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Il trattamento fiscale delle sopravvenienze da esdebitazione nel piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO)

Giulio Andreani e Angelo Tubelli, Dottori commercialisti e consulenti fiscali in Milano

20 Maggio 2024

Lo scritto si sofferma sul regime fiscale delle sopravvenienze da esdebitazione conseguite nell'ambito del PRO; tema per il momento controverso sul piano operativo, su cui non constano precedenti approfondimenti editi.
Riproduzione riservata
1 . Premessa
Ogniqualvolta il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione di cui all’art. 64 bis del Codice della crisi (“PRO”) preveda il soddisfacimento parziale dei debiti dell’impresa commerciale che lo propone, la sua omologazione genera una riduzione di debiti fiscalmente rilevante secondo la regola generale prevista dall’art. 88, comma 1, del TUIR. Tale norma stabilisce infatti la tassazione ordinaria della “sopravvenuta insussistenza di spese, perdite e oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi”. Tuttavia, poiché il successivo comma 4 ter del medesimo art. 88, derogando a detta regola generale, prevede la detassazione delle sopravvenienze conseguite - per usare un’espressione sintetica - “dalle imprese in crisi”, si rende necessario domandarsi se, allo stato, tale disposizione sia applicabile anche alle riduzioni di debiti generate dalla omologazione del “PRO”, considerato che il citato comma 4 ter non menziona le sopravvenienze attive da esdebitazione realizzate nell’ambito di tale strumento di regolazione della crisi, limitandosi a disporre che ai fini delle imposte sui redditi non si considerano sopravvenienze attive (e dunque sono escluse da imposizione) le riduzioni dei debiti dell’impresa discendenti da: 
1) concordato giudiziale o concordato preventivo liquidatorio (per l’intero importo delle sopravvenienze); 
2) concordato preventivo con continuità aziendale, accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 57 del Codice della crisi (“Codice”), piano di risanamento attestato ai sensi dell’art. 56 del Codice, purché pubblicato nel registro delle imprese, (limitatamente all’ammontare delle sopravvenienze che eccede quello delle perdite, pregresse e di periodo, della deduzione “ACE” e delle eccedenze degli interessi passivi e degli oneri finanziari assimilati). 
Occorre nella sostanza stabilire, quindi, se l’ambito di applicazione dell’art. 88, comma 4 ter, del TUIR possa essere esteso alla riduzione dei debiti derivante dall’omologazione del piano di ristrutturazione ex art. 64 bis del Codice, sebbene questo istituto non sia menzionato da tale norma. La necessità di un chiarimento deriva anche dal fatto che, in alcuni recenti casi, l’Agenzia delle Entrate si è opposta alla omologazione di piani di ristrutturazione di cui al citato art. 64 bis, censurandone la fattibilità poiché non prevedevano la tassazione delle suddette riduzioni dei debiti e non tenevano conseguentemente conto del relativo onere, mostrando pertanto nei fatti, seppur in assenza di una pronuncia sul tema, contrarietà a detta estensione.
2 . La detassazione delle sopravvenienze attive da esdebitazione: origine ed evoluzione
Il comma 1 dell’art. 88 del TUIR qualifica come sopravvenienze attive fiscalmente rilevanti la sopravvenuta insussistenza di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi e, allo scopo di evitare che la tassazione di tali insussistenze di passivo ostacolasse i risanamenti aziendali, prima con l’art. 55 e poi - dall’anno 2004 - con l’art. 88, comma 4, del TUIR da tale nozione è stata espressamente esclusa la falcidia dei debiti di cui l’impresa debitrice beneficia in virtù dell’esdebitazione discendente dall’omologazione del concordato preventivo (cosiddetto “bonus concordatario”).  
Invero, l’irrilevanza di tale componente reddituale era stata inizialmente prevista solo con riguardo alla riduzione dei debiti occorsa in sede di concordato fallimentare o preventivo con cessione dei beni, avendo il legislatore condiviso la tesi (sostenuta da una parte della dottrina) secondo cui la riduzione dei debiti in sede di concordato con cessio­ne dei beni, pur integrando una insussistenza del passivo, non avrebbe potuto costi­tuire - per sua natura - un indice di capacità contributiva (ovverosia una manifestazione di reddito assoggettabile a imposizione), in quanto l’imprenditore, per effetto di tale tipo di concordato, perde il possesso di tutti i suoi beni (senza quindi proseguire l’attività economica) e la procedura si chiude - salvo rarissime ec­cezioni - senza alcun arricchimento patrimoniale da parte del debitore. Tuttavia, come si legge nella relazione di accompagnamento allo schema di Testo Unico delle Imposte sui Redditi, “allo scopo di non rendere più difficoltoso il concordato stesso” e, quindi, con dichia­rata finalità agevolativa, fu deciso di estendere la detassazione anche alla riduzione dei debiti che si origina nel concordato preventivo senza cessione dei beni, ovvero anche nelle forme di concordato in cui non si verifica uno spos­sessamento in capo all’impresa debitrice. 
Per il medesimo motivo la suddetta previsione agevolativa fu poi espressamente estesa dall’art. 33 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 alle riduzioni dei debiti derivanti da accordi di ristrutturazione soggetti a omologazione e ai piani attestati di risanamento pubblicati nel registro delle imprese, ancorché limitatamente alla quota della sopravvenienza attiva eccedente l’ammontare complessivo di alcune posizioni soggettive, all’evidente fine di non consentirne il riporto in avanti da parte delle imprese destinate a proseguire l’attività una volta uscite dalla crisi ed evitare così il conseguimento di un beneficio ulteriore rispetto alla detassazione delle sopravvenienze attiva da esdebitazione. 
Con il D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla norma al fine di conferirle maggiore sistematicità, espungendo la disciplina in com­mento dal comma 4 (che ora concerne solo i versamenti in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto capitale) e inserendola nell’apposito comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR Con la modifica recata all’art. 88 il legislatore tributario ha preso atto delle due diverse ratio che prima convivevano in un’unica disposizione (contenuta nel comma 4 previgente), sicché - come riferito in premessa - nel citato comma 4 ter si distingue ora tra (i) riduzioni dei debiti originate da procedure concorsuali con finalità liquidatorie (da cui deriva l’estinzione dell’impresa), disciplinate dal primo periodo, e (ii) riduzioni dei debiti derivanti da procedure di risanamento (ovverosia da procedure finalizzate alla prosecuzione dell’attività aziendale), distintamente regolate dal secondo, terzo e quarto periodo. Le riduzioni dei debiti dell’impresa in sede di concordato fallimentare e di concorda­to preventivo “non di risanamento” (la cui principale tipologia è certamente costitu­ita da quello liquidatorio) sono rimaste integralmente e incondizionatamente escluse da imposizione. Alle riduzioni dei debiti derivanti da “concordati di risanamento”, invece, è stata estesa la limitazione inizialmente prevista solo per gli accordi di ristrutturazione dei debiti e per i piani attestati di risanamento. 
Dopo quelle apportate dal D.Lgs. n. 147/2015, il comma 4 ter dell’art. 88 del T.I.U.R. non ha subito ulteriori modifiche con riguardo all’ambito oggettivo di applicazione, restando la detassazione sancita dal secondo periodo di tale comma espressamente limitata ai concordati di risanamento, agli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati ai sensi dell’art. 57 del Codice e ai piani attestati di cui all’art. 56 del Codice. Nessun riferimento è invece presente ai piani di ristrutturazione soggetti a omologazione disciplinati dall’art. 64 bis del Codice, collocato dal D. Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, tra le disposizioni disciplinanti gli accordi di ristrutturazione soggetti a omologazione e quelle riguardanti il concordato. La mancanza di un espresso riferimento al riguardo è peraltro dovuta, non alla volontà di far concorrere alla formazione del reddito d’impresa le riduzioni dei debiti da “PRO”, ma al fatto che il legislatore tributario non ha ancora trovato il modo di adeguare il testo del comma 4 ter alle molteplici novità introdotte con l’entrata in vigore del Codice, alcune delle quali (tra cui la disciplina del “PRO”) ivi inserite solo in un secondo momento a seguito dell’emanazione del D.Lgs. n. 83/2022. Lo dimostra il fatto che l’integrazione del testo del citato comma 4 ter è stata già contemplata dal legislatore tributario e dovrebbe intervenire a seguito dell’esercizio della delega conferita dall’art. 9 della L. 9 agosto 2023, n. 111, che prevede di inserire nel comma 4 ter dell’art. 88 l’espresso riferimento a tutti gli istituti di composizione della crisi disciplinati dal Codice (e quindi non solo al “PRO”). Non sarebbe pertanto corretto far discendere da tale previsione della citata legge delega una natura innovativa della norma che disporrà espressamente la detassazione delle sopravvenienze da esdebitazione conseguite nell’ambito del “PRO”, avendo essa solo il compito di far emergere con chiarezza una regola già presente nel sistema, in considerazione della comune ratio che la lega a quella concernente la detassazione delle riduzioni di debiti conseguite nel contesto di strumenti di regolazione della crisi strettamente contigui al “PRO”, in quanto aventi sotto il profilo dell’esdebitazione comuni caratteristiche, come l’ADR e il concordato preventivo. 
3 . I principi affermati dalla Corte di Cassazione con riguardo all’interpretazione estensiva delle norme fiscali agevolative
La natura della disposizione contenuta nell’art. 88, comma 4 ter, secondo periodo, del TUIR, deriva dal dichiarato scopo di favorire la soluzione della crisi d’impresa e tal fine esclude dalla nozione fiscale di sopravvenienze attive (e quindi dal concorso alla formazione del reddito imponibile) quelle conseguenti alle riduzioni dei debiti intervenute per effetto di uno degli istituti contemplati dalla stessa norma. Ciò posto, ai fini della possibilità di estenderne l’applicazione al “PRO” occorre considerare quanto segue:
· l’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale (“preleggi”) stabilisce che le norme “che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”, sicché esse sono insuscettibili d’interpretazione che trascenda il significato letterale del dato normativo; 
· secondo il consolidato e unanime orientamento della Corte di cassazione, alla categoria delle leggi “che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi” appartengono tutte le norme tributarie che, in deroga all’ordinario regime di imposizione, riconoscono benefici o agevolazioni fiscali. 
Di conseguenza, le norme aventi natura di agevolazione fiscale sono norme di “stretta interpretazione”, nel senso che non sono in alcun modo applicabili a casi e situazioni non riconducibili al relativo significato letterale, dovendosi quindi escludere la possibilità di ricomprendere nell’ambito applicativo di una norma di agevolazione fiscale la figura soggettiva oppure oggettiva diversa da quella specificamente contemplata dal testuale dato normativo. 
In particolare con l’ordinanza 3 giugno 2015, n. 11373, emessa dalle Sezioni Unite per comporre il contrasto sorto tra le diverse sezioni in merito alla possibilità di estendere l’agevolazione fiscale prevista dall’art. 15, comma 1, del D.P.R. n. 601/1973 ai prestiti erogati da intermediari finanziari abilitati diversi dalle banche ivi espressamente menzionati, i giudici di legittimità hanno ritenuto di confermare il principio generale del diritto tributario, secondo cui le norme che riconoscono agevolazioni e benefici fiscali in deroga al regime ordinario, essendo eccezionali e come tali di stretta interpretazione, sono insuscettibili di applicazione analogica. Come testualmente precisato con detta pronuncia, tale principio è generalmente fondato sull’esigenza dogmatica per cui “le disposizioni agevolative costituiscono altrettante deroghe al sistema definito dalle norme tributarie impositrici ed al criterio di correlazione da esso attuato - nella prospettiva di cui all’art. 53 Cost. (che ‘è il presupposto ed il limite del potere impositivo dello Stato e, al tempo stesso, del dovere del contribuente di concorrere alle spese pubbliche’: v. C. cost. 10/2015) - tra imposizione fiscale e capacità contributiva)”. Inoltre, “il principio trova, ancor prima, fondamento nella circostanza che - a salvaguardia dell’equilibrio tra gli interessi che preminentemente si contrappongono nel rapporto tributario (…) l’ambito dell’imposizione è tracciato dal legislatore (in positivo, così come, conseguentemente, in negativo), con compiuta indicazione di oggetti e soggetti tassabili. Cosicchè, non diversamente dalle norme impositive, in relazione alle quali è pacificamente escluso che la tassazione possa investire oggetti o soggetti non espressamente indicati dal dato normativo, anche le norme agevolative, per ineludibile simmetria, declinano un catalogo completo, insuscettibile di integrazione che trascenda i confini semantici del dato suddetto”.  Pertanto, costituisce caposaldo dell’ordinamento tributario il principio secondo cui le norme che riconoscono agevolazioni o benefici fiscali, in deroga all’ordinario regime d’imposizione, “sono norme ad interpretazione rigida ed anelastica, in quanto rigorosamente legata al dato letterale (…). Ne discende che, in relazione a dette norme, non può ritenersi ammessa operazione ermeneutica (quale quella attuata da Cass. 5845/11) che, quantunque in ottica di dichiarata interpretazione storicoadeguatrice costituzionalmente orientata, si spinga oltre il limite del significato scaturente dalla lettera della legge (…). Nei confronti di norma eccezionale e, comunque, di ‘stretta interpretazione’, anche l’interpretazione logico-evolutiva e quella costituzionalmente orientata sono, infatti, precluse, ove, operando in ottica non difforme da quella propria dell’applicazione analogica, inducano ad estendere la sfera di operatività della norma interpretata, in vista di pretesa ratio di norma sovraordinata, ad ipotesi non sussumibile nel relativo specifico significato testuale”. 
L’analisi dei giudici di legittimità non si è però arrestata a questo aspetto, venendo altresì rilevato che, quando l’interpretazione restrittiva deve considerarsi obbligata in funzione del dato normativo ordinario e delle regole ermeneutiche, tale interpretazione restrittiva resta tuttavia da valutare sul piano della tenuta costituzionale e, in particolare, sull’aderenza della stessa ai precetti di cui agli artt. 3 e 41 Cost., perché la misura fiscale agevolativa potrebbe ritenersi ugualmente applicabile alla fattispecie testualmente non contemplata “in esito a declaratoria d’incostituzionalità della norma nei termini indicati”. 
Tant’è che, con riguardo al caso testé menzionato, all’esito del giudizio rimesso dalle stesse Sezioni Riunite alla Corte costituzionale, il giudice delle leggi con la sentenza 20 novembre 2017, n. 242,  ha alfine esteso l’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 15, comma 1, del D.P.R. n. 601/1973 agli intermediari finanziari abilitati diversi dalle banche, dichiarando l’illegittimità costituzionale di tale norma “nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’agevolazione fiscale ivi prevista alle analoghe operazioni effettuate dagli intermediari finanziari”. La Corte costituzionale ha infatti rilevato che le agevolazioni fiscali, “aventi carattere eccezionale e derogatorio, costituiscono esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile solo per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità (sentenza n. 292 del 1987; ordinanza n. 174 del 2001); con la conseguenza che la Corte stessa non può estenderne l'ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio dei benefici medesimi" (sentenza n. 177 del 2017). Nella fattispecie in esame, tuttavia, le situazioni messe a confronto dal rimettente appaiono effettivamente rispondere a una medesima ratio. Questa va rinvenuta nel favore che il legislatore accorda agli investimenti produttivi, in ragione del fatto che essi possono creare nuova ricchezza (…). Viene dunque in rilievo l’elemento oggettivo comune ad entrambe le situazioni messe a confronto, rappresentato dai finanziamenti a medio e lungo termine. Ciò comporta l’irrilevanza della diversa natura dei soggetti che pongono in essere tali attività poiché, siano essi le banche o gli intermediari finanziari - a ciò abilitati dall’art. 106, comma 1, del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, recante ‘Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia’ (TUB) -, non v’è ragione per cui gli investimenti produttivi siano discriminati in relazione al soggetto finanziante”.
4 . L’illegittimità costituzionale (in generale) della omessa menzione delle riduzioni dei debiti derivanti dal “PRO” nell’art. 88, comma 4 ter, del TUIR
Alla luce di quanto rappresentato nei precedenti paragrafi, occorre innanzitutto chiedersi se il “PRO” disciplinato dall’art. 64 bis del Codice, anche in ragione della sua collocazione, possa configurarsi come una fattispecie speciale degli accordi di ristrutturazione soggetti a omologazione o del concordato preventivo con continuità aziendale, in un rapporto da genus a species. Se così fosse, infatti, non vi sarebbe necessità di ricorrere a un’interpretazione estensiva del comma 4 ter dell’art. 88 (vietata dall’ordinamento tributario, data la finalità agevolativa della norma), perché le sopravvenienze attive derivanti da tale istituto risulterebbero automaticamente comprese tra quelle ivi contemplate. 
In proposito occorre evidenziare che, come si legge nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 83/2022, il “PRO” risponde all’esigenza di dare attuazione all’art. 11, par. 1, della Direttiva Insolvency mediante la previsione di una tipologia di piano il cui contenuto possa essere predeterminato liberamente dal debitore derogando ai principi generali dettati in materia di responsabilità del debitore (art. 2740 c.c.), par condicio creditorum e ordine delle cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.) purché intervenga mediante il giudizio di omologazione il controllo del tribunale sul (corretto) classamento dei creditori, sulla formazione unanime del consenso delle classi dei creditori e sulle regole di distribuzione adottate nel caso concreto. Si tratta testualmente di uno strumento “che riduce al minimo la fase dell’ammissibilità, fornisce al debitore una maggiore libertà di azione – tranne che per i lavoratori, che non sono mai considerate parti interessate e non votano - ma per poter essere omologata richiede l’approvazione di tutte le classi”. 
Il “PRO”, dunque, si inserisce tra gli strumenti c.d. preventivi dell’insolvenza ovvero tra gli strumenti che anticipano, per evitarla quanto più possibile, la liquidazione giudiziale, ma che, a causa di continui rinvii agli altri istituti e in particolare al concordato preventivo, presenta una natura ibrida, anche alla luce della sua collocazione in una via mediana tra accordo di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa e concordato preventivo in continuità aziendale[1]. Senonché nel “PRO” è assente l’aspetto negoziale tipico degli accordi di ristrutturazione dei debiti, per i quali le possibilità di estensione degli effetti dell’accordo ai non aderenti è retta da condizioni inderogabili, visto il principio per cui i creditori dissenzienti devono essere soddisfatti integralmente. Sebbene sussistano differenze fra i due istituti, poiché nel concordato vige il principio maggioritario che determina la vincolatività del piano omologato per tutti i creditori, forse sul piano procedurale il “PRO” presenta caratteristiche similari al concordato preventivo, essendo anche per tale istituto prevista la nomina del commissario giudiziale (e del pre-commissario in caso di procedura con riserva) e del giudice delegato, oltre a un regime di autorizzazioni alla contrazione di finanziamenti prededucibili, alla previsione del voto dei creditori e alla esdebitazione che si estende verso tutti i creditori (inclusi quelli dissenzienti). Tuttavia, il “PRO” si distanzia in maniera esiziale dal concordato preventivo per l’assenza di una regola distributiva e dunque perché non si tratta di una procedura concorsuale in senso stretto[2], sicché gli artt. 64 ter e 64 quater del Codice prevedono la possibilità di convertirlo in concordato preventivo e viceversa. In questa prospettiva il legislatore ha sentito la necessità di dare un nome specifico alla disciplina, parlando di “piano di ristrutturazione soggetto a omologazione” e non di “concordato preventivo”, proprio perché nel concordato in continuità aziendale la regola del rispetto delle cause di prelazione è stata mantenuta nei termini di cui all’art. 84, comma 6, e dunque per “evitare che un piano privo di vincoli di distribuzione rappresentasse la base di un concordato (…). Al tempo stesso si è doverosamente escluso che si trattasse di un accordo di ristrutturazione, dato che, diversamente da questo, il piano in questione non è basato sulla volontà negoziale vera e propria, ma su una volontà comunque raggiunta in base a regole di maggioranza. Per queste ragioni il piano di ristrutturazione è stato tenuto separato dal concordato e dagli accordi, dando però, nella logica della fluidità tra strumenti impressa dalla Direttiva, la possibilità di conversione dal piano al concordato contemplata dall’art. 64 ter CCII anche nel caso inverso, quando il debitore che ha presentato la domanda di concordato preventivo, finché non siano iniziate le operazioni di voto, chieda l’omologazione del piano di ristrutturazione”[3]. Pertanto, nonostante la sua natura ibrida, in realtà il “PRO” non può che configurarsi come istituto autonomo le cui regole richiamano di volta in volta altri istituti previsti dal Codice, con il ricorso al quale il debitore non subisce alcuno spossessamento e mantiene su di sé la gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa. 
Stando così le cose, e non essendo altresì ammessa un’interpretazione estensiva della disposizione contenuta nel comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR se e in quanto considerata come  norma fiscalmente agevolativa (per le ragioni rappresentate nel paragrafo che precede),  occorre però evidenziare che il “PRO” condivide con gli altri istituti ivi contemplati la medesima funzione, ovverosia consentire la soluzione della crisi per evitare la liquidazione giudiziale, come dimostra inequivocabilmente la sua collocazione nonché il frequente richiamo (in particolare) alle disposizioni in tema di concordato preventivo. 
In considerazione della funzione e della ratio dell’istituto, quale emerge anche dalla relazione illustrativa a commento dell’art. 16 D.Lgs. n. 83/2022, non v’è ragione per escludere dall’agevolazione de qua le riduzioni dei debiti derivanti dal “PRO”, non sussistendo alcuna differenza rispetto a quelle derivanti dalla conclusione degli accordi di ristrutturazione dei debiti da omologare o dagli accordi che sono alla base dei piani attestati di risanamento ovvero ancora rispetto a quelle discendenti dal provvedimento giudiziario che omologa la domanda di concordato preventivo: in tutti queste ipotesi, infatti, la riduzione dei debiti è la misura necessaria per consentire all’impresa debitrice di uscire dalle crisi in cui si trova. La suddetta esclusione si rivelerebbe perciò illegittima sotto il profilo costituzionale, visto che, secondo le prescrizioni della Corte costituzionale, il “PRO” e gli istituti attualmente menzionati dal comma 4 terappaiono effettivamente rispondere a una medesima ratio” e presentano “l’elemento oggettivo comune” costituito dalla risoluzione della crisi, sebbene disciplinati da regole parzialmente diverse. Inoltre essa si potrebbe rivelare foriera di effetti distorsivi della libera concorrenza, con conseguente violazione dell’art. 41 Cost., attribuendo un regime fiscale più favorevole alle imprese che hanno fatto ricorso agli istituti al momento espressamente elencati dall’art. 88, comma 4 ter, del TUIR (tra i quali rientrano - per effetto dell’art. 25 bis, comma 5, del Codice) anche il contratto e l’accordo di cui all’art. 23, comma 1, lett. a) e c),  conclusi all’esito della procedura della composizione negoziata della crisi e pubblicati nel registro delle imprese). 
L’esclusione della detassazione delle riduzioni dei debiti derivanti dal “PRO”, dunque, integrerebbe una irragionevole e ingiustificata discriminazione rispetto al regime fiscale accordato a quelle derivanti dagli altri istituti contemplati dal comma 4 ter, che il giudice delle leggi sarebbe sicuramente chiamato a rimuovere dichiarandone l’illegittimità qualora - come risulta - gli uffici territoriali dell’Agenzia dovessero ritenere non applicabile tale norma al “PRO”. 
A quest’ultimo proposito, a quanto consta, il rifiuto dell’Agenzia di comprendere le sopravvenienze attive da “PRO” nel comma 4 ter risiede, paradossalmente, proprio nella previsione contenuta nell’art. 9 della dapprima citata L. n. 111/2023, con cui il Governo è stato delegato dal Parlamento a coordinare il testo del suddetto comma con gli istituti del Codice, visto che a modificare detto comma non si era direttamente provveduto in occasione della sua entrata in vigore; ciò perché gli uffici dell’Agenzia stanno erroneamente interpretando la prevista modifica del comma 4 ter come espressione della volontà legislativa di estendere il regime agevolativo a favore di istituti cui altrimenti non spetterebbe. 
Invece la delega in commento risponde allo scopo esattamente opposto, ovverosia quello di aggiornare il testo del comma 4 ter inserendovi il riferimento ai nuovi strumenti di regolazione della crisi d’impresa nel frattempo introdotti dal legislatore, i quali non erano ancora disciplinati al momento dell’emanazione del D.Lgs. n. 147/2015 e perciò non potevano esservi menzionati. Si tratta dunque di un adeguamento automatico, che segue in maniera naturale l’evoluzione della normativa degli strumenti di composizione della crisi d’impresa e la cui effettuazione è stata disposta dalla L. n. 111/2023 proprio per scongiurare la declaratoria di incostituzionalità dapprima evidenziata, non essendo oggettivamente rinvenibile alcuna ragionevole giustificazione per discriminare il trattamento fiscale delle riduzioni dei debiti derivanti dal nuovo istituto di composizione della crisi denominati “PRO” rispetto a quello riservato alle riduzioni dei debiti derivanti dall’omologazione della domanda concordataria o degli accordi di ristrutturazione ovvero in caso di pubblicazione nel registro delle imprese dei piani attestati o degli accordi conclusi all’esito della composizione negoziata.     
Il previsto ampliamento del novero degli istituti cui si applica la detassazione di cui al comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR prescritta dall’art. 9 della L. n. 111/2023, infatti, ha evidente natura meramente ricognitiva di un principio immanente che concerne tutti gli strumenti di regolazione della crisi disciplinati dal Codice, sia di quelli preesistenti al Codice della crisi sia quelli introdotti da tale provvedimento legislativo, ovverosia ridurre l’onere fiscale naturaliter connesso all’esdebitazione per favorire la risoluzione della crisi, salvaguardare la prosecuzione dell’attività d’impresa ed evitare l’alternativa della liquidazione giudiziale. 
5 . L’applicazione (in particolare) dell’art. 88, comma 4 ter, primo periodo, del TUIR alle sopravvenienze attive da esdebitazione derivanti dal “PRO” liquidatorio
Le considerazioni esposte nel precedente paragrafo sono riferite alle riduzioni dei debiti derivanti in generale dalla omologazione del “PRO” con riguardo all’impresa debitrice che prosegua la propria attività. Tuttavia, con riguardo alla particolare ipotesi in cui tale istituto presenti una finalità prettamente liquidatoria, il trattamento fiscale da applicare deve invece essere individuato alla luce della ratio specifica che giustifica l’esclusione sancita dal primo periodo del citato comma 4 ter,  relativamente ai concordati “liquidatori”, la quale differisce dalla diversa ratio che (come già rappresentato nel paragrafo 2) sorregge l’esclusione disposta dal secondo periodo del medesimo comma con riguardo alla riduzione dei debiti dell’impresa in crisi destinata a proseguire la propria attività dopo il risanamento. 
Occorre in proposito rammentare che l’irrilevanza reddituale della sopravvenienza attiva usualmente denomina­ta “bonus da concordato” venne sancita expressis verbis, con l’emanazione del TUIR, allo scopo di fornire una soluzione normativa a una controversa querelle sorta in dottrina[4] e in giurisprudenza, che vedeva contrapposti due diversi orientamenti: 
a) un primo orientamento (seguito allora dall’Amministrazione finanziaria) secondo cui la sopravvenuta insussistenza di una parte delle passività iscritte nel bilancio dell’impresa era inquadrabile nella nozione delle “sopravvenienze attive proprie”, anche se realizzata nell’ambito del concordato preventivo con cessione dei beni; 
b) un secondo orientamento che invece escludeva l’imponibilità della falcidia dei debiti dell’impresa intervenuta nell’ambito di una procedura concorsuale destinata a concludersi con la mera cessazione dell’attività d'impresa, vista l’assenza dello stesso presupposto impositivo sancito dall’art. 1 del TUIR, che non può derivare di per sé dalla riduzione dei debiti ma deve necessariamente discendere da un effettivo arricchimento patrimoniale del debitore 
Come si legge dalla relazione che accompagnò l’approvazione del TUIR (sub art. 55), il legislatore tributario (correttamente, ad avviso di chi scrive) condivise questo secondo orientamento, venendo l’irrilevanza reddituale della riduzione dei debiti in sede di concordato fallimentare o di concordato preventivo con cessione dei beni giustificata con le seguenti testuali parole: “il concetto di sopravvenienza, infatti, presuppone la continuazione dell'impresa e la determinazione del reddito in base al bilancio, che nelle ipotesi in esame non si verificano”. In altri termini, la riduzione dei debiti in sede di una procedura liquidatoria non può essere indice di capacità contributiva, perché per sua natura, in quanto diretta al realizzo dei beni aziendali per attribuirne il ricavato unicamente ai creditori, non costituisce una manifestazione di reddito per la società che ne è proprietaria. Per dirla allo stesso modo della dottrina alla cui tesi ha aderito il legislatore tributario con il TUIR, il verificarsi di una insussistenza di passivo “di per sé non costituisce incremento di ricchezza del debitore. Lo costituisce solo se si considera la insussistenza passiva in relazione alle attività del debitore, ossia i suoi beni, che per la parte corrispondente al venir meno del passivo non sono più sottoposti all’obbligo di soddisfarlo (art. 2740 c.c.). Questo è il motivo per il quale la cifra corrispondente alla riduzione del passivo concorre a formare il reddito, ossia concorre a formare l’incremento di ricchezza che lo caratterizza. Non avrebbe senso, infatti, considerare reddito il venir meno di un debito se non collegandolo al patrimonio del debitore (…). Questo fatto (quello di avere debiti) singolarmente considerato non è indice di capacità contributiva, perché non vi è attitudine economica a pagare il tributo, neppure se a seguito della decurtazione del passivo da cento a quaranta si ha un avvicinamento alla situazione economica di assenza di passività a partire dalla quale si è, invece, titolari di mezzi economici (…). Solo le attività rivelano l'attitudine economica (capacità contributiva) tale da poter dar luogo alla assoggettabilità ai tributi sul reddito”[5]. 
A ben vedere, quindi, solo alla detassazione prevista dal secondo periodo del comma 4 ter dell’art. 88, con riferimento agli istituti non aventi finalità liquidatoria, può essere negata l’interpretazione estensiva, configurandosi la disposizione che la prevede come una “norma eccezionale” in ragione della sua ratio agevolativa e derogatoria. Lo stesso non può invece dirsi con riferimento alla detassazione riconosciuta nel primo periodo con riferimento agli istituti aventi finalità liquidatoria, posto che l’intassabilità della riduzione dei debiti occorsa in tale ambito non deroga a una norma oppure a un principio generale delle imposte sui redditi, ma al contrario ne costituisce specifica attuazione, potendo quindi essere desunta dal “sistema impositivo” anche in assenza di una norma che la preveda espressamente. Pertanto, alla disposizione ora trasfusa nel primo periodo del comma 4 ter dell’art. 88 deve essere attribuita natura interpretativa, esplicativa cioè di un principio generale immanente nell’ordinamento tributario, che si rese necessario esplicitare espressamente alla luce della posizione contraria in precedenza assunta dall’Amministrazione finanziaria ed eliminare così ogni contrasto in ordine al trattamento fiscale di detta insussistenza; ciò a differenza di quanto accaduto invece con riguardo ai concordati “senza cessione dei beni”, per cui la riduzione dei debiti certamente avrebbe costituito e tuttora costituirebbe sopravvenienza attiva imponibile in assenza di una norma che - in deroga a quanto stabilito dalla regola generale concernente le sopravvenienze attive - ne avesse espressamente escluso l’imposizione per un dichiarato scopo agevolativo.
6 . Conclusioni
Per le ragioni esposte nei precedenti paragrafi è da ritenersi che l’irrilevanza reddituale delle riduzioni dei debiti prevista dall’art. 88, comma 4 ter, primo periodo, del TUIR, sia applicabile anche a quelle derivanti dal “PRO” che abbia finalità meramente liquidatoria, comportando l’estinzione dell’impresa debitrice (con la conseguenza che nessun incremento del patrimonio di quest’ultima potrebbe in tal caso derivare dal ricorso all’istituto de quo), per l’assenza del presupposto impositivo richiesto dall’art. 1. Si tratta, infatti, in questo caso di un’esclusione e non di un’esenzione.  
L’irrilevanza reddituale prevista dall’art. 88, comma 4 ter, secondo periodo, del TUIR, nei casi in cui l’impresa in crisi prosegua la propria attività, si configura invece come un’agevolazione fiscale concessa dal legislatore per favorire il risanamento delle imprese in crisi, per cui il relativo campo di applicazione deve essere interpretato in maniera restrittiva. Tuttavia, la mancata inclusione delle riduzioni dei debiti derivanti da “PRO”, oltre che essere evidentemente dovuta a un mero fattore temporale e non alla volontà del legislatore di escluderla, vista la loro oggettiva equiparabilità a quelle originate nell’ambito degli altri istituti di regolazione della crisi espressamente indicati nella norma da ultimo citata, dovrebbe essere considerata illegittima sotto il profilo costituzionale per violazione degli artt. 3 e 41 Cost., e conseguentemente la detassazione prevista dal comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR dovrebbe essere comunque estesa anche alle sopravvenienze attive da esdebitazione conseguite nell’ambito del “PRO”. 

Note:

[1] 
Cfr. M. Fabiani, I. Pagni, “Il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 8-9/2022, pag. 1029. 
[2] 
Cfr. M. Fabiani, I. Pagni, cit., pagg. 1029 e 1030. 
[3] 
Cfr. E. Ricciardiello, “Il piano di ristrutturazione omologato: un caso di ‘concorrenza sleale’ tra istituti?”, in ilcaso.it 12 settembre 2023, pagg. 5 e 6; L. Panzani, “Il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione”, in ilcaso.it, 26 agosto 2022, pagg. 3 e 4; G. Bozza, “Il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione”, in Dirittodellacrisi.it, 7 giugno 2022, pag. 7; S. Bonfatti, “Il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione”, in Dirittodellacrisi.it, 15 agosto 2022, par. 17. 
[4] 
Si vedano in particolare M. A. Galeotti Flori, Il possesso del reddito nell’ordinamento dei tributi diretti, 1983, pag. 98; A. Cicognani, “Inconfigurabilità di sopravvenienze attive nella rinuncia dei creditori chirografari ad una parte dei loro crediti in sede di concordato”, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 1983, I, pag. 283; G. Falsitta, “Ulteriori precisazioni e proposte sulla «questione fiscale» delle procedure concorsuali”, in Giurisprudenza commerciale, 1983, II, pag. 223; A. Monti, “L’imposizione delle plusvalenze e delle sopravvenienze nel concordato preventivo dell’impresa individuale”, in Rassegna tributaria, 1984, pag. 89. 
[5] 
Così testualmente M.A. Galeotti Flori, cit., pagg. 89 e 90. 

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