La norma da prendere in esame è l’art. 2 la lett. c) CCII che, nel definire cosa si intenda con sovraindebitamento, individua i soggetti che possono accedervi: “sovraindebitamento: lo stato di crisi o di insolvenza del consumatore, del professionista, dell’imprenditore minore, dell’imprenditore agricolo, delle start-up innovative di cui al decreto legge… e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza”.
Tuttavia, prima di verificare se un trustee possa rientrare in una delle categorie enunciate dalla norma, c’è un nodo preliminare da sciogliere, rappresentato dalla carenza di soggettività giuridica dei trust, principio proprio al diritto dei trust e confermato più volte dalla Corte di Cassazione[3], al fine di stabilire se detta carenza possa costituire ostacolo all’accesso del trustee al sovraindebitamento.
Un autore, ragionando in tema di ristrutturazione dei debiti del consumatore, ha escluso la possibilità per il trustee di accedere a questo strumento di regolazione della crisi in quanto, trattandosi di procedura rivolta alle sole persone fisiche, le uniche che possano definirsi consumatori[4], per gli effetti risulta preclusa la sua applicazione ai patrimoni separati (quali il fondo patrimoniale) o segregati (quali i trust) in quanto privi di soggettività giuridica[5].
A nostro parere l’impossibilità per il trustee di accedere alla procedura prevista per il consumatore dipende da motivazioni diverse, che tratteremo nel § 3.1, che non dipendono dalla carenza di soggettività giuridica dei trust.
Pertanto, in assenza di precedenti giurisprudenziali o di contributi della dottrina che abbiamo trattato la fattispecie dei trust, in rapporto al sovraindebitamento, non possiamo che attenerci ad un ragionamento logico che tragga spunto dalle caratteristiche specifiche dei trust e del trustee.
Il focus della questione si incentra sull’impropria terminologia in uso nella prassi che suole riferirsi ai “creditori del trust”, ovvero ai “debiti del trust”, così inducendo a ritenere che il trust sia il debitore e non il trustee.
Occorre per contro un intervento di sistema a monte, volto a correggere l’errata espressione in quanto foriera di inaspettate conseguenze pratiche, potendosi parlare esclusivamente di “creditori del trustee” ovvero di “debiti del trustee”, non potendo il trust essere debitore di nulla, come recentemente ribadito anche dalla giurisprudenza[6]
A sostegno di questa tesi poniamo le fondamenta dei trust, richiamando i precetti del diritto dei trust, le norme della Convenzione e, infine, la corretta applicazione che di questi principi ne hanno fatto i giudici italiani di merito e legittimità.
Non vi è dubbio, infatti, che il trustee sia il proprietario formale e sostanziale dei beni in trust mentre, l’effetto della separazione patrimoniale che il trust ha prodotto, fra il patrimonio personale del trustee e quello in trust, non inficia né limita in alcun modo i diritti e gli obblighi che la legge riconosce al proprietario di beni, ricomprendenti il potere di contrarre obbligazioni e rispondere del loro inadempimento.
Questo principio, proprio delle leggi del modello internazionale, presenta una differenza esclusivamente per la legge inglese, strettamente limitata alla garanzia patrimoniale a disposizione dei creditori posto che, per il diritto inglese, il trustee risponde personalmente delle obbligazioni che ha contratto. Tuttavia, anche per la legge inglese, i creditori personali del trustee non hanno azione diretta sul fondo in trust, subendo anch’essi gli effetti della segregazione dei beni in trust.
Non si sposta quindi il fulcro del problema, rimanendo intonso in diritto dei trust, il presupposto iniziale, rappresentato dal fatto che, in ogni caso, a prescindere dalla legge regolatrice dello specifico trust, il debitore, per obbligazioni riferibili ai beni in trust, è sempre solo il trustee.
Passando all’art.11 della Convenzione, la norma non lascia dubbi a riguardo: se non c’è segregazione, non c’è trust e non si riscontra nel testo della norma alcuna incertezza che possa aprire il varco ad un’interpretazione degli effetti segregativi in misura attenuata rispetto a quella che gli è propria.
La sola differenza, rispetto al proprietario civilistico, è l’ambito di azione, potendo i creditori del trustee agire in via esecutiva solo a carico dei beni in trust.
Del resto l’effetto segregativo del fondo in trust è opponibile a tutte le persone coinvolte. Lo è infatti: i) per i creditore personali del trustee, ai quali è precluso il soddisfacimento sui beni in trust; ii) per i creditori del trustee, che possono soddisfarsi solo sui beni in trust; iii) per i creditori dei beneficiari, che possono escutere i beni in trust solo dal momento in cui diverranno di loro proprietà o, in limine, surrogarsi in una posizione beneficiaria quesita, ossia configurante un diritto certo, liquido ed esigibile del beneficiario verso il trustee; iv) per i creditori del disponente che, non trovando più capienza nel patrimonio del debitore, possono esclusivamente agire in revocatoria.
Solo ragionando in questi termini si può correttamente interpretare l’effetto segregativo che il trust produce, non potendosi certo qualificare come una semi-segregazione che, ad esempio, neghi il diritto al soddisfacimento in capo ai creditori del trustee. Di conseguenza, non si può del pari affermare che il diritto di proprietà del trustee sia solo formale e non sostanziale, dal che escludere che egli possa essere identificato nel debitore effettivo.
L’avvento del trust nel nostro ordinamento non ha infatti creato né un “nuovo diritto di proprietà” né una “nuova tipologia di creditori”, avendo semplicemente permesso la venuta ad esistenza di un patrimonio segregato, ex lege sottratto ai creditori personali del trustee.
La norma di riferimento è l’art. 2740 c.c. che, se per un verso limita la responsabilità per debiti personali del trustee, ai soli beni di sua personale proprietà, lasciando indenne i beni in trust, per contro identifica nei beni in trust, la garanzia patrimoniale universale a disposizione dei creditori del trustee.
Un esempio elementare può essere di aiuto.
Pensiamo al caso di Caio che risulti personalmente proprietario di un appartamento in Milano e di un conto corrente acceso presso la Banca Alfa e che, del pari, risulti anche proprietario, in qualità di trustee del trust denominato “Agorà”, di un appartamento in Roma e di un contro corrente acceso presso la Banca Beta. I beni dei quali Caio è proprietario in qualità di trustee saranno pertanto intestati, presso la Conservatoria romana, e presso la Banca Beta, a nome di Caio in qualità di trustee del trust Agorà.
Caio non paga, né le spese condominiali dell’appartamento in Milano, né quelle relative all’immobile in Roma.
Vengono quindi ad esistenza due categorie di creditori: i creditori personali di Caio e i creditori di Caio in qualità di trustee ma nessuno, si ritiene, possa avere dubbi sull’ eguaglianza dei diritti riconosciuti dalla legge ad entrambe le categorie di creditori, risultando diverso il solo ambito di escussione.
La questione può esclusivamente intendersi in questi termini e vie interpretative diverse, che argomentino dalla carenza di soggettività del trust, sarebbero un errore. Il diritto dei trust ne uscirebbe infatti stravolto e, con esso, anche la Convenzione che esige, quale unico effetto, la venuta ad esistenza di un patrimonio separato, rispetto al patrimonio personale del trustee.
Questo approdo del ragionamento risulta altresì coerente con la struttura del Codice della crisi, incentrata nel soggetto-debitore e non sul suo patrimonio e che trova, nel sovraindebitamento, una delle massime espressioni.
Del resto, se si aderisse per un momento alla tesi del “trust debitore”, dal che l’impossibilità di accedere agli strumenti di regolazione della crisi, per carenza di soggettività giuridica, si darebbe luogo ad un evidente corto circuito rispetto al trustee, soggetto di diritto titolare, non solo dei beni in trust, ma anche della piena legittimazione ed interesse ad agire. Il trustee, infatti, se può citare in giudizio o in esso difendersi, se può vendere o comprare beni, se può decidere se dare o non dare ai beneficiari, può del pari contrarre debiti ed essere chiamato a risponderne come qualsiasi altra persona o ente.
Allorquando i trust cominciarono ad affacciarsi nel nostro ordinamento, una delle ragioni principalmente addotte dalla dottrina contraria al riconoscimento dell’istituto, consisteva nella violazione del principio della riserva di legge espresso nel comma 2 dell’art. 2740 c.c. ai sensi del quale, le limitazioni al principio della garanzia patrimoniale universale del debitore possono essere solo di fonte legislativa. Per gli effetti, sosteneva detta dottrina, mancando una legge nazionale che avesse permesso la venuta ad esistenza di un patrimonio separato, rispetto a quello personale del trustee, la segregazione prodotta dai trust risultava contraria alla norma di ordine pubblico. Aderendo a quella che fu la prima posizione espressa dal tribunale di Bologna nel 2003, che contestava in radice detta argomentazione, nei decenni successivi si è consolidata l’identificazione, nella legge n. 364/1989 di ratifica della Convenzione, la fonte che, nel rispetto della riserva di legge, ha permesso la deroga all’art. 2740 in relazione al trustee.
In ragione di ciò, non si può oggi sbrigativamente ascrivere alla segregazione del patrimonio in trust, effetti diversi da quelli che, ex lege, detta segregazione produce, a pena di introdurre nel nostro ordinamento forme di segregazione “diverse”, rispetto a quelle legislativamente previste.
Il tentativo di tracciare una via di accesso al sovraindebitamento, per i trust, che si fondi sull’esistenza di un patrimonio incapiente, “soggettivizzando” il fondo in maniera indiretta, trova smentita non solo in una recente decisione di legittimità[7] ma anche richiamando una fattispecie del nostro ordinamento.
Partendo dalla decisione della Corte di Cassazione, la vicenda ha ad oggetto la validità della trascrizione nei pubblici registri immobiliari di un pignoramento trascritto contro il trust e non contro il trustee.
Il giudice del merito aveva sostenuto la validità di tale trascrizione, sostenendo che la carenza di soggettività giudica del trust non inficiava la formalità pubblicitaria, richiamando per analogia le trascrizioni in favore dei fondi comuni di investimento immobiliari e del condominio, entità prive di soggettività giuridica. Il giudice aveva altresì ricordato la soggettività tributaria dei trust, ritenendola un presupposto ulteriore che confermava la validità della trascrizione eseguita. La Cassazione ha rigettato queste argomentazioni, dichiarando le formalità pubblicitarie a nome del trust radicalmente nulle e precisando come la soggettività tributaria a nulla rilevi, essendo la soggettività giuridica qualifica rimessa al solo legislatore[8]. A seguire la Corte ha ricordato come sussista una norma speciale che consente la formalità pubblicitaria a nome del condominio mentre, per i fondi immobiliari, ha evidenziato come gli atti traslativi aventi ad oggetto immobili in esso ricompresi, vadano trascritti a nome del proprietario del fondo e non certo del fondo.
Sebbene tali argomentazioni siano già esaustive, l’impossibilità di “soggettivizzare indirettamente” un’entità che ne è priva, trova ulteriore conferma anche richiamando una fattispecie del nostro ordinamento, l’eredità giacente che, al pari del trust, è priva di soggettività giuridica.
Ritenuta sin dalla giurisprudenza più datata un patrimonio separato[9], l’eredità giacente ha rappresentato per i giuristi una questione dibattuta, stante la difficoltà di conciliare la sopravvivenza dei rapporti giuridici ad essa riferibili, con l’assenza di un successore mortis causa.; si è parlato infatti di “patrimonio senza titolare”[10]. In ragione di ciò, il curatore dell’eredità giacente, che ha il compito di liquidare i beni e soddisfare i creditori del de cuius, è stato, qualificato dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite[11], come un ausiliario del giudice, esprimendo un principio di diritto confermato dalla Corte Costituzionale[12].
Tale fattispecie, quindi, in nessun modo potrà analogicamente richiamarsi rispetto al trust perché, all’esistenza di un elemento che le accumuna, la carenza di soggettività giuridica, ne sussiste uno a monte che le differenzia sostanzialmente: i beni in trust hanno un proprietario che gode di tutte le posizioni soggettive previste dalla legge; l’eredità giacente non ce l’ha e potrebbe non averlo mai. Per queste ragioni, la procedura di liquidazione dei beni oggetto dell’eredità giacente, rimessa ex lege al curatore in veste di ausiliario del giudice, si fonda su presupposti giuridici del tutto diversi rispetto al trust, oltre ad essere prevista da norme speciali del codice civile, gli artt. 428 e ss, che non esistono per i trust.
Sussistono invece nell’ordinamento particolari forme di autonomia o separazione patrimoniale, fra due masse appartenenti alla medesima persona, che hanno fonte da una norma di legge, non potendo tali situazioni avere fonte in un negozio privatistico a pena di nullità per violazione del comma 2 dell’art. 2740 cc.
Partendo dalle norme in materia di successione, l’art. 490 c.c., che disciplina gli effetti derivanti dall’ accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, fa in concreto venire ad esistenza due masse distinte di beni, di proprietà della medesima persona: l’una di Caio a titolo di erede, perché presupposto della norma è che abbia previamente accettato l’eredità, pur essendosi avvalso del beneficio di inventario, e l’altra sempre di Caio, a titolo personale, in quanto composta da beni di sua proprietà ante apertura della successione.
Autorevole dottrina ha rappresentato la difficoltà dei giuristi a “spiegare come potessero sussistere due patrimoni separati facenti capo allo stesso soggetto”, stante la concezione di patrimonio unitario, e quindi unitaria garanzia patrimoniale per i creditori, concetti dei quali il nostro ordinamento è pervaso. L’autore conclude affermando che la giustificazione della limitazione di responsabilità, derivante dalla sussistenza dei due patrimoni separati possa: “raggiungersi solo ammettendo che sussistano ‘patrimoni separati’ e quindi una separazione del patrimonio del defunto da quello dell’erede. L’erede diviene titolare di due masse patrimoniali distinte: quella dei beni personali riservata alla sola soddisfazione dei creditori personali e quella dei beni ereditari aggredibile da ogni creditore anche se, nel concorso fra i creditori personali e quelli ereditari, quest’ultimi hanno preferenza (art. 490, comma 2, n. 3 cc) ... in ragione di tale diversa disciplina in tema di responsabilità, le due masse di beni sono tenute per legge separate. La separazione dei patrimoni, dunque, è il mezzo con il quale si realizza la limitazione di responsabilità dell’erede beneficiato, prevista dall’art. 490 cc e ammessa, più in generale, dall’art. 2740, comma 2 cc” [13].
Pensando poi al contesto societario, l’art. 2304 c.c., in tema di società in nome collettivo, posterga il diritto dei creditori della società a soddisfarsi sul patrimonio personale del socio, alla preventiva escussione del patrimonio sociale mentre, l’art. 2305 c.c., non consente al creditore personale del socio di chiedere la liquidazione della quota sociale di proprietà del debitore, fintanto che la società “dura”.
Negli esempi dell’eredità beneficiata e della società in nome collettivo, rimane ferma la responsabilità per i debiti in capo rispettivamente al de cuius o al socio, cambiando solo l’ambito di escussione per i creditori mentre, nel caso dell’eredità giacente, dove si è in presenza di un “patrimonio senza titolare”, una norma ad hoc ne disciplina gli effetti rispetto ai creditori del de cuius.
È altresì interessante rammentare come esista nel nostro ordinamento un’altra norma speciale, quella riferibile ai patrimoni destinati ad uno specifico affare, artt. 2447 bis e ss c.c., che, come evidenziato dalla dottrina, sono “un segmento ulteriore della traiettoria che va nella direzione della ‘specializzazione della responsabilità patrimoniale’, invertendo il senso della regola che chiama a rispondere il debitore con tutti i suoi beni”[14].
Il Codice della crisi, agli artt. 262 e ss CCII, indica le modalità liquidatorie dei beni ricompresi nel patrimonio destinato e sebbene sia una fattispecie che non potrà mai interessare il sovraindebitamento, il percorso tracciato dal legislatore si fonda su presupposti di diritto che sussistono anche nel trust.
Sia i patrimoni destinati ad uno specifico affare, sia i trust: i) sono patrimoni segregati di proprietà della medesima persona, la società nel caso del patrimonio destinato, il trustee, per i beni in trust; ii) tale segregazione, che deroga all’art. 2740, comma 1 c.c., è legittimata dalla legge (artt. 2447 bis e ss c.c. e l. n. 364/1989; iii) sono privi di soggettività giuridica; iii) possono avere creditori aventi titolo da obbligazioni contratte rispettivamente dalla società o dal trustee; iv) la garanzia per i creditori del patrimonio è rappresentata dai beni che lo compongono mentre la garanzia per i creditori del trust è costituita dai beni in trust.
A queste caratteristiche comune se ne aggiunge un’ulteriore.
Qualora l’organo amministrativo della società, alla quale appartiene il patrimonio destinato, abbia commesso illeciti, l’art. 2447 quinquies fa discendere la responsabilità illimitata per le obbligazioni assunte, con l’effetto di permettere ai creditori generali, ossia della società, di escutere anche il patrimonio destinato[15]. Del pari accade per il trust atteso che laddove il trustee risulti aver commesso breach of trust, fra le quali, ad esempio, aver confuso il patrimonio in trust con il suo personale, i creditori potranno soddisfarsi anche sul suo patrimonio personale e non solo su quello in trust.
Una questione differenzia invece le due fattispecie.
Nel caso dei patrimoni destinati, la titolarità del patrimonio sociale e del separato patrimonio destinato fa capo al medesimo soggetto: la società. Da ciò, stante la carenza di soggettività giuridica del patrimonio, l’impossibilità per il patrimonio destinato di essere autonomamente sottoposto a procedura concorsuale[16].
Per contro in materia di trust, la questione è del tutto diversa atteso che il proprietario del fondo in trust, sig Caio, lo è in quanto trustee del trust Alfa: titolo giuridico del tutto diverso rispetto a quello che gli spetta con riferimento ai suoi beni personali.
La circostanza è dirimente e la fattispecie del trust autodichiarato lo dimostra con chiarezza.
Nel trust autodichiarato, trustee e disponente sono la medesima persona. Ciò avviene quando un disponente, che chiameremo Caio, decida di destinare parte dei suoi beni alla finalità esplicitata nel trust Alfa, che istituisce e del quale si dichiara trustee. Dal lato pratico i beni che Caio destina al trust Alfa mutano il titolo giuridico: l’immobile viene trascritto nei Pubblici registri immobiliare a favore di Caio, nella sua qualità di trustee del trust Alfa, così per le partecipazioni iscritte nei Pubblici registri, per i rapporti bancari e persino per i beni mobili non soggetti a pubblicità, dovendo comunque Caio dichiararsene trustee in un atto scritto avente data certa.
Nelle società con patrimoni di destinazione questo non avviene, rimanendo i beni che lo compongono di proprietà della società seppur destinati in un fondo autonomo.
Da tale premessa deriva proprio l’impossibilità per la società di sottoporre ad autonoma liquidazione giudiziale il coacervo di beni che ha fatto confluire nel patrimonio destinato, mentre tale presupposto viene del tutto meno con riferimento a Caio che, soggetto di diritto, possiede una massa a titolo di trustee ed altra massa a titolo personale.
In conclusione, le fattispecie civilistiche qui esaminate: eredità giacente, eredità beneficiata, società in nome collettivo e patrimoni destinati ad uno specifico affare hanno legittimazione nella legge, rispetto alla quale tertuim non datur, con l’effetto di destituire ulteriormente qualsiasi argomentazione volta a dare alla segregazione prodotta sul patrimonio del trustee, effetti diversi da quelli previsti dal combinato disposto di cui all’art. 11 della Convenzione, alla legge n. 364/1989 e all’art. 2740 c.c.
Una riflessione del tutto diversa merita infine menzione.
Si pensi nuovamente al caso dell’amministratore condominiale creditore che, non avendo trovato altri beni di proprietà del condomino debitore, desista dall’avvio dell’azione esecutiva a carico dell’immobile perché implicante costi e tempi che gli altri condomini non intendono affrontare.
Oggi, grazie al Codice della crisi, questo creditore trova un soddisfacimento, seppur parziale, nella procedura di sovraindebitamento, essendo a sua disposizione una soluzione alternativa, a tutela dei suoi diritti, rispetto all’avvio dell’esecuzione forzata. Si pensi ora alla medesima situazione nella quale, la sola differenza è data dal fatto che l’immobile è in trust e quindi il debitore del condominio è il trustee.
Ragionando in termini costituzionalmente orientati, non vi è chi non veda profili di illegittimità che si presenterebbero qualora si negasse tout court al trustee l’accesso alla procedura di sovraindebitamento, configurandosi un’evidente disparità di trattamento fra il creditore civilistico che ha soddisfacimento dall’ammissione del debitore al sovraindebitamento e il creditore del trustee che, solo perché il suo debitore appartiene a questa categoria, non trova nell’ordinamento la medesima tutela.