidson, post-keynesiano). 
Altri autorevoli autori (Savage ad esempio) ammettono che se le decisioni in termini di liquidità e di investimento sono tipicamente condizionate da contingenze difficilmente prevedibili a priori, per cui la novità e la sorpresa devono far parte dell’immaginario del decisore, ma esse sono più rappresentabili come un “grande mondo”, per il quale lo stesso Savage riconosce che uno schema di ragionamento probabilistico “ristretto”, come il suo non è adatto. 
Inoltre Savage ritiene che un dato modello non può essere criticato, in quanto irrealistico, perché ogni modello deve essere basato su assiomi (che sono in qualche modo irrealistici) ma il compito degli economisti è quello di elaborare modelli che siano basati sulla percezione di ulteriori aspetti della realtà non considerati in un modello iniziale e ricercare nuovi assiomi. 
Così, però la teoria delle decisioni in condizioni di rischio e/o incertezza, si focalizza intorno all’idea della coerenza, più che su quella realistica, prevede un codice di comportamento per la coerenza della persona che la applica, non un meccanismo di predizione circa il mondo che la circonda; la teoria della probabilità non è più un tentativo di descrivere il mondo reale, ma il suo oggetto è il comportamento coerente (anche se un’impresa fallisce, si potrebbe aggiungere). 
Il fatto che le persone nella realtà siano più o meno coerenti non è ritenuto essenziale. Quindi l’uso che si può fare della teoria è normativo, non descrittivo
La teoria e la logica del probabile, così, si applica ad un soggetto economico ideale ,non reale: teoria che studia soggetti coerenti, quando lo sono, vede l’idea di razionalità come coerenza delle scelte, teorie che più che descrittive della realtà e di quello che accade sono normative cioè indicano come ci si dovrebbe comportare, sulla base anche di logiche e strumenti matematici, che non possono tenere conto della varietà delle situazioni ,dei limiti cognitivi e di informazioni, dell’umano, che trattano come diceva Keynes, a proposito degli economisti classici, il futuro come se fosse noto. 
Teorie che difficilmente possono spiegare il mal funzionamento dei sistemi economici degli anni Trenta: preferenza per la liquidità e spiriti animali, connaturati alla nozione di incertezza ed in situazioni incerte, ad esempio perché i valori azionari sono percepiti come legati a comportamenti convenzionali degli operatori finanziari piuttosto che a valori fondamentali delle aziende, i soggetti che detengono moneta a fini precauzionali /speculativi lo faranno per un’avversione al contesto contingente che non per aspettative ad esempio sulla variazione del tasso di interesse. 
Keynes è stato tra i primi ad affrontare il tema dell’incertezza (non l’unico) in economia e come essa possa essere (poco) governabile stante le ovvie conseguenze giuridiche che crea. Paradossalmente tutta una serie di spunti keynesiani si legano a moderne teorie economiche che analizzano e fondono il loro pensiero su come realmente gli agenti economici si comportano. Bisogna rendersi conto che come diceva Keynes “le tecniche formali hanno un ruolo utile, ma limitato”. Alcuni autori hanno affermato che la differenza essenziale fra Keynes e altri economisti circa l’impiego della matematica è che i secondi pensano che l’economia sia una logica della scelta in condizioni di scarsità, mentre per Keynes l’economia è una logica della scelta in condizioni di incertezza. Keynes si rifà ad una logica basata sulla probabilità logica non misurabile numericamente, all’economia come un mondo dove domina l’incertezza, alla ragionevolezza delle decisioni, ai dilemmi decisionali, alla non misurazione delle grandezze, cioè ad un modo innovativo di ragionare, un mondo dove non si ha la scelta tra risorse limitate ma la logica dell’incertezza tra le varie opzioni.[1] 
Perciò esponiamo, brevemente, le idee di Knight, di Keynes e dei post keynesiani circa la teoria delle decisioni caratterizzate da incertezza, rischio e circa la loro probabilità. 

- Knight
Frank Knight, uno dei fondatori della Scuola di Chicago di economia, ha scritto un saggio famoso dal titolo “Rischio, incertezza e profitto” (1927), dove si distingue tra situazioni di rischio e situazioni di incertezza. In una concezione dinamica, un approccio deterministico che postula la completa conoscenza dei dati da parte degli agenti, non può esistere. 
Knight si sofferma sul ruolo dell’imprenditore, ruolo trascurato secondo un’impostazione classica: nell’economia statica, di concorrenza perfetta, l’effetto della concorrenza tende all’annullamento dei profitti, la condizione normale di un sistema di concorrenza perfetta è il profitto nullo. 
L’esistenza del profitto può trovare giustificazione solo in una situazione di concorrenza reale in cui l’imprenditore deve confrontarsi con il cambiamento, per cui opera in condizioni di incertezza, non in quelle di certezza che caratterizzano il modello teorico di concorrenza. All'incertezza bisogna guardare per comprendere l’esistenza del profitto che si giustifica solo quando l’attività di investimento si svolge in un contesto di incertezza. Tutto questo dimostra una volta di più l’irrealismo della condizione di concorrenza perfetta. 
Con rischio si intende ogni situazione di incertezza misurabile, quando si può stabilire una probabilità numerica oggettiva degli eventi che condizionano i risultati delle scelte; con incertezza si intende ogni situazione di incertezza immisurabile, per cui bisognerebbe far riferimento ad una probabilità soggettiva, cioè in quali casi sia possibile o meno misurare l’incertezza attraverso la probabilità e quando sia possibile circoscrivere la discussione a giustificazioni razionali dell’agire.  
Knight chiama probabilità a priori, le situazioni che vi sono quando è possibile classificare i possibili casi in modo preciso, probabilità statistica, le situazioni quando è possibile fare una valutazione empirica della frequenza di un certo risultato su un insieme di osservazioni, stime (estimates), quando le osservazioni non possono essere valutate. La realtà economica, anche nei primi due casi è in parte aleatoria, l’analisi statistica può essere condotta sempre prendendo come riferimento un universo di casi tutti analoghi in modo preciso. Ma se la situazione ha un alto grado di unicità è impossibile far riferimento a un gruppo di casi rispetto al quale considerare il singolo caso e non possono esserci probabilità oggettive ma solo stime. Agire su stime, piuttosto che probabilità inferite da dati oggettivi, con decisione rara, unica, non riconducibile ad un insieme di decisioni analoghe rispetto alle quali identificare la reale probabilità di successo nel caso in oggetto. 
Non si può proseguire oltre nella descrizione dell’opera di Knight ma mi sembrano più convincenti le successive osservazioni che esporrò di Keynes e dei post keynesiani. 
Knight vede il rischio come una situazione assicurabile e l’incertezza come una situazione, un rischio, non assicurabile: siccome la probabilità non è oggettivamente data, l’incertezza a differenza della situazione di rischio non è misurabile. 
Nonostante le tesi di Knight e Keynes, di cui infra, nel nostro ordinamento sono state introdotte norme, forse sulle orme di Lucas si potrebbe affermare, che pretendono che l’imprenditore non debba avere incertezze e debba sapere o conoscere tutto. 
Almeno che si possano costruire “a priori” strutture, adeguati assetti, che possano farlo. Non tenendo conto che basta anche un aumento del costo dell’energia, sino ad un mese prima non prevedibile (vedi guerra Ucraina-Russia), cioè ragioni di ordine politico generale o, come direbbero gli economisti, macroeconomiche, che prescindono dalle decisioni individuali, per cui discorsi circa probabilità, rischio e incertezza, diventano aleatori. 
Ma le nostre norme, in pratica, chiedono di  predisporre adeguati assetti e i Tribunali (di Roma nel 2020, di Cagliari nel 2022, come vedremo) impongono   alle società e pretendono  di fare verifiche preventive per controllare se gli adeguati assetti ,in società in bonis, siano  “funzionali proprio per evitare che l’impresa scivoli inconsapevolmente in una situazione di crisi” e tramite l’art 2086, in combinato disposto con l’articolo 2049,  danno  sanzioni molto pesanti: in pratica non si tiene conto di una miriade di fatti sopravvenuti (anche nel giro di un mese o meno che possono alterare ogni quadro), si impongono organi solo formali (in modo che se ci sono, basta la loro, forse, per avere guai)  o si altera quelli che sono i principi della Business Judgment Rule. 
Non so se sia una “lettura”, come detto di Lucas o semplicemente una pretesa giurisprudenziale ad aver, prima, dettato certe norme, applicabili ad ogni società, anche piccolissime, e dopo aver ispirato certe sentenze. 

- Keynes 
Per Keynes bisogna distinguere le sue posizioni sulla probabilità e quelle sull’incertezza. I temi sono intrecciati ma in un primo approccio è bene tenerli distinti.
Keynes è centrale per il tema incertezza, sia per quello che ha scritto nella Teoria generale del 1936, sia per un articolo scritto nel successivo 1937 (Keynes. The General Theory of Employment,in Quarterly Journal of Economics.51) sia per quello che ha scritto, prima, nel Un trattato sulla probabilità del 1921: probabilità e incertezza siano concetti strettamente collegati. Keynes ha trattato la prima nel 1921 e la seconda nel 1936-1937. In linea generale, di ogni fenomeno incerto siamo interessati a sapere il valore della probabilità con la quale può realizzarsi, per quanto questo valore sia controverso. 
Per Keynes l’incertezza rappresenta la componente principale della sua analisi, quella che consente di spiegare l’incapacità della teoria economica nel dare conto del fenomeno disoccupazione. In assonanza con Knight ritiene che la conoscenza degli agenti economici non è perfetta ed esiste, di conseguenza, un contesto dove non possono essere trattati in modo adeguato aspetti come l’attività di investimento e il profitto. 

- Keynes e la probabilità
Prima di tutto ritiene la probabilità una proprietà del ragionamento umano più che della realtà che si osserva: è una relazione che esprime un grado di credenza in una proposizione. Per Keynes la c. d, impostazione frequentista è riduttiva (la conoscenza delle frequenze relative di un risultato in una serie di casi simili è in alcune circostanze disponibile, in altre no -nessuno aveva conoscenza di un telefonino prima che ci fosse – in altri casi, la conoscenza anche se disponibile non è significativa). Inoltre si è soliti, questo nella realtà, giusto o sbagliato che sia, esprimere un giudizio probabilistico anche se non vi è la possibilità di osservare empiricamente una serie di casi. In molti casi non si può applicare un ragionamento quantitativo ma solo qualitativo (affermare che un evento nell’intervallo fra impossibilità e certezza è più o meno probabile di un altro, non vuol dire che si possa attribuire un numero preciso a tutti gli eventi. Non esistono solo probabilità che possono essere espresse con un numero preciso, ma anche probabilità che chiama “non -numeriche”: si possono, spesso, fare solo comparazioni qualitative delle probabilità. 
Il richiamo all’esistenza di probabilità non numeriche, contestato da molti economisti (Edgworth, prima di tutto) è stato visto come una dimostrazione di un grande intuito: Keynes avrebbe anticipato chi ha ritenuto di approfondire, anche dal punto di vista matematico, l’idea che le probabilità soggettive sono degli intervalli di probabilità e, quindi, non un numero preciso ma un intervallo fra una probabilità massima e una minima. 
Keynes, rispetto a Knight, che lasciava indefinito il campo di indagine relativo a quelle che chiama stime, lo approfondisce con un’analisi probabilistica che passa dalla possibilità che si possano elaborare probabilità non numeriche. 
Inoltre, nei ragionamenti conta il grado di fiducia, ottenere una nuova evidenza può modificare la probabilità nel senso di farla crescere o decrescere, comunque ci rende più  fiduciosi nell’identificazione della probabilità (fa un esempio: abbiamo un’urna con un numero determinato di palline che possono essere o bianche o nere, ma non sappiamo in quale proporzione; siccome possiamo ritenere che ogni pallina o è bianca o è nera e che gli eventi - essere una pallina bianca o nera - sono indipendenti, possiamo concludere che la possibilità di estrarre una pallina bianca dall’urna sia del 50%; ma supponiamo di avere un’altra urna, con lo stesso numero di palline della precedente, o bianche o nere, ma di sapere che la proporzione di palline è del 50% bianche e del 50% nere. Anche in questo secondo caso la probabilità è di un mezzo come nel caso precedente, ma in questo secondo caso un maggior peso dell’argomento sostiene la conclusione di ½, o per usare il termine alla Knight, la fiducia nella valutazione della probabilità è maggiore nel secondo caso. In relazione alla condotta, perciò, Keynes ricorda le due principali caratteristiche delle probabilità: 
1 - le probabilità esistono sempre, ma non è detto che siano numeri precisi; 
2 - la loro effettiva valenza va ponderata rispetto al peso dell’argomento, in funzione della quantità di evidenza disponibile. 
Da qui, come dirà nella Teoria generale del 1936 che un approccio matematico alla teoria delle scelte, un approccio che privilegia la precisione numerica rispetto ad una valenza di una logica non numerica, è inadeguato. 
L’azione umana non può fare affidamento su precisi calcoli numerici (non significa che non bisogna farli o che siano inutili): non vuol dire agire senza criterio perché la logica probabilistica è razionale, l’azione umana deve essere consapevole e non estemporanea, ma affidarsi alle “convenzioni”, sociali, bilaterali, ecc.., può essere a volte necessario o comunque avviene anche in modo inconscio, è razionale che avvenga e nell’azione, nel giudicare un’azione dobbiamo tenerne conto in qualche modo. 

-Keynes e l’incertezza 
Keynes affronta l’argomento incertezza come uno sviluppo rispetto a quello che ha affermato sull’incertezza nel Trattato sulla probabilità, perché i due elementi, probabilità e incertezza sono collegati. Il tema viene affrontato nella Teoria Generale del 1936, in un successivo articolo del 1937. 
Il tema incertezza viene affrontato soprattutto per prendere decisioni di politica economica che non ostacolino la crescita della Gran Bretagna. 
L’analisi di Keynes viene sviluppata nel capitolo 12 della Teoria Generale dal titolo Lo stato dell’aspettativa di lungo periodo. 
Per Keynes decisivi per lo sviluppo sono gli investimenti: essi sono legati ai rendimenti, rendimenti futuri che si pensa di ottenere, i rendimenti futuri sono basati sulle aspettative e, perciò, sulla fiducia con la quale le aspettative sono formulate. Il punto importante, per i mercati finanziari e di borsa, sui quali Keynes si sofferma, è che con essi il valore attuale dell’investimento è sempre (ri)valutato giorno per giorno. Le operazioni di acquisto e vendita che valutano un investimento già esistente hanno effetto indiretto anche sulla valutazione di nuovi investimenti, l’investimento si trova ad essere valutato sulla stima di fattori che si manifestano in periodi futuri e in base alle aspettative che si formano, che vengono anche loro generate dalle fluttuazioni giornaliere del mercato azionario: la descrizione del ruolo delle aspettative nel mercato di borsa (importante nell’ambiente anglosassone più che da noi perché genera e gestisce risparmio destinato al reddito - dei pensionati ad esempio - o all’investimento) è uno dei più citati dell’opera di Keynes. 
La valutazione di un investimento, quindi, non può essere basata su una aspettativa matematica certa in quanto le aspettative dipendono non solo dalle probabilità della realizzazione dei rendimenti futuri attesi, ma anche dalla fiducia con la quale sono formulate. 
Ma in secondo luogo, c’è l’attività speculativa portata avanti da quegli operatori che acquistano sul mercato non perché hanno un’idea sui valori fondamentali dell’attività, ma per un ragionamento basato sul fatto che ritengono che altri operatori acquisteranno anche loro quel particolare titolo: per questi, la cosa importante è anticipare correttamente l’andamento del mercato, non identificare quale investimento avrà davvero la capacità di generare profitti in futuro. E se questi operatori in un particolare momento storico sono la maggioranza, il mercato, assetti adeguati o meno, si muoverà nella direzione in cui loro ritengono si debba muovere senza un reale collegamento con la sottostante struttura reale dell’economia o si muoverà casualmente. 
Valori di mercato calcolati in questo modo esprimono una “valutazione convenzionale”, con buona pace aggiungerei di Eugene Fama e della sua teoria dei mercati perfetti. L’incertezza che concerne l’attività di impresa è sia un’incertezza del singolo investimento che una legata a un ambiente esterno che si muove secondo ciò che impone la speculazione: l’economia “classica” ad un simile scenario, secondo Keynes, risponde ignorandolo. 
L’analisi del capitolo 12 è limitata ai mercati finanziari ma la questione è più generale e le considerazioni facilmente estensibili. Keynes ritiene che l’incertezza che condiziona l’attività economica fa sì che non vi sia “una base scientifica su cui formare una qualsiasi probabilità calcolabile” e non si può procedere facendo finta che la questione sia una questione di rischio secondo la terminologia di Knight cioè calcolabile. 
Quando dice che certi fenomeni sono particolarmente incerti per l’impossibilità di concepire una qualsiasi probabilità calcolabile, Keynes sta intendendo, con probabilità calcolabile, la probabilità numerica. I post keynesiani andranno oltre. 
Oggi quasi la distinzione tra probabilità calcolabile o meno mi sembra priva di senso se soprattutto per essa si fa riferimento ad una probabilità che tenga conto e si basi su tutte le informazioni e che le informazioni siano conoscibili 
Per questo, per Keynes, è necessario l’intervento dell’autorità politica che intervenga con investimenti pubblici mirati (keynesiani, non sudamericani), se gli investimenti privati non vengono intrapresi a causa dell’incertezza. 
Gli interventi pubblici sono sostitutivi o aggiuntivi quando vi è ragionevolmente questa incertezza, non sono costitutivi del mercato. 
L’autorità politica, su cui possiamo fare affidamento in situazioni di crisi acute, non può che rifiutare di riconoscere una razionalità agli esiti di mercato, quando è evidente che essi sono guidati da giudizi convenzionali ed è proprio nelle situazioni di vera incertezza che l’azione della politica economica è essenziale. 
Le decisioni, sia personali o politiche o economiche non possono dipendere dalla stretta aspettativa matematica: in situazioni di incertezza “keynesiana” non solo è difficile formulare probabilità precise, ma il loro grado di affidabilità è basso tanto da indurre Keynes a concentrarsi su probabilità non numeriche. 

- Post keynesiani 
Circa le opinioni dei postkeynesiani, mentre l’incertezza, secondo molti economisti, fa riferimento a situazioni attinenti ad incompletezza di informazioni, secondo i post keynesiani l’incertezza è riconducibile anche a situazioni dove le informazioni non esistono al momento della decisione. Keynes riteneva che vi potessero non essere probabilità calcolabili e che non si potesse specificare la lista delle contingenze che potevano influenzare le decisioni. 
I post keynesiani pongono maggiormente l’attenzione sull’importanza degli eventi non previsti e “l’irriducibilità dell’incertezza al rischio è quindi basata sul rifiuto non tanto dell’assioma della cosa certa quanto dell’idea che il contesto decisionale possa essere rappresentato da una lista completa degli stati di natura” (Carlo Zappia): l’incertezza keynesiana sarebbe non misurabile in termini di probabilità, anche se i post keynesiani sono stati accusati di non saper proporre norme di comportamento alternative per i decisori in condizioni di vera incertezza. 
Ma, si potrebbe replicare, per il nostro discorso, l’odierno articolo 2086 cc è un rimedio? Non è un rimedio peggiore del male, che può creare solo apparenza e responsabilità civile? Comunque è assolutamente necessario avere norme di comportamento, logicamente e matematicamente, elaborate? 
Comunque Keynes ha un atteggiamento, nei confronti della possibilità di calcolo probabilistico, più aperto di quello dei post keynesiani e il fatto che vi siano, o non, probabilità calcolabili non vuol dire che bisogna abbandonare il ragionamento probabilistico. 
Gli eventi della crisi del 2008, dovuti per i post keynesiani alla pretesa che gli operatori ritenevano di essere in grado di “prezzare” ogni rischio, pretesa  che ha fallito, sarebbero imputabili a deviazioni temporanee della capacità degli operatori di valutare correttamente i valori fondamentali di investimenti e attività finanziarie ad essi collegate o a mancanza di controlli, conflitti di interesse e impossibilità di calcolare contingenze nuove o imprevedibili o  comunque di calcolare tutte le contingenze? 
Keynes avrebbe risposto che sarebbe stato da rigettare il timore, come rimedio alla situazione del 2008, che un intervento dello Stato avrebbe creato un effetto “spiazzamento” per gli investimenti privati, come riteneva, al contrario,  Eugene Fama (che era dell’idea che i rischi potevano correttamente essere incorporati nei prezzi e che le innovazioni finanziarie, liberalizzate, comunque siano benefiche perché la concorrenza sui mercati sarebbe in grado di escludere ogni innovazione che non fornisca valore aggiunto). 
Lo Stato ostacolerebbe i modelli di valutazione dei rischi anziché favorirli e renderli efficaci. 
Ma i mercati finanziari sono esempi di meccanismi che sempre creano allocazione efficiente? Gli olandesi che compravano tulipani potrebbero rispondere: il calcolo è impossibile quando i dati sono incompleti e quando si confronta l’ignoranza, la razionalità è una mera pretesa (Shackle, in G.L.S. Shackle.Expectation in Economics. Cambridge University Press.1952, citato da Carlo Zappia p. 161). 
Perciò l’incertezza nelle decisioni, nelle scelte, fenomeni individuali, locali, contingenti, generali o di geopolitica rendono logico prevedere adeguati assetti, ma a cosa? 
Alla natura e dimensioni dell’impresa. 
Ma per fare cosa? 
Anche in vista della rilevazione tempestiva della crisi, cioè per evitare o attenuare una crisi o solo per rilevarla? Con contingenze che si verificano anche nel giro di un mese? 
Dunque, per fare cosa? 
Per attivarsi con strumenti che permettano il superamento della crisi: il sogno di tutti. Peccato che la Lehman Brothers non li avesse. Peccato che chi, anche solo studente, o impresa è stato coinvolto nelle conseguenze, anche molto indirette ma pesanti, del fallimento non avesse a disposizione l’art 2086 cc. 
Piuttosto basterà avere formalmente degli organi? Creare un’organizzazione (efficiente), creare un organigramma, processi di gestione amministrativa e contabile e ritenere che questo assetto sia in grado di rilevare in modo tempestivo i problemi? 
Creare un organigramma è un fatto, forse semplice, probabilmente costoso per molte imprese. Creare “un organo” che sia in grado di “rilevare …” assomiglia alla quadratura del cerchio che ancora non si è mai trovata, a quella fatica e impresa che richiede grande sforzo senza alcun risultato tipica di Sisifo. 
Analizzeremo tutto.  
Lo accenno qui perché il mio studio attiene al diritto societario, ma l’articolo 2086 è stato anche visto in ottica giuslavoristica [2] per una tutela (preventiva) contro i rischi da lavoro e la sicurezza, lettura che a prima vista appare non evidente. 
Ma di più: stante le definizioni che emergono di “crisi “”insolvenza” ecc… assumono rilievo anche indirizzi giurisprudenziali come la Cassazione civ. sez. III, 1 giugno 2021 n. 15276. 
Essa, in un caso in cui gli azionisti si erano adoperati per ottenere il risarcimento del danno subito per la perdita di valore dei titoli azionari “Alitalia” dagli stessi detenuti in conseguenza della condotta del Mef che, in qualità di socio di maggioranza, aveva colposamente leso l’affidamento degli investitori, diffondendo assicurazioni, rilevatesi infondate, in ordine al risanamento aziendale di un’impresa da ritenersi decotta ,nonché per avere indotto i soci-risparmiatori a mantenere le azioni, ed acquistarne altre ,garantendo la continuità aziendale, nonostante alcun fattibile progetto di salvataggio dell’azienda, assicurazioni smentite dalla decisione assunta dalla Borsa italiana in data 5 giugno 2008 di sospendere e di non riammettere, in data 20 gennaio 2009, i titoli della società alla quotazione di borsa, usa espressioni che, alla luce dell’art. 2086,  cc possono arrivare non solo a sindacare il comportamento e le direttive in un gruppo societario ma anche scelte politiche. La dottrina (Damiano Marinelli e Saverio Sabatini. Il nuovo art. 2086 cc e la business judgment rule. Maggioli editore. 2022)  testualmente, p. 37, circa il significato di adeguati afferma che sono quegli assetti che “siano in grado di garantire un monitoraggio costante dell’organizzazione aziendale […] tanto da poter far scattare i campanelli d’allarme con un preavviso sufficiente a consentire all’organo amministrativo di intervenire e risolvere il problema. Quel che,  ci pare, sia di evitare è proprio la “sorpresa”, ovvero l’insorgere improvviso di una fattispecie patologica o di difficoltà che nessuno si aspettava (e che difficilmente potrà essere affrontata con successo), dovendosi invece predisporre un sistema di allerta tale da consentire un controllo costante, come (sia consentito l’esempio automobilistico) la spia della benzina dell’auto, che costantemente informa l’automobilista di quanta benzina sia ancora presente nel serbatoio e che parimenti lo sollecita quando la benzina sta per finire”. 
Detto con rispetto per gli autori, l’esempio non è dei più appropiati. 
Naturalmente non può essere una risposta diretta ma costituiscono sempre una replica le parole di Keynes dal quale vale prendere le mosse: “il volume degli investimenti è influenzato da rischi di due tipi. Il primo è il rischio dell’imprenditore, o del debitore, e deriva dai dubbi che sorgono nella sua mente riguardo alla probabilità di realizzare davvero il rendimento che spera di ottenere […]  Allorché esiste un sistema di debito e credito diviene rilevante un secondo tipo di rischio, che possiamo rischio del creditore”. Il passaggio dalla valutazione ottimistica alla valutazione prudente dei due rischi da parte di chi investe e da parte di chi finanzia costituisce il crinale della crisi. Le attese sono “fondate su un’evidenza mutevole e inaffidabile”, su probabilità di rado calcolabili, su ipotesi spesso convenzionali: “l’essenza della convenzione […] è nell’ assumere che lo stato presente degli affari persisterà indefinitamente, almeno finché non si avranno specifici motivi per aspettarsi un cambiamento […]. Alla precarietà insita nella convenzione si deve in non piccola misura l’insorgere di un problema di inadeguatezza degli investimenti” (Keynes).
All’instabilità finanziaria e alla sua analisi, prima di Keynes, si è dedicato anche   Fisher che ha teorizzato un’economia che si avvita in una spirale recessiva per deflazione dei debiti (I. Fisher). 
Altri contributi erano stati offerti da Henry Thornton (1802) Walter Bagehot (1873) Human Minsky che, oggi molto considerato, sostiene come un avvenimento imprevisto prospetta nuove possibilità di arricchimento attraverso l’impiego di risorse finanziarie ampiamente prese a prestito. La speculazione monta sostenuta da un’offerta di fondi che il progresso dell’industria finanziaria rende più elastica e l’oggetto della speculazione può essere qualsivoglia: prodotti, materie prime, immobili, cambi, titoli, scommesse. Ma prima o poi, endogenamente, o a seguito di un fatto nuovo, di un qualche segnale, la convenzione muta. Il rischio del debitore e il rischio del creditore diventano sopravvalutati. La fiducia scema, la sfiducia si diffonde. I debitori svendono per liberarsi dai debiti, i finanziatori premono per rientrare nei crediti. L’incertezza e il crollo dei prezzi sospingono verso l’alto il costo reale del denaro. La sequenza si arresta se la sfiducia spontaneamente rientra o la fiducia viene ristabilita dalla politica economica. 
In questa visione dei post keynesiani, Charles Kindleberger ha scandito il modello Minsky nei seguenti momenti logici: lo spiazzamento; l’oggetto della speculazione; l’euforia; la tensione; il segnale; il discredito; la crisi le sue conseguenze. 
Ma tutti questi fenomeni spesso sono indipendenti dal singolo imprenditore, oltre che essere connaturati al rischio d’impresa e non possono essere eliminati se non si vuole eliminare l’impresa, comunque non sono governabili né avvertibili dall’imprenditore costituendo essi una miriade di avvenimenti singoli e sparsi in mille luoghi (H. P. Minsky, C. P. Kindleberger). 
Lo spread con i Bund tedeschi e italiani era zero dai primi anni duemila sino al 2007 ed è diventato importante anche politicamente verso il 2011: ma tutti per fatti che fuoriescono dalla singola impresa
Circa l’impostazione post keynesiana, Minsky vede, ritornando sugli scritti di Keynes, l'incertezza e l'irrazionalità e il carattere convenzionale delle aspettative come fonti constanti di instabilità: il sistema economico nelle fasi di ottimismo vede gli agenti economici che iniziano ad indebitarsi e vengono assecondati dai banchieri che ne condividono le aspettative. Anche quando l'assunzione di rischio non assume le estreme forme della "Ponzi Finance", la crescita di posizioni debitorie fa sì che quando le aspettative sono positive, i rischi si accumulino all'interno del sistema economico creando le premesse per una crisi. 
Quando molte unità economiche non riescono più a mantenere un flusso di ricavi sufficienti a garantire loro condizioni di solvibilità, basta un piccolo rialzo del tasso di interesse, una restrizione creditizia o una riduzione dei prezzi per far precipitare l'intero sistema in una drammatica crisi con effetti reali che , attraverso le relazioni di credito- debito, si trasmettono a tutta l'economia e a tutti gli operatori anche i più oculati e i più solvibili e si trasmettono in modo rapido, istantaneo. 
Il flusso di profitti regola, in ultima analisi la capacità degli agenti di ripagare i loro debiti e in questo Minsky e i post keynesiani riprendono Kalecki e Levy. 
Il flusso di profitti attuali dipende dagli investimenti, dal deficit spending del governo e, in economia aperta, dalle esportazioni; le aspettative sui rendimenti e sui volumi degli investimenti futuri mutano il volume attuale degli investimenti e, di conseguenza, il flusso di profitti. 
Tutto questo senza negare il valore della regolamentazione finanziaria per aiutare le imprese e le banche ad indebitarsi in modo eccessivo ed imprudente.
I . Teoria istituzionalista e teoria contrattualista dell’Impresa
L’interesse dell’impresa è qualcosa di distinto da quello degli azionisti (teoria istituzionalistica contrapposta a quella contrattualistica). 
Diceva Asquini “l’impresa è un esempio di istituzione, infatti ricorrono tutti i suoi elementi caratteristici: il fine comune, cioè il conseguimento di un risultato produttivo socialmente utile, che supera i fini individuali dell’imprenditore (intermediazione, profitto) e dei prestatori di lavoro subordinato; il rapporto di coordinazione tra di essi; la conseguente formazione di un ordinamento all’interno dell’impresa, che conferisce al rapporto di lavoro, oltre l’aspetto contrattuale, un particolare aspetto istituzionale”.[3] 
Certamente la visione dell’Asquini si contrappone a quella oggi dominante nell’inconscio collettivo e comune, plasmato dalla teoria marginalista, incentrata sulla massimizzazione dell’utilità individuale, sull’interesse individuale alla massimizzazione del risultato come unico principio di razionalità in grado di guidare i processi decisionali. Principio presente oggi nei mercati finanziari che non producono cose materiali. Al massimo rapporti contrattuali dove basta che gli operatori, usando diligenza o con accortezza ed esplicitando i rischi a soggetti che forse sono in grado di capirli, vanno esenti da responsabilità. Perché prevalentemente in termini di responsabilità si ragiona in realtà e basandosi su calcoli statistici e attuariali per la sua determinazione e ricorrenza. Per questo diventa funzionale una certa semplificazione e deregulation. Appunto un versante giuridico. 
La crisi ha imposto una riflessione sul sistema attuale di Corporate Governance che ha mostrato limiti e difetti. In questo contesto si inserisce la revisione dei principi del codice di Corporate Governance della OECD ancora fermo al 2004. E in questo contesto si inserisce l’insegnamento di Rathenau che ci riporta alla fondamentale questione del valore della azienda quale insieme di contratti e rapporti giuridici che trascende il mero interesse economico al dividendo. L’interpretazione che emerge è il passaggio da un’ottica di cosiddetta sharesholders value a quella di stakeholders value. 
Questo passaggio implicherebbe considerare l’Impresa non come mera organizzazione nelle mani dei proprietari capitalisti e deputata a creare profitti, ma quale organizzazione complessa composta dal capitale iniziale, dai lavoratori, dai creditori, dal territorio. Ovviamente tale prospettiva comporta dei cambiamenti soprattutto a livello di governance ed infatti i maggiori cambiamenti sono destinati ad avvenire nella composizione dei Consigli di Amministrazione. 
Mariana Mazzuccato [4] rievoca, a prescindere dalla questione giuridica, a testimonianza di come dovrebbero dialogare di più il mondo economico e quello giuridico, la questione posta da Milton Friedman nota come la teoria degli shareholder. Essa è stata spiegata dal premio Nobel per l’Economia Milton Friedman, in un famoso articolo pubblicato sul New York Magazine nel 1970, ed intitolato “The Social Responsability of Business i sto Increase its profits”
Tale teoria focalizza l’attenzione sugli azionisti, suoi loro interessi e sulla creazione di valore economico e della massimizzazione del profitto in una pura ottica affaristica che si può riassumere nella famosa citazione di Friedman: “business of business is business”. 
Il Premio Nobel per l’Economia riteneva che la finalità ultima di ogni impresa fosse la creazione di valore economico per gli azionisti attraverso la massimizzazione del profitto. Secondo questo approccio, seguito da tutti i manuali di economia, gli agenti economici diversi dagli azionisti dell’impresa e che entrano in relazione con essa sono “protetti” unicamente dai contratti stipulati con l’impresa stessa e dalla regolamentazione imposta dai governi. Scrive Friedman: “…l’imprenditore ha una sola responsabilità sociale: quella di usare le risorse a sua disposizione e di impegnarsi in attività dirette ad accrescere i profitti sempre con l’ovvio presupposto del rispetto delle regole del gioco, vale a dire dell’obbligo di impegnarsi in una aperta e libera competizione, senza inganno e senza frode. Parimenti, la responsabilità sociale dei dirigenti dei sindacati è semplicemente quella di servire gli interessi dei loro associati”
La Mazzuccato espone, in modo critico la teoria. 
Nel suo “Strategic Management. A Stakeholder Approch”, Robert Edward Freeman punta l’attenzione non solo sugli azionisti, ma su tutti gli stakeholder, tutti i portatori di interesse, e quindi considera gli interessi ed il punto di vista di proprietari, clienti, dipendenti, fornitori, associazioni di categoria, competitors, in quanto possono influenzare le decisioni dell’impresa e nello stesso tempo essere influenzati dalle azioni dell’azienda. 
Friedman riteneva, nel 1970, che un principio cardine, almeno da lui ritenuto tale, cioè la massimizzazione dei profitti da parte delle imprese fosse violato e la situazione sarebbe divenuta causa di declino economico. Così non ci sarebbero state   più sanzioni per i dirigenti che mancavano di massimizzazione i profitti, gli azionisti, che erano dispersi o poco organizzati, non avrebbero inflitto   sanzioni. Anche   i mercati non lo avrebbero fatto   perché le società spesso erano monopoliste. Dare potere ai dirigenti che lasciavano diminuire i profitti per gli azionisti anziché massimizzarli, pagando migliori stipendi agli impiegati, investendo in standard più elevati di tipo ambientale, per la salute e sicurezza dei profitti, sarebbe una chimera: in realtà, per Friedman, il sacrificio dei profitti verso gli azionisti, si traduceva in aumento delle note spese e dei consumi di lusso dei manager. 
Friedman riteneva che i rapporti tra i dirigenti e gli azionisti (principali e agenti) fossero improntati ad egoismo e il problema si poteva risolvere dando la priorità ai secondi: perciò era utile la frantumazione dei conglomerati perché non erano altro che flussi di cassa. 
Se gli interessi dei dirigenti e degli azionisti dovevano essere allineati, si aggiungeva, meglio sarebbe stato pagare i dirigenti in azioni o in opzioni della società. Così sarebbero stati motivati a massimizzare gli interessi degli azionisti. Ma i dirigenti hanno anche l’interesse a procurarsi una rendita: i gestori dei patrimoni, che soprattutto spingono a frantumare i conglomerati per ricavare valore per gli azionisti, sono più vicini ai dirigenti che ai loro clienti che rimangono poco informati. 
La vera alleanza e convergenza si verificava tra i gestori e i dirigenti, non tra i secondi e gli azionisti. Comunque diminuiva la percentuale di utili da destinare all’investimento e l’aumento di prezzo delle azioni o l’aumento dei dividendi era visto in un ambito temporale sempre più ristretto: nel 1945 le azioni gli individui e i fondi o le istituzioni le tenevano in media per quattro anni, le tenevano per otto mesi nel 2000, per due mesi nel 2008, per ventidue secondi nel 2011, con l’incremento del trading ad alta frequenza. Almeno   questo, negli Stati Uniti.[5] 
Il   famoso   caso Dodge v. Ford   sancisce il principio del   primato degli azionisti   proprio dei paesi anglosassoni. L ’Europa continentale è rimasta più fedele a modelli più orientati agli stakeholder. 
La vertenza Dodge v. Ford del 1919 è ancora oggi alla base della concezione secondo cui una società è in primo luogo al servizio degli azionisti. : gli  economisti che gravitano attorno all’Università di Chicago furono i principali sostenitori dell’idea del primato degli azionisti la cui attrattiva sta in parte nella sua semplificazione dal punto di vista economico  .Se le aziende avessero ampi doveri pubblici ,diventerebbe difficile misurarne quantitativamente i risultati .Se invece sono tenute unicamente a massimizzare la ricchezza degli azionisti, è più facile da valutare la loro performance.[8] 
Ma il primato degli azionisti come si declina? 
Ci si deve concentrare ad esempio sul valore borsistico del titolo o non piuttosto il valore di una società non è comunque il risultato di un equilibrio complessivo tra molteplici interessi. La risposta che si dà che costituisce una variante della concezione del primato degli azionisti e si inserisce in quel alveo, è che bisogna riferirsi al “enlightened shareholder value”, al valore per gli azionisti illuminati
Cioè la massimizzazione della ricchezza per gli azionisti deve tener conto degli altri stakeholder e di uno scopo societario che va al di là del profitto. 
Questa concezione, non so quanto soddisfacente, nasce nel solco della concezione alla Friedman, per la quale ciò che va bene per la società, per un gruppo di stakeholder, finirà per andare bene sempre anche per gli azionisti, in virtù quasi di una coincidenza divina. Con il corollario che i dirigenti, i manager, nel perseguire lo scopo societario, non devono compiere azioni di cui facciano le spese in ultima analisi gli azionisti. 
Oggi si ritiene che le società debbano agire in riferimento allo scopo dichiarato, per esempio, perseguendo gli aspetti compendiati nella triade “ambiente, società, governance” indicati con la sigla ESG (environment, society, governance). A proposito degli ESG, se il Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza ("CCII"), compie per certi versi una rivoluzione, ponendo al centro del sistema aziendale di prevenzione della crisi l'adeguatezza degli assetti societari e delle misure della rilevazione tempestiva della stessa (cfr. articolo 3 CCII),  e la riforma giunge in un momento storico, per i processi di trasformazione in atto nel capitalismo, che volge verso la stakeholder economy, e per la crescente importanza dei fattori di sostenibilità come parte integrante del ciclo vitale e dello sviluppo aziendale, dall’altro canto si è messo in evidenza come emerga da una recente analisi di Cerved Rating Agency che le società con valutazione ESG "bassa" hanno in media una probabilità di default dalle 2 alle 5 volte superiore a quella delle più virtuose. L'analisi ha osservato che gli aspetti ESG che impattano maggiormente sulla valutazione di merito creditizio sono quelli riguardanti la governance. Ogni comitato nella sua azione vedrà se alcuni fattori rilevanti che compongono l’ESG sono perseguiti, se la composizione del consiglio di amministrazione tiene in conto queste esigenze, anche nei criteri di nomina e si propone di inserire nei documenti sociali (in ambiente italiano si potrebbe dire nello statuto)  indicazioni a proposito dello scopo societario, che tengano conto di perseguire, e come questi obiettivi, per fare sì che la costituzione della società sia subordinata all’intenzione di offrire un contributo più ampio alla collettività. Viene proposto un esempio concreto: [7] la missione proclamata da Facebook è “creare comunità e avvicinare il mondo”, mentre il suo scopo legale depositato è assai meno significativo “compiere qualsiasi atto o attività legale consentito alle società ai sensi della Delaware General Corporation Law”. Ma la cultura rappresentata dal Delaware è forte ed è conveniente e così l’impostazione teorica alla Friedman. Cambiare la struttura aziendale, persino modificando il modello societario o inserendo uno specifico scopo nei documenti costitutivi, che consentirebbe di perseguire anche finalità pubbliche più ampie, mi lascia alquanto scettico sulla sua realizzabilità concreta. Le B Corp sono negli Stati Uniti aziende che soddisfano determinati parametri di performance sociale e ambientale, trasparenza pubblica e rendicontazione legale, cercando di realizzare un equilibrio tra scopo e profitto. Ma mi sembrano un piccolo fenomeno in termini numerici. Forse è più realistico insistere sulla creazione e sviluppo di quelle regole (posto che sembra che il mercato impieghi circa cinque anni per assorbire nella quotazione del titolo tutte le informazioni  sugli investimenti intangibili e pertanto i dirigenti che investono ad esempio in ricerca e sviluppo o nel miglioramento delle condizioni di lavoro dei dipendenti rischierebbero di agire contro il loro stretto interesse personale se i loro benefit  o  pacchetti di azioni a loro favore o incentivi sono basati su prestazioni che variano da uno a tre anni) che diano incentivi o subordino il trattamento economico dei dirigenti su una scala temporale lunga. Per assicurare coerenza tra incentivi e creazione di valore a lungo termine e sostenibile.[6] Comunque porsi al servizio dei clienti e maggiormente degli stakeholder, con un rapporto con fornitori e clienti onesto ed equo, può promuovere l’innovazione e mantenere competitiva l’azienda Bisogna pensare di più ai c.d. stakeholders, non ridurre la valutazione al solo fattore del prezzo dell’azione. 
Per venire ad un aspetto più giuridico, a dimostrazione di come possano agire teorie economiche e diritto, istituzioni, nel caso specifico i comportamenti degli amministratori delle società, come già accennato in termini generali circa il rapporto economia e istituzioni nelle note, basta richiamare alcune considerazioni svolte un po' di tempo fa a proposito delle condizioni che possono determinare lo sviluppo di uno Stato. Gli effetti della interdipendenza tra decisioni di diverse imprese è un tema decisivo per lo sviluppo.Sono utili alcune considerazioni elaborate da economisti che in passato si sono occupati di “Economia dello Sviluppo”: possono servire Rosenstein Rodan nel 1943 aveva evidenziato, in un articolo famoso ripreso da altri economisti quali Nurske, le difficoltà che ostacolano l’industrializzazione di un paese agricolo sottosviluppato e aveva fatto l’esempio, diventato famoso, dell’imprenditore che in un paese di quel tipo prende in esame la possibilità di costruire un calzaturificio. La sua decisione dipenderà dalla previsione del profitto che la sua impresa potrà realizzare e questo, dati i prezzi degli imput e del prodotto, dipenderà dalla quantità di scarpe che si attende di vendere, ossia dalla domanda. L’effetto del suo investimento sulle dimensioni della domanda interna sarà limitato, dato che esso aumenterà il potere di acquisto soltanto dei dipendenti dell’impresa, che si suppone fossero prima disoccupati o occupati in attività a basso reddito. L’investimento non risulterà remunerativo e potrebbe non essere effettuato. Le cose andrebbero diversamente se insieme all’investimento nel settore calzaturiero, venissero progettati e attuati investimenti in numerosi altri settori, perché in questo caso l’offerta creerebbe la domanda, in quanto i produttori di ogni bene sarebbero acquirenti di tutti gli altri. 
Le decisioni degli imprenditori sono quindi interdipendenti: la decisione di investire da parte di uno di essi crea vantaggi potenziali per gli altri e ne modifica le decisioni. Procedendo nell’analisi si è fatto il caso di due imprese che vendono i loro prodotti a un prezzo internazionale dato. 
Interdipendenza che determina addirittura le decisioni di intraprendere l’investimento. Cioè non solo e non tanto una vera (o falsa) responsabilità sociale o verso attori più o meno esterni all’impresa, responsabilità per decisioni che ogni impresa dovrebbe avere o solo verso i suoi azionisti o addirittura verso il benessere dell’umanità come afferma Albert Camus (che può anche costituire un alibi, come dice l’autore, per i tiranni, per comportamenti che nascondono ipocrisia). 
Hirschman affermava che nei paesi sottosviluppati mancava più che il capitale, l’iniziativa imprenditoriale e che quindi una politica di sviluppo dovrebbe mirare soprattutto a creare condizioni favorevoli per stimolare tale iniziativa. La proposta, operativa di Rosenstein Rodan, secondo Hirschman, era sbagliata perché avrebbe mortificato l’iniziativa imprenditoriale: non si dovrebbe programmare un insieme di investimenti in diversi settori ma stimolare l’investimento in quelli che presentano maggiori e più numerose connessioni a monte e a valle (linkages) con altri. Se approfittando di condizioni favorevoli, create dal miglioramento ad esempio, delle infrastrutture o dei servizi pubblici, un imprenditore investe in una data attività produttiva per la quale scarseggiano gli imput necessari, come materie prime, semilavorati, componenti, o mancano prodotti complementari come contenitori e accessori, si crea un disequilibrio. Questo disequilibrio creerà a sua volta condizioni favorevoli, ossia incentivi ad investire nei settori che producono quei beni mancanti o scarsi che vedranno aumentare la propria domanda. 
Quale che siano le tesi esatte, le ricette di politica economica, da un lato, più alla Friedman o alla  Hirschman (che mostra  scetticismo sulle virtù dei piani e programmi ed è più attento alle caratteristiche dei diversi agenti economici della industrializzazione) , o alla Mazzuccato e alla Rosenstein Rodan dall’altro lato, circa i compiti dello Stato, sicuramente si mette in evidenza ed elemento centrale e unificante ,almeno in sede di analisi, anche se non di proposta è l’esistenza di interdipendenza tra le decisioni delle imprese come già detto. 
L’esperienza italiana con la formazione dei distretti industriali dovrebbe essere un utile esempio circa l’importanza di questo elemento. 
I fenomeni esaminati, di tipo economico, come è noto hanno avuto l’attenzione degli economisti e dai giuristi insieme potremmo dire da sempre. 
Uno dei saggi fondamentali è stato quello di Adolf Berle e Gardiner Means citato nelle note. 
Gli effetti economici generali da loro messi in evidenza, sino ai recenti avvenimenti della crisi del 2008 sono noti: poche società possono controllare la metà o oltre di tutta la ricchezza, l’influenza delle grandi società, denominate semi-pubbliche dai due autori, si estende ben oltre le attività sotto il loro diretto controllo (le piccole imprese che hanno rapporti di compravendita con queste grandi società saranno molto più influenzate da queste che non da altre piccole società con le quali pure abbiano rapporti, la prosperità delle piccole imprese dipende spesso dal favore che le grandi gli concedono, l’influenza che una grande società esercita sui prezzi è moltiplicata per effetto della sua stessa grandezza, anche non arriva ad essere di tipo monopolistico, la sua influenza politica può essere enorme). La concentrazione e il fatto che grandi imprese concentrino più della metà dell’attività industriale o di un settore fa sì che poche migliaia di individui su milioni che formano una popolazione sono in condizioni di controllare e dirigere metà dell’industria. 
Accanto a questi, ed altri effetti economici, anche macroeconomici, ci sono effetti giuridici: i singoli tendono a perdere sempre più la proprietà degli strumenti di produzione e a diventare proprietari di “pezzi di carta” (Adolf Berle e Gardiner Means) , comunemente conosciuti come azioni, obbligazioni o titoli in genere, che acquistano la qualità di beni mobili per effetto del meccanismo costituito dal pubblico mercato. 
Il controllo degli strumenti di produzione viene ceduto a gruppi ristretti che amministrano l’insieme delle proprietà e solo presumibilmente lo fanno nell’interesse dei possessori dei titoli. Il potere sui mezzi di produzione è separato dal diritto di proprietà su di essi e dal diritto di goderne i frutti. Il controllo fisico passa dal singolo proprietario a enti semi-pubblici, nonostante che il proprietario in teoria rimanga sempre interessato ad ogni incremento possibile del loro valore: si realizza, cioè una parziale rinuncia e riordinamento del contenuto del diritto di proprietà che, in precedenza, comprendeva il pieno potere di disposizione materiale, sia il potere di godere dell’uso e dei frutti e dei proventi dei beni. 
E’ stato detto che si verifica la disgregazione del tradizionale diritto unitario di proprietà nelle sue componenti: il potere di disporre e la facoltà di godimento (Adolf Berle e Gardiner Means). 
Il nostro ordinamento a questa situazione, giuridicamente ha reagito, parzialmente, dettando regole diverse e ha differenziato la disciplina delle società per azioni, quasi - pubbliche come le chiamano  Adolf Berle e Gardiner Means: si è disciplinato  in modo diverso le società per azioni dalle altre e all’interno delle società per azioni quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio da quelle che non vi fanno ricorso, cioè ha dettato norme specifiche per le società per azioni con azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse fra il pubblico in misura rilevante. Anche se il concetto cui fanno riferimento i due autori, Adolf Berle e Gardiner Means, non è perfettamente sovrapponibile a quello che deriva dal nostro codice e le loro considerazioni sono più generali e trasversali. 
Ma, a parte i fenomeni economici più generali bisogna verificare se a questa impostazione nata con la riforma societaria si è sempre tenuto fede e verificare quali debbano essere i comportamenti in generale delle società cioè in pratica degli amministratori con riferimento soprattutto alle società di capitali. 
Comportamenti degli amministratori visti nel loro nucleo essenziale e uguali per tutti gli amministratori di società. Tenendo conto che anche per le più piccole società ci potrebbe essere sia l’esigenza di perseguire, ma anche di evitare,  che “il benessere dell’umanità è [sia] sempre l’alibi dei tiranni” (Albert Camus) sia, circa i reali comportamenti, di tenere conto che mettere “un uomo [un amministratore] della migliore volontà di questo mondo in ambiente disgraziato, circondato da difficoltà di ogni genere; egli lotterà per due anni, per tre anni; ma la vittoria sempre gli sfugge; alla fine l’esperienza gli dimostra che la vittoria è impossibile. Come volete che quest’uomo alla fine non si perda di coraggio? Bisognerebbe essere santi per vivere tutta una vita di sacrifici disperati; e anche il santo, alla fine, abbandona la vita del suo tempo e se ne va nel deserto. Ma chi deve rimanere nella vita civile, ben presto si scoraggia, e dallo scoramento alla depressione, e dalla depressione al tradimento è breve il passo.” (Gaetano Salvemini, Intervento al X Congresso del Partito Socialista Italiano, 1908). La realtà economica italiana è fatta realtà economiche molto piccole.
II . Keynes
Abbiamo visto come Keynes sia centrale per il tema incertezza, sia per quello che ha scritto nella Teoria generale del 1936, sia per un articolo scritto nel successivo 1937 (Keynes. The General Theory of Employment,in Quarterly Journal of Economics.51) sia per quello che ha scritto prima nel Un trattato sulla probabilità del 1921, abbiamo visto come probabilità e incertezza siano concetti strettamente collegati e come Keynes abbia trattato il primo nel 1921 e il secondo nel 1936-1937: di ogni fenomeno incerto siamo interessati a sapere il valore della probabilità con la quale può realizzarsi, per quanto questo valore sia controverso. 
Ho trattato del tema probabilità e incertezza in Keynes, più dal punto di vista, direi individuale. Adesso affronto il tema di come certe impostazioni macroeconomiche keynesiane e comunque certi eventi macroeconomici, anche lontani dall’imprenditore, che comunque fuoriescono dalla disponibilità individuale possano influire sulle decisioni e soprattutto sui risultati imprenditoriali. 
Perché in un’opera giuridica premettere alcuni cenni su uno dei più importanti economisti che ha improntato di sé quasi un secolo? Perché è stato tra i primi ad affrontare il tema dell’incertezza (non l’unico) in economia e come essa possa essere (poco) governabile creando delle ovvie conseguenze giuridiche. O perlomeno dovrebbe crearle. Paradossalmente tutta una serie di spunti keynesiani che saranno ripresi in seguito, relativi ai comportamenti degli amministratori delle moderne società e sugli assetti adeguati di esse, si legano a moderne teorie economiche che analizzano e fondono il loro pensiero su come realmente gli agenti economici si comportano. 
Nel ventesimo secolo si sono scontrate due teorie essenziali. 
L'una, elaborata dall'economista inglese John Maynard Keynes, porta ad un più ampio intervento dello Stato nell'economia; l'altra, rivitalizzata dalla scuola monetarista di Milton Friedman, prende le mosse dagli economisti classici dell'800 e contiene una difesa della libertà d'intrapresa privata. La "summa" del pensiero di Keynes si può trovare nel trattato "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta", mentre l'economista di Chicago, insignito del Premio Nobel nel 1976, ha lasciato una mole notevole di articoli specializzati e pochi lavori isolati, di cui la gran parte non disponibili in italiano, ma può essere utile consultare il testo "Efficienza economica e libertà". 
Keynes è spesso visto come uno statalista e le sue implicazioni vanno indubbiamente in tal senso. Sebbene egli sostenesse il Partito Liberale inglese, nel trattato "La fine del lasciar fare" (1936) ebbe modo di scrivere: "Non è vero che gli individui posseggono una "libertà naturale" imposta sulle loro attività economiche", che sembra i punti in cui giurava di difendere in ogni caso il sistema capitalistico. A parte le diatribe politiche, però, l'importanza di Keynes non è da sottovalutare. Da lui non trassero ispirazione, o giustificazioni teoriche, soltanto le socialdemocrazie nordiche, ma molti governi anche italiani durante l'arco di tutto il dopoguerra: si pensi all’esperienza del centro-sinistra (dal 1963) che prese avvio con la nazionalizzazione dell’ENEL. 
Keynes è assieme a Piero Sraffa il più fulgido esempio di come gli economisti del Novecento abbiano cercato strade che, una volta percorse, avrebbero condotto al grande sogno dell'umanesimo occidental-cristiano: mettere a disposizione del maggior numero di gente possibile i vantaggi del progresso tecnico. Egli contesta principalmente l'estrema fiducia nel modo in cui si formano i prezzi nel "libero scambio", nutrita da tutti gli economisti che lo avevano preceduto e che chiama "classici". Tra loro è da annoverare anche Marx, che partì da una concezione smithiana del capitalismo. Keynes fa piazza pulita dei presupposti smithiani a cominciare dalla "mano invisibile" che guiderebbe le scelte degli agenti (consumatori e produttori), sostenendo che una simile situazione può crearsi solo con un'effettiva "perfetta conoscenza" di tutti i parametri: questa, nel modello classico del mercato, formulato dall'inglese Edgeworth è garantita dalla presenza di un banditore che, come succede nelle Aste, fornisce ogni informazione a chi poi scambierà merci con denaro o viceversa. 
Il banditore è un'invenzione teorica, ma Keynes sostiene che senza di lui il modello classico non può funzionare: senza di lui entrano in gioco l'incertezza, le aspettative e le previsioni; la moneta assume un ruolo di sicurezza, soprattutto per i consumatori finali. Questi, di fronte all'incertezza sui prezzi di mercato dovuta all'assenza del coordinamento, mostrano preferenza per la detenzione di una certa quantità di moneta liquida, in modo da garantirsi da sbalzi futuri e imprevedibili. Preferiscono quindi risparmiare piuttosto che spendere almeno una parte del proprio denaro. Così facendo, si creano nei mercati le crisi da insufficienza di domanda di beni di consumo, a causa delle quali le imprese vendono meno, non vedono affluire capitali e non dispongono di risorse per investimenti.
 La ricetta keynesiana contro la disoccupazione, riassunta nel motto "sostenere la domanda", parte proprio da qui. Keynes fu il primo economista ad accorgersi dell'esistenza, nei cicli economici, di crisi di breve periodo, cioè inferiori ad un anno. In una simile situazione, con salari e prezzi fissi, affermò che la disoccupazione dipende in ultima analisi dall'insufficiente domanda di beni da parte dei consumatori: essa infatti determina scarsi ricavi per le imprese che non hanno propensione ad investire e ad assumere. "Sostenendo la domanda", cioè invogliando i consumatori ad acquistare beni, si farebbero arrivare gettiti "freschi" di capitali alle imprese ed esse potrebbero poi, per produrre di più, reinvestirli ed assumere nuova forza lavoro, portando il sistema ad uscire dalla crisi occupazionale.
Ma come fare per aumentare la base di consumatori? Keynes consiglia di aumentare la quantità di moneta circolante e ciò può essere raggiunto sostanzialmente in due modi: o aumentando la spesa pubblica a parità d'imposte o diminuendo le imposte per lasciare ai cittadini una più ampia disponibilità del loro denaro. Il secondo metodo è però sconsigliabile perché i consumatori potrebbero decidere di non destinare al consumo il denaro risparmiato con la diminuzione delle imposte. Keynes arrivò a sostenere che se il Governo assumesse disoccupati per impiegarli in lavori improduttivi (come scavare buche e poi riempirle nuovamente), ciò, per quanto assurdo, sortirebbe comunque l'effetto positivo di dare disponibilità di denaro e di spesa a persone che prima non l'avevano. Il fatto che l'analisi è concentrata nel breve periodo è stato considerato un limite: un altro può essere individuato nella presupposizione di una disoccupazione particolare, detta "involontaria", per la quale i disoccupati bussano alle imprese ma queste non hanno convenienza ad assumerli in quanto prive di capitali per via dell'insufficiente domanda di beni. Ma non è questo l'unico tipo esistente: Milton Friedman ne indica un altro nel suo tentativo di ridefinire le teorie liberiste rifondando la scuola monetarista. Friedman non ripone fiducia nel sostegno della domanda: egli ritiene che il sistema economico spesso non riuscirebbe a soddisfare una domanda crescente poiché già presenta un livello di produzione di equilibrio e poiché non v'è ragione per le imprese di modificare una produzione già in equilibrio, maggiore domanda si tradurrebbe in un puro aumento dei prezzi. La scuola monetarista ha analizzato il concetto di disoccupazione, trovando che essa dipende sovente da imperfezioni del mercato del lavoro, in altre parole da eterogeneità di qualifiche o di territorio o da scarsità d’informazioni. 
Questo fa sì che esistano contemporaneamente posti da occupare e disoccupati. Ad esempio possono esistere posti vacanti da operaio e disoccupati che aspirano a un posto da impiegato (eterogeneità di qualifiche), oppure posti vacanti in Veneto e disoccupati in Campania (eterogeneità di territorio), o infine non esistono informazioni sufficienti circa i posti vacanti (scarsa trasparenza del mercato). Questa disoccupazione, ignorata da Keynes, è detta "volontaria" e le è associato un "tasso naturale di disoccupazione" definito come un numero di disoccupati pari al numero di posti vacanti: è ad essa che corrisponde l'equilibrio "naturale" di cui parla Friedman. La controversia si può ridurre a capire quale dei due tipi di disoccupazione prevalga in un determinato sistema e in un determinato momento storico, essendo molto probabile che i due tipi siano concomitanti. Dunque un'impostazione teorica della questione vuole che i responsabili della politica economica si attengano a una precisa analisi della realtà. 
Però da parte dei Keynesiani, da una parte l’aumento dei prezzi, di cui parla Friedman, si verifica se vi è un pieno utilizzo delle forze produttive e, pur non negando la presenza ineliminabile di un certo tasso di disoccupazione per carenza di informazioni o per il tempo di trovare un altro lavoro, la disoccupazione massiccia è involontaria. Inoltre fin dagli albori della teoria keynesiana vi era la diffusa consapevolezza che un aumento della domanda aggregata oltre un certo limite potesse comportare un aumento dell’inflazione ben prima che si giunga alla piena occupazione, ma Keynes riteneva che in alcuni settori dell’economia potessero esistere colli di bottiglia ,scarsità di materie prime (oggi abbiamo l’aumento del prezzo del gas ,una volta del petrolio) o di macchinari o di competenze specifiche (in Italia dovrebbe aprirsi il discorso della formazione e della scuola e di quanta responsabilità questi due elementi abbiano sulla disoccupazione e sul mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro e sull’aumento dei prezzi, anche i salari, che sono un prezzo, per quei pochi competenti che si possono trovare), che se sollecitati da una maggiore domanda possono causare inflazione ,anche se nel resto del sistema vi sono ampie risorse non utilizzate. 
Comunque, la base per intendere Keynes è il superamento della c.d. legge di Say: essa afferma che tutte le merci prodotte possono trovare un mercato di sbocco remunerativo, assicurando dunque che non si possono verificare crisi generali di sovrapproduzione. 
Se, infatti, il valore dei beni è dato dai salari, dai profitti e dalle rendite che è necessario pagare per produrli, ogni atto di produzione è anche, automaticamente, la creazione di un reddito corrispondente. Il reddito ricevuto verrà a sua volta speso interamente nell’acquisto di beni o servizi, siano essi beni di consumo o beni di investimento. Perciò l’offerta crea sempre la propria domanda e non è possibile che l’economia si blocchi per carenza di domanda aggregata. 
Saranno possibili solo crisi settoriali, nelle quali alcune tipologie di beni e servizi rimarranno invenduti. Ma la minore domanda in un settore sarà esattamente compensata dalla maggiore domanda in altri nei quali la domanda eccede l’offerta, avviando i necessari meccanismi di aggiustamento. 
Il filone ortodosso dell’economia classica riconosceva che domanda e offerta possono non incontrarsi in un determinato mercato e che poteva esserci sovraproduzione o eccesso di offerta di alcuni beni particolari per ragioni che potevano venire dal lato della domanda o da quello dell’offerta ma riteneva che l’eccesso di offerta in un’industria avrebbe implicato un eccesso di domanda in un’altra. 
Si sostiene che “se si produce un’automobile e la si vende al prezzo di 9.000 dollari e si prova a dedurre dal prezzo le retribuzioni dei vari fattori di produzione, non vi sarà per definizione alcun residuo, perché ciò che non costituisce salario, rendita o interesse, va ai capitalisti a titolo di profitto. Questo significa che dopo l’acquisto dell’automobile vi sono 9.000 dollari di potere di acquisto nelle mani dei lavoratori, dei proprietari terrieri e dei capitalisti. La stessa situazione si verifica a livello dell’intero sistema economico, nel senso che il valore del prodotto annuale è distribuito a titolo di potere d’acquisto tra i vari soggetti economici e non si pone quindi il problema di accertare se il potere d’acquisto generato dal processo produttivo sia sempre sufficiente al riacquisto dei beni prodotti “(Harry Landreth e David C. Colander). 
Come se, si potrebbe dire, il potere di acquisto di un lavoratore sia identico a quello di un proprietario terriero o di un capitalista, o come se il numero dei lavoratori fosse uguale a quello dei capitalisti o tutti potessero effettivamente trasformarsi da lavoratori in capitalisti o da lavoratori in un settore o industria in lavoratori di un altro settore o industria. 
Come si vede problemi antichi ma attualissimi. Eppure anche se gli stessi classici riconoscevano che domanda e offerta possono anche non incontrarsi in un determinato mercato ( bontà loro!) e che quindi vi può essere sovrapproduzione o eccesso di offerta di alcuni beni per ragioni che possono venire sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta, il problema era risolvibile, secondo loro, sul lungo periodo e l’eccesso di offerta in un’industria implicherebbe che vi sia eccesso di domanda in un’altra (come se questo risolvesse tutto si potrebbe aggiungere, perché anche in presenza di potere di acquisto diverso tra i vari soggetti appartenenti a categorie diverse, tutti potessero cambiare settore o categoria: cioè si faceva un discorso tutto teorico - probabilmente sbagliato anche teoricamente - ma che comunque ricorda il detto di Kant  “questo può essere giusto in teoria ma non vale per la pratica”
Infatti per i classici sotto l’ipotesi di prezzi flessibili e di mobilità delle risorse, i fattori di produzione si sarebbero spostati dall’industria dove vi è eccesso di offerta verso quella con eccesso di domanda e, così, nel lungo periodo si sarebbe assicurata la piena occupazione delle risorse. Ma, se anche il potere d’acquisto fosse sufficiente a riacquistare i beni presenti sul mercato, che garanzia ci sarebbe che esso venga effettivamente utilizzato? La risposta della legge di Say era che l’offerta crea la propria domanda. In realtà la risposta era ed è ancora oggi insufficiente perché la discussione non si doveva porre sull’aspetto che l’offerta creava la propria domanda, quanto sul punto che l’offerta genera solo una domanda potenziale. Il punto, per Keynes, come per Malthus anche se questi non lo espresse in modo chiaro, era se la domanda potenziale viene espressa come domanda effettiva, che è quella che conta. Ricardo, Say, rispondevano semplicemente affermando che tutto il potere di acquisto potenziale sarebbe ritornato al mercato a titolo di domanda o per beni di consumo o per beni di investimento. In pratica una riaffermazione di quello che aveva detto in precedenza Adam Smith. In questo modo veniva esclusa la possibilità di tesoreggiamento (le persone possono non spendere per timore del futuro o gli imprenditori non investire per lo stesso timore) e il ruolo della moneta era ridotto a quello di puro mezzo di scambio. Sul tema monetario, in realtà, aveva ragione Henry Thornton che metteva in evidenza come la moneta influenzasse i prezzi e come i tassi di interesse e le procedure di concessione dei prestiti da parte delle, creassero disequilibri di natura monetaria tali da condizionare l’economia reale: non si può affermare che si può trascurare la funzione di domanda complessiva, che è un assunto nell’economia ricardiana, perché il livello del reddito e dell’occupazione, così come gli sconvolgimenti tra le due guerre mondiali, sono dipesi molto da una questione di domanda, da questioni che Malthus aveva inizialmente posto. Keynes poi, ha approfondito anche questioni metodologiche, oltre che fare rievocazioni storiche su una contrapposizione tra Ricardo (vincente) e Malthus (perdente). 
Nell’insieme, affermava Say, offerta e domanda saranno in equilibrio, tendono all’equilibrio. 
Quello che servono sono dunque solo politiche dell’offerta? Perché essa crea la domanda? 
Keynes respingeva tale configurazione e le economie capitalistiche moderne, se lasciate a sè stesse, soffrono in modo strutturale di carenza di investimenti e i cicli economici oscillano intorno ad un punto di equilibrio che è di “sotto occupazione”. Il tasso di interesse non è il prezzo di equilibrio tra risparmi e investimenti e il tasso di interesse può influenzare in modo limitato gli investimenti, che, per Keynes, sono determinati soprattutto dalle aspettative degli imprenditori. Poi Keynes negava il nesso causale della legge di Say: non è l’offerta che crea la domanda garantendo la piena occupazione, ma il contrario. In condizioni di sotto occupazione, l’offerta è limitata dalla domanda effettiva e solo un’espansione della domanda genera una crescita dell’offerta. 
Tale ultima configurazione deriva appunto dall’analisi di come un aumento iniziale della domanda effettiva di beni e servizi generi ondate successive di spesa che aumentano i redditi e con essi i consumi e i risparmi della collettività. La grande instabilità degli investimenti (che dipendono dalle aspettative più che dal tasso di interesse e dall’equilibrio che esso determina tra risparmi e investimenti) unita ad una certa stabilità della funzione di consumo genera effetti rilevanti sulla domanda effettiva e sul reddito. Il sistema keynesiano, in questa configurazione, può ben considerarsi come alternativo a quello neo classico! 
Che poi Keynes sia per la spesa pubblica “allegra” è un luogo comune, ma in realtà gli non pensa (cap.24 della Teoria Generale) alla spesa pubblica corrente come mezzo per rilanciare la domanda globale e per gli investimenti distingue tra quelli pubblici finanziati col debito e stimolo agli investimenti privati da attuarsi con una politica monetaria che riduca il tasso di interesse. Al di là di alcune battute paradossali, perché gli piaceva il paradosso, anche le polemiche, per esempio sull’utilità di riempie le buche, aveva ben chiari i concetti. 
Keynes dopo la prima guerra mondiale davanti ad una situazione per la quale diversi paesi erano costretti a continui surplus della bilancia commerciale per acquistare la valuta estera necessaria a pagare le riparazioni e perciò riversavano ingenti quantitativi di merci sui mercati internazionali, esercitando una pressione al ribasso sui prezzi (deflazione) su produzione e occupazione, con la conseguenza che Francia e Inghilterra e altri paesi avevano un conflitto fra le esigenze di equilibrio esterno (stabilità del cambio) e quelle di equilibrio interno (inflazione e deflazione, accompagnate da fenomeni speculativi e da disoccupazione), riteneva che non solo si dovesse abolire le riparazioni e i debiti di guerra ma anche adottare un regime di cambi flessibili spezzando le catene di rapporti finanziari e monetari internazionali rigidamente vincolati in termini di valute auree e si dovesse consentire a ogni paese di cercare prima di tutto il proprio equilibrio interno e poi ,in subordine una stabilità dei tassi di cambio .Ma la sua voce rimase inascoltata e anzi si rilanciò un sistema di cambi fissi ancorato all’oro .Quando arrivò la crisi del 1929, dovuta secondo molti alla deflazione internazionale nei mercati reali e alla crescita speculativa dei valori finanziari si reagì sia aumentando il protezionismo sia, dal 1931, in seguito ad intense fughe di capitali e una crescente pressione per la svalutazione, a abbandonare finalmente il gold standard. 
Ma la dottrina economica dominante imputava la crisi del ’29 a fenomeni monetari e speculativi: l’eccesso di emissione monetaria avrebbe favorito la speculazione finanziaria e avrebbe, dapprima, drenato i capitali dal resto del mondo e poi precipitato tutto nella crisi quando i valori dei titoli si erano rivelati irrealistici. Era una crisi di sovrainvestimento e la deflazione dei prezzi poteva essere, persino uno strumento utile per eliminare le imprese meno efficienti. 
Tanto era presente la forte convinzione che, stante la legge di Say, se i prezzi e i salari erano flessibili, la distruzione di moneta associata alla crisi finanziaria non avrebbe avuto relazioni dannose per l’economia reale: la deflazione avrebbe sortito solo un effetto nominale senza alcuna variazione sui redditi, sull’occupazione e la produzione. La disoccupazione sarebbe stato il risultato della resistenza dei lavoratori ad accettare la discesa dei salari nominali. 
Una politica monetaria espansiva avrebbe ritardato nel tempo la pulizia del mercato e la restaurazione di un equilibrio tra domanda e offerta di lavoro .Una politica di lavori pubblici finanziata con nuove tasse o con emissione di debito pubblico avrebbe sottratto risorse alle imprese private riducendo ancora l’occupazione (Treasury view).Bisognava solo aspettare e intervenire solo per spezzare la rigidità dei salari in modo da favorire le imprese e quando la discesa dei costi avesse superato quella dei prezzi ,la ricomparsa di margini di profitto avrebbe indotto le imprese ad investire e ad assumere lavoratori. 
Ma se anche avesse funzionato, nel lungo periodo siamo tutti morti! Ma non funzionava nemmeno allora perché le variazioni monetarie hanno effetti reali perché inducono una contrazione negli investimenti nei consumi e nei redditi. 
Le banche ad esempio non avevano più la volontà di concedere credito, la moneta veniva tesaurizzata e si deprimeva, così facendo, ulteriormente la domanda aggregata approfondendo la discesa dei prezzi e dell’occupazione. 
Tutta una serie di argomenti keynesiani relativi alla moneta, alla moneta speculativa a come il suo uso, il tasso di interesse, possa dipendere da motivi “convenzionali” spesso irrazionali nel senso che derivano da comportamenti perfettamente spiegabili anche se non corrispondono al parametro dell’homo oeconomicus di impostazione neoclassica sono oggi ripresi da quella che viene denominata economia comportamentale. 
L'economia comportamentale sarà, dunque una rivoluzione in grado di porre nel nulla centinaia di pagine di manuali di microeconomia? 
C'è chi cerca di ridimensionarne la portata. Infatti si fa presente che in economia si studiano i comportamenti ,comunque voluti, dagli attori al di là delle influenze che vi siano state, c'è chi aggiunge che l'incertezza è un fatto di una economia non pianificata e attribuire all'incertezza la responsabilità dei problemi del capitalismo è sbagliato perché in ciascun periodo storico si deve risalire alle circostanze oggettive, alle politiche prevalenti, che inducono a fare scelte di investimenti, che persino gli anarchici hanno una loro stabilità sulla quale basarsi. Ma, a parte che lo stesso Smith e poi Keynes svolgevano discorsi che tenevano in conto gli aspetti psicologici in modo più rilevante che molti economisti matematici, innamorati di algoritmi, che adesso ci sono, indubbiamente l'economia comportamentale non può non essere una rivoluzione. I suoi maggiori esponenti hanno detto significativamente "Se leggete un manuale di economia, scoprirete che l'homo oeconomicus ha le facoltà intellettuali di Albert Einstein, una capacità di memoria paragonabile a quella del Big Blue, il supercomputer dell'IBM e una forza di volontà degna di Gandhi. 
Ora che non sia così, è evidente e questa realtà non può non influenzare la realtà economica e i discorsi sulla concorrenza, dove si immaginano realtà economiche piccole, in modo che non abbiano non solo potere di mercato ma anche potere condizionante dal punto di vista politico e dove i comportamenti di tutti avvengono quasi in modo meccanico, proprio perché le entità economiche sono piccole e non possono comportarsi altro che in un certo modo. Avvengono in modo razionale e tenendo conto di tutte le informazioni come se gli agenti avessero una capacità illimitata di assorbire e valutare le informazioni. In verità le imprese che agiscono in concorrenza perfetta più che agire meccanicamente, non sono in grado di fissare i prezzi di vendita del bene e di acquisto degli input, sono cioè degli impotenti che devono agire in modo meccanico, automatico per impotenza e l’unica cosa che possono decidere, forse, riguarda le quantità di input da acquistare e di output da produrre, esse non devono considerare o perlomeno sono in gran parte irrilevanti le caratteristiche della domanda. Ma il mondo è diverso, i condizionamenti economici e politici ci sono e così esistono i fenomeni descritti negli esperimenti dell'economia comportamentale. È reale quello che è accaduto nell'anno scolastico 2010-2011 nell'area metropolitana di Chicago, dove è stato fatto un esperimento per studiare se e come l'attribuzione di bonus monetari proporzionati al rendimento degli studenti, con la condizione che venisse raggiunto un certo risultato minimo, potesse aumentare il livello della prestazione degli insegnanti. A metà di essi venne dato un bonus a fine anno, all'altra metà un bonus anticipato. Quelli che lo prendevano subito sarebbero stati costretti a restituirlo se il rendimento degli studenti non avesse raggiunto certi livelli. Gli insegnanti, nei due casi ricevevano lo stesso premio. Gli economisti, comportamentali, ritenevano che il successo del programma di incentivi sarebbe dipeso dalle modalità con cui l'incentivo veniva proposto. Gli insegnanti che avevano preso il bonus subito avevano risultati migliori degli altri perchè erano più restii alla restituzione. Forse in Italia l'esito sarebbe stato diverso, tutti avrebbero preso il bonus subito e nessuno avrebbe restituito nulla! Ma questa conseguenza italiana, se ci fosse, paradossalmente, dimostrerebbe che in economia contano anche il costume, la cultura e non solo gli algorismi 
Comunque non si può non tenere conto che esistono i c.d. bias (distorsioni) cognitivi e comportamentali, anche loro prevedibili e sistematici e molti sono stati identificati. A causa loro il comportamento non è quello tipico dell'homo oeconomicus: ci sono fenomeni di avversione alle perdite, distorsione verso lo status quo, ancoraggio, effetto dotazione, effetti dovuti alla contabilità mentale ed altri ancora. Così come non è possibile non tenere conto dell'esito di certi esperimenti che vanno sotto il nome di "gioco del dittatore" e "gioco dell'ultimatum". Quest’ultimo, per esempio, serve per verificare come i concetti di equità e giustizia possono influenzare i comportamenti umani. In quest'ultimo esperimento si dimostra anche quello che si era sempre intuito, cioè l'importanza della cultura specifica di ognuno a seconda delle aree culturali. 
Al gioco dell'ultimatum partecipano due giocatori: il proponente e la controparte. Il proponente fa una proposta su come dividere una cifra di denaro (o un certo quantitativo di beni) tra sè e la controparte. La controparte deve accettare o meno la proposta. Se accetta, la divisione proposta dal proponente viene aumentata. 
Se rifiuta, entrambi vanno a casa a mani vuote. In ambienti occidentali, con culture simili, il comportamento dei partecipanti è molto simile, indipendentemente dal paese di origine. 
Ma in esperimenti sul campo ed effettuati non in laboratorio si è notato che i risultati sono molto più eterogenei. 
Alcune popolazioni sono pronte a condividere, altre si comportano in modo egoistico, da homo oeconomicus rispetto a quanto avviene negli esperimenti condotti nei laboratori statunitensi. Popolazioni abituate a collaborare per procacciarsi il cibo hanno un comportamento più prosociale, altre popolazioni più individualiste e diffidenti verso gli altri hanno comportamenti diversi (gli Hazda, ad esempio). In altre popolazioni, spesso, la controparte rifiuta generose offerte del proponente: motivi culturali! 
Gli Au e gli Gnau hanno l'uso di scambiarsi doni sempre più grandi. 
Nel caso si faccia un regalo, la controparte si sente in obbligo di ricambiare con uno più grande e così via. Perciò questo atteggiamento culturale porta i soggetti a rifiutare offerte generose. Chi aveva fatto l'esperimento aveva sottolineato che il gioco poteva essere fatto solo una volta, ma le scelte di queste popolazioni non riuscivano ad astrarsi dai loro retaggi culturali. 
Chi mette in evidenza la debolezza psicologica o conoscitiva dei clienti mette in evidenza come il libero mercato senza regole non ricompensa quello che rinuncia a trarre vantaggio da questa situazione di debolezza conoscitiva o psicologica e come il libero mercato possa, quindi indurre ad approfittarsi di questa duplice debolezza per conseguire solo un vantaggio individuale ottimale per il singolo ma non per l'economia. E' il tema trattato dall'economia comportamentale, dal phising, dalla presenza delle c.d. esternalità o in genere del fallimento del mercato. Perciò in certi ambiti, costruire le scelte, prevedere tecniche di nudge che tengono conto dell'esistenza dei bias per arrivare a conseguire il bene pubblico, prevedere un’architettura delle scelte, diventa rilevante. Richard Thaler in uno dei suoi ultimi libri, parte prima di tutto dalla nota affermazione di Adam Smith contenuta nella Teoria dei sentimenti morali, per la quale "il piacere di cui godremo di qui a dieci anni ci interessa talmente poco a confronto di quello godibile oggi" per dimostrare che certi concetti e affermazioni altrettanto famose di Keynes, considerato sempre troppo attento al breve periodo, non sono solo di Keynes. Poi giunge ad illustrare la teoria di Samuelson nel lavoro dove l'autore è ben consapevole delle differenze e delle variazioni del comportamento intertemporale. Mette in guardia i lettori della sua teoria verso questo aspetto. Sa che le persone normali, gli Human nel linguaggio di Thaler, hanno un comportamento mutevole nel tempo. Della scelta intertemporale si dovrebbe tenere conto e invece spesso, nonostante gli stessi avvertimenti di Samuelson non lo si è fatto e si costruiscono teorie che non sono reali. Non sono per gli Human ma per degli Econ, essere astratti, razionali che non esistono. 
Infatti se affrontiamo il tema della propensione marginale al consumo e come si reagisce e quali effetti economici possono avere certi provvedimenti, per esempio di aumento del reddito a seguito di una diminuzione delle imposte, si vede come certe teorie sono, potremmo dire "irrazionali" perchè non tengono conto che esistono gli Human e non gli Econ e perciò poco servono. 
Vediamo più in dettaglio. 
Cosa succede se una famiglia aumenta il proprio reddito, per esempio a seguito di una riduzione delle imposte. 
Keynes, Friedman e Modigliani rispondono diversamente. Ma, per me, solo Keynes, magari in modo inconsapevole, risponde, pur non sapendo dell’esistenza del termine Human, ma quasi come lo sapesse, che esistono gli uomini in carne ed ossa e non esseri astratti. 
1-Keynes sostiene che nel caso di aumento del reddito familiare bisogna distinguere tra famiglie povere e famiglie ricche. Le prime hanno più propensione alla spesa a seguito di un'entrata straordinaria, per esempio di 1.000 euro, perché incide maggiormente sul loro tenore di vita. Una parte la risparmieranno ma una parte la destineranno a consumi che prima non potevano permettersi. Per una famiglia ricca, mille euro in più può cambiare poco, almeno come propensione al consumo. Ragionamento di corto respiro? Che non tiene conto di altri comportamenti più responsabili che pure la famiglia povera dovrebbe fare? Le famiglie povere sono più cicale, meno razionali? Si potrebbe continuare. 
2-Friedman sostiene, invece, che le famiglie, tutte senza distinzioni, hanno la preveggenza di distribuire il loro consumo nel tempo. Perciò una famiglia non spenderà 950 euro nell'anno in cui si è verificata l'entrata straordinaria ma lo spalmerà in un arco lungo di tempo, suggerisce tre anni, cioè anziché, per esempio 950 euro spenderà il primo anno 317 euro (950 diviso per 3): è l'ipotesi del c.d. reddito permanente. 
3-Modigliani, addirittura, sostiene che invece che concentrarsi su periodi comunque brevi, tre anni, una famiglia tiene in considerazione il suo reddito, il reddito di un individuo in tutto l'arco della sua vita. 
Ipotizza, ha la preveggenza di stimare quale possa essere in tutto l'arco della vita (l'ipotesi del ciclo vitale). Cioè i consumatori, perfetti Econ razionali, fin da giovani stabiliscono un piano di consumo per tutto il loro arco vitale e magari ipotizzano di lasciare qualcosa agli eredi o ipotizzano comportamenti per quando saranno pensionati. 
Perciò le entrate straordinarie hanno un impatto limitato, più limitato, quasi nullo, rispetto all'ipotesi pur riduttiva di Friedmam. 
Lasciamo perdere l'agire, nella vita di ognuno, di eventi imprevedibili. Oggi i giovani non hanno alcun reddito o un reddito che non gli permette alcun calcolo ma solo di vivere alla giornata. Questo ha un impatto macroeconomico e sempre più lo avrà perché con pensioni magre il consumo si ridurrà: un sistema pensionistico o sanitario che produce serenità ancor più che sicurezza economica incentiva i consumi. Ma il presupposto delle teorie non keynesiane, che anche Thaler critica, è quello di trovarsi di fronte ad agenti economici previdenti e capacissimi di esercitare una forza di volontà tale da posticipare il consumo, anche per decenni, soprattutto nella versione di Modigliani. Esseri virtuosi, forse un po’, scusate la battuta che ripetono le caratteristiche riprodotte da un noto film di Verdone dove un medico, interpretato da Verdone, medico molto razionale ed analitico nel comportamento vessa la moglie, costringe la moglie all'esasperazione.... 
Friedmam in qualche modo tiene conto delle fluttuazioni di breve periodo, di più Keynes. 
Ma gli economisti, in genere hanno scelto il modello Modigliani (saranno tutti scapoli o morigerati...ma non guardano attorno forse, dove il mondo è pieno di soggetti che non lo sono e non li si può far cambiare e se uno vuole fare previsioni o analizzare la situazione deve tenere conto di tanti periodi brevi, delle persone che li popolano). 
Addirittura un economista, Robert Barro, sostiene che i genitori si preoccupano dei loro figli e nipoti (tra l’altro non so se la società Americana molto individualista conosce il fenomeno dei genitori e dei nonni che si preoccupano dei discendenti. Per rimanere ad un ambito giuridico basterebbe, a testimonianza dello scarso rilievo della famiglia e degli interessi dei discendenti, l’assenza di norme giuridiche in materia successoria che riservano quote di patrimonio a certi familiari come avviene in Italia). 
L’ ipotesi di Barro è presumibile, ma non sempre vera, soprattutto in molte realtà americane e queste tesi dovrebbero anche essere calate in specifici contesti culturali anzichè essere proposte in modo asettico e generale. 
Perciò, pianificando, quello che lasceranno in eredità, le spese future, se il governo effettuasse comportamenti per i quali vi sono delle entrate straordinarie da 1.000 euro, le famiglie e gli individui saprebbero che in futuro ci sarebbero tasse maggiori per far fronte ad un maggior debito pubblico, che se questa entrata venisse finanziata con un'emissione di titoli di Stato, in futuro ci saranno tasse maggiori che annullerebbero i vantaggi, per permettere di far fronte al pagamento dei titoli. Sul punto specifico, sempre rimanendo in un campo ipotetico della perfetta razionalità, comunque si è replicato che il taglio delle imposte, anche se finanziato con emissione di titoli, stimolerebbe l'economia (soprattutto le famiglie povere, ma un po’ tutte) e lo stimolo sarebbe sufficiente a rimborsare i titoli perché aumenterebbero le entrate fiscali: non vi sarebbe bisogno di modificare le previsioni ereditarie di nessuno, anche se si fossero fatte in gioventù, si potrebbe dire... 
Questa razionalità, magari, si scontra con il buon senso giuridico che vede il testamento come atto essenzialmente revocabile o modificabile perché i giuristi sanno che le condizioni cambiano e le persone non sono Econ razionali ma Human e che le condizioni intertemporali, per dirla alla Samuelson esistono, che il medio-lungo periodo è una linea di tendenza ma non è una sequela di avvenimenti o comportamenti che necessariamente accadono. L'ipotesi del ciclo vitale alla Modigliani spesso suscita ilarità tra gli psicologi. Individui che effettuano calcoli necessari e con aspettative razionali su quanto guadagneranno, quanto vivranno, quanto destineranno all'autoconsumo, che hanno un autocontrollo che rende qualsiasi azione, privata o pubblica irrilevante, rende lo Stato non necessario. Questo diventa un teorema politico! Ognuno è autosufficiente e qualsiasi azione pubblica non necessaria perché non esiste differenza tra breve e medio-lungo periodo. Anzi il primo non esiste. 
Giustamente Thaler, con lui gli economisti comportamentali (questo spiega una delle caratteristiche fondamentali di questa impostazione, e in questo senso si può dire rivoluzionaria non solo in microeconomia ma anche per la macroeconomia, ai fini delle politiche sociali) dice "Per comprendere il comportamento di consumo delle famiglie, abbiamo chiaramente bisogno di tornare a studiare gli Human piuttosto che gli Econ. Gli Human non hanno il cervello di Einstein (o di Barro), né hanno l'autocontrollo di un asceta monaco buddista. Hanno invece passioni, telescopi difettosi, trattano in modo diverso componenti diverse della ricchezza, e possono essere influenzati da rendimenti di breve periodo nel mercato azionario. Ci occorre un modello per questi tipi di Human” 
E’ un modello, che Thaler cerca di esaminare e scandagliare che si rifà maggiormente al vecchio Adam Smith, della Teoria dei sentimenti morali.
III . Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili
Ai sensi dell’art. 2086 secondo comma e 2475 c.c., così come modificati dal D.Lgs. n. 14/2019, gli amministratori hanno l’obbligo di curare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società. Poiché la gestione societaria spetta agli amministratori, è dovere dei medesimi istituire un assetto organizzativo, [9] amministrativo e contabile della società che sia idoneo a consentire il tempestivo rilevamento di una situazione di crisi dell’impresa e di perdita della continuità aziendale e – qualora l’azienda sia già in uno stato di crisi – i medesimi amministratori debbono anche attivarsi ricorrendo agli strumenti previsti dall’ordinamento per il recupero della continuità aziendale.
Questa espressione introdotta dal D.Lgs n.14/2019 come deve intendersi? 
Meramente riproduttiva, sostanzialmente, della norma ex art. 2381, 4 e 5 comma, cc oppure apporta delle novità? 
Deve intendersi come una norma programmatica, ma priva di contenuto concreto, un po' generale e di principio ma che dal punto di vista operativo, nella sua espressione un po' ambigua e per certi versi tautologica, che riproduce compiti e obblighi che già in via generale si ritenevano vigenti e che derivavano dalla presenza di altre norme e principi generali, anche dall’evoluzione economica vista nel primo paragrafo, in conclusione una norma ad un tempo inutile e che diventa rilevante quando “qualcuno”, il collegio sindacale, decide di farla valere, magari a semplice scopo di “lavarsi le mani “per possibili responsabilità? 
Oppure è una norma che si ricollega direttamente e costituisce o può costituire il fulcro di quello che deve essere, come detto, l’atteggiamento, il comportamento della società alla luce del dibattito economico degli interessi, visti spesso come contrapposti, tra gli azionisti e gli stakeholders? È la norma chiave, attuale e futura, più che quelle dettate in tema di responsabilità per capire e risolvere l’annoso problema dei comportamenti e degli atteggiamenti degli amministratori. tra l’altro per ogni tipo di società. 
Un certo contenuto e sapore ripetitivo rispetto all’art 2381 cc lo presenta rispetto all’art. 2086, anzi diventa un sintomo di un’estensione di un principio dettato per le S.P.A a tutte le società, in controtendenza a quella che era la caratteristica della riforma societaria. Così come l’articolo presenta un tono enfatico e in parte tautologico e nella sua generalità e genericità, pericoloso, perché può permettere ogni comportamento da parte di chi anche vuole lavarsi semplicemente le mani da responsabilità oppure vuole estendere oltre limiti economicamente corretti controlli che confliggono con il principio che gli atti gestori degli amministratori sono insindacabili (c.d. business judgement rule). Che, comunque è un principio che consente ad un organismo economico che, di per sé, prevede il compimento di atti e la tenuta di comportamenti mossi dal proprio interesse economico, che spesso sono incerti nel loro esito. 
La funzione organizzativa rientra pur sempre nel più vasto ambito della gestione sociale e deve necessariamente essere esercitata discrezionalmente dagli amministratori; in questo senso, la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l’oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma, al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell’impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere. 
Tuttavia, l’insindacabilità delle scelte di gestione non ha carattere assoluto, in quanto tali scelte possono essere sindacabili sia sul modo che sulla razionalità in cui sono state assunte. 
E’ possibile, quindi, configurare una responsabilità degli amministratori per avere adottato degli assetti organizzativi inadeguati, qualora, essendosi poi verificata l’insolvenza senza la tempestiva adozione di misure previste per il superamento della crisi, non sia stata attuata un’adeguata istruttoria, ovvero si siano adottati assetti non coerenti, anzi irragionevoli, rispetto agli esiti dell’istruttoria stessa. 
Secondo la giurisprudenza, le mere irregolarità contabili commesse dall’amministratore non sono di per sé produttive di un danno e non costituiscono autonoma fonte di un obbligo, perché la responsabilità dell’amministratore non deriva dalla sola irregolarità della tenuta dei libri contabili, se da questo fatto non dipende un pregiudizio economico della società. In particolare, un bilancio falso non implica automaticamente un danno al patrimonio degli acquirenti delle quote, ma incombe sugli attori l’onere di dimostrare che il prezzo è stato determinato in relazione alla rappresentazione della situazione della società contenuta nel bilancio. 
Perciò il problema ,che diventa generale e non solo collegato alle s.p. a, è che l’ art. 2086 c.c., modificato nel 2019, stabilisce che tutte le società devono istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, e devono attivarsi senza indugio per l’adozione e attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale. 
Un obbligo analogo è previsto dall’art. 3 del Codice della crisi, entrato in vigore nel maggio 2022. 
Gli organi delegati devono curare l’ade­guatezza degli assetti organizzativi e contabili alla natura e alle dimensioni dell’im­presa; tale adeguatezza è poi oggetto di valutazione da parte del CdA e di vigilanza da parte del Collegio Sindacale. In tal modo, l’adeguatezza organiz­zativa diviene il parametro della legalità dell’azione della società e dei suoi ammini­stratori, ed entra a far parte dei principi di corretta amministrazione. Le imprese italiane, e in particolare alle PMI, sono quindi chiamate ad un vero e proprio processo di crescita, non solo organizzativo ma anche culturale, basato sull’adozione di un modello di indirizzo della gestione (corporate governance) tale da favorire il costante monitoraggio dell’andamento aziendale, la possibilità di tempestiva rilevazione delle criticità e la previsione di interventi a garanzia della continuità. 
L’art.2086 comma 2 c.c., nel testo modificato dall’art. 375 del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (“CCII”), introdotto dal D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, stabilisce che tutti gli imprenditori che operano in forma societaria o collettiva hanno il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale. 
È stato senza dubbio allargato a tutti gli imprenditori operanti in forma societaria o collettiva l’obbligo, originariamente previsto per le sole S.p.A. dall’art. 2381 c.c., di dotarsi di adeguanti assetti organizzativi, amministrativi e contabili. 
Un primo punto, fermo, meditato o meno dal legislatore, è quello di allargare un principio previsto per le s.p.a tutte le imprese in forma societaria. 
Un secondo punto mi sembra quello di estendere un obbligo “generico” espresso in forma generica a tutte le società. Imputare e far nascere responsabilità per obblighi specifici è una cosa, ma per obblighi generici, visti come generali e applicabili sempre anche a società in equilibrio e in bonis, è tutt’altro. I fenomeni di allerta che indicano un inizio di una crisi, di un disequilibrio economico, che dovrebbero far attivare degli strumenti e possono determinare responsabilità degli amministratori sono visti come altra cosa rispetto a questo obbligo generale e sempre operante. La giurisprudenza, vedremo, così interpreta questo principio ex art 2086 ecc. 
Dunque, farlo diventare generale, anche per le società di persone. 
Tale da incidere come criterio guida, quindi con la sua portata, anche al di là dell’aspetto strettamente “fallimentare”
Anche e soprattutto per i comportamenti da tenere ai sensi di quello che è stato espresso nel primo paragrafo e dell’evoluzione strettamente economica descritta. Con la necessità di vedere come si contempera con il principio del c.d. business judgement rule 
L’obbligo di dotarsi di adeguati assetti è stato confermato dal CCII, entrato in vigore il 16 maggio 2022, più volte modificato, da ultimo con il D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, di attuazione della Direttiva UE 20 giugno 2019, n. 10231. 
L’art. 3 primo comma del CCII, definendo i doveri del debitore, stabilisce che l’imprenditore individuale deve adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere le iniziative necessarie a farvi fronte, e al secondo comma conferma l’obbligo in capo all’imprenditore collettivo di adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’articolo 2086 c.c., ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative. 
Tali norme impongono alle imprese italiane, in particolare a di piccole e medie dimensioni, un vero e proprio processo di crescita, non solo organizzativo ma anche culturale, tale da favorire la rimozione o, quantomeno, l’attenuazione di frequenti e comuni fattori critici quali il sottodimensionamento, il capitalismo familiare, il personalismo autoreferenziale dell’imprenditore, la debolezza degli assetti di corporate governance, le carenze nei sistemi operativi e l’assenza di monitoraggio e di pianificazione, anche a breve termine?
Le imprese italiane, di qualsiasi dimensione, devono dunque compiere un deciso salto di qualità, in termini di adozione di un modello di indirizzo della gestione (corporate governance) che consenta loro di prendere le distanze dai comportamenti del passato, frequentemente caratterizzati da un diffuso disordine organizzativo. e che favorisca il costante monitoraggio dell’andamento aziendale, la possibilità di tempestiva rilevazione delle criticità e la previsione di interventi a garanzia della continuità. 
Gli artt. 2086 c.c. e 3 CCII costituiscono delle clausole generali, individuando nella predisposizione di assetti adeguati una caratteristica consustanziale all’impresa, che consiste appunto nell’essere un’attività organizzata. La predisposizione di adeguati assetti organizzativi è funzionale a promuovere un’efficiente e corretta gestione dell’impresa costituendone una sorta di difesa preventiva volta a ridurre la possibilità di errore. In altri termini, una corretta gestione dell’impresa dipende necessariamente dalla predisposizione a monte di adeguanti assetti organizzativi, nonché dal loro corretto funzionamento e dalla capacità degli organi sociali di curarne, valutarne e vigilarne l’adeguatezza. 
Perciò se punto fermo è l’obbligo per l’impresa di dotarsi di “adeguati assetti”, diventa un perno centrale del sistema di early warnings, finalizzato a favorire l’emersione tempestiva della crisi di impresa. Ciò sul presupposto che affrontare tardivamente tale situazione, quando ormai si è verificata la perdita della continuità aziendale, rappresenta un danno per l’intero sistema economico e per gli stessi creditori, che vedono in tal modo azzerarsi il residuo valore dell’azienda, oltre che le stesse opportunità occupazionali e di fare impresa, anche a causa della perdita di credibilità sul mercato. 
In tale contesto si inseriscono, inoltre, quale specificazione del generale obbligo di adottare un’adeguata struttura organizzativa, i doveri previsti da varie normative di settore, tra le quali in particolare: le norme in materia ambientale (D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, e successive modifiche); il Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul Lavoro (D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, e successive modifiche); le normative antiriciclaggio (D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231, e successive modifiche). 
Viene esaltata attraverso questo collegamento il rilievo degli interessi degli stakeholders ma addirittura gli interessi pubblici e collettivi in generale? 
La risposta diventa affermativa ma con l’esigenza di contemperare questo elemento con il principio del   business judgement rule. 
La risposta potrebbe in sede teorica facile, ma nella pratica lo è meno. 
Per assetto organizzativo si intende il preciso e dettagliato sistema di funzioni, poteri, deleghe di firma, procedure e processi decisionali in cui viene strutturata internamente la società, idoneo ad individuare con chiarezza compiti e responsabilità dei soggetti coinvolti nella gestione sociale. 
L’assetto organizzativo si differenzia dall’assetto amministrativo e dall’assetto contabile, anch’essi richiamati dalla norma di cui all’art. 2086 c.c. 
Per assetto amministrativo si intende l’insieme di procedure interne finalizzate ad assicurare un corretto ed ordinato svolgimento dell’attività aziendale e delle fasi di cui è composta (si pensi, ad esempio, agli iter autorizzativi relativi ai pagamenti o alle procedure di carico e scarico delle merci in magazzino). 
Per assetto contabile si intende, invece, l’insieme delle procedure finalizzate ad una corretta rilevazione dei fatti contabili (si pensi, ad esempio, alla predisposizione periodica di budget o ai programmi di contabilità). Gli assetti amministrativi e contabili sono quindi fortemente correlati a quelli organizzativi, rappresentando, di fatto, un sottosistema di questi ultimi, che consentono di determinare e verificare, a livello previsionale e/o consuntivo l’andamento della gestione e i risultati dalla stessa prodotti in termini economico-finanziari, favorendo la tempestiva rilevazione di situazione di crisi e perdita di continuità aziendale. 
Come si è accennato, l’assetto amministrativo di cui deve dotarsi la società deve essere “adeguato”. L’adeguatezza degli assetti deve essere misurata in relazione alla natura dell’attività esercitata e alle dimensioni dell’impresa: le società, pertanto, sono tenute a dotarsi di procedure che siano proporzionate alle caratteristiche, alla complessità dell’attività svolta e alle dimensioni dell’impresa. Manca peraltro, una definizione legislativa generale di adeguatezza degli assetti orga­nizzativi. 
Alcune normative e regolamenti di settore (quali ad esempio quelle riguardanti le società che operano nel settore banca­rio, assicurativo e finanziario) prevedono specifiche norme organizzative e presidi (si pensi in particolare alle funzioni di compliance, di risk management e di internal audit), cui le società appartenenti a tali settori devono adeguarsi, sotto il controllo delle rispettive Autorità di Vigilanza. Le regole e i principi stabiliti da tali normative di settore in tema di assetti organizzativi sono in buona misura estendibili a tutte le società. Sono inoltre rilevanti in proposito le Norme di Comportamento del Collegio Sindacale, redatte dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (CNDCEC) (l’ultima edizione risale al gennaio 2021), le quali contengono una serie di precisi riferimenti per valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo delle società non quotate. 
Un criterio potrebbe essere, per capire se la società è in stato di equilibrio, il DSCR (Debt Service Coverage Ratio), un indicatore che misurerebbe la capacità dell’impresa di far fronte a impegni finanziari certi, grazie a un flusso di cassa positivo stimato per i 6 mesi successivi; l’equilibrio tra il patrimonio netto e il capitale di terzi; la presenza di ritardi ripetuti e significativi nei pagamenti dei fornitori, dell’Iva e/o dei propri dipendenti. 
A parte quanto ho già detto nell’introduzione e a proposito degli economisti indicati, a parte una certa pretesa, direbbe Hayek, di costruttivismo, si avvicina molto al noto film “Minority Report”. 
Un altro importante documento di riferimento per la definizione degli assetti organizzativi è il Codice di Corporate Governance per le società quotate, che, seppure appunto rivolto alle società quotate, è applicabile anche a società diverse da quelle di grandi dimensioni. 
I citati documenti collegano l’adeguatezza dell’assetto organizzativo alla puntuale individuazione dei principali fattori di rischio aziendale e delle conseguenti attività di buona gestione e regolare monitoraggio. 
L’assetto organizzativo è composto essenzialmente da: 
- la struttura organizzativa, che organizzativa definisce ed individua i necessari livelli gerarchici e i conseguenti rapporti formali di dipendenza, a sua volta articolata nella struttura organizzativa di base (rappresentata dalle unità organizzative, dai compiti e dalle relazioni), nella struttura delle unità organizzative (con evidenza di mansioni e responsabilità) e nell’assegnazione dell’autorità e delle modalità di applicazione del potere; 
- i sistemi operativi, la componente in grado di definire il grado di relazione tra le unità organizzative, consistenti nel sistema dei processi, nella determinazione degli obiettivi, delle strategie e all’assegnazione delle risorse (sistema di pianificazione programmazione e controllo), nel sistema di controllo interno e di gestione dei rischi, in quello di gestione del personale, nel sistema di autoregolamentazione e in quello informativo. [10] 
Gli amministratori non sono, tuttavia, gli unici soggetti coinvolti nella pre­disposizione e nel corretto funzionamento di un adeguato sistema organizzativo; infatti, ai sensi dell’art. 2403, comma 1 c.c., il collegio sindacale vigila sull’adeguatezza del sistema organizzativo. Accanto ai margini ampi di discrezionalità in capo all’organo amministrativo, ve ne sono altrettanti da parte del collegio sindacale, nonostante le linee guida o le Norme di Comportamento sopra citate elaborate dagli organi professionali, posto che parliamo di ogni tipo di società. In particolare è difficile, spesso indistinguibile, la differenza tra scelte di organizzazione e assetti organizzativi e il giudizio sui secondi, facilmente, coinvolge anche le prime. Infatti, in linea teorica,  a differenza delle scelte di organizzazione (quali ad esempio la decisione di produrre prodotti di nicchia o di largo consumo, di rivolgersi al mercato locale o internazionale, etc.), che sono scelte gestorie di merito, strettamente connesse alle opzioni di mercato e dunque tendenzialmente insindacabili (c.d. business judgment rule), gli assetti organizzativi non sono affidati alla discrezionale libertà d’impresa ma devono essere adeguate, ovvero appropriate. Ma i due aspetti tendono a diventare le facce di una stessa medaglia. La creazione di un’adeguata struttura organizzativa deve considerarsi ricompresa tra le attività che devono essere espletate dagli ammi­nistratori nello svolgimento della propria funzione gestoria ai sensi dell’art. 2380-bis, co. c.c., e a sua volta tra i doveri a contenuto generico imposti agli amministratori ai sensi dell’art. 2392 c.c.  
In altri termini, trattandosi di un obbligo a contenuto specifico, la decisione di non predisporre assetti organizzativi, amministrativi e contabili ai sensi dell’art. 2086 c.c. perché ritenuti non necessari rispetto alla reale struttura organizzativa della società e dunque sulla base di una valutazione negativa assunta con riferimento alle dimensioni e alla natura dell’attività esercitata, non sarebbe  giustificabile sulla base della business judgment rule, dato che, in base alla regole generali, gli amministratori devono adempiere ai doveri loro imposti dalla legge. 
Qualificandosi quale vero e proprio dovere degli amministratori, la mancata adozione di assetti amministrativi rappresenta di per sé fonte di responsabilità solidale in capo agli amministratori, assumendo rilievo in termini di inadempi­mento dei doveri di corretta gestione, di diligenza e di agire in modo informato di cui all’art. 2392 c.c. 
La violazione di tale obbligo, inoltre, può integrare il presupposto della grave irregolarità nella gestione, produttivo di possibili danni alla società ai sensi dell’art. 2409 c.c., o motivare il collegio sindacale (o il sindaco unico) a procedere con la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406, secondo comma, c.c., ovvero configurare una giusta causa di revoca degli amministratori ai sensi dell’art. 2383, terzo comma, c.c. A conseguenze in parte diverse può condurre la predisposizione di assetti organizzativi, amministrativi e contabili che si dimostrino inadeguati ai sensi dell’art. 2086 c.c. Il criterio dell’adeguatezza, dovendo essere parametrato alla dimen­sione dell’impresa e alla natura dell’attività sociale, ovvero variando di concreto di società in società, si configura quale scelta discrezionale del potere gestorio, ma non per questo del tutto insindacabile. 
Occorrerà a tal fine valutare se gli amministratori, siano essi delegati o dele­ganti, abbiano effettuato idonee verifiche e/o acquisito utili o necessa­rie informazioni. 
Comunque vediamo cosa si può dire per cercare di specificare in cosa debbano consistere gli adeguati assetti sopra indicati. 
IV . La giurisprudenza sugli adeguati assetti
L’organo amministrativo deve avere una responsabilità immediata verso i soci e mediata verso i creditori sociali in ogni fase della vita sociale e dunque paradossalmente anche quando la società si trova in bonis, in funzione della “protezione delle prerogative degli stakeholder”, secondo le teorie viste sopra in tema di società? Senza distinguere tra i tre momenti (in bonis, crisi, insolvenza)? Non solo per un richiamo del principio del neminem laedere ma anche per il richiamo all’art 41 della Costituzione e perché le scelte operate dal management quando la società è ancora sana possono assumere rilevanza ex post nella genesi della crisi o addirittura del dissesto, si tende a rispondere affermativamente. La giurisprudenza (Tribunale Milano, ordinanza 17 luglio 2013, in tema di gruppi) richiama il principio di buona fede proprio in ottica di protezione degli stakeholder. [11]  
Il passo in avanti compiuto da CCII sarebbe di stampo finalistico perché il legislatore riterrebbe che lo scopo degli “assetti adeguati” starebbe anche nel tentativo di intercettare in via tempestiva la crisi e la possibile perdita della continuità aziendale. Da qui le affermazioni del Tribunale di Milano, sez. spec. in materia di imprese, 18 ottobre 2019 per il quale “le condotte degli amministratori non in linea con i doveri gestori oggi predicati dall’art. 2086 comma 2 cc, costituiscono una grave irregolarità nella gestione”. La BJR, perciò (Marinelli e Sabatini ) trova dei limiti anche in seno alla fase di crisi e di pre-insolvenza proprio perché già in questa fase il contegno dell’organo amministrativo deve improntarsi anche alla tutela dell’interesse sociale, ovvero di tutti i soggetti interessati ai risultati dell’impresa, ivi inclusi i creditori: rientra in questa visione il concetto ,sia di successo sostenibile, sia di tutela della continuità aziendale come si evince dai principi Isa 570, sia dalla direttiva Insolvency (UE) 2019/1023 del 20 giugno 2019 (per un dialogo con vari portatori di interessi): questa direttiva, riguardante la ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione prevede che se “il debitore è prossimo all’insolvenza è importante proteggere i legittimi interessi dei creditori da decisioni di gestione che potrebbero ripercuotersi sulla costituzione della massa fallimentare”, giunge secondo gli autori citati a rendere responsabile l’organo amministrativo verso i soci e verso i terzi senza distinzione, ”ovvero gli obblighi di conservazione del patrimonio aziendale gravano sul manager sia quando l’impresa gestita è in bonis sia in occasione della crisi (a maggior ragione quando ci si trovi innanzi alla perdita del capitale) tuttavia in tale seconda fase deve necessariamente attenuarsi l’ambito di autonomia dell’organo amministrativo, dovendosi adottare un contegno volto a maggiore prudenza e attenzione verso il ceto creditorio. Ciò non significa che il beneficiario esclusivo della gestione sarà il creditore sociale, residuando comunque in capo al socio un preminente interesse a vedersi riconosciuti i diritti all’esito della soddisfazione dei terzi, ma significa che la diligenza di cui all’art. 2393 cc permea l’attività gestoria in ogni sua fase e nei confronti di tutti gli stakeholder.” Perciò Zoppini arriva a sostenere che il modello di amministrazione deve essere in grado di diagnosticare tempestivamente e di reagire ai segnali di crisi. 
Nella fese dell’emergenza dell’insolvenza sorgono doveri fiduciari in capo agli amministratori verso i creditori, il modello di utilità sotteso all’azione amministrativa deve confrontare i benefici e i pregiudizi attesi in capo ai creditori e conseguentemente la business  judgment rule (BJR) nella fase dell’emersione dell’insolvenza causa una responsabilità per gli amministratori se questa valutazione comparativa non è stata fatta e istruita. 
Da qui emerge l’importanza della giurisprudenza che fa applicazione concreta di certe impostazioni ed in particolare della sentenza del Tribunale di Roma, sez. spec. Impresa del 15 settembre 2020 che ha fatto da battistrada per una serie di affermazioni. 
Il provvedimento nasce da una richiesta al ex art. 2049 c.c. per domandare la revoca dei componenti del consiglio di amministrazione e la nomina di un amministratore giudiziario stante la presenza di gravi irregolarità consistenti nell’aver omesso di rilevare la perdita di continuità aziendale nonché il compimento di atti che recano pregiudizio al patrimonio sociale. 
Al di là che i provvedimenti del Tribunale possono essere giustificati anche in base al solo art. 2049 c.c. senza ricorrere all’art 2086 c.c., se gli amministratori non possono essere chiamati in responsabilità solo perché la gestione dell’impresa ha avuto esito negativo, la responsabilità può discendere se dall’agire si denota la mancata adozione di quelle cautele o non osservanza di canoni di comportamento di diligente gestione, che nessuno ha il dovere di gestire l’azienda con successo economico ma solo con la dovuta diligenza. Tuttavia il Tribunale afferma che il principio di insindacabilità delle scelte di gestione non è assoluto ma vi sono due limiti. 
Il primo che la scelta sia stata legittimamente compiuta (sindacato sul modo in cui la scelta è stata assunta). 
Il secondo che la scelta è insindacabile solo se non è irrazionale (sindacato sulle ragioni per cui la scelta compiuta è stata preferita ad altre). 
Non solo cioè verifica che prima di assumerla sia stata fatta questa comparazione ma sindacato di razionalità sulla scelta. 
Circa il primo profilo, di fatto, si verifica non solo se vi sia un’istruttoria a se vi sia una adeguata istruttoria. 
Circa il secondo profilo non basta che l’amministratore abbia assunto le necessarie informazioni e abbia eseguito ( attraverso l’uso di risorse interne o di consulenze esterne) tutte le verifiche del caso (cosa significhi “tutte”…ricorda certe teorie alla Lucas per far riferimento ad un economista famoso, oppure un sottile riferimento all’Unione Sovietica), ma essendo pur sempre necessario che le informazioni e le verifiche così assunte abbiano indotto l’amministratore ad una decisione razionalmente inerente ad esse. 
In pratica, benché nessuno abbia il dovere del successo economico, se qualcosa va male anche per circostanze economico - politiche delle ultime ore o giorni, per informazioni non assumibili senza organizzazione molto sofisticate, si può essere responsabili. Di fatto diventerà un giudizio ex post sul fatto che si è avuto successo? 
La dottrina aggiunge (Marinelli e Sabatini, p. 176 e ss.) che l’amministratore che abbia svolto tutte le verifiche necessarie e consultato tutti gli esperti disponibili e, nonostante ciò, effettui una scelta non razionalmente inerente alle informazioni ricevute e dannose per la società, non sarà irresponsabile nei confronti della società, ma al contrario doppiamente responsabile, per gli inutili costi dell’informazione e per il danno arrecato. Le scelte organizzative e la predisposizione di un assetto organizzativo non sono un obbligo specifico e predeterminato nel suo contenuto (Tribunale Roma 8 aprile 2020 n. 8159-1/2020) ma tale obbligo è assolto efficacemente guardando non tanto a rigidi parametri normativi, quanto ai principi elaborati dalle scienze aziendali: le clausole di adeguatezza sono elastiche, per cui se la scelta organizzativa attiene al merito gestorio per il quale vige l’insindacabilità, la scelta deve essere razionale (o ragionevole), noto per inciso che non sarebbe la stessa cosa, non sia ab origine connotata da imprudenza tenuto conto del contesto e sia stata accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico. 
Alla giurisprudenza occorrerebbe una (ri) lettura di certi capitoli della Teoria Generale di Keynes sopra indicati! 
Se poi certi discorsi si collegano ad altri in tema di ragionevole discrezionalità e si ritiene fondata la dottrina che ritiene fuorviante la distinzione tra scelte “gestorie” e scelte “organizzative” (Eugenio Barcellona) si giunge ad affermare che “ tutte le scelte anche quelle che hanno per contenuto l’organizzazione endo - aziendale, sono sempre scelte gestorie - tanto che abbiano ad oggetto un’operazione extra aziendale, quanto che abbiano ad oggetto un assetto endo - aziendale- devono essere assunte in modo organizzato e cioè con una procedura diretta alla corretta valutazione del rischio. L’organizzazione - quale requisito di diligenza - afferisce al quomodo dell’adempimento, non all’oggetto di ciò che si decide”). Altra dottrina, prevalente (D. Galletti, P. Montalenti). Pensa, in tema di Business Judgment Rule e scelte organizzative, al contrario della dottrina individuata, che il “dovere specifico” di imprimere un assetto organizzativo “adeguato” alla struttura aziendale non sarebbe sussumibile tra “i principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale”. 
La giurisprudenza, però, ritiene che le scelte organizzative hanno tutti i caratteri che caratterizzano le scelte imprenditoriali, cioè il carattere “prognostico”, la “connessa non predeterminazione degli effetti”, un “elevato grado di complessità” e la necessità di perseguire i doveri di “contemperare i costi e i benefici inerenti [alle singole scelte] con l’ulteriore dovere di massimizzare il valore del patrimonio sociale” (L. Benedetti). 
Così se pare corretto ritenere che l’autonomia gestoria non possa essere minata né vagliata ex post neanche per quello che concerne gli assetti organizzativi, amministrativi e contabili (per i rischi per un amministratore che essendosi tenuto a canoni di diligenza e rigore, potrebbe essere accusato di aver optato per un’organizzazione piuttosto che un’altra), per non avere valutazioni giudiziarie del tutto soggettive, avremo la nomina di CTU che nella maggioranza dei casi scelti saranno tra commercialisti che possono esprimersi su aspetti contabili ma saranno in grado di esprimersi su quelli organizzativi, amministrativi e aziendalistici interni? 
Chi ha avuto a che fare con commercialisti, che in altro settore, le amministrazioni giudiziarie di imprese di soggetti presunti mafiosi e quando gli sono restituite le aziende perché si scopre che non lo erano, si può dare una risposta, risposta di come sia diverso fare il commercialista e fare l’imprenditore: Keynes lo sapeva! 
2. A questo proposito facciamo breve digressione, che poi non è una digressione perché serve per spiegare come certe impostazioni giuridiche non siano realistiche. 
Un illustre economista (Dani Rodrik) spiega come funzionano i modelli in economia e la spiegazione ha rilievo anche per il nostro tema. 
Un classico modello è il dilemma del prigioniero (che tra l'altro nelle varie versioni dimostra che sarebbe meglio cooperare). Nella forma in cui è presentato si fa riferimento a due individui che saranno condannati se uno di loro confessa. 
Presentiamolo come un problema economico. 
Due imprese in concorrenza devono decidere se avere un cospicuo budget pubblicitario (i modelli organizzativi e gli adeguati assetti, uno degli esempi che i giuristi fanno e se c'è responsabilità se si hanno 50 o 40 magazzinieri a seconda dei piani di espansione, dell'offerta in base ad una prevedibile domanda e quindi un modello di un'azienda in base ad una domanda, Marinelli e Sabatini, p. 179, più volte citati fanno l’esempio dell’amministratore che assume 50 magazzinieri ma scopre dopo pochi mesi che ne servono 5 e, perciò potrebbe essere intentata un’azione di responsabilità verso di lui per i costi addossati all’azienda, per scelte dovute ad assetti non adeguati, responsabilità per l’irragionevolezza della sua scelta, irragionevolezza che non vi sarebbe se fosse stato sufficiente assumere 45 e non 50). 
La pubblicità consentirebbe a un'impresa di sottrarre all'altra una parte della sua clientela. Ma quando entrambe conducono una campagna pubblicitaria, gli effetti sulla domanda dei consumatori si elidono. Alla fine le imprese hanno speso del denaro inutilmente? 
Potremmo aspettarci che entrambe le imprese decidano di non spendere molto in pubblicità, ma questa logica non è realistica (a proposito di razionalità nelle decisioni bisognerà che il diritto prenda in considerazione l'economia comportamentale, che la razionalità è spesso eclissata dall'emozione o da scorciatoie cognitive erronee, che si vogliono soluzioni solamente soddisfacenti). 
Quando le imprese prendono le loro decisioni indipendentemente e si preoccupano unicamente del loro profitto, ognuno ha un incentivo a valersi della pubblicità senza riguardo delle scelte dell'altra: quando l'altra impresa rinuncia alla campagna pubblicitaria, se si fa  pubblicità ,si può  sottrarle i clienti; quando l'altra impresa fa pubblicità, devi usare la pubblicità per evitare di perdere clienti. 
Perciò le due imprese finiscono in un equilibrio insoddisfacente in cui entrambe devono sprecare risorse. 
Questo mercato non è efficiente.
Ma che un mercato sia efficiente o no dipende da certe assunzioni e dalla loro modifica eventuale. 
Consideriamo un altro modello. Il modello del coordinamento. Un' impresa, o una pluralità di imprese, sta decidendo se investire nelle costruzioni navali. 
Se può produrre su scala sufficientemente larga, sa che l'attività sarà profittevole. 
Ma un input importante è l'acciaio a basso prezzo che deve essere prodotto nelle vicinanze. La decisione dell'impresa si riduce a questo: se esiste un'acciaieria nelle vicinanze, investire nelle costruzioni navali; altrimenti non investire. Ora consideriamo il ragionamento dei potenziali investitori nella siderurgia della regione. Assumiamo che i cantieri navali siano gli unici potenziali compratori di acciaio. I produttori di acciaio pensano di poter realizzare profitti se esiste un cantiere che acquisti il loro acciaio, ma non altrimenti. 
A questo punto abbiamo due possibili esiti, ossia una situazione caratterizzata da quelli che gli economisti chiamano "equilibri multipli”. C'è un esito "positivo” in cui sono effettuati entrambi i tipi di investimento, sia il cantiere navale sia l'acciaieria ottengono profitti ed entrambi sono soddisfatti: l'equilibrio è raggiunto. 
Poi c'è l'esito "negativo”, in cui non viene effettuato nessun tipo di investimento. Anche questo secondo esito è un equilibrio perché le decisioni di non investire si rafforzano l'un con l'altra. Se non c'è il cantiere, i produttori di acciaio non vogliono investire; se non c'è nessuna acciaieria, il cantiere non sarà costruito. Questo risultato è in larga misura non correlato con il numero di potenziali partecipanti al mercato. Esso dipende invece in modo cruciale da altre tre caratteristiche: 
1) esistono economie di scala (in altre parole perché l'operazione sia profittevole deve aver luogo su un'ampia scala); 
2) acciaierie e cantieri navali sono reciprocamente indispensabili;3) non esistono mercati e fonti di input alternativi (che possano essere forniti, per esempio, dal commercio con l'estero). 
Modelli differenti, diverse visioni di come i mercati funzionano o non funzionano. Nessuno di essi è giusto o sbagliato. Ognuno mette in luce un importante meccanismo che è o potrebbe essere in atto in economie del mondo reale. 
Cominciamo a vedere che il modello " giusto" quello più adatto al contesto è importante. 
La risposta in economia ai problemi è: dipende. 
Consideriamo qualche esempio. 
Il salario minimo riduce o aumenta l’occupazione? Dipende a seconda che i singoli datori di lavoro si comportino in modo concorrenziale o meno (ossia, dalla loro capacità di influenzare i livelli salariali praticati nelle loro aziende). 
I movimenti di capitali in un’economia di mercato emergente accrescono o riducono la crescita economica? Dipende. 
La risposta varia a seconda che la crescita del paese sia impedita dalla mancanza di fondi investibili o da una scarsa profittabilità dovuta ad esempio ad imposte elevale. 
Una riduzione del disavanzo pubblico soffoca o stimola l’attività economica? 
La risposta dipende dal livello di credibilità, dalla politica monetaria e dal regime monetario. 
Ma il “dipende”, è dovuto a fattori contingenti, variabili, anche rapidamente da luogo a luogo, da fattori psicologici, di capacità o errori cognitivi, bias, dal caso, da fatti generali, politico economici, o locali. 
Dipende da assetti a priori? 
L’economista della Cambridge University, Ha-Joon Chang, a proposito di modelli matematici o precisi e rigorosi ha detto” Il 95%dell’economia è senso comune, fatto sembrare difficile grazie all’uso del gergo e della matematica “. Kenneth Boulding ha fatto due battute, ma era un economista eretico. 
La prima “La matematica ha apportato rigore all’economia; disgraziatamente era rigor mortis”. 
La seconda “La scienza economica non deve diventare la meccanica celeste di un mondo inesistente”. 
Neanche la scienza giuridica. 
3) Torniamo all’aspetto giuridico. 
Varie sono le questioni. Soffermiamoci su due. 
L’analisi sarà in ottica giuridica ma non trascurando l’aspetto economico, che deve costituire, costituisce, in questo settore, la guida reale cioè della realtà (storica) cui è impossibile sottrarsi. Non sarebbe neanche giusto. Una guida che, spesso, è critica verso certe impostazioni solo giuridiche. 

a- Obiettivi degli adeguati assetti. 
Prima di verificare in cosa debbano consistere gli adeguati assetti menzionati nell'art. 2086 c.c. e nell'art. 3 c.c.i.i., è opportuno interrogarsi sugli obiettivi che gli stessi devono raggiungere, per come vengono delineati dai co. 2 – 4 dell'art. 3. Dato che il legislatore non offre una descrizione precisa degli assetti da istituire, è solo apprezzando quali siano le finalità da perseguire che si può tentare di delinearne il contenuto concreto. 
Gli obiettivi perseguiti dalle norme sono sostanzialmente due. 
Da un lato, quello di consentire all'amministratore di “prevedere tempestivamente l’emersione della crisi” e dall'altro quello di assumere le “idonee iniziative” per superarla o quanto meno affrontarla. 
La locuzione utilizzata e poc'anzi richiamata chiarisce che gli assetti di cui si deve dotare l'impresa non debbano tanto riconoscere la crisi quando questa si presenta, ma rilevare gli indizi che la precedono e quindi consentire una prognosi che ne anticipi l'emersione. Benché la stessa crisi, secondo la definizione introdotta all'art. 2 co. 1, lett. a) c.c.i.i., già consista nella probabilità di insolvenza ovvero nell'inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi: un arco temporale non breve che induce a ritenere come gli strumenti per anticipare in misura significativa l'emersione della crisi non potranno che essere dotati di particolare efficacia. 
In concreto (e questa è una delle novità di maggior rilevanza della versione dell'art. 3 c.c.i.i. introdotta dal D. lgs. n. 83/2022) gli assetti di cui si deve dotare l'imprenditore devono consentire di rilevare squilibri di carattere patrimoniale o economico - finanziario in relazione alle caratteristiche dell'impresa (comma 3, lett. a) e di verificare la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale per i successivi 12 mesi, oltre che i segnali specifici delineati al comma 4 (comma 3, lett. b). 
Detti segnali consistono in specifiche soglie di indebitamento maturate in aree cruciali dell'attività di impresa, ovvero verso: 
- i dipendenti (comma 4, lett. a), 
- i fornitori (comma 4, lett. b), 
- le banche e gli intermediari finanziari (comma 4, lett. c), 
- i cosiddetti creditori pubblici qualificati (Inps, Inail, Agenzia Entrate e Riscossioni) come definiti nell'art. 25 novies CCII (comma 4, lett. d). 
Ad una prima lettura pare che si tratti di soglie abbastanza avanzate di indebitamento che quindi fanno presumere non tanto una crisi probabile o imminente, ma già in atto e che quindi non serviranno a “prevedere tempestivamente” la crisi, ma forse a diagnosticare una situazione ormai conclamata. 
Invero, tanto il ritardo di trenta giorni nel pagamento nelle retribuzioni di oltre la metà dei dipendenti (comma 4, lett. a), quanto quello di novanta giorni nella soddisfazione della maggior parte dei fornitori (comma 4, lett. b) rappresentano segnali di una situazione di difficoltà economico – finanziaria evidente, per quanto forse ancora astrattamente rimediabile. Non è quindi escluso che almeno alcune delle soglie indicate dal legislatore si rivelino all'atto pratico troppo avanzate per costituire segnali idonei a perseguire l'ambizioso fine di “prevedere” l'emersione della crisi. 
Può invece considerarsi scontato che non sarà necessario superare tutte le soglie di indebitamento perché il segnale della crisi di impresa si concreti. Basterà anche il superamento di uno solo dei parametri, come dimostra l'utilizzo del termine plurale del comma in esame. 
Nello stesso tempo, può essere sottolineata la decisiva rilevanza dei segnali elencati nel comma 4, dell'art. 3 CCII, non pare che l'elenco abbia pretese di esclusività per cui potranno in concreto presentarsi situazioni nelle quali, pur non essendo integrata alcune delle ipotesi espressamente formulate, lo stato di crisi sarà comunque prevedibile e magari imminente. 
La lettera normativa “costituiscono segnali per la previsione” non depone chiaramente in tal senso. Ma la circostanza che l'esemplificazione sia contenuta nel comma finale della disposizione, dopo che al precedente (lett. a) e b) vengono delineate ipotesi molto generali ed ampie, alludendo a squilibri di carattere patrimoniale o economico finanziario ed alle prospettive di continuità aziendale dei successivi dodici mesi, chiarisce come il superamento delle varie soglie di indebitamento sia solo uno dei possibili segnali, non certo l'unico che gli adeguati assetti devono essere in grado di rilevare. 
Il secondo obiettivo perseguito dagli assetti che l'amministratore deve istituire e che si affianca alla rilevazione della imminente crisi è quello di affrontare la sua emersione e quindi di dotare sin da subito gli organi gestionali e di controllo di tutte le informazioni ed i dati necessari per una reazione tempestiva ed appropriata. 
La circostanza non emerge in via diretta dall'art. 2086 c.c., ma si evince con sufficiente chiarezza dalle previsioni contenute all'art. 3 comma 3, lett. c) e dall'art. 4, comma 2, lett. b) CCII. 
Se, infatti, gli assetti devono consentire di rilevare le informazioni necessarie per redigere la lista particolareggiata e il test per verificare la ragionevole perseguibilità del risanamento dell'impresa, non si può che dedurre come dagli stessi debbano ricavarsi tutte le informazioni utili a valutare, non solo se il risanamento è possibile e ragionevole, ma anche il modo attraverso cui si può pensare di raggiungere un simile, in molti casi ambizioso, obiettivo. 
D'altra parte, l'obbligo di assumere tempestivamente le iniziative idonee ad individuare le soluzioni per il superamento degli squilibri economico finanziari (art. 4, comma 2, lett. b) CCII) non può avvenire se gli adeguati assetti non saranno stati efficienti ed esaustivi. 
Perciò sebbene in concreto le decisioni sul miglior modo per affrontare la emergente crisi di impresa spettino in via esclusiva agli amministratori, le premesse per il corretto esercizio di tale potere si concretano nella preventiva dotazione di adeguati assetti per l'individuazione (o meglio, la previsione) della crisi, perché è difficile pensare che diversamente possa adempiersi con puntualità l'obbligo di assumere idonee e tempestive iniziative. 

b-Il concreto contenuto delle obbligazioni poste a carico dell’amministratore
Delineati, seppure per sommi capi, gli obiettivi che gli adeguati assetti devono essere in grado di perseguire è possibile interrogarsi con qualche strumento in più su cosa in concreto l'amministratore debba fare per contare su un “assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato”. 
Tali assetti dovendo essere definiti in ragione delle dimensioni e della natura della impresa non possono stabilirsi a priori, perché solo calandosi nella concreta realtà imprenditoriale è possibile valutare ed apprezzare l'adeguatezza degli strumenti prescelti. 
Tuttavia lo sforzo dell'interprete deve essere quello di mettere a disposizione degli amministratori indicazioni concrete che possano fornire da guida e per certi versi lo tutelino nel caso di approdo all'ipotesi – deteriore ma pur sempre possibile, nonostante ogni cautela – di liquidazione giudiziale. 
Quindi innanzitutto ci si può chiedere se gli assetti adeguati debbano essere interni all'azienda o se sia possibile esternalizzarli, incaricando professionisti esperti di effettuare verifiche periodiche sull'andamento patrimoniale ed economico – finanziario dell'impresa. La norma depone, credo, nel primo senso. 
L'istituzione di un assetto adeguato rimanda ad una struttura intrinseca all'azienda, tant'è che per l'imprenditore individuale il legislatore si limita a parlare (art. 3, comma 1) di adozione di “misure idonee” e quindi di un contributo che di certo potrà essere esterno, sul presupposto di una organizzazione imprenditoriale più semplice e contenuta.
Ciò non significa peraltro che la struttura organizzativa, amministrativa e contabile dell'imprenditore collettivo non possa giovarsi di contributi esterni. 
E' indubbio che una simile lettura della norma imponga alle imprese, specie quelle di piccole e medie dimensioni, di dotarsi di risorse che al momento spesso non hanno e quindi non troverà facile recepimento in un periodo economico tanto contrastato ed incerto quale quello attuale. 
Del resto, la stessa normativa vigente ammette per molte imprese l'adozione di sistemi contabili semplificati che mal si conciliano con l'istituzione e l'efficace funzionamento degli adeguati assetti. Basti pensare tra gli altri all'art. 2435 bis c.c. che consente l'adozione di bilanci in forma abbreviata, all'art. 2435 ter c.c. che semplifica ulteriormente la redazione del bilancio per le c.d. microimprese, alla possibilità di adottare una contabilità semplificata come previsto dall'art. 18 D.p.r. n. 600/1973. Ma pur considerando simili criticità o contraddizioni intrinseche al sistema, non si ritiene che, sulla base dell'attuale dettato degli artt. 2086 c.c. e 3 CCII gli adeguati assetti possano risolversi in meri test periodici eseguiti da professionisti di fiducia, perché solo conoscendo dall'interno l'impresa e le sue dinamiche commerciali e produttive è possibile apprezzare con sufficiente tempestività i segnali della futura crisi. Gli assetti quindi potranno consistere in concreto: 
- nel reclutamento e nella formazione di personale addetto alla sorveglianza ed all'analisi dei parametri significativi sotto il profilo patrimoniale ed economico – finanziario, 
- nell'adozione di mansionari e moduli strutturati di organigramma destinato ad operare le predette analisi, 
- nella redazione periodica di budget previsionali di carattere patrimoniale, economico e finanziario, 
- nell'acquisizione di risorse di carattere informatico che potranno rendersi utili per operare diagnosi e previsioni contabili e finanziarie, 
- nella previsione di sistemi di controllo interno sull'operato del personale addetto e sulla sua formazione, 
- nell'adozione di criteri di libera circolazione delle informazioni all'interno dell'impresa in modo che le criticità e le loro possibili conseguenze possano essere valutate con la necessaria tempestività. 
Molto importante, tanto in una prospettiva di migliore funzionamento degli assetti, quanto di verifica di eventuali responsabilità dell'amministratore, sarà la procedimentalizzazione delle attività dell'apparato organizzativo mediante la predisposizione di regole scritte che definiscano funzioni, poteri e modus operandi del personale addetto. 
Non di meno, gli esiti di questa attività di monitoraggio imporranno valutazioni non agevoli (perché tale spesso non è quella di formulare una prognosi di continuità aziendale per i successivi dodici mesi) nonché di ricavare informazioni complesse quali quelle indispensabili per redigere la lista particolareggiata ed il test di ragionevole perseguibilità di risanamento previsto per accedere alla composizione negoziata (art. 13 c.c.i.i.). Sicché è improbabile che i compiti vengano totalmente espletati all'interno dell'impresa, a meno che questa non abbia notevoli dimensioni e personale altamente qualificato. 
Sarà necessario che l'impresa si giovi del contributo di professionisti esterni (in particolare commercialisti ed avvocati) che, essendo dotati dell'indispensabile bagaglio professionale, orientino l'amministratore nel difficile obiettivo di superare la crisi, pur a prescindere dall'obbligo generalizzato della difesa tecnica sancito dall'art. 9, comma 2, CCII. 
Considerato che i doveri di adottare adeguati assetti organizzativi finalizzati a prevenire la crisi di impresa e di agire tempestivamente per affrontarla utilizzando gli strumenti posti a disposizione dell'ordinamento sono ormai codificati, può considerarsi pacifico che tanto il radicale inadempimento quanto l'inesatto adempimento di tali specifiche obbligazioni costituiscano potenziali fonti di responsabilità per gli amministratori. 
Anzi, si può ipotizzare che saranno forse nel futuro uno dei principali fondamenti delle azioni di responsabilità che il curatore potrà attivare. 
In una simile prospettiva non potrà che muoversi dalla conclusione che il modo attraverso cui l'amministratore adempie il dovere di istituire gli adeguati assetti organizzativi, contabili e amministrativi rientra nell'alveo della business judgment rule e che quindi allo stesso dovrà riconoscersi un'ampia discrezionalità. 
Essa però non sarà certo insindacabile da parte del giudice, tutte le volte in cui sia stata esercitata in modo irragionevole e manifestamente imprudente e quando le decisioni assunte difettino di sufficienti verifiche istruttorie. 
Perciò la giurisprudenza, con tutto quello che ho detto facendo riferimento all’uso delle clausole generali, svolgerà un ruolo decisivo e potenzialmente non rassicurante: judgment rule giurisprudenziale, di fatto? 
Precisamente in questo senso, seppure al diverso fine di giustificare l'assunzione dei provvedimenti previsti dall'art. 2409 c.c., si veda Tribunale di Roma, 15 settembre 2020 in www.ilsole24ore.it e www.giurisprudenzadelleimprese.it, ove si nota:” mentre da un lato appare certo che la mancata adozione di qualsivoglia misura organizzativa comporti di per sé una responsabilità dell’organo gestorio, dall’altra, si ritiene possibile assoggettare a sindacato giudiziale la struttura organizzativa predisposta dall’amministratore nei limiti e secondo i criteri della proporzionalità e della ragionevolezza (e, precisamente in questo ambito secondo i criteri della adeguatezza), ciò al fine di verificare se fosse idonea a far emergere gli indici della perdita della continuità aziendale e se la tipologia degli interventi scelta dall’organo gestorio sia ragionevole e non manifestamente irrazionale. Ed è evidente che tale verifica andrà effettuata sulla base di una valutazione ex ante, tenendo conto delle informazioni conosciute o conoscibili dall’amministratore, ed a prescindere dai risultati concreti che poi sono stati raggiunti”. Non sembrano affermazioni rassicuranti, intrise di giudizi di irrazionalità, proporzionalità, informazioni conosciute o conoscibili (concetti sui quali da Keynes sino alla moderna economia comportamentale che analizza gli andamenti di borsa e come si formano e i loro effetti sugli equilibri finanziari, si potrebbero scrivere volumi e ai quali, sommariamente, si farà cenno). 
Per gli amministratori convenuti l'onere probatorio rischierà di essere particolarmente gravoso. E' certo che dinnanzi ad una allegazione di inadempimento o di inesatto adempimento da parte del curatore, sarà onere dell'amministratore provare di avere adempiuto in modo soddisfacente ai doveri. 
Recente giurisprudenza [12] mette in evidenza il ruolo fondamentale dell’art 2086, comma 2, c.c. e ritiene che sia una grave irregolarità, che impone la nomina di un amministratore giudiziario, la mancata adozione di adeguati assetti da parte dell’organo amministrativo, ma altrettanto grave, se non addirittura più grave, è la mancata adozione di adeguati assetti da parte di un’impresa in una situazione di equilibrio economico finanziario. 
Vi è la necessità di istituire adeguati assetti indipendentemente dalle circostanze e senza che l’eventuale condizione di sostenibilità economica dell’impresa possa costituire da discrimine, anche tacito. 
Si afferma che gli assetti adeguati sono funzionali ad evitare che l’impresa “scivoli inconsapevolmente verso una situazione di crisi o di perdita della continuità” e hanno lo scopo di consentire all’organo amministrativo di percepire tempestivamente i segnali di crisi, dando la possibilità di predisporre le opportune iniziative. Da una parte si attribuisce agli adeguati assetti una funzione salvifica, come se avessero un’onnipotenza, che in economia non esiste .La letteratura economica, parliamo di quella che si occupa di macroeconomia per non interferire troppo sull’attività di impresa, è piena di esempi persino di Stati che se a un certo punto hanno squilibri o shock economici e hanno, come Stati, vari sistemi di prevenzione o previsione, non si può certo parlare di “colpa” e come gli shock possano essere improvvisi. Dall’altra parte sembra quasi ci sia una presunzione di colpa o responsabilità derivante dalla mancanza o, più subdolamente dalla semplice insufficienza (così ritenuta) degli adeguati assetti. Per conseguenza l’attenzione è stato detto in sede di commento che, per il Tribunale di Cagliari, ”circa la predisposizione di assetti adeguati deve essere maggiormente intensa proprio quando la società non si trova in crisi, perché in quella fase l’ente ha le risorse per predisporre le misure adeguate; invece, una volta che la crisi si è manifestata, ciò che risulta maggiormente rilevante non è tanto la (mancata) adozione di adeguati assetti, quanto piuttosto l’omessa o inefficace adozione di uno degli strumenti previsti dalla legge per fronteggiare la crisi”. Perciò ogni società in bonis, quale che sia la dimensione deve formare uffici studi, organismi che facciano previsioni microeconomiche, creditizie, che possano immaginare situazioni di credit crunch, di crisi energetiche (tipo anni 70 o odierne, non dico eventi bellici), non sapendo bene inoltre come si può atteggiare il rapporto causa - effetto in campo (macro)economico. Quelle che sono già in crisi sembrano in “colpa” per altri motivi. Comunque tutte, quasi sempre, di fatto, da “sanzionare”. E arriva l’amministratore giudiziario ex art. 2409 c.c. [13] 
Ma la sentenza cagliaritana, come altre e anche diverse esposizioni giuridiche soffrono di una scarsa attinenza e scarsa voglia di interfacciarsi con l’economia: uno dei pregi dell’opera di è stato quello di vedere nei problemi i due aspetti (economico e giuridico). Bisogna tenere conto degli aspetti anche macroeconomici che inevitabilmente hanno una ricaduta sulle imprese e famiglie, sugli individui, sugli aspetti microeconomici, ma anche giuridici. 
L’inserimento della macroeconomia sugli atteggiamenti concreti di imprese e individui è un punto oramai assodato non solo da Keynes in poi ma da quando come si dice “macroeconomia: il tutto è maggiore della somma delle parti” e nel 1933 l’economista norvegese Ragnar Frisch coniò il termine macroeconomia. Vediamo con una piccola digressione di far comprendere il concetto sull’incertezza e sulle decisioni e anche sui conseguenti “adeguati assetti “e su certe pretese di marca solo giuridica ma che sono monche della parte economica. 
Perché una cosa sono i sistemi di allerta, i segnali di un disequilibrio che inizia, altro è applicare certi principi e obblighi generali in altre situazioni. 
4. L’incertezza in economia e nelle decisioni economiche è il tema ineludibile. Del quale la giurisprudenza non tiene forse a sufficienza conto. come già indicato si può cominciare con le classiche opere di Knight Frank, Risk, uncertainty, and profit (1921; trad it. 1960); Capital, time and interest rate (1934); The ethics of competition and other essays (1935); Freedom and reform (1948); The economic organization (1951); Essays on history and method of economics (1956); Intelligence and democratic action (1960), per arrivare a John Maynard Keynes (che per quanto ne sappia non ha riconosciuto il merito a Knight) nel Capitolo 12 della sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936). Per Keynes  "Il mercato può rimanere irrazionale più a lungo di quanto tu possa rimanere solvibile” e nel 1936 affermava, a proposito della borsa di Wall Street ,che quando era aperta almeno la metà'  degli acquisti o delle vendite degli investimenti era intrapresa nella prospettiva ,da parte dello speculatore (che per lui era semplicemente di svolgeva un'attività che cercava di prevedere la psicologia del mercato mentre faceva attività di impresa di cercava di prevedere il rendimento futuro di un investimento nel corso della sua vita ) , di fare l'operazione inversa in giornata. E questo, aggiungeva, valeva anche per il mercato delle materie prime, non solo per i prodotti finanziari. Perciò tutto il mondo è paese e da secoli... 
Esistono i cattivi o spesso le condizioni economiche cambiano senza che un imprenditore non solo possa farci nulla ma neanche prevederlo? 
Persino gli Stati in deficit è dubbio che possano avere patenti di colpa o di cattivi e debbano soffrire come prezzo della loro pigrizia o debolezza. 
Facciamo un banale esempio. Ci può essere uno shock esogeno che colpisce un paese (una volta un cattivo raccolto, adesso un improvviso aumento di una materia prima per via di una guerra, o un’inondazione o qualsiasi altro evento che comunque non dipende dalla colpa del paese). 
-Arriva lo shock esogeno sopra indicato che colpisce il paese A e questo induce una riduzione delle importazioni dal paese B, perché il suo reddito (senza colpe) diminuisce. 
- Si verifica perciò anche una riduzione delle esportazioni di B. 
Niente è cambiato nelle esportazioni di A verso B (il cui reddito è costante ):è’ noto che se le importazioni dipendono dal reddito di un paese (più aumenta il suo reddito e più possono aumentare, a seguito dell’aumento dei consumi ,le sue importazioni), le esportazioni di un paese non dipendono dal suo reddito ma dal reddito degli altri paesi, quelli dove esporta (le esportazioni possono dipendere anche dalla competitività delle merci nazionali, dalla tecnologia ,dalla specializzazione ecc, ma non scendiamo in particolari). 
Perciò siamo nella situazione che a seguito dello shock esogeno di A (senza colpa), questi ha ridotto le importazioni da B, ma le esportazioni di A verso B non si sono ridotte perché il reddito di B è invariato. Proseguiamo. 
3-il paese B svilupperà un deficit della bilancia dei pagamenti e A un surplus. 
A il paese che ha ridotto il reddito e le importazioni, ma non le esportazioni ha un surplus e B, quello che non ha ridotto il reddito, ha un deficit. Bel paradosso! 
Ma gli effetti continuano. 
4-Le esportazioni di B verso A sono una parte importante della domanda aggregata di B:se tale domanda si riduce, il reddito di B si riduce. Non rimane più invariato. 
5-Ma se il reddito di B si riduce anche la sua domanda per A si riduce e così il reddito di A (che esporterà di meno verso B) 
6-E così finché, dice la teoria ma è da vedere (dopo successivi aggiustamenti al ribasso) il deficit di B scompare e la bilancia commerciale di A torna in pareggio. 
7-Ma viene ristabilito un equilibrio a un livello più basso di reddito e di occupazione per entrambi i paesi. 
Ma senza che nessuno dei due abbia colpe specifiche o si possa fare, anche alla partenza graduatorie di virtuosità. 
Tutto questo naturalmente influisce sulle imprese e i loro “adeguati assetti”? 
L’esempio è astratto e molto semplificato ma rende l’idea. 
Keynes diceva, a proposito delle patenti di pigrizia o debolezza da espiare che qualche paese voleva dare ad un altro, quando c’era il sistema del gold standard, con un’etica del gold standard che copriva di vergogna certi paesi per aver accumulato debiti, ma a beneficiarne spesso erano altri paesi in eccedenza, che nell’ordine internazionale, come nella vita ordinaria, che i mendicanti erano di rado i veri cattivi. Cioè il sistema del gold standard portava spesso alla deflazione e alla disoccupazione. Con una impostazione tutta morale. Si riteneva che insito nel sistema del gold standard vi fosse la concezione che la sofferenza era un prezzo da pagare perché un paese era pigro, indolente, cicala, debole ecc... Non capendo che se un paese aveva infrastrutture economiche poco efficaci era giusto che vi ponesse rimedio, ma che a volte i deficit della bilancia commerciale non dipendevano da colpe specifiche (aumento di materie prime di cui non si è dotati ad esempio, comunque le nazioni avevano deficit commerciali perché dovevano e non perché erano più o meno avventate rispetto a quelle che avevano un surplus che spesso non avevano meriti). Non si dica che queste sono politiche economiche generali e prevedibili. La loro adozione, il loro cambiamento, decisioni all’interno di un’impostazione, cambiano molto le cose. Le modifiche periodiche o continue degli adeguati assetti, anche se fossero possibili, spesso sono inutili. Soprattutto far discendere da un obbligo generale conseguenze giuridiche, persino ex art. 2409 per tornare alle norme. 
Ma guardiamo al settore finanziario e bancario e se uno shock lo colpisce. Si dice spesso che il settore finanziario e bancario sia come una cipolla. Sfogliando uno strato dopo l’altro, ci si chiede se in definitiva esista un nucleo solido! Ora con la crisi energetica che mette in crisi aziende molto solide che avranno ricevuto finanziamenti e fidi dalle banche, fidi e finanziamenti ritenuti sicuri, non c’è il rischio di una crisi anche nel settore finanziario? Anzi di una doppia crisi: 
1-nel settore finanziario perché certi finanziamenti e fidi diventano non più sicuri e solvibili. Anche magari quelli dati alle famiglie. Non solo alle imprese; 
2- una crisi nel settore del credito perché le banche potrebbero diventare riluttanti al prestito avendo problemi di solvibilità. Quando c’è una crisi del credito l’economia si arresta perché non concedendo più prestiti. 
A proposito delle interconnessioni e di effetti sfavorevoli ma improvvisi che possono verificarsi su soggetti ma anche su imprese e sono eventi per il singolo o per la singola impresa imprevedibili e comunque improvvisi e non governabili, per mancanza oggettiva di informazioni, che non sono in possesso neanche degli enti preposti e che anche se ognuno le avesse non potrebbe farci nulla, nel 2008 a seguito dei noti fatti si verificò un fenomeno di contagio finanziario che è stato tale da provocare drammi per coloro che ne sono colpiti senza che ne abbiano, quasi responsabilità. Se gli amministratori della Lehman Brothers o della A.I.G, ecc... possono meritare, a certe condizioni, punizioni almeno morali, altri no. Il circolo vizioso del deleveraging fa sì che un'istituzione finanziaria che si trovi sotto pressione cerca di vendere le proprie attività per procurarsi liquidità. Vendendo le attività rapidamente, spesso deve venderle a sconto. Il contagio deriva dal fatto che altre istituzioni finanziarie detengono attività simili, i cui prezzi diminuiscono a causa della vendita "a ogni costo". Il calo dei prezzi innesca una spirale perversa. La diminuzione dei prezzi di queste attività danneggia le altre istituzioni finanziarie, inducendo i rispettivi creditori a bloccare i prestiti. Le istituzioni finanziarie sono a loro volta costrette a vendere a ogni costo le loro attività per avere liquidità ed evitare il fallimento, alimentando la caduta dei prezzi. Nei mesi successivi al tracollo della Lehman questo fenomeno si manifestò in tutta la sua evidenza, mettendo in crisi non solo il sistema, ma dimostrando che lasciar fallire il colpevole, tipo la Lehman, se può essere giusto, non è responsabile. 
I prezzi di una vasta gamma di attività detenute dalle istituzioni finanziarie, dalle obbligazioni societarie, ai titoli rappresentativi di cartolarizzazioni di prestiti studenteschi (erano coloro che solamente volevano studiare in una Università prestigiosa a pagare anche per la Lehman!) crollarono sotto la pressione di un'ondata di vendite. Comunque torniamo a certe pratiche che coinvolgono addirittura gli Stati a loro insaputa. Il carry trade è un sistema per il quale si prende a prestito soldi in paesi che applicano bassi tassi di interesse, come la Russia o il Brasile. Dopo il fallimento della Lehman, è avvenuto un fenomeno ben descritto da Krugman che è simile a quello che era avvenuto già in precedenza in Giappone. Dice l'autore "Il travaso di fondi dal Giappone in altri paesi a bassi tassi di interesse si era bloccato....Siccome i capitali non uscivano più dal Giappone, il valore dello yan è aumentato; e siccome i capitali non entravano più nei mercati emergenti, il valore delle loro monete è diminuito. Ciò ha causato grandi perdite sul capitale per tutti coloro che si erano finanziati in una divisa e avevano concesso prestiti in un'altra. ...le aziende dei mercati emergenti che si erano finanziate a basso costo all'estero, si trovassero improvvisamente a contabilizzare grosse perdite "(Paul Krugman) 
Certi governi come quello russo, ad esempio, che credevano di non dover subire effetti dalle vicende Usa o Lehman, hanno scoperto, quasi a loro insaputa appunto, che i loro tentativi, magari di corretta amministrazione o di isolamento, venivano vanificati dalla ingiustificata propensione al rischio del settore privato. In Russia, le banche o le aziende erano andate a finanziarsi in massa all'estero perchè i tassi di interesse erano più bassi di quelli praticati sul rublo. Il governo russo, diciamo formica, aveva riserve estere per 560 miliardi di dollari, ma le banche o le aziende avevano debiti esteri per 460 miliardi di dollari. Improvvisamente queste aziende e banche si sono trovate con le linee di credito bloccate, mentre il valore in rubli dei loro debiti saliva. Egualmente per le banche brasiliane, che magari non avevano loro personalmente forti esposizioni all'estero, anche loro formiche, ma i loro clienti nazionali purtroppo si. 
Per questo ho detto che i controlli e i requisiti devono essere eguali per tutti e che le conseguenze negative possono colpire tutti, dallo studente che ha fatto un prestito per andare all'università e al quale viene revocata una linea di credito, pur pagando puntualmente, ma anche a chi, Stato o altri è stato, persino una formica. 
Ritornando al diritto, tra l’altro, con l’impostazione, che sembra prevalere in giurisprudenza diventa una conseguenza ritenere gravi irregolarità la mancata predisposizione degli assetti, ma anche l’inadeguatezza degli assetti medesimi, cui è da aggiungere la mancata verifica periodica della loro adeguatezza. Se per gli interessi degli stakeholders questi temi e aspetti possono essere logici con riferimento alle s.p.a., anche senza fare distinzioni, per le altre società diventano oneri notevoli. L’organo di controllo, poi, con questa impostazione che fa propria, come dice il Tribunale di Cagliari la visione che gli assetti adeguati, in società in bonis, sono “funzionali proprio per evitare che l’impresa scivoli inconsapevolmente in una situazione di crisi”, saranno spinti ad essere più realisti del Re? Ma, posto che è legittimo che un organo di controllo non sia stato nominato, quando i soci abbiano deciso, come consente l’art. 2477 c.c. in tema di S.r.l., di nominare un revisore, sia in caso di nomina facoltativa (art. 2477, comma 1), questa mancanza come viene valutata?  Forse il legislatore dovrebbe fare almeno uno sforzo di coordinamento. [14] Il nuovo Codice della crisi d’impresa, che non riguarda solo le imprese in stato di insolvenza o in grave crisi, ma contiene norme dirette a tutte le società, può diventare dirigista? Nel tentativo di prevenire, di tutelare, prevenendo ogni cosa o evento, gli stakeholders, attraverso l’art. 2086 cc fa richiamo agli strumenti delineati all’art. 2381 “applicabile anche alle S.r.l, che sono bilancio, budget e cash flow da redigersi e valutarsi almeno a cadenza semestrale” (Giuseppe Verna). Questo per tutte le S.r.l., anche quelle unipersonali. Non dovrebbe essere facile sindacare la decisione di intraprendere l'uno piuttosto che l'altro strumento di regolazione. 
Dovrebbe essere verosimile, infatti, che la scelta sarà stata assunta con l'ausilio di un professionista terzo, al giudizio del quale l'amministratore, attesa la particolare complessità della materia, non potrà che rimettersi in larga misura. Piuttosto si potrà sindacare la tempestività dell'adozione di tali iniziative, ma il tema è inscindibilmente connesso alle modalità di emersione dei segnali della imminente crisi, alla loro gravità ed alla complessità dell'impresa, sì che non pare possibile svolgere in punto di tempestività considerazioni di carattere astratto che abbiano un reale significato e rilievo. Assai più problematico è per l'amministratore dare prova di aver dotato l'impresa di “adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile”. Questo onere lo impegnerà su due fronti distinti, sebbene collegati. Il primo è quello di provare che gli assetti erano stati istituiti ed il secondo che essi erano adeguati, ovvero idonei e funzionali a rilevare le potenziali crisi sopravvenienti. E' perciò evidente che solo qualora gli adeguati assetti siano stati oggetto di procedimentalizzazione per iscritto (e quindi siano state individuate le figure aziendali destinate ad occuparsene, i loro poteri e doveri e le procedure da seguire per appurare il pericolo di crisi, etc.) l'amministratore sarà in grado di fornire prove idonee ad esimerlo da responsabilità. Non pare infatti, credibile che la prova dell'adempimento di tali obbligazioni possa avvenire mediante prove orali. Va invero considerato non soltanto il tempo che spesso intercorre tra i fatti e il loro vaglio giudiziale, ma anche il disgregarsi dell'organizzazione imprenditoriale che segue l'apertura della liquidazione giudiziale, sulla quale quindi l'amministratore non potrà più fare conto quando si troverà chiamato a fornire prova dell'esatto adempimento .Parimenti (atteso che non sarà sufficiente che gli adeguati assetti vengano istituiti, ma si dovrà anche appurare che funzionino) pure l'attività di monitoraggio dell'andamento dell'impresa attuato dagli assetti organizzativi dovrà provarsi per iscritto o comunque in un modo che possa essere a posteriori agevolmente documentato. Non è chi non veda insomma che gli oneri probatori posti a carico dell'amministratore in caso di azione di responsabilità saranno perciò ponderosi ed impegnativi. 
Il recente D.Lgs. n. 136/2024 non muta il quadro delineato in generale. 
Lo affina nell’ambito di una pretesa, come ho detto tipica da Minority Report, per cercare di cogliere indizi o prove di pre-crisi, creando obblighi, oneri e relativi costi che, spero, non siano essi stessi tali da far precipitare la pre-crisi in crisi. Sia per i costi in sé, sia per l’opera di professionisti, che potrebbero, a scopo cautelativo, gridare spesso “al lupo”. 
La prima novità riguarda l’art. 3 del CCII che ha la finalità di dare una corretta e più appropriata lettura al concetto di tempestiva indicazione di segnali di crisi. 
In particolare l’intervento è espresso dal quarto comma della norma in esame alla luce del quale: “Costituiscono segnali che, anche prima dell’emersione della crisi e dell’insolvenza agevolano la previsione di cui al comma 3”. 
I segnali previsti dall’art. 3, comma 4, CCII come di per sé indicatori di una precrisi che, sulla base della relazione illustrativa vanno intesi come elementi che forniscono indicazioni in chiave prospettica. 
E’ evidente che gli adeguati assetti dovranno essere in grado di captare anche segnali di precrisi o probabilità di crisi. 
La definizione di questa condizione la si rinviene nell’art. 12, comma 1, CCII che, nell’ambito della composizione negoziata per la soluzione della crisi di impresa, pone evidenza alla situazione di “squilibrio patrimoniale o economico finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza e risulta ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa”. 
La seconda novità di interesse, quanto al tema in esame, la si rinviene all’art. 25 octies CCII “Segnalazioni dell’organo di controllo o del soggetto incaricato della revisione legale”. 
La norma, pur non avendo un nesso diretto con gli assetti riveste una importanza indiretta di rilievo perché sottolinea l’importanza delle segnalazioni inserendo tra i soggetti tenuti a tale adempimento anche l’incaricato della revisione legale oltre all’organo di controllo. Il legislatore fornisce precise indicazioni ai soggetti tenuti alle segnalazioni. 
Quanto al dovere di segnalazione a carico dell’organo di controllo e del revisore nell’ambito degli articoli 25 octies e 25 novies CCII si distinguono due tipi di segnalazione indotte da: 
- Allerta interna (art. 25 octies CCII): sulla base di questa è previsto che l’organo di controllo e il revisore (nell’esercizio delle rispettive funzioni) in caso di segnali di crisi o di insolvenza devono informare in forma scritta l’organo amministrativo della sussistenza dei presupposti per la presentazione della istanza per la composizione negoziata della crisi ex art. 17 CCII. L’indicazione della relazione ha una precisa rilevanza. 
Infatti: 
- se per il sindaco la situazione di crisi o di insolvenza diventa riscontrabile non solo nell’ambito dei controlli trimestrali, della partecipazione ai CDA, la domanda che ci si pone è cosa cambia per il revisore rispetto al contesto operativo in cui ha operato sino al 27/9/2024. 
- Orbene, il revisore, in merito alla crisi e alla insolvenza, fino alla modifica del correttivo, è stato chiamato a valutare la ricorrenza del principio di continuità (ISA Italia 570), valutazione che normalmente viene effettuata in sede di controllo del bilancio di esercizio. 
Dal 28/9/2024, ai sensi dell’art. 25 octies, dovrà anche procedere alla segnalazione nel caso ricorrano le ipotesi di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) e b) (crisi e insolvenza). 
Il revisore, peraltro, non avendo contatti continui con la governance/CDA, dovrà “coltivare” rapporti collaborativi con il collegio sindacale/sindaco unico. 
- Allerta esterna (art. 25 novies CCII): tale previsione ha subito una importante modifica; nella prima versione ante D.Lgs. n. 83/2022 i creditori pubblici qualificati, al superamento di soglie (basse) sui debiti dell’imprenditore segnalavano a quest’ultimo, all’OCRI (soggetto che in caso di insuccesso del percorso assistito avrebbe dovuto segnalare al PM al fine di far aprire la liquidazione giudiziale) e all’organo di controllo il superamento dei limiti. 
Nella attuale versione la segnalazione che proviene dai creditori pubblici qualificati viene limitata all’organo amministrativo e a quello di controllo. 
La segnalazione rappresenterà lo strumento di stimolo agli amministratori finalizzato al tentativo di superare la situazione di crisi, avendo sempre ben presente che lo strumento base per verificare sia la continuità che segnali di crisi o precrisi, rimane sempre l’adeguatezza degli assetti amministrativi, organizzativi e contabili. 
V . Gli adeguati assetti e il possibile ruolo del notaio
Abbiamo visto come condizioni macroeconomiche, indipendenti dalla volontà delle parti possano agire sugli operatori economici e non solo in modo imprevedibile per loro, a volte anche per gli stessi governi e Stati, ma anche in modo pressocché istantaneo. Abbiamo visto il fenomeno del “contagio finanziario”. Altre considerazioni circa come condizioni macroeconomiche possono agire si potrebbero aggiungere. Basta pensare alle note divergenze di opinioni sulla diseguale distribuzione del reddito totale e di come secondo alcuni favorisca l’insufficienza della domanda effettiva e quindi la presenza di una sacca di disoccupazione involontaria, considerazioni che giustificano l’adozione di provvedimenti di politica fiscale o monetaria che possono essere negati o ribaltati da altri che si ispirano a diverse considerazioni. Basta rammentare le note discussioni su quella che è stata denominata la c.d. “legge di Say”: [15] se la spesa per consumi e investimenti del settore privato non è in grado di garantire la piena occupazione, le autorità pubbliche debbano, per alcuni, agire stimolando i consumi e gli investimenti. 
Per venire ad un discorso prettamente giuridico da quanto emerge oggi l’imprenditore deve anche dotarsi di un’organizzazione, un’amministrazione e una contabilità che siano adeguate alla dimensione della sua attività d’impresa. Non basta solo la volontà o un’idea.
La gestione dell’attività d’impresa e l’amministrazione di una società sono concetti che vanno tenuti ben distinti. 
La gestione dell’attività d’impresa, la quale in ogni caso rappresenta un’esclusiva degli amministratori, riguarda il piano organizzativo dell’attività aziendale. 
L’amministrazione, invece, inerisce alla gestione della società e alle scelte imprenditoriali e tale potere spetta: esclusivamente agli amministratori, nel caso delle S.p.a. e delle S. a. s; può spettare anche ai soci nelle S.r.l. e nelle S.n.c. 
Facciamo degli esempi pratici per capire la differenza tra organizzazione e gestione d’impresa: 
1) se una società emette 30.000 fatture all’anno, spetterà esclusivamente all’organo amministrativo decidere quanto personale necessita l’ufficio amministrativo per funzionare correttamente, in quanto questo aspetto riguarda l’organizzazione contabile dell’attività d’impresa; 
2) al contrario, decidere se l’attività d’impresa debba presentarsi ad un nuovo mercato all’estero rappresenta una tipica attività di gestione sociale e, conseguentemente, tale scelta può essere rimessa anche ai soci qualora il tipo sociale lo consenta (come nel caso delle S.r.l.). 
Che nell’attività concreta questa distinzione sia così evidente e facile è tutta da dimostrare. Ma per l’aspetto notarile si è posto il problema se i patti sociali e gli statuti siano da adeguare. 
Se si aderisce all’impostazione, che considera concetti distinti la gestione e l’amministrazione di una società commerciale, non sarà necessario adeguare lo statuto sociale o i patti sociali. 
L’obbligo di gestione di una società, secondo il nuovo disposto di cui all’art. 2086 c.c., discende solo dalla legge, la quale non prevede alcuna menzione obbligatoria da riportare nei patti sociali e negli statuti. 
Tuttavia, si è ritiene opportuno che le nuove società costituende richiamino, nei loro patti sociali e nei loro statuti, questo nuovo principio di gestione dell’attività d’impresa, al fine di informare e sensibilizzare la collettività sul nuovo concetto di fare impresa. A tale proposito sono state proposte diverse formule redazionali facilmente reperibili anche in rete, che naturalmente ogni notaio deve adattare al caso concreto. [16] 
Nello studio n. 58-2019/I, il Notariato fornisce una prima lettura del novellato articolo 2475 c.c., sull’amministrazione delle Srl, per come modificato dal nuovo Codice della Crisi di Impresa e dell’insolvenza. Il testo, approvato dal Consiglio Nazionale del Notariato il 14 marzo 2019, è stato pubblicato sul sito del CNN il 26 marzo 2019. [17] 
L’elaborato si sofferma sulle conseguenze prodotte dalle nuove previsioni per quanto riguarda le clausole statutarie e, in particolare, sulla specifica disposizione per cui la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, ai quali competono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale. La modifica operata dal Decreto legislativo n. 14/2019 (introduttivo del nuovo “Codice”) riguarda il primo comma dell’art. 2475 c.c. sull’amministrazione delle società a responsabilità limitata, sostituito da un nuovo primo periodo ai sensi del quale: “La gestione dell’impresa si svolge nel rispetto della disposizione di cui all’articolo 2086, secondo comma, e spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”. Secondo il Notariato, l’introduzione della previsione secondo cui la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori solleverebbe il problema del suo coordinamento e della sua compatibilità, con quelle norme, introdotte dalla riforma del diritto societario, comunemente lette come delega all’autonomia statutaria nella definizione delle competenze di soci e amministratori. Ci si riferisce, nel dettaglio, a quelle norme che attribuiscono ai soci poteri amministrativi rilevanti, in quanto previsti dalla legge o perché pattiziamente decisi. Sul punto, tuttavia, lo studio ritiene che gli aspetti legati alla gestione societaria siano rimasti immutati mentre quelli legati alla organizzazione siano precisati in base alle due norme novellate (art. 2086 e art. 2475 del c.c.). La nuova formulazione dell'art. 2475 cc non comporterebbe, ossia, alcuna abrogazione delle norme precedenti, in quanto destinata a spiegare i suoi effetti solo sul piano organizzativo, mentre la norma sull’esclusività della competenza gestoria dovrebbe “leggersi in stretta correlazione con il disposto dell’art. 2086 c.c.”, Disposizione, quest’ultima, che impone il dovere, per l’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva, “di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. 
Viene, quindi, distinto il piano della organizzazione, spettante esclusivamente agli amministratori, da quello della operatività della società, da esaminare sotto il profilo della responsabilità dei soci della srl ex art. 2476 cc settimo comma, che sanziona i soci solo per comportamenti dolosi. 
Tutto ciò considerato – conclude il CNN - la nuova previsione, dal punto di vista operativo, non introdurrebbe alcun obbligo di adeguamento immediato degli statuti esistenti, e nemmeno impedirebbe di inserire negli statuti delle società di nuova costituzione clausole che eventualmente ripartiscano la “gestione operativa” della società in maniera difforme rispetto al modello legale. 
Un utile contributo alla disamina del tema in questione lo si ha nella Massima del Consiglio 
Notarile di Firenze Pistoia Prato n. 74/2020 [18] la quale tratta della relazione che il potere-dovere gestorio che compete agli amministratori, da una parte, e l’esercizio della facoltà di delega all’interno dell’organo amministrativo composto in forma collegiale. La Massima notarile afferma che il rispetto della collegialità in materia di gestione dell’impresa impedisce la delega integrale a singoli amministratori della competenza ad adottare decisioni rientranti in tale ambito; è invece ammesso che vengano delegate, anche in via esclusiva, ad alcuni fra gli amministratori le attività relative a singole fasi di una decisione che, tuttavia, deve restare collegiale, in coerenza al disposto dell’articolo 2381 cod. civ. in materia di elaborazione ed esame dei piani strategici, industriali e finanziari della società.
L’istituzione dell’assetto organizzativo ed amministrativo-contabile dell’impresa attiene quindi alla fase della gestione ed organizzazione dell’impresa sociale che va riferita necessariamente a tutti gli amministratori. 
Il nuovo codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) ha introdotto, a partire dal 16 marzo 2019, delle norme in apparenza abrogative all’interno del codice civile, limitatamente alla disciplina delle Srl. 
Il Notariato, con Studio n. 58 del 2019, ha individuato una nuova linea di lettura, che ammette la coesistenza di tutte le norme vigenti, nell’ambito di uno scenario modificato per effetto dalla nuova disciplina della crisi e dell’insolvenza. 
In tale prospettiva, la norma attribuisce agli amministratori la funzione di creare ed applicare gli adeguati assetti organizzativi, mentre restano invariate le funzioni gestorie attribuite ai soci per effetto della normativa preesistente. 
Lo studio esamina le conseguenze, sul piano delle clausole statutarie, della modifica dell’art. 2475 c.c., con riferimento, in particolare, alla nuova previsione per cui la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale.
2 . Conclusioni
Di recente (Benazzo) a proposito del codice della crisi d’impresa si è fatto riferimento, guardando le nuove norme che hanno modificato il codice civile, alla crisi del diritto societario più che al diritto societario della crisi. 
Molti interventi sono pensati e declinati nell’ambito e in funzione della crisi d’impresa, per attuare la prevenzione, la tempestiva emersione e gestione della crisi e dunque la conservazione della continuità aziendale 
Però hanno di fatto una ricaduta e un’applicazione strutturalmente eccedenti rispetto alla sola dogmatica dell’allerta, modificando il codice civile e il diritto societario e facendo risaltare le differenze che anche in tema di società c’erano sempre state tra le varie impostazioni (contrattualiste e istituzionaliste). 
Se almeno dagli anni trenta del secolo scorso era emersa la necessità ,prima di tutto per motivi economici generali, di dare risposte, sia economiche sia giuridiche alle esigenze poste dalle grandi società, esigenze che le avevano le grandi società per potersi sviluppare e apportare sviluppo ma anche necessità di rispondere alle esigenze che la loro stessa esistenza poneva alla collettività, agli stakeholders, l’intervento normativo italiano sulla crisi d’impresa va oltre questo aspetto e modificando, per tutte le società ed estendendo a tutte una normativa che era propria delle S.P.A., da una parte va in senso contrario alla tendenza di costruire una normativa separata per il tipo S.P.A. e inoltre differenziare la normativa in modo ulteriore  all’interno del fenomeno S.P.A. a seconda se si tratti di una società aperta o chiusa, ma dall’altra parte, prevedendo certi obblighi ex art. 2086 cc ritiene quasi che tutte le società siano eguali, possono di fatto essere trattate unitariamente di fronte alla crisi, almeno per le loro inadempienze e che tutte hanno un eguale influenza sugli stakeholders. Tra l’altro, facendo poco, parallelamente perché le società adottino il modello spa che meglio potrebbe rispondere agli obblighi che il codice della crisi d’impresa impone. 
Tralasciamo il problema delle procedure di allerta o i rimedi quando la crisi inizia [19] o altri problemi di coordinamento. L’art.2086 cc trova applicazione anche nella fase propriamente fisiologica dell’avvio, dello sviluppo e della crescita dell’impresa. 
In tal senso è esemplificativo il dato testuale di quella che costituisce una delle più significative innovazioni del codice della crisi, ossia l’art.375 ccii, laddove sotto la rubrica “assetti organizzativi dell’impresa”, modifica l’art. 2086 c.c. in un duplice senso. 
Da un lato ne muta la rubrica: viene abbandonata la precedente rubrica di stampo corporativista “direzione e gerarchia dell’impresa” e viene accolta la nuova rubrica, intitolata “gestione dell’impresa”. 
Dall’altro viene inserito un secondo comma che, nel sancire il dovere per l’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, afferma che ciò debba avvenire anche e non solo “in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale”. 
La preoccupazione che avverte parte della dottrina è che questi interventi che si occupano degli assetti organizzativi volti alla rilevazione e alla gestione tempestiva e anticipata della crisi d’impresa, possano configurare, in ragione del loro innesto disorganico e singolare, non tanto un diritto dell’impresa societaria adeguato ad una gestione efficiente della crisi, quanto invece a provocare una vera e propria crisi del diritto societario. 
Adolf Berle e Gardimer Means, che tra i primi hanno studiato il rapporto di separazione che intercorre tra proprietà e controllo, azionisti e manager, lo hanno studiato nella grande impresa. Le osservazioni di W. Rathenau sempre alla grande impresa facevano riferimento. Tutti mettevano in guardia, al di là della consapevolezza delle varie teorie giuridiche, che in genere vengono denominate e definite dopo che certi autori spiegano la nascita dei nuovi fenomeni, circa i rischi anche politici della grande impresa. Noi abbiamo un articolo, e altri, l’art. 2086 c.c. che non solo si applica a tutte le società ma crea problemi di coordinamento e di rilievo ,non da ultimo per esempio quello derivante dalla quantificazione del danno da violazione dello stesso art. 2486 c.c.:  il terzo comma dell’art. 2486 c.c. introduce due distinti criteri di quantificazione del danno “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo” che potrebbe sussistere anche semplicemente perché gli non sono stati redatti a “cadenza semestrale”? Certe interpretazioni che si applicano, con conseguenze penalizzanti e responsabilità, anche quando le società sono in bonis, saranno conformi alla lettera dell’art 2086 c.c. Esso prevede di istituire “un assetto... adeguato… anche in funzione della rilevazione   tempestiva della crisi … e di attivarsi senza indugio …” Perciò con l’espressione “anche” si può far riferimento a che l’assetto adeguato possa prescindere da una crisi in atto, nonostante che l’articolo sia orientato, però, a rilevare una crisi o una perdita della continuità aziendale. Ciò nonostante, a parte mi sembra una certa contraddittorietà con la dottrina economica, anche se Renato Rordorf sostiene dire che la dottrina aziendale dà sufficienti soluzioni può dire che la dottrina aziendale dà sufficienti soluzioni, [20] non viene meno la sensazione che se crisi e disequilibro economico non ci sono, vuol dire che gli assetti sembrano o dovrebbero sembrare adeguati e se vi è disequilibro allora gli assetti sono non adeguati! Sembra un paradosso? 
Gli assetti erano adeguati o sembravano tali  non molto tempo prima sino di fallire persino per la Lehman Brothers ,se è vero che in un solo giorno e con mirabile tempismo l’agenzia di rating Fitch ha abbassato il rating A+, a D, cioè affidabilità buona, a D cioè fallita e se è vero che lo stesso circuito bancario esponeva le obbligazioni della banca americana all’interno di un elenco di obbligazioni a basso rischio - rendimento le cui caratteristiche principali erano un rischio di credito con inferiore ad un rating A - ed un rischio di mercato molto contenuto pari ad una variazione di prezzo su base settimanale non superiore all’1%, e come la nostra stessa giurisprudenza sembra aver riconosciuto. [21] Quello che voglio dire che non si sfugge all’impressione e che bisognerebbe guardare con forte sospetto, come afferma un esperto di Big Data, [22] a “perseguire gli individui prima che un crimine venga commesso” ... La scienza dei dati che verifica gli assetti (scienza aziendale) può predire il comportamento di un individuo o di una società determinata quando esso non dipende neanche dal soggetto o dalla società ma da decisioni terze tipo, ad esempio Banca Centrale? 
Jorge Luis Borges [23] in un paragrafo beve intitolato "Del rigore nella scienza” descrive un mitico impero del lontano passato in cui i cartografi avevano preso il loro lavoro molto sul serio e ambivano alla perfezione. Nel loro tentativo di cogliere più dettagli possibili, disegnavano mappe sempre più grandi. La mappa di una provincia occupava tutta la città e la mappa dell'impero occupava tutta la provincia. Con il tempo, anche questo dettaglio divenne insufficiente e i Collegi dei cartografi tracciarono una mappa dell'impero in scala 1:1, ossia della dimensione dell'impero stesso. Ma le successive generazioni, meno appassionate all'arte della cartografia e più interessate a favorire la navigazione, trovarono inutili quelle mappe e le abbandonarono. La tesi che i modelli, gli assetti, i piani, devono essere sempre più complessi per essere più utili fa andare il processo all'indietro. Un modello soprattutto economico se deve essere operativo economicamente per essere rilevante e insegnarci qualcosa almeno deve essere semplice. 
La rilevanza non richiede la complessità e la complessità può precludere la rilevanza. I modelli semplici sono indispensabili: i modelli non sono mai veri ma c'è della verità nei modelli. Possiamo capire il mondo solo se lo semplifichiamo. 
La lezione di Borges può essere utile per interpretare anche l'art. 2086, 2 comma. Spesso come sostiene l'economa comportamento si devono ricercare solo soluzioni soddisfacenti.

Note:

[1] 
V. cfr. per una rassegna circa gli economisti e matematico-statistici che si sono occupati di incertezza e rischio, oltre gli autori più oltre citati nelle altre note, in questa introduzione mi rifaccio in particolare a A.M. Carabelli. John Maynard Keynes: il ragionamento economico. Complessità, incertezza, felicità, dilemmi tragici. Carocci editore.2024 e soprattutto Carlo. Zappia. L’incertezza in economia. Una storia delle teorie da Kaynes ai giorni nostri. Carocci.2023, del quale riporto diverse citazioni; in generale v. J.M. Keynes. The General Theory of Employment, in Quarterly Journal of Economics.51p.209-223; J.M. Keynes. Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse, della moneta. Edizione annotata a cura di Giorgio La Malfa. Mondadori. 2023 in particolare vedi note di commento al cap. 21. pag. 610; si può rinviare anche alle classiche opere di G.L.S. Shackle. Expectation in Economics. Cambridge University Press.1952, Knight Frank, Risk, uncertainty, and profit (1921; trad it. 1960); Capital, time and interest rate (1934); The ethics of competition and other essays (1935); Freedom and reform (1948); The economic organization (1951); Essays on history and method of economics (1956); Intelligence and democratic action (1960), per arrivare a John Maynard Keynes (che per quanto ne sappia non ha riconosciuto il merito a Knight) nel Capitolo 12 della sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936). Per J.M. Keynes "Il mercato può rimanere irrazionale più a lungo diquanto tupossa rimanere solvibile” e nel 1936 affermava, a proposito della borsa di Wall Street ,che quando era aperta almeno la metà' degli acquisti o delle vendite degli investimenti era intrapresa nella prospettiva ,da parte dello speculatore (che per lui era semplicemente di svolgeva un'attività che cercava di prevedere la psicologia del mercato mentre faceva attività di impresa di cercava di prevedere il rendimento futuro di un investimento nel corso della sua vita ) , di fare l'operazione inversa in giornata. E questo, aggiungeva, valeva anche per il mercato delle materie prime, non solo per i prodotti finanziari. Perciò tutto il mondo è paese e da secoli .... Esistono i cattivi o spesso le condizioni economiche cambiano senza che un imprenditore non solo possa farci nulla ma neanche prevederlo; v. G. Conte. Riformare i vinti. Storia e critica delle riforme liberal-capitaliste. Guerini Scientifica. 2022.su Keynes, v. J.M. Keynes. Il sistema monetario internazionale del dopoguerra del 8 settembre 1941, trad.it. di “Post-war Currency Policy ,8 settembre 1941, vol. xxv.pag. 21-33tratto da The Collected Writing of John Maynard Keynes ,vol xxv):se la flessibiltà dei prezzi è come afferma Keynes ,pur in un sistema di glod standard ,molto simile per molti versi al sistema euro per ristabilire l’equilibrio ,cioè l’emigrazione dei lavoratori ,si potrebbe domandare “quante persone devono andare via e di che qualità “.Il recente rapporto Migrantes pubblicato l’8 novembre 2022 potrebbe essere istruttivo laddove nota ad esempio per l’Italia che oramai sono 5,8 milioni gli italiani emigrati all'estero, un numero che supera quello degli immigrati stranieri regolarmente residenti in Italia (in valore assoluto quasi 5,2 milioni);cfr. G. La Malfa. John Maynard Keynes. Feltrinelli. 2015. pag. 37,98; sul tema dei rapporti tra teoria keynesiana e teoria classica e sui rapporti tra teoria economica e storia anche L. Pasinetti. Aspetti controversi della teoria del valore, Bologna, il Mulino, 1989; L. Pasinetti. Alcune ipotesi contro-fattuali sulla presente crisi. Investimenti, profitti, crescita e distribuzione dei redditi su Alfabeta 2 del 31 marzo 2011, stralcio dell’intervento al convegno «Gli economisti post-keynesiani di Cambridge e l’Italia», Accademia nazionale dei Lincei, 11-12 marzo 2009. Testo abbreviato (con omissione dei passi più circostanziati) per un pubblico non accademico; L. Pasinetti, Keynes e i Keynesiani di Cambridge. Una ‘rivoluzione in economia’ da portare a compimento, Laterza, Roma 2010; L. Pasinetti. Keynes e i Keynesiani di Cambridge. Laterza. 2010; N. Wapshott. Keynes o Hayek. Lo scontro che ha definito l'economia moderna. Feltrinelli. 2011.; Z.D. Carter.Il prezzo della pace. Economia, democrazia e la vita di John Maynard Keynes. Neri Pozza.2022. J. M. Keynes. A Treatise on Money: The Pure Theory and the Applied Theory of Money. Complete Set. Martino Fine Books (1930) 201p.399-402.Trattato sulla Moneta. In due volumi. Feltrinelli. 1979. All'inizio della sua carriera, Keynes era un economista marshallese profondamente convinto dei benefici del libero scambio. A partire dalla crisi del 1929, aderì gradualmente a misure protezionistiche. Influenzati da J.M. Keynes, i testi economici dell'immediato dopoguerra pongono un'enfasi significativa sulla bilancia commerciale.
[2] 
M. Faioli, Adeguatezza ex 2086 cc e obbligo di introdurre tecnologia per mitigare i rischi da lavoro in Federalismi.it. Focus Lavoro, Persona, Tecnologia. 26 febbraio 2025, tramite l’articolo 2086, anche ricorrendo alla Intelligenza Artificiale, si può prevedere in modo continuo un obbligo di introdurre e aggiornare una tecnologia per evitare o mitigare incidenti di lavoro e prevederlo per il combinato disposto di questo articolo e del 2049 cc in modo preventivo?; D. Marinelli e S. Sabatini. Il nuovo art. 2086 cc e la business judgment rule. Maggioli editore. 2022; J.M. Keynes The General Theory of Employement Interest and Money , 1936, Mcmillan London p. 144, 152-3 e 317; I. Fisher, The Debt- Deflation Theory of Great Depressions, in Econometrica, 1933, p. 337-357H, P. Minsky, Stabilizing an Unstable Economy, Yale University Press, New Haven, 2008; C.P. Kindleberger, Manias, Panics, and Crashes. A Historyof Financial Crises, Mcmillan, London, 1978; S. Nerozzi e G. Ricchiuti, Pensare la macroeconomia. Storia, dibattiti, prospettive. Pearson, 2020, p. 197 e 198. 
[3] 
W. Rathenau, La realtà delle società per azioni. Rivista delle società 1960; Alberto Asquini, Battelli del Reno, 221 e ss, in Scritti, III, Padova, 1961; Alberto Asquini in Rivista delle società, 4, 1959 anche in La Biblioteca Giuridica, Anno III, 14 gennaio 2019, Progetto ideato e curato da R. Favale e A. di Sapio. Alberto Asquini, I battelli su reno in Studi giuridici in memoria di Filippo Vasalli, vol. I, Utet, Torino, 1960, p. 119. Battelli del Reno è un'espressione idiomatica usata nell'ambito del pensiero economico per esprimere la Teoria istituzionalistica in contrapposizione con la teoriacontrattualistica. L’Asquini conclude “dubito che alla frase di quell’anonimo amministratore de Norddeutsscher Lloyd, che a tanta distanza di tempo alimentato tra noi la recente polemica, sia stato attribuito da qualche scrittore troppo zelante un significato che forse probabilmente la frase non aveva. Probabilmente cioè l’autore della frase, come ogni buon amministratore, non intendeva negare agli azionisti gli utili della società in misura equa, ma semplicemente frenare le eccessive avidità…per l’oro del Reno di quegli azionisti che, non accontentandosi di un dividendo equo, ostacolavano più o meno consapevolmente il rafforzamento della società, facendo così, in definitiva, dell’autolesionismo, secondo il vecchio apologo della formica e della cicala”. 
[4] 
M. Mazzuccato, Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, Editori Laterza, 2018, p. 63 sul marginalismo e p. 190. John Maynard Keynes, Risparmio e Investimento (a cura di Luca Fantacci), Donzelli editore, 2010, in particolare Lo stato delle aspettative a lungo termine (1936), pag. 78- 81. 
[5] 
V. pure M. Carney, Il valore e i valori. Un manifesto per ripensare il nostro presente, Mondadori, 2021, pag. 465 e ss., l’ex governatore della Banca Centrale del Canada e poi della Gran Bretagna rievoca il caso Dodge v. Ford,1919, 204. Mich 459 e il primato degli azionisti che è stato un principio proprio dei paesi anglosassoni e l’Europa continentale è rimasta più fedele a modelli più orientati agli stakeholder, come dimostra(va) la legge tedesca sulla cogestione, la Mitbestimmung. La vertenza Dodge v. Ford è ancora oggi alla base della concezione secondo cui una società è in primo luogo al servizio degli azionisti: la Ford dovette secondo la Corte Suprema del Michigan, che decise a favore degli azionisti distribuire una parte dei dividendi, anche se Henry Ford intendeva reinvestire i profitti per espandere ulteriormente l’attività e voleva assumere ancora più persone e “aiutarle a migliorare la propria vita e la propria casa: per questo stiamo reinvestendo la maggior parte dei nostri utili”: una contrapposizione, ante litteram, potremmo dire tra scopo pubblico e utile privato che la sentenza in oggetto sciolse discutendo sullo scopo societario; v. Adolf, A. Berle jr e Gardimer C.Means. Società per azioni e proprietà privata, Giulio Einaudi editore, 1966. Adolf Berle e Gardimer Means tra i primi hanno studiato il rapporto di separazione che intercorre tra proprietà e controllo, azionisti e manager, nella grande impresa. Già Rathenau aveva definito la grande società (W. Rathenau. Von Kommenden Dingen. Berlin 1918- trad. ingl. In Days to Come. London. pag. 120-121) “Nessuno è permanente proprietario, la composizione del complesso multiforme che funziona come signore dell’impresa è in uno stato fluido … Questo stato di cose significa che la proprietà è stata spersonalizzata … La spersonalizzazione della proprietà simultaneamente significa che l’oggettivazione delle cose possedute. I diritti di proprietà sono suddivisi in tal modo, e sono così mobili, che l’impresa assume una vita indipendente, come se non appartenesse a nessuno; assume un’esistenza obiettiva quale in tempi precedenti era incorporata solo nello Stato e nella Chiesa, in una corporazione medievale, nella vita di una ghilda o di un ordine religioso…la spersonalizzazione della proprietà, l’oggettivazione dell’impresa , il distacco della proprietà dal possessore, portano a un punto dove l’impresa si trasforma in un’istituzione che rassomiglia allo Stato in carattere” . Berle e Means si associano a questa interpretazione e di qui derivano il concetto di responsabilità dell’impresa (quale istituzione) verso gli azionisti, i lavoratori, i consumatori, la collettività e si ponevano il problema dei rapporti con lo Stato. Le grandi società appaiono esse stesse come veri e propri Stati che devono essere eventualmente controllati dalla nazione per evitare che possano esse a imporle (alla nazione) il loro dominio? Berle e Means nel 1932 paventano la diffusione di un potere economico autocratico e irresponsabile, al contrario molti in America, probabilmente anche Friedman vede nella concentrazione economica la realizzazione di una società senza classi, il contenimento degli effetti dannosi dell’ accumulazione della ricchezza, la divisione dei poteri contrapposti, l’avvento di una società giusta e libera cui basterebbero alcune modifiche sul piano della distribuzione per superare i contrasti descritti da Marx: una comunità di uguali attraverso proprio la spersonalizzazione, successiva a quella portata dall’industrialismo - lavoratore, dell’individuo proprietario. 
L’opera di Berle e Means si iscriveva nell’ambito delle riforme del New Deal che Berle rivendica. Bisogna vedere se l’abbandono o lo smantellamento di alcune riforme del periodo di Roosevelt che hanno portato alla crisi del 2008 giustificano ancora il giudizio positivo di Berle che potrebbe essere un po' datato The Modern Corporation and Private Property è un libro scritto da Adolf Berle e Gardiner Means pubblicato nel 1932 sui fondamenti del diritto societario degli Stati Uniti ed esplora l'evoluzione delle grandi imprese attraverso una lente legale ed economica e sostiene che nel mondo moderno coloro che detengono legalmente la proprietà delle società sono stati separati dal loro controllo. La seconda edizione riveduta è stata pubblicata nel 1967. Serve come testo fondamentale in corporate governance , diritto societario (diritto societario) ed economia istituzionale . Berle e Means hanno sostenuto che la struttura del diritto societario negli Stati Uniti negli anni '30 imponeva la separazione della proprietà e del controllo perché la persona giuridica possiede formalmente un'entità aziendale anche mentre gli azionisti possiedono azioni dell'entità aziendale ed eleggono amministratori aziendali che controllano la società attività. The Modern Corporation and Private Property, per prima cosa ha portato avanti questioni associate alla proprietà ampiamente dispersa delle società quotate in borsa. Berle e Means hanno mostrato che i mezzi di produzione nell'economia statunitense erano altamente concentrati nelle mani delle 200 più grandi società e, all'interno delle grandi società, i manager controllavano le aziende nonostante la proprietà formale degli azionisti. Rispetto alla nozione di proprietà privata personale, diciamo come un computer portatile o una bicicletta, il funzionamento del moderno diritto societario “ha distrutto l'unità che comunemente chiamiamo proprietà.” Ciò è avvenuto per una serie di motivi, primo fra tutti la dispersione dell'azionariato nelle grandi società: l'azionista tipo è disinteressato agli affari quotidiani della società, eppure migliaia di persone come lui costituiscono la maggioranza dei proprietari tutta l'economia. Il risultato è che coloro che sono direttamente interessati agli affari quotidiani, il management e gli amministratori , hanno la capacità di gestire le risorse delle aziende a proprio vantaggio senza un effettivo controllo da parte degli azionisti. Con la moderna s.p.a. si trasforma il diritto di proprietà e si realizza un nuovo mezzo di organizzazione della vita economica. “Con lo straordinario sviluppo delle società per azioni sorge un vero e proprio sistema delle società similmente a quanto avvenne nel passato per il sistema feudale …Il modo in cui la proprietà è organizzata ha sempre avuto una funzione importante nell’equilibrio delle forze che determinano l’evoluzione storica delle varie epoche”. Abbiamo, perciò un radicale mutamento nell’esercizio del diritto di proprietà o nell’organizzazione dell’attività economica e sorge un sistema paragonabile alle istituzioni del feudalesimo”. Il sistema della società ha fatto la sua apparizione solamente quando la società anonima privata o ristretta ha ceduto il passo ad un tipo sostanzialmente diverso, la società per azioni quasi-pubblica; quella cioè in cui, a causa della moltiplicazione dei proprietari ha luogo in misura rilevante la scissione fra proprietà e controllo ….Con l’impiego del mercato pubblico per i suoi titoli, ognuna di queste società [quelle quasi pubbliche] viene ad assumere, nei riguardi del pubblico dei risparmiatori, obblighi tali che la trasformano da semplice strumento per dar veste giuridica ai rapporti tra pochi individui, in un ente posto, almeno nominalmente, al servizio degli investitori che hanno conferito i loro beni nell’impresa. Nuove responsabilità nei riguardi degli azionisti, dei dipendenti, dei consumatori e dello Stato vengono così a pesare su coloro che hanno il controllo delle imprese. Nella creazione di questi nuovi rapporti, le società quasi-pubbliche ben possono essere considerate come portatrici di una vera rivoluzione. Esse hanno distrutto il concetto unitario di proprietà distinguendo tra la titolarità del diritto di proprietà e il potere economico che ne conseguiva. L’istituto della società per azioni ha così cambiato la natura stessa dell’impresa economica privata “(pag. 5-8-10).
[6] 
V. Lynn A. Stout, The Shareholder Value Myth, Cornell Law Faculty, Publications, Paper 771, 2013; Milton Friedman, La responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti Istituto Bruno Leoni, 20 agosto 2008, IBL Occasional Paper, n. 59; Peoples Department Stores Inc. (Trustee of) v. Wise, 2004, SCC 68; BCE Inc. v. 1976 Debentureholders,2008, SCC 69; UK Companies Act 2006, art. 172, c.1 e art. 112; eBay Domestic Holdings, Inc v. Newmark, 16 A.3d 1, 34 (Del. Ch. 2010), in cui si afferma che un direttore ha il dovere di promuovere il valore della società a beneficio degli azionisti; William T. Allen. Our Schizophrenic Conception of the Business Corporation, in “Cardozo Law Review”, 14, 2, 1992, pag. 281; il rapporto pubblicato dalla British Academy nel 2019, Principles for Purposeful Business sostiene la necessità di modificare il diritto societario del Regno Unito riguardo al dovere dei direttori di una società e la senatrice Elisabeth Warren nel 2018 ha proposto l’Accountable Capitalism Act che cerca di imporre ai direttori di società statunitensi con ricavi superiori a un miliardo di dollari di tener conto di tutti gli stakeholder rilevanti e cercare di ottenere un vantaggio generale per la comunità: questo sottolinea un inizio almeno di evoluzione. Gli economisti, in modo teorico, a differenza dei giuristi, spesso continuano nell’impostazione, diciamo, alla Friedman. Un esempio è Ronald Coase, altro premio Nobel per l’economia, nel suo libro La natura dell’impresa, anche se ha un’impronta meno marcata e meno polemica di Friedman che in molte sue opere ha anche, a mio parere, intenti politici evidenti. Per Coase una società è una rete di contratti. L’assunto secondo cui le condizioni contrattuali sono l’unica cosa che incentiva le persone è smentito, però, dalla realtà dei fatti in molte situazioni. Inoltre una parte dell’incompletezza dei contratti o dell’imperfezione degli incentivi può venire da una certa cultura aziendale. Una forte cultura aziendale può incoraggiare gli stakeholder a tenere comportamenti che le aziende vogliono creare: ad esempio lo scopo è, si afferma, necessario per una cultura dell’integrità, la fiducia non si raggiunge semplicemente proclamando regole o osservando protocolli ma attraverso tanti comportamenti ed iterazioni sociali che rafforzano valori e comportamenti. Lo scopo agisce a vari livelli e all’interno di un’azienda crea il capitale sociale per creare valore, crea team molto uniti, grande impegno e partecipazione dei dipendenti e all’esterno crea e concentra l’attenzione sul servizio per il cliente e questa attenzione per l’esterno si collega al tradizionale scopo di un’azienda che è quello di servire i clienti. Se un’azienda lo fa bene, fidelizza il cliente che con il tempo, da consumatore, diventerà stakeholder, rinsaldando la fiducia e la correttezza reciproca. L’economia non è fatta da isole, di individui, intenti a massimizzare il profitto che si associano temporaneamente mediante una rete di contratti, ma nell’economia di oggi le aziende creano valore. Lo scopo di un’azienda (cfr. Mark Carney, Il valore e i valori, Un manifesto per ripensare il nostro presente, cit. pag. 475) non è semplicemente la massimizzazione del valore di un solo gruppo di stakeholder, cioè gli azionisti, ma, posto che il profitto è essenziale, esso va ottenuto in modo da creare un valore condiviso da tutti gli stakeholder e lo scopo dell’azienda non è nemmeno quello di massimizzare i ritorni di un particolare gruppo come possono essere i dipendenti, ma di offrire soluzioni per migliorare la società e deve bilanciare gli interessi rivali dei diversi stakeholder: l’azienda più che un nesso di contratti ha una corporate personality, una personalità di impresa ,è più della somma delle parti che la compongono. 
[7] 
M. Carney, Il valore e i valori. Un manifesto per ripensare il nostro presente. cit. pag. 478-479 v. sull’impatto degli ESG, ricordati da Mark Carney, Milena Prisco, L'impatto ESG sugli assetti societari del Codice della crisi di impresa. Il Sole 24 Ore 20 ottobre 2022; Mark Zuckemberg. Bringing the World Closer Togheter. Facebook 22 giugno 2017; Eleventh Amended and Restated Certificate of Incorporation of Facebook Inc, disponibile tramite EDGAR, US Securities and Exchange Commission; Patagonia Works. Annual Benefit Corporation Report, Fiscal Year 2013 pag. 7-11. L’ex presidente della Corte Suprema del Delaware, Leo E. Stringe, jr, ha raccomandato di ridurre il requisito della supermaggioranza e altri ostacoli irragionevoli alla trasformazione di una società in B, come modo per facilitare un miglior governo di impresa negli Stati Uniti. Cfr: Leo E. Stringe, jr. Toward Fair and Sustainable Capitalism.Roosevelt Institute, 2020, pag. 13. Personalmente sono piuttosto pessimista.
[8] 
M. Carney, Il valore e i valori. Un manifesto per ripensare il nostro presente, cit. pag. 484-485, 490-493, ex governatore della Banca Centrale del Canada e poi della Gran Bretagna, che oltre che fare l’esempio della Toyota degli anni ottanta, propone che i manager di un’azienda siano responsabili personalmente per gli effetti dell’azienda sui suoi stakeholder, dovendo integrare nella gestione del rischio aziendale i fattori ESG rilevanti, i rischi reputazionali, finanziari cui l’azienda può essere esposta; Franco Volpi. Lezioni di economia dello sviluppo. FrancoAngeli. 2007. pag.134-150 sulle varie teorie e discussioni su Hirschman, Rosenstein Rodan; sui distretti industriale v. per tutti Becattini G. “L’unità di indagine “in Becattini G. (a cura di) Mercato e forze locali: il distretto industriale, Il Mulino. 1987; Bellandi M. Russo M (a cura di) Distretti industriali e cambiamento economico locale. Rosemberg &Sellier. Torino. 1994. su aspetti economici e di come funziona in realtà l’agire economico v. Thaler e Sunstein citati da D. A.Besanko,Ronald R. Braeutigam. Microeconomia. Graw Hill Education.III edizione. 2016.pag.563 e ss; E. Angner. Economia comportamentale. Guida alla teoria della scelta. Hoepli. 2017; M. Lewis.Un'amicizia da nobel.Kahneman e Tversky.l'incontro che ha cambiato il nostro modo di pensare. Raffaello Cortina editore 2017; G. A. Akerlof e R. J. Shiller. Ci prendono per fessi. L'economia della manipolazione e dell'inganno. Mondadori. 2016; R. Thaler. Misbehaving. La nascita dell'economia comportamentale. Einaudi. 2018. pag.112 e ss., 123; S. Godin La Mucca Viola. Farsi notare (e fare fortuna) in un mondo tutto marrone. RoiEdizioni. 2022.). 
[9] 
Compito fondamentale degli amministratori è quello di provvedere alla gestione della società, curandone gli aspetti direttivi, organizzativi, amministrativi, e contabili, e compiendo tutte le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale, di conseguenza costituiscono l’organo al quale è affidata la gestione dell’ente e la direzione dell’attività imprenditoriale. 
Circa la responsabilità degli amministratori l’attribuzione della gestione sociale agli amministratori ha come contrappeso la loro responsabilità per il danno conseguente ad un loro eventuale inadempimento ai propri doveri funzionali, legali o statutari. Si tratta di responsabilità di natura contrattuale, derivante dal rapporto che lega gli amministratori alla società (Cass. 11/11/2010, n. 22911). Ma distaccandosi dalla teoria contrattualistica a differenza del passato regime, la legge non richiama più la generica diligenza del mandatario (e cioè quella del regolato e coscienzioso amministratore che il codice definisce come la diligenza dell’uomo medio, art. 1710 c.c.), ma dispone che gli amministratori adempiano i doveri ad essi imposti dalla legge o dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico (a seconda che l’amministratore abbia ricevuto particolari incarichi, sia amministratore delegato, ecc.) e dalle specifiche competenze (in rapporto all’attività esercitata dalla società). Vigente il regime ante riforma era espressamente prevista la responsabilità degli amministratori che non vigilavano sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non avevano fatto quanto potevano per impedirne il compimento o attenuarne le conseguenze dannose. La riforma del 2003 ha invece eliminato il riferimento all’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione e lo ha sostituito con una responsabilità solidale degli amministratori, per fatto proprio e per fatti altrui, allorché, venuti conoscenza di fatti pregiudizievoli, “non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose” .La ratio della novella è chiaramente diretta ad affermare la responsabilità degli amministratori deleganti, nel caso di attribuzioni delegate, per non aver fatto nulla per impedire il compimento di atti dannosi o per eliminarne o attenuarne gli effetti. Ma in concreto la vigilanza si attua con il controllo costante sulla gestione mediante assunzione di informazioni sull’operato dei delegati e la verifica della corrispondenza della situazione reale a quella risultante dalle scritture contabili, la partecipazione assidua ai consigli di amministrazione: l’amministratore assente (anche se giustificato) è sempre obbligato ad informarsi sul contenuto delle delibere e deve attivarsi per impedire che accadano conseguenze pregiudizievoli per la società .In presenza di un organo collegiale la legge prevede la responsabilità solidale di tutti gli amministratori. Vale a dire che ciascuno risponde nei confronti della società per fatto proprio e per fatto altrui, allorché, venuti a conoscenza di fatti pregiudizievoli non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.
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In linea generale, le Norme di comportamento del CNDCEC prevedono che un sistema amministrativo-contabile risulta adeguato se permette: la completa, tempestiva e attendibile rilevazione contabile e rappresentazione dei fatti di gestione; la produzione di informazioni valide e utili per le scelte di gestione e per la salvaguardia del patrimonio aziendale; la produzione di dati attendibili per la formazione del bilancio d’esercizio. Secondo le Norme di comportamento del CNDCEC, un assetto organizzativo adeguato deve basarsi essenzialmente sui seguenti elementi: un’organizzazione gerarchica; un organigramma aziendale che definisca in modo chiaro le funzioni, i compiti e le linee di responsabilità; l’effettivo esercizio dell’attività decisionale e direttiva della società da parte dell’amministratore delegato e dai soggetti ai quali sono attribuiti specifici poteri; procedure che assicurino: (i) l’efficacia e l’efficienza della gestione dei rischi aziendali; (ii) l’efficacia e l’efficienza del sistema di controllo interno; (iii) la completezza, la tempestività e l’attendibilità dei flussi informativi, inclusi quelli inerenti alle società controllate; procedure in grado di assicurare la presenza di personale in possesso dell’adeguata professionalità e competenza necessarie allo svolgimento delle funzioni assegnate; direttive e procedure aziendali, periodicamente aggiornate e diffuse ai vari livelli della struttura organizzativa, con particolare riferimento al sistema dei processi aziendali, al sistema di definizione degli obiettivi strategici (pianificazione strategica e programmazione), al sistema di controllo interno e di gestione dei rischi aziendali, al sistema di gestione del personale, al sistema di autoregolamentazione e al sistema informativo. Sia le Norme di comportamento del CNDCEC che il Codice di Corporate Governance prevedono quale elemento essenziale di un adeguato assetto organizzativo il sistema di controllo interno, inteso quale “insieme delle regole, delle strutture organizzative e delle procedure volte a consentire, attraverso un adeguato processo di identificazione, misurazione, gestione e monitoraggio dei principali rischi, una conduzione dell’impresa sana, corretta e coerente con gli obiettivi prefissati”. Francamente, però, pur con tutto il richiamo alle norme di comportamento CNDCEC, siamo in presenza di un’ampia discrezionalità che può, di fatto limitare il principio del. Anche perché se organi competenti a predisporre gli adeguati assetti organizzativi sono, ai sensi e dell’art. 2381, comma 5 c.c., gli organi delegati, mentre organo competente a valutarne l’adeguatezza è, ai sensi e dell’art. 2381, comma 3, c.c., l’organo delegante, e in assenza di organi delegati, gli obblighi di cui sopra gravano sull’amministratore unico o sul CdA nel suo complesso, in pratica il sistema che si dovrebbe applicare ad ogni società , fa sì che gli amministratori non siano gli unici soggetti coinvolti nella pre­disposizione e nel corretto funzionamento di un adeguato sistema organizzativo. Infatti, ai sensi dell’art. 2403, comma 1, c.c., il collegio sindacale vigila sull’adeguatezza del sistema organizzativo: la realizzazione di un adeguato assetto organizzativo si rea­lizza, dunque, attraverso due fasi, una prima, statica, di competenza degli amministratori (deleganti e delegati), e una seconda, dinamica, di competenza dell’organo di controllo. Dunque attraverso il controllo sugli assetti organizzativi non ci vuole molto a controllare le scelte di organizzazione che formalmente rimangono libere. Soprattutto perché si può trattare anche di società non grandi e i due aspetti diventano facilmente poco distinguibili. Per una panoramica sulle novità introdotte al Codice della Crisi si veda: CIAN, Crisi dell’impresa e doveri degli amministratori: i principi riformati e il loro possibile impatto. in Nuove leggi civ. comm., 2019, 1160 ss.; S. Fortunato, Codice della crisi e Codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità. Riv. Società, 952 ss.; P. Montalenti, Assetti organizzativi e organizzazione dell’impresa tra principi di corretta amministrazione e business judgment rule: una questione di sistema, in Nuovo dir. soc., 2021, I, 11 ss.; V. Calandra Bonaura, Corretta amministrazione e adeguatezza degli assetti organizzativi nella società per azioni. in Giur. comm., 2020, I, 439 ss.; M. Fabiani. Dai finanziamenti alla adeguatezza dell’assetto finanziario della società. in Fallimento, 2021, 1312 ss.; S. Leuzzi. La scommessa dell’allerta: inquadramento, regole, criticità. in M. Fabiani e S. Leuzzi. La tutela dei creditori tra allerta precoce e responsabilità, in Foro it., Speciali 2/2021, 27 ss.; F. Macario. La riforma dell’art. 2086 nel contesto del codice della crisi e dell’insolvenza e i suoi riflessi sul sistema della responsabilità degli organi sociali in Dirittodellacrisi.it. Adeguati assetti e business judgment rule in Dirittodellacrisi.it; per un differente tentativo di delineare il possibile contenuto degli adeguati assetti si veda Biancozzi. Adeguati assetti societari, obblighi e opportunità, in La settimana fiscale Il Sole24Ore, 2021, n. 39 che suggerisce l'adozione di un sistema denominato balance scorecard che attribuisce, in un approccio prospettico, importanza determinante ai cosiddetti intangibles ovvero ai marchi, le relazioni fra clienti, la formazione e la motivazione del personale, i progetti di innovazione che “concorrono di fatto a determinare il valore di un’azienda e anzi rappresentano ciò che fa di un’azienda sana un valore culturale all’interno della società “ La prospettiva interessante, per alcuni troppo avanzata per rappresentare un valido paradigma per un sistema imprenditoriale generalmente di piccole dimensioni e, sul punto, inevitabilmente arretrato quale quello odierno. Per me francamente anche nebulosa. Ma non sono un aziendalista. 
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Circa l’applicazione della business judgment rule nella nostra giurisprudenza, v. Cass. civ. 31 agosto 2016 n.17441, Cass civ. 2 febbraio 2015 n. 1783, Cass civ., 10 febbraio 2013, n. 3409 e interessante la pronuncia del Trib. Milano, sez. VIII 26 maggio 2011, in ordine all’equiparazione tra la discrezionalità amministrativa del gestore e quella del liquidatore. Cfr: Damiano Marinelli e Saverio Sabatini. Il nuovo art. 2086 cc e la business judgment rule. Maggioli editore. 2022p.21, 23, 49- 51; Zoppini Emersione della crisi e interesse sociale (spunti dalla teoria dell’emerging insolvency) www.juscivile.it, 2014,2,p 61.; Eugenio Barcellona. Business Judgment Rule e interesse sociale nella crisi, l’adeguatezza degli assetti organizzativi alla luce della riforma del diritto concorsuale, 432, Quaderni dí Giurisprudenza commerciale, 2020. P. 53, conforme Formisani, Business Judgment Rule e assetti organizzativi: incontro (e scontri) in una terra di confine. in Riv Soc. 2018, p. 418.; D. Galletti. L’insorgere della crisi e il dover essere nel diritto societario. Obblighi di comportamento degli organi sociali in caso di insolvenza, in www.ilfallimentarista.it, 27 settembre 2012, 25; P. Montalenti. La gestione dell’impresa di fronte alla crisi fra diritto societario e diritto concorsuale, in Riv. dir. soc. 2011, 828); L. Benedetti L’applicabilità della business judgment rule alle decisioni organizzative degli amministratori, in Rivista delle società. 2019. n. 2/3. Giuffrè. p.445; D. Rodrik. Ragione e torti dell'economia. Università Bocconi editore. 2018. p. 28-31. Ai fini del configurarsi della responsabilità in capo agli amministratori (e ai sindaci), occorrerà inoltre non solo l’esistenza di un danno, ma altresì la prova che esso non si sarebbe prodotto in presenza di assetti adeguati. In questo senso, il Tribunale di Milano, con sentenza n. 11105/2019, ha ritenuto non responsabile l’amministratore di una società con riferimento ad un’operazione di affitto di azienda rivelatasi “fallimentare” per l’incapacità patrimoniale e finanziaria dell’affittuaria, in quanto: vi era un adeguato assetto di trasmissione delle fatture e della contabilità e degli incassi; si trattava di un punto vendita chiuso da tempo e quindi con difficoltà ad essere riavviato; l’amministratore si era attivato senza indugio nel momento in cui era emersa la perdita rilevante del capitale. Varie sono le pronunzie che applicano l'art. 2086 co. 2 c.c. per giustificare l'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 2409 c.c. Si segnalano: Trib. Milano 18 ottobre 2009 in www.giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Roma 8 aprile 2020 in Società 2020, 988 con nota di Capelli ed in Giur. It., 2020, 363 con nota di O. Cagnasso, Trib. Roma, 15 settembre 2020 per cui vedi infra, nonché Tribunale di Cagliari 19 gennaio 2022 in Dirittodellacrisi.it; G. Bianchi. Assetti organizzativi, amministrativi e contabili in Assetti adeguati e modelli organizzativi, opera diretta da M. Irrera. Zanichelli. Bologna. 2020; Correttezza dell’amministrazione sociale e adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili sono diventati clausole generali del moderno diritto societario e già dopo la riforma del diritto societario il catalogo degli obblighi degli amministratori si era ampliato, almeno quello riguardante obblighi di carattere generale come il dovere di agire in modo informato ex ultimo comma art. 2381 c.c. e quello di riservatezza ex ultimo comma dell’art 2391 (cfr. Maurizio Irrera. Assetti organizzativi adeguati e governo delle società di capitali. Milano .2005). “La riforma del diritto societario ha elevato i principi di corretta amministrazione a clausola generale del comportamento degli amministratori” e non si tratta di “mera esplicitazione di compiti già implicitamente è indiscutibilmente ricompresi nella funzione amministrativa o come meccanica traslazione di prassi aziendali consolidate” quanto di una “innovativa regolamentazione del ruolo dei gestori” (N. Abriani e P. Montalenti. L’amministrazione: vicende del rapporto, poteri, deleghe e invalidità delle deliberazioni. in A. Abriani - S. Ambrosini - O. Cagnasso - P. Montalenti. Le società per azioni. in Tratt. di dir. comm, diretto da G. Cottino. Padova, 4, 2010; I. Kutufà. Adeguatezza degli assetti e responsabilità in Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras. Torino. 2010; P. Montalenti. Gli obblighi di vigilanza nel quadro dei principi generali sulla responsabilità degli amministratori di società per azioni .in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale, 2, Assemblea- Amministrazione, Torino, 2006. 
[12] 
V. I. Capelli. Gli assetti organizzativi adeguati e la prevenzione della crisi. nota a commento della sentenza del Tribunale Cagliari, Sez. impr.19 gennaio 2022, in Le Società Ipsoa.n.12/2022. pag.1430. La sentenza della Corte cagliaritana risulta particolare perché si riferisce al caso non di una società in una situazione critica, come i provvedimenti contenuti in altre sentenze di altri tribunali ma perché esamina la situazione in un contesto in cui l’impresa non si trova (ancora) in uno stato di crisi. Sulla gestione nella c.d. zona grigia c’è ampia letteratura ma, a parte che certe ricostruzioni possono essere viziate dagli esiti ex post di certe iniziative che ex ante è difficile classificare come rischiose o avventate, ma comunque il rischio è anche una componente economica e le condizioni in cui sono prese certe decisioni cambiano velocemente e per eventi indipendenti da ogni volontà, ma sembra che le argomentazioni giuridiche siano spesso in ritardo su osservazioni economiche oramai risalenti. Infatti è necessario su questo argomento “mischiare” considerazioni giuridiche e considerazioni economiche sull’incertezza: l’andamento ciclico dell’economia, ad esempio per Keynes, è da ascriversi al mutevole atteggiamento degli investitori all’alternarsi di fasi di ottimismo o di spirito vitale a fasi di pessimismo stagnazionista. Tutto per dire che lo stato dell’aspettativa a lungo termine, che determina l’efficienza marginale del capitale e il volume dell’investimento corrente, è legata, secondo Keynes, più che a un calcolo, alle attese soggettive degli imprenditori, come elemento di lungo periodo, e alla mutevole indole degli speculatori sui mercati borsistici, come elemento di breve periodo. Entrambi i soggetti hanno in comune il fatto che cercano di infrangere “il velo di ignoranza” che li separa dal futuro, nonostante agiscano avente in mente prospettive temporali e obiettivi diversi. cfr. Stanic M. La riforma Keynesiana. Analisi della Teoria Generale di J. M. Keynes. Edizioni del Faro.2015.pag. 25 e ss,70; Arrow K., (1974), The Limits of Organizations, Norton, New York, NY.; Cyert R. M., March J. G., (1963), A Behavioral Theory of The Firm, Prentice Hall, Englewood Cliffs, NJ.; Cyert R. M., March J. G., (1963), A Behavioral Theory of The Firm, Prentice Hall, Englewood Cliffs, NJ.; Daft R. L., Lengel R. 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D., (1967), Organizations in Action, McGraw-Hill, New York. Finchè si regola specifici comportamenti, per esempio dei soci ex art 2467 cc, la questione giuridica può essere impostata ma per l’ipotesi prevista dall’art 2086, comma 2, quando l’impresa si trova in condizione di “equilibrio economico finanziario”? Non vorrebbe dire, quasi che gli assetti sono adeguati? No, perché, si risponde spesso ex post, gli assetti ,quasi per petizione di principio devono consentire la rilevazione di squilibri (ma se c’è equilibrio, si potrebbe replicare ) di carattere patrimoniale o economico finanziario e la prospettiva di continuità aziendale nei 12 mesi (!)”, con un diverso assetto normativo cfr. M. Cataldo. La soggezione dell’impresa in crisi al regime di allerta e di composizione assistita. in Fall. 2016. pag. 1023 l’attenzione risulta concentrata sui prodromi della crisi, quando l’equilibrio non c’è, e non sulle ragioni della futura crisi. Ma il problema è, ripeto, quando esiste l’equilibrio e non vi sono fatti specifici. Quella è la vera c.d. zona grigia che può esserci prima della crisi dove si può arrivare a ritenere che certe iniziative, legittime e anche economicamente convenienti o usuali e normali, adatte cioè alle circostanze, possono mettere a rischio gli interessi degli stakeholders, primi tra tutti i creditori. cfr. L. Stanghellini. Director’s Duties and the Optimal Timing of Insolvency. A Reassessment of the “Recapitalize or Liquidate “Rule .in Il diritto delle società oggi. Innovazioni e persistenze. a cura di P. Benazzo- M. Cera -S. Patriarca. Torino. 2011. pag.733; MS Spolidoro. Note critiche sulla “gestione di impresa “nel nuovo art.2086 (con una postilla sul ruolo dei soci). in Riv. Società. 2019. pag. 253 e ss.; P. Benazzo. Il Codice della crisi di impresa e l’organizzazione dell’imprenditore ai fini dell’allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario? in Riv. Società. 2019. pag.287 e ss. per le influenze dell’economia, macro, sulla economia, micro, sui comportamenti individuali, per tutti: R. Dornbusch, S. Fischer, R. Startz, G. Canullo, P. Pettenati. Macroeconomia. McGraw Hill. 2014. pag. 348; P. Krugman, R. Wells, K. Graddy. L'essenziale di economia. Zanichelli, seconda edizione. 2012; Paul Krugman e Robin Wells. Macroeconomia. Zanichelli. Seconda edizione italiana condotta sulla terza edizione americana 2013.pag 508 circa la nascita del termine macroeconomia; P. Krugman e R. Wells. Microeconomia. Zanichelli. Seconda edizione italiana condotta sulla terza edizione ameircana.2013. P. Samuelson, W. D. Nordhaus, C. A. Bollino. Economia. McGraw-Hill. 2009, D. Ariely. Prevedibilmente irrazionale. Rizzoli 2008.K. Arrow. Scelte sociali e valori individuali. Milano. Etas. 2003.G. A. Akerlof e R. J. Shiller. Ci prendono per fessi. L'economia della manipolazione e dell'inganno. Mondadori. 2016. Robert J. Shiller. Economia e narrazioni. Come le storie diventano virali e guidano i grandi eventi economici. Franco Angeli editore. 2020. R. J. Shiller. Euforia irrazionale. Alti e bassi in Borsa. Il Mulino. 2020.R Luigi Pasinetti. Alcune ipotesi contro-fattuali sulla presente crisi. Investimenti, profitti, crescita e distribuzione dei redditi su Alfabeta 2 del 31 marzo 2011, stralcio dell’intervento al convegno «Gli economisti post-keynesiani di Cambridge e l’Italia», Accademia nazionale dei Lincei, 11-12 marzo 2009. Testo abbreviato (con omissione dei passi più circostanziati) per un pubblico non accademico...; L. Pasinetti, Keynes e i Keynesiani di Cambridge. Una ‘rivoluzione in economia’ da portare a compimento, Laterza, Roma 2010; L. Pasinetti. Keynes e i Keynesiani di Cambridge. Laterza. 2010.M. Olson. The Rise and Decline of Nations. Economic Growth,Stagflation and Social Rigidities. New Haven - London Ascesa e declino delle nazioni. Crescita economica, stagflazione e rigidità sociale. Il Mulino .1984] P. De Grauwe. Economia dell’unione monetaria. nona edizione. Il Mulino.2012. N. Wapshott. Keynes o Hayek. Lo scontro che ha definito l'economia moderna. Feltrinelli. 2011. Nurkse. International Investement to -day in the light of nineteenth- century Experience. Economic Journal 64, dicembre 1954; Z. D.Carter. Il prezzo della pace. Economia, democrazia e la vita di John Maynard Keynes. Neri Pozza. 2022. p.363 John Maynard Keynes. A Treatise on Money: The Pure Theory and the Applied Theory of Money. Complete Set. Martino Fine Books (1930) 201 p. 399-402.Trattato sulla Moneta. In due volumi. Feltrinelli. 1979. Quello che era sbagliato nel sistema del gold standard era anche un’implicita concezione per la quale ci fossero paesi peccatori e paesi non peccatori, che i paesi in deficit, o peggio con debiti, avessero delle colpe, fossero cattivi, che dovessero soffrire come prezzo della loro pigrizia o debolezza. Ma in economia non è mai stato così. Ma al di là di Keynes e dei keynesiani, di vecchie situazioni, circa l’incertezza ed eventuali colpe o responsabilità in economia possiamo giungere all’attuale Lord Mervyn King, ex governatore della Banca d'Inghilterra, che con il libro The End of Alchemy, parla di incertezza radicale che' si intende un'incertezza talmente profonda da impedire di fare delle previsioni esaustive sul futuro”: "accade di tutto": si pensi a Lehman, alla Grecia, alla Brexit e a Trump, tutti eventi che possono condurre o condurranno a cambiamenti di regime che renderanno obsolete le vecchie relazioni empiriche. Negli Studi di organizzazione, una prima definizione di incertezza classica definizione di incertezza (Thompson, deriva dagli studi condotti nell’ambito delle teorie delle decisioni (March, Simon, 1958; March, 1994). In conformità a questa concezione occorre distinguere fra: situazioni di certezza; situazioni di rischio; situazioni di incertezza. Una 1967) distingue fra incertezza nei fini ed incertezza nei mezzi: nel primo caso non sono chiari gli obiettivi da conseguire, mentre nel secondo non sono chiare le soluzioni da adottare per raggiungere quei risultati. Tale concezione di incertezza può essere comunque ampliata, considerando anche ulteriori situazioni che un individuo si trova a dover gestire: incertezza nelle preferenze; incertezza nella valutazione delle azioni e degli effetti; incertezza nelle relazioni causa effetto; incertezza nelle alternative di comportamento. In molti casi, potrebbe essere difficile valutare ex post le azioni messe in atto o le conseguenze delle proprie scelte o di eventi di contesto. Potrebbe, ad esempio, essere tecnicamente difficile osservare e misurare le risorse consumate per eseguire un’attività, i risultati raggiunti, il modo con cui l’attività è stata eseguita, il comportamento nei fatti seguito. Non si possono, poi, trascurare gli insegnamenti di Keynes, in qualche modo oggi ripresi anche da Robert Shiller. Keynes, nel capitolo 15 della Teoria Generale, metteva in evidenza a proposito del tasso di interesse e della moneta che esistevano tre modalità per le quali la moneta poteva essere domandata. Metteva in evidenza come il tasso di interesse, che è una determinante delle condizioni economiche, che consente o influisce sulle decisioni di investire è soggetto a incertezza, a decisioni altamente discrezionali, poco razionali e prevedibili, a convenzioni. 
Il primo motivo per le quali la moneta poteva essere domandata era per effettuare pagamenti per acquistare beni e servizi (motivo transazionale). 
Il secondo motivo era per far fronte a eventi imprevedibili, che richiedono pagamenti non differibili, come il guasto di un’automobile o una malattia, (motivo precauzionale). 
Il terzo motivo è quello speculativo, perché gli individui, almeno alcuni di loro desiderano detenere scorte liquide per poterle investire prontamente sul mercato finanziario lucrando le migliori opportunità di profitto. 
La moneta speculativa si esprime sul mercato dei titoli dove gli operatori scambiano moneta con titoli. I titoli comportano un immobilizzo, ma fruttano un interesse. 
Immobilizzare una parte delle proprie scorte liquide in titoli comporta una rinuncia alla possibilità di investire in altre attività. Da qui l’esigenza di essere compensato per questa perdita di liquidità del proprio portafoglio. 
Il tasso di interesse è esattamente definito il premio che ricompensa per la rinuncia alla liquidità necessaria a investire in un determinato asset. Tanto più gli individui desiderano detenere moneta liquida, più dovrà salire il tasso di rendimento dei titoli per convincerli a rinunciarvi. Il tasso di interesse, si dice si può definire come il “costo opportunità” di detenere moneta in forma liquida. 
Ma mentre i primi due motivi (transazionale e precauzionale) dipendono e fanno dipendere la domanda di moneta dal reddito, il terzo motivo (speculativo) è in gran parte indipendente dal reddito.
La domanda di moneta speculativa è molto instabile, dipende dalle aspettative su una serie di variabili non solo economiche, che è difficile prevedere e conoscere con certezza. 
La preferenza per la liquidità degli individui dipende non solo dal tasso di interesse ma anche dalle aspettative sul valore dei titoli e dei rendimenti a lungo termine, varia molto rapidamente e tende ad essere molto alta in periodi di forte incertezza nella quale gli operatori percepiscono un forte aumento del rischio di insolvenza o perdite sui titoli. 
Essa è basata, dice Keynes, con osservazioni che più di recente anche Robert Shiller ha ripreso ed approfondito, su giudizi e valutazioni che Keynes descrive come “psicologici” ma soprattutto “convenzionali”, basati cioè sulle opinioni prevalenti tra gli operatori, le quali spesso poco hanno a che fare con l’analisi dei valori fondamentali dell’economia o delle aziende e sono soggette ad ondate di pessimismo e ottimismo e possono rimanere stabili per molto tempo. 
Da qui, tra l’altro, una serie di motivi per i quali il tasso di interesse può rimanere a livello elevato per un lungo periodo di tempo, in rapporto alla reddittività attesa degli investimenti, franando le decisioni di investimento. 
Questa originaria osservazione di Keynes è ripresa oggi da Robert Shiller, Daniel Kahneman e Amos Tversky: è molto incerto l’investimento azionario ed obbligazionario. Soprattutto in relazione all’impiego per esempio del risparmio pensionistico. 
Il tasso di interesse, inoltre, può essere mantenuto a livelli elevati anche per motivi macroeconomici, tipo lotta all’inflazione, cioè per decisioni di politica economica o dettate da motivazioni macroeconomiche, che prescindono da una valutazione dei fondamentali delle aziende. 
Esso influisce sul sistema di finanziamento delle imprese. Influisce sulla crescita, la piena occupazione e il sistema economico. 
[13] 
Trib. Milano, 21 ottobre 2019, in Le Società Ipsoa, 2020, 988 con nota di I. Capelli, Assetti adeguati, controllo dei sindaci e denuncia al tribunale ex art. 2409; Trib. Roma, 15 settembre 2020, in Giur. comm. II, 2021, pag. 1358, con nota di S. Fortunato. Atti di organizzazione, principi di correttezza amministrativa e Business Judgment Rule.
[14] 
M. Bini. Procedura di allerta: indicatori della crisi ed obbligo di segnalazione da parte degli organi di controllo. in Le Società. n. 4/2019. pag. 430; N. Abriani e A. Rossi. Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture in Le Società.n.4/2019.pag. 393; L. Calvosa. Gestione dell’impresa e della società alla luce dei nuovi art. 2086 e 2475 cc. in Le Società.n.7/2019.pag. 799; G. Verna. Strumenti per il nuovo assetto organizzativo delle società. in Le Società. n.8-9/2019. pag. 929. G. Buffelli Gli adeguati assetti alla luce del correttivo ter (D. Lgs n. 136/2024) in Dirittodellacrisi.it, 17 ottobre 2024.
[15] 
Si tratta un problema che si trascina dagli inizi dell’800. Si tratta di un dibattito che ancora adesso rappresenta un aspetto centrale. Cioè la capacità di un sistema capitalistico di mantenere il pieno impiego delle proprie risorse. 
[16] 
D. Latella. Nuovi assetti organizzativi societari e Codice della crisi d’impresa in Federnotizie, 29 maggio 2019, con le clausole indicate; G. Brotto, La gestione dell’impresa secondo il nuovo codice delle crisi d’impresa in Officina notarile, 8 settembre 2019. D. Boggiali, Il concetto di organizzazione adeguata al tipo di impresa (art. 2086, comma 2, cc): assetti organizzativi e obblighi degli organi di gestione e di controllo, Fondazione Italiana del notariato, 31 dicembre 2023. 
[17] 
N. Atlante, M. Maltoni, A. Ruotolo, Il nuovo articolo 2475 cc. Prima lettura, Studio del C.N.N. n. 58-2019/1 del 14 marzo 2019; F. Guerrera e M. Maltoni, La decisione degli amministratori sull’accesso agli strumenti di regolazione delle crisi e dell’insolvenza delle società (art. 120 bis CCII). Studio del C.N.N. n. 42-2023/I del 14 giugno 2023.; massima n.183 del Consiglio Notarile di Milano del 17 settembre 2019 su Limiti alla configurabilità di diritti particolari dei soci di s. r. l in materia di amministrazione (art.2475 comma 1, cc); F. Macario. La riforma dell’art. 2086 cc nel contesto del codice della crisi e dell’insolvenza e i suoi riflessi sul sistema della responsabilità degli organi sociali in Dirittodellacrisi.it, 26 maggio 2022. 
[18] 
Massima n. 74/2020: Il testo della massima e quello della relativa motivazione illustrativa sono consultabili al seguente link: https://www.consiglionotarilefirenze.it/images/orientamenti_osservatorio/74-2020-Amministrazione-società-di-capitali.pdf.
[19] 
F. Brizzi, Procedure di allerta e doveri degli organi di gestione e controllo: tra nuovo diritto della crisi e diritto societario in Orizzonti del Diritto Commerciale 345, Fascicolo 2, 2019, pag. 345 e per esempio sui rapporti tra l’art. 2086 e l’art. 2475 v. Massima n. 183 del 17 settembre 2019 del Consiglio Notarile di Milano ,che ritiene che sono legittime le clausole statutarie che attribuiscano a soci non amministratori, come diritto collettivo ai sensi dell’articolo 2479 c.c. o come diritto particolare ai sensi dell’articolo 2468, comma 3, c.c., poteri decisionali inerenti la gestione dell’impresa, devono considerarsi invece incompatibili con il disposto di legge le clausole statutarie che attribuiscano a soci non amministratori il diritto o il potere di dare diretta esecuzione alle decisioni gestionali assunte dagli aventi diritto…… e si osserva “Tuttavia, ciò che suscita perplessità, in questa tesi, è che essa introduce una distinzione all’interno del concetto di gestione che non sembra fondata su alcun dato normativo né su alcuna considerazione sistematica. La “gestione” della società, intesa come svolgimento dell’attività di impresa organizzata in forma societaria, comprende infatti pacificamente tanto i profili organizzativi quanto i profili più propriamente operativi, ed ipotizzare una cesura tra questi due aspetti della gestione appare una forzatura sia dal punto di vista letterale sia dal punto di vista logico. È vero che il nuovo articolo 2475 c.c. contiene il richiamo all’art. 2086 c.c. e dunque ai doveri di istituire adeguati assetti organizzativi: ma la nuova formulazione dell’art. 2086 c.c. semplicemente implica (o chiarisce) che la gestione, complessivamente intesa e dunque comprensiva di tutti i profili coinvolti nello svolgimento dell’attività di impresa, deve anche darsi carico, appunto, di istituire una adeguata organizzazione interna. Non vi è alcun elemento letterale che consente di riscrivere la nozione di “gestione” nel senso di comprendevi solamente i profili organizzativi e non quelli operativi ….”. cfr. P. Benazzo, Il Codice della crisi di impresa e l’organizzazione dell’imprenditore ai fini dell’allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario? in Riv. soc., 2019, 274 e ss. ed ivi 303 e s. secondo cui la gestione dell’impresa riservata ora in via esclusiva agli amministratori può essere fatta coincidere con la “sola” predisposizione di idonei assetti organizzativi; nonché N. RICCARDELLI, Il sistema di amministrazione nelle s.r.l. dopo il codice della crisi e dell’insolvenza, in Il Nuovo Diritto delle Società, 2019, 1002 e ss., secondo il quale tale interpretazione si lascia preferire; O. Cagnasso, Diritto societario e mercati finanziari, in Il Nuovo Diritto delle Società, 2018, fascicolo 5; G.A. Trimarchi, Codice della crisi: riflessioni sulle prime norme, in Not., 2019, 115 e ss.; D. Latella, Nuovi assetti organizzativi societari e Codice della crisi d’impresa, in Federnotizie 2019, reperibile su www.federnotizie.it; V. Calandra Bonaura, Amministratori e gestione dell’impresa nel Codice della crisi, intervento nel corso del XXXIII Convegno di studio su Crisi d’impresa. Prevenzione e gestione dei rischi: nuovo Codice e nuova cultura (Courmayeur, 20 – 21 settembre 2019). Una particolare proposta interpretativa viene avanzata da G.A. Rescio, Brevi note sulla “gestione esclusiva dell’impresa” da parte degli amministratori di s.r.l.: distribuzione del potere decisionale e doveri gestori, contributo pubblicato sul portale online di Giuffrè Editore http://ilsocietario.it/, il quale avanza una ricostruzione che non si basa su una distinzione delle “diverse sfere” del potere decisionale, bensì sul piano del “dovere di gestione”. Secondo l’Autore, in particolare: “ne deriva che in questi casi – casi di potere decisionale in materia gestoria riservato ai soci – il dovere di gestione spettante in via esclusiva agli amministratori consiste nello stimolare le decisioni dei soci più appropriate, nel monitorarne gli esiti e l’impatto sull’organizzazione d’impresa e sulla gestione operativa, nel rifiutarne l’attuazione nelle ipotesi in cui attuare quelle decisioni sarebbe fonte o pericolo di danno per la società, i creditori, i singoli soci o i terzi . Nei casi di non adozione da parte dei soci di decisioni ritenute imprescindibili dagli amministratori ai fini di un assetto organizzativo adeguato e di una gestione dell’impresa coerente con i principi e gli obblighi derivanti da una gestione diligente e corretta, gli amministratori – dopo averne invano invocato l’assunzione – devono attivare tutti i mezzi che il sistema metta a loro disposizione per rimediare all’inerzia dei soci e, se del caso, abbandonare la carica”. In senso contrario rispetto ad ogni ricostruzione cd. “riduzionista”, v. L. Calvosa, Gestione dell’impresa e della società alla luce dei nuovi artt. 2086 e 2475 c.c., in Soc., 2019, 799 e ss. ed ivi 800 secondo la quale: “la norma – in ordine alla quale a mio avviso non può essere ignorata la rilevanza della totale coincidenza (anche lessicale) con il principio dettato per le S.p.a. dall’art. 2380-bis c.c. – non può che avere nella S.r.l. il significato che ad essa è attribuito nella S.p.a.”. Detta interpretazione, secondo l’Autrice, implica che anche nella S.r.l., nonostante il riconoscimento dell’esclusività della gestione degli amministratori, rimangono ferme le competenze legali previste in capo ai soci, quali quelle di cui all’art. 2479, comma 2, n. 5, c.c. Negli altri casi, quali quelli di cui all’art. 2468, comma 3, c.c. il sistema sarà quello delle autorizzazioni di cui all’art. 2364, comma 1, n. 5, c.c.; N. Abriani e Antonio Rossi. Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture .in Le Società. Ipsoa. n. 4/2019. pag.407 in particolare sulla quantificazione del danno da violazione dell’art. 2486 cc e v. Cass. Sez. Unite, 6 maggio 2015. N. 9100. 
[20] 
R. Rordorf, Gli assetti organizzativi dell’impresa ed i doveri degli amministratori di società delineati dal novellato art. 2086, comma 2, c.c. in Riv. Le Società n. 12/ 2021, pag. 1325 ss., secondo il quale la dottrina aziendale dà sufficienti soluzioni. Sull’ideologia illiberale sottesa all’originaria formulazione del titolo dell’art. 2086 c.c., si veda M.S. Spolidoro, Note critiche sulla “gestione dell’impresa” nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. Società, 2019, 253 ss., a parere del quale il primo comma di tale articolo, nel nuovo contesto storico dell’Italia repubblicana, sarebbe ormai privo di qualsiasi valore; il nuovo titolo, riferito alla gestione dell’impresa, sarebbe invece viziato da un eccesso di ambizione ;sui doveri dei sindaci, quando si manifesti una crisi d’impresa, si veda la recente monografia di R. Russo, Collegio sindacale e impresa in crisi, Milano, 2021; P .Montalenti ,Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, in Crisi d’impresa, prevenzione e gestione dei rischi: nuovo codice e nuova cultura, a cura di P .Montalenti e M .Notari, Milano, 2021, 13 ss.;; S. Fortunato, Codice della crisi e codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità, in Riv. Società, 2019, 952 ss.; V. De Senzi, Adeguati assetti organizzativi e continuità aziendale: profili di responsabilità gestoria, in Riv. Società, 2017, 311 ss. S. Ambrosini, Doveri degli amministratori e azioni di responsabilità alla luce del Codice della crisi e della “miniriforma” del 2021, in www. Diritto bancario, 2021; Il Tribunale di Cagliari nella sentenza citata entra nel merito delle carenze riscontrate e fornisce spunti operativi ma che da una parte non superano il test di genericità, dall’altra diventerebbero, in pratica, concreta amministrazione della società, sotto forma di controllo sugli assetti. Afferma il Tribunale che per quanto “concerne l’assetto organizzativo, sono state riscontrate le seguenti carenze: -organigramma non aggiornato e difetta dei suoi elementi essenziali; -assenza di mansionario; -inadeguata progettazione della struttura organizzativa e polarizzazione in capo a una o poche risorse umane di informazioni vitali per l’ordinaria gestione dell’impresa (ufficio amministrativo); -assenza di un sistema di gestione e monitoraggio dei principali rischi aziendali”. Con riferimento all’assetto amministrativo: “mancata redazione di un budget di tesoreria; -mancata redazione di strumenti di natura previsionale; -mancata redazione di una situazione finanziaria giornaliera; -assenza di strumenti di reporting; -mancata redazione di un piano industriale “[Chissà se le agenzie di rating hanno chiesto tutto questo a Lehman e se posto che ci fosse che rilievo ha avuto per le note vicende]. In ultimo, per quanto attiene all’assetto contabile, l’ispettore rileva le seguenti carenze: la contabilità generale non consente di rispettare i termini per la formazione del progetto di bilancio e per garantire l’informativa ai sindaci [che mi sembra uno dei pochi rilievi giusti]; -assenza di una procedura formalizzata di gestione e monitoraggio dei crediti da incassare; -analisi di bilancio unicamente finalizzata alla redazione della relazione sulla gestione; -mancata redazione del rendiconto finanziario” cfr. Francesco Aliprandi e Alessandro Turchi. Spunti operativi sugli adeguati assetti alla luce della recente pronuncia del Tribunale di Cagliari. in Diritto della crisi del 12 aprile 2022; Massimo Billi Codice della Crisi d’Impresa: Adeguati assetti organizzativi e ruolo degli Amministratori, in Riv. Diritto e Processo. 2020; per la scienza aziendale v. Paolo Bastia. Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili nelle imprese a struttura complessa e nei gruppi societari. Fascicolo N. 1/2022 in LA MAGISTRATURA del 3 marzo 2022; Paolo Bastia, Edgardo Ricciardiello. Gli adeguati assetti organizzativi funzionali alla tempestiva rilevazione e gestione della crisi: tra principi generali e scienza aziendale in Banca Impresa Società n. 3/2020, dicembre, Il Mulino. 
[21] 
V. Consorzio Pattichiari” Elenco obbligazioni basso rischio/ rendimento; Tribunale di Venezia del 5 novembre 2009 con nota di F. Guariniello. L’evento imprevedibile e gli obblighi informativi dell’intermediario: il fallimento Lehman Brothers, un caso al limite dell’ordinaria diligenza in Diritto Bancario 10 marzo 2010; Tribunale di Roma, III sezione Civile 12 giugno 2013 n. 12766 che ha statuito che l’acquisto di obbligazioni Lehman Brothers era classificato come investimento affidabile fino al 15/09/2008; Tribunale di Pordenone dell’8 novembre 2013 n. 898 che si allinea all’orientamento giurisprudenziale che ritiene non prevedibile il fallimento e fa riferimento alle principali agenzie di rating che consideravano la banca come molto affidabile assegnandole in complesso una categoria di rating A caratterizzata da basso rischio e affidabilità alta per il pagamento delle cedole. cfr. Ray Dalio. I Principi per capire le grandi crisi del debito. Hoepli. 2020. pag. sulle crisi degli anni venti, degli anni trenta e del 2008 e come le previsioni, anche di illustri personaggi e istituzioni fossero fallaci e su come certi assetti, ad esempio gold standard, possano influire negativamente nel risolvere la crisi, aggravandola v. pag. 117 e 118 sulle parole di Thomas Lamont di J.P Morgan e del famoso economista Irving Fisher alla vigilia della crisi degli anni trenta e pag. 126-127 sul glod standard e il freno che costituiva per l’azione della Fed, pag. 179 su quello che scriveva in modo irreale o irresponsabile o non informato oppure perché semplicemente non era prevedibile, la Fed, l’equivalente della nostra Bce, il 7 agosto 2007 quando già il mercato dei mutui stava collassando come attestano le vicende del 9 agosto di BNP Paribas, la prima banca di Francia. A parte le parole, che potremmo definire ironicamente come “profetiche “del presidente Usa Hoover che durante gli inizi della Grande Crisi, dopo la chiusura del giovedì, il famoso giovedì nero del 24, dichiarò “l’attività fondamentale del Paese, cioè la produzione e la distribuzione delle merci, si svolge su una base solida e prospera” (cfr. Galbraith J.K. Il grande crollo. Rizzoli. 2005), ben 35 broker acquistarono un’intera pagina sul New York Times di venerdì e scrissero fiduciosi che era giunta l’ora di comprare e per la crisi del 2007-2011 descrive bene certi comportamenti persino di autorità che dovevano essere informatissime e anche controllare, tipo le autorità di regolazione del Tesoro a proposito per esempio sulla situazione di Fannie e Freddie come erano denominati due istituti che facevano mutui e le cui azioni crollarono, vedi Ray Dalio I principi per capire. Cit. pag. 202 con il segretario al Tesoro Usa Paulson che dichiara “Eravamo preparati per le cattive notizie, ma l’entità del problema ci colse alla sprovvista” e la FHFA, cioè la Federal Housing Finance Agency, l’autorità di regolazione di Frannie e Freddie, che un paio di settimane prima del loro crollo, aveva inviato un rapporto, non dunque semplici dichiarazioni orali, in cui sosteneva che fossero sufficientemente capitalizzate, oltre ad aver ripetutamente approvato la loro contabilità. 
[22] 
S. Stephens-Davidowitz, La macchina della verità. Come Google e i Big Data ci mostrano chi siamo veramente, cit. pag. 224. 

[23] 
J.L. Borges. “Del rigore nella scienza”, L'artefice in Tutte le opere, Milano, Mondadori, 1984; le risposte a certi fenomeni che cambiano nel tempo sono anch'esse variabili e dipendono da assunzioni di chi fa parte degli adeguati assetti. Se chi vi fa parte crede al modello neoclassico dell'economia sarà portato a ritenere che gli oneri finanziari saranno inversamente correlati all'investimento: la riduzione del costo del capitale (una riduzione del tasso di interesse) gli farà credere che ci sarà o potrà esserci una risposta forte dell'investimento della sua azienda e delle aziende in generale. 
Ogni incremento dei trasferimenti dall'estero, come rimesse degli emigrati o aiuti internazionali, gli farà credere che ci sarà un incremento dell'investimento domestico. 
Ma un'economia vincolata dalla domanda di investimento, potrebbe scoprire che l'investimento risponde invece ad altro: alla profittabilità nel mercato dei beni. Quando gli imprenditori sono scoraggiati (per esempio dalla corruzione) comunque sono scoraggiati, hanno aspettative depresse, un keynesiano o un'istituzionalista che fa parte di un adeguato assetto creato da un'azienda, penserà, al contrario che la primaria preoccupazione sarà se possono tenersi il frutto dei loro investimenti e la disponibilità di fondi è secondaria. Un aumento delle rimesse o aiuti internazionali, per chi non è un esponente dell'economia neoclassica, più che ad un aumento complessivo dell'investimento domestico, gli farà pensare ad un possibile boom dei consumi. 
Rispondere a quesiti " quale sia l'effetto di A su X dipende dall'impostazione culturale di chi risponde e fa parte degli adeguati assetti creati (un incremento del salario minimo può far ritenere che ci sarà una diminuzione dell'occupazione, minor consumo oppure da altri un aumento della domanda che farà aumentare malgrado tutto le assunzioni da parte dei datori di lavoro). 

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