Loading…

Il ruolo del Pubblico Ministero nella liquidazione giudiziale tra l’art. 7 della Legge fallimentare e l’art. 38 del Codice della crisi e dell’insolvenza

Biagio Riccio e Clara Letizia Riccio, Avvocati in Napoli

7 Febbraio 2023

Le riflessioni contenute in questo contributo intendono evidenziare come si sia ampliato il ruolo del Pubblico Ministero nel dover proporre ex art. 38 CCII, a difesa dell’interesse pubblico venuta meno l’iniziativa d’ufficio, istanza per la liquidazione giudiziale, rispetto alle previsioni contenute nell’art. 7 dell’abrogata legge fallimentare. Ci si sofferma tuttavia, per il pregnante dibattito giurisprudenziale e per le autorevoli opinioni dottrinali di cui si tiene debitamente conto, nell’indicare che la Pubblica Accusa deve vagliare e scrutinare se effettivamente il debitore sia in stato di insolvenza, perché la notitia decoctionis non è neutra e va soppesata adeguatamente con il bilanciamento di tutti gli interessi: quello di eliminare un’impresa decotta, ma anche tener conto dei suoi tentativi di salvarsi, con gli strumenti normativi che il Codice della crisi e dell’insolvenza offre. Non si dimentica che il Pubblico Ministero, quando agisce nel processo pre-fallimentare, è una parte processuale come le altre, debitore e creditore, nell’alveo della sua legittimazione costituzionale ex art.111 della Carta, alla luce del quale non vi è alcuna prevaricazione.
Riproduzione riservata
1 . Premessa
Con l’emanazione del nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza (d’ora in poi CCII) la figura del pubblico ministero è oggetto di un radicale cambiamento rispetto alla disciplina previgente, contenuta, in special modo, negli artt. 6-7 della abrogata legge fallimentare.
L’attuale formulazione della normativa che riguarda il ruolo del Pubblico Ministero si ritrova nell’art. 38 CCII che così recita: “1. Il pubblico ministero presenta il ricorso per l'apertura della liquidazione giudiziale in ogni caso in cui ha notizia dell'esistenza di uno stato di insolvenza. 2. L'autorità giudiziaria che rileva l'insolvenza nel corso di un procedimento lo segnala al pubblico ministero. 3. Il pubblico ministero può intervenire in tutti i procedimenti per l'accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza o a una procedura di insolvenza. 4. Il rappresentante del pubblico ministero intervenuto in uno dei procedimenti di cui al comma 3, instaurato dinanzi al tribunale di cui all'articolo 27, può chiedere di partecipare al successivo grado di giudizio quale sostituto del procuratore generale presso la Corte di appello. La partecipazione è disposta dal procuratore generale presso la Corte di appello qualora lo ritenga opportuno. Gli avvisi spettano in ogni caso al procuratore generale
L’organo pubblico si pone nell’impianto legislativo come chi persegue l’interesse di tutelare il mercato ed il tessuto economico per tutte le altre imprese che non siano decotte e che devono evitare, grazie al suo intervento, il contagio della crisi e dell’insolvenza irreversibile.
Non bisogna, infatti, dimenticare che il nuovo codice della crisi e dell’insolvenza raccoglie l’eredità di quanto sancito dalla raccomandazione n. 2014/135/UE e che, proprio per questo, esso adempie «all’esigenza di rimuovere l’insolvenza dell’imprenditore, ossia difendere l’economia generale dal fenomeno morboso del dissesto».
Nell’ambito di questa nuova visione copernicana, perché non più inquisitoriale, come era la decorsa legge fallimentare, il P.M svolge il ruolo di arginare, nell’ordito del CCII, la decozione di quelle imprese che possono ammorbare quelle sane; perciò, la sua iniziativa si pone nella necessità di tutelare l’economia reale, il diritto di fare impresa ex art. 41 della Carta Costituzionale nell’ambito dell’ordine pubblico economico. Si potrebbe individuare la ratio di tale incisiva dilatazione di poteri nelle parole dell’illustre giurista Satta, secondo il quale “l’insolvenza dell’impresa, si può dire sinteticamente, è un fatto che interessa tutti. Interessa l’ordinamento, perché l’impresa fa parte dell’organizzazione economica generale, e, quindi, il suo dissesto incide su questa organizzazione, portando alla necessaria eliminazione dell’impresa; interessa i creditori, che nell’insolvenza possono veder pregiudicate le loro ragioni, sia per la disintegrazione del patrimonio del debitore, che costituisce la loro garanzia, sia per la violazione della par condicio. Interessa il debitore stesso, che non vuole aggravare la sua situazione, né veder disperdere i propri beni attraverso disordinate azioni singolari”.[1]
2 . Il Pubblico Ministero nella composizione negoziata della crisi
Va rimarcato che con il decreto legislativo del 17 giugno 2022 n. 83 nel seno del CCII ha fatto ingresso l’istituto della composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa (Titolo II, Capo I, artt. 12 ss.) che avrebbe tagliato fuori l’istituto dell’allerta di cui alla primordiale struttura del codice.
Come è stato scritto: “il testo originario del D.lgs. 14/2019 (Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza) stabiliva che, a séguito della segnalazione degli organi di controllo societari e/o dei creditori pubblici qualificati, l'imprenditore in crisi potesse - spontaneamente o dietro convocazione da parte dell'Organismo di composizione della crisi d'impresa - accedere a una procedura volta alla ricerca di una soluzione concordata della crisi dell'impresa, da espletarsi con l'ausilio dell’ OCRI. Al fine di incentivare il ricorso a tale procedura erano assicurate al debitore alcune misure protettive e premiali. Allo stesso tempo, però, per l'ipotesi di inerzia o di mancata conclusione di un accordo con i creditori nel termine di tre mesi (o di sei mesi, in caso di positivi riscontri delle trattative) e persistendo lo stato di crisi, era stabilito che il debitore presentasse senza indugio domanda di accesso a una delle procedure di regolazione della crisi e dell'insolvenza, pena la segnalazione al Pubblico Ministero da parte dell'OCRI per l'eventuale iniziativa d'ufficio per l'apertura della liquidazione giudiziale. La segnalazione al P.M. era altresì stabilita per l'ipotesi in cui l'imprenditore non fosse comparso per l'audizione davanti all'OCRI o - pur comparendo - non avesse presentato domanda di avvio della procedura o non avesse adempiuto alle istruzioni impartitegli”. [2]
Nella composizione negoziata della crisi non si rintraccia per diritto positivo espressamente alcun ruolo del P.M., anche quando l’esperto designato non abbia rinvenuto alcuna soluzione ed il richiedente si avvia o al concordato semplificato o alla liquidazione giudiziale.
Tuttavia, è stato osservato, acutamente, che: “la segnalazione al PM sembrerebbe necessaria alla luce degli interessi pubblici sottesi all’insolvenza dell’imprenditore, in tutti i casi in cui sia evidente la mancanza dei presupposti per pervenire ad una soluzione concordata che consenta l’uscita dalla crisi a causa dall’accertamento di una insolvenza non reversibile. La mancata previsione di un tale obbligo in capo all’esperto comporta che le segnalazioni al PM potranno essere effettuate soltanto dal giudice ogni qual volta, nell’ambito del procedimento di composizione negoziata della crisi, egli sia chiamato dal debitore ad emettere un provvedimento (protettivo del patrimonio, di autorizzazione al compimento di determinati atti) e riscontri lo stato d’insolvenza del debitore medesimo. La pubblicazione dell’istanza che apre la composizione negoziata non impedisce, fino alla sua archiviazione l’instaurazione o la prosecuzione dei procedimenti per la dichiarazione della liquidazione giudiziale o per l’accertamento dello stato di insolvenza. Ne deriva che nel corso della procedura di composizione negoziata il PM potrà depositare l’istanza per la dichiarazione di fallimento. Il procedimento di composizione assistita previsto dal CCII configura, nell’immaginario collettivo, una sorta di piano inclinato, al fondo del quale, se l’intesa non è raggiunta, il p.m. insta per la dichiarazione di insolvenza e l’apertura della liquidazione giudiziale, che altro non è se non fallimento, con il contorno dei reati di bancarotta”.[3]
È chiaro dunque che il P.M. sia legittimato ad intervenire nella sola “fase patologica”: vale a dire nella fattispecie in cui “siano naufragate le ipotesi di soluzione “negoziale” e sia emersa una situazione di vera e propria insolvenza dell’impresa”.[4]
Tant’è vero che l’art. 12 CCII – rubricato “Composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa” – così come l’art. 15 CCII – rubricato “Scambio di documentazione e di dati contenuti nella piattaforma telematica nazionale per la composizione negoziata per la soluzione delle crisi d'impresa tra l'imprenditore e i creditori” – non menzionano in alcun modo la figura della pubblica accusa, trattando solo delle procedure appositamente disciplinate finalizzate alla ricomposizione dello squilibrio ed al riallineamento economico dell’impresa.
Per queste ragioni, appare doveroso privilegiare quella scuola di pensiero secondo la quale “la formulazione delle norme sopra indicate lascia propendere per una relazione prettamente interna del componimento, ovvero una trattativa che vede come parti esclusive l’imprenditore debitore e le parti istituzionali individuate dalle norme, ove non vi è traccia del pubblico ministero. Sembra, in effetti, trattarsi di vicende dal connotato prettamente economico-aziendale che si collocano in uno spazio temporale molto anticipato rispetto all’esigenza di un controllo pubblico da parte del pubblico ministero[5]”. Dunque, “deve ritenersi escluso ogni potere di intervento e di controllo del p.m. in itinere durante lo svolgimento fisiologico delle trattative di composizione. In altre parole, non è previsto che il p.m. possa formulare pareri nel corso delle procedure di composizione assistita della crisi[6]”.
Rispetto a questa scelta normativa tesa, quindi, ad estromettere la presenza dell’organo pubblico, le reazioni in dottrina sono state diverse da un lato, v’è chi ha ritenuto imprescindibile che il P.M. sia presente anche durante la procedura di componimento, al fine di “apportare correttivi, suggerimenti, analisi all’interno della stessa procedura, in un processo fisiologico di monitoraggio, soprattutto attraverso la formulazione di pareri”. Tant’è vero che solo in tal modo, “il senso della riforma attuale del Codice della crisi dell’impresa potrebbe trovare davvero compiutezza: concentrandosi l’attenzione del legislatore sulle opzioni di recupero della continuità aziendale, essendo questa la finalità della riforma in esame, il controllo della pubblica accusa nel percorso di recupero darebbe ulteriore valore e risalto a questo aspetto e completerebbe il cerchio della volontà politico-sociale sottostante la riforma[7]”; v’è stato chi, al contrario, ha rimarcato che la cartina di tornasole del dettato legislativo consisterebbe propriamente nel fatto che non è in alcun modo necessario che il P.M. sia reso edotto dell’esistenza della procedura di composizione della crisi[8]. 
In quest’ottica, si giustificherebbe anche l’assenza di qualsivoglia potere di controllo anticipato della pubblica accusa, in caso di conclusione positiva delle trattative per il componimento della crisi: vale a dire quando viene stipulato un accordo tra il debitore con i creditori coinvolti. In tale circostanza, non approdandosi ad alcuna situazione patologica, il pubblico ministero potrebbe non venire mai a conoscenza della precedente situazione di crisi e degli accordi intrapresi tra le parti. 
Al netto di quanto esposto, affinché il p.m. possa intervenire, bisogna guardare a quanto statuito ex art. 38 CCII.
3 . L’art. 38 CCII e l’art. 7, della Legge fallimentare
Gli art. 37 e 38 CCII costituiscono la puntuale attuazione di quanto sancito ex art. 2, comma 1, lett. d), della legge delega n. 155/2017, secondo cui bisognava prevedere “la legittimazione ad agire dei soggetti con funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa, ammettendo l’iniziativa del pubblico ministero in ogni caso in cui egli abbia notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza”. In particolare, il comma 2 dell’art. 37 CCII dispone che la domanda di apertura della liquidazione giudiziale può essere avanzata, oltre che dal debitore, anche dagli organi e dalle autorità amministrative che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa, nonché da uno o più creditori o, infine, dal pubblico ministero. 
L’art. 38 CCII, rubricato “Iniziativa del pubblico ministero”, stabilisce, al primo comma, che “il pubblico ministero presenta il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale in ogni caso in cui ha notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza”, configurando il suo ruolo in maniera significativamente diverso a quanto statuito dal precedente art. 7, L. fall., che, al contrario, annovera le fattispecie specifiche in cui il p.m. è legittimato a presentare istanza – e non ricorso – di fallimento: quando l’insolvenza dell’imprenditore risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla latitanza o irreperibilità dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali, dal trafugamento o dalla sostituzione o diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore; oppure quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile.
Tangibili sono le differenze intercorrenti tra la disposizione della vecchia disciplina e la littera legis della nuova; a tal riguardo, non si può fare a meno di notare che, nel CCII, il potere-dovere di iniziativa della pubblica accusa è stato considerevolmente ampliato, “così superando le problematiche sinora derivanti dalla formulazione dello stesso art. 7 L. fall., avente un approccio eminentemente casistico[9]”. Tant’è vero che il dettato normativo di cui all’art. 38 CCII non è altro che la codificazione di quanto asserito dalla Corte di legittimità relativamente all’interpretazione dell’art. 7 L. fall. Ma andiamo con ordine.
Il precedente disposto, in prima battuta, era stato oggetto di un’interpretazione restrittiva, in ragione della quale il pubblico ministero era dipinto come istituzione orientata al solo perseguimento dei reati fallimentari; tuttavia, fin da subito la Cassazione, in merito al n. 1 dell’art. 7 L. fall., non solo ha interpretato l’espressione “procedimento penale” come comprensiva delle fasi del processo e del procedimento penale stesso, ma ha anche sottolineato che tale concetto non concerne solo e soltanto l’imprenditore della cui insolvenza si discute: in altri termini, “tale condizione potrà essere rilevata anche nell’ambito di un procedimento penale che riguardi altro imprenditore, ovvero un gruppo di imprese di cui soltanto alcune si trovino in stato di decozione, alla cui stregua vengono in considerazione tutti i casi in cui istituzionalmente il p.m. abbia avuto conoscenza della notitia decoctionis, non essendo neppure necessaria la preventiva iscrizione nel registro degli indagati dell’imprenditore[10]”.
La stessa interpretazione era stata adottata anche rispetto all’espressione “procedimento civile”, di cui al n. 2 dell’art. 7 L. fall.; in particolare, nel corpus della norma in esame, il legislatore aveva parlato di un’insolvenza rilevata: detto altrimenti, “non occorre che la stessa si imponga in un procedimento che abbia ad oggetto il suo accertamento, ma può essere appunto più semplicemente compresa, rilevata anche in via incidentale[11]”. Sulla scorta di ciò, la Cassazione a Sezioni Unite aveva statuito che, qualora un giudice renda edotto il p.m. della notitia decoctionis riguardante un imprenditore, non per questo lo stesso debba ritenersi incompatibile nel successivo procedimento instaurato dal p.m. “attivato” dalla segnalazione medesima; ciò, dal momento che quest’ultima riguarda un mero “sospetto” di insolvenza, non richiedendo alcun accertamento pieno[12]. 
Alla luce di quanto finora riportato, va condivisa quella corrente dottrinale secondo cui il passaggio dall’ art. 7 L. fall. all’art. 38 CCII non può essere considerato “rivoluzionario, ma si ponga in piena continuità con l’evoluzione del diritto vivente[13]”.
Infatti, il legislatore del CCII, come vedremo, ha abbandonato la specificità del ruolo del Pubblico Ministero che poteva intervenire solo quando si fossero appalesati i casi enumerati nell’art. 7 della decorsa legge fallimentare: si è sposata la tesi estensiva secondo cui egli può avanzata istanza “in ogni caso” (come si legge nella nuova formulazione) in cui egli è a conoscenza della notitia decoctionis
Ciò significa chiaramente che il legislatore ha attinto largamente al dibattito giurisprudenziale, dal momento che la stessa Corte di legittimità ha dichiaratamente caldeggiato la tesi secondo cui qualora il PM sia a conoscenza, per qualunque motivo, di un’impresa che versi in stato di insolvenza aveva ed ora ha (in ogni caso) il dovere di attivarsi per ottenere la liquidazione giudiziale. Infatti “la ratio dell’art. 7 l.fall., una volta venuto meno il potere del tribunale di dichiarare officiosamente il fallimento, è chiaramente nel senso di estendere la legittimazione del P.M. alla presentazione della richiesta, in tutti i casi nei quali l’organo abbia istituzionalmente appreso la notitia decoctionis (Cass. 10679 del 2014; 23391 del 2016). Ne consegue che il riferimento contenuto nel comma 1, n. 1, dell’art. 7 della legge fallimentare al riscontro della notitia decoctionis “nel corso di un procedimento penale” non deve essere interpretato in senso riduttivo, non essendo necessaria la preventiva iscrizione di una notitia criminis nel registro degli indagati a carico del fallendo (Cass. n. 8977 del 2016) o di terzi (Nella fattispecie in esame, la notitia criminis era stata appresa dal Pubblico Ministero a seguito dell’esame dei risultati di un’indagine della Guardia di Finanza, trasmessa all’ufficio della Procura, effettuata a seguito di informazioni della Agenzia delle Entrate, dalle quali erano emerse ritenute IRPEF operate e non versate per Lire 103.882,68 nell’anno 2009; Euro 83.494,97 per il 2010 e Euro 88.660,97 per il 2012. Il Pubblico Ministero non aveva però iscritto la notitia criminis nel registro dei reati, ma nel Modello 45 – registro degli atti non costituenti reato).[14]
4 . Il nuovo ruolo del P.M. secondo l’art. 38 CCII
Conformemente a quanto detto in precedenza, non vi è dubbio che, in virtù della formulazione dell’art. 38 CCII, i poteri attribuiti al P.M. siano stati ampliati in maniera significativa; infatti, la legittimazione all’esercizio dell’azione è stata disancorata dalle situazioni indicate all’articolo 7 L. fall., comma 1 – emersione della notitia decoctionis da procedimento penale o da segnali di bancarotta – e comma 2 – emersione della notitia decoctionis dal procedimento civile[15]. 
Tuttavia, la grande novità che solca l’attuale normativa è rappresentata dal fatto che l’organo pubblico ha acquisito il ruolo di vera e propria parte processuale, potendo esso proporre ricorso – e non più una mera istanza – al pari dei creditori, indipendentemente dalle parti private ed a tutela di interessi che trascendono quelli individuali coinvolti nella situazione di crisi[16]. 
Né può omettersi quanto statuito dall’art. 2, comma 1, lett. b), della legge delega n. 155/2017: eliminando ogni residua iniziativa d’ufficio, “il p.m. assurge a “guardiano” della correttezza delle transizioni economiche delle imprese insolventi, come tale eventualmente destinatario anche di segnalazioni da parte di creditori, o di terzi neppure creditori[17]”.
4.1 . Obbligo o discrezionalità del P.M di proporre ricorso per la liquidazione giudiziale
Ciò nondimeno, si pone un ulteriore interrogativo: se, nel momento in cui il P.M. ha notitia decoctionis, si profili un vero e proprio obbligo nei suoi confronti di proporre istanza di liquidazione giudiziale o, al contrario, possa profilarsi una sua discrezionalità. A tal riguardo, occorre ricordare che, prima della riforma del 2006, secondo l’orientamento prevalente, in presenza delle situazioni tassativamente previste, sul pubblico ministero incombeva l’obbligo di chiedere il fallimento: la previsione normativa del 1942 contemplava, infatti, l’espressione «deve richiedere». Tuttavia, a seguito della modifica dell’art. 7 l.fall, ad opera dell’art. 1, comma 6 lett. a) legge n. 80/2005, «la sostituzione di “deve” con il termine “presenta” costituisce argomento di per sé sufficiente a sostenere la facoltatività dell’iniziativa[18]».
Sicché un’autorevole corrente di pensiero tutt’oggi tende ad applicare la medesima interpretazione anche alla littera legis dell’art. 38, comma 1, CCII, dovendo l’organo pubblico dar luogo alla liquidazione giudiziale «in ogni caso in cui ha notizia dell'esistenza di uno stato di insolvenza». A dispetto dell’odierno dato letterale e malgrado la norma di nuovo conio abbia eliminato il riferimento ai casi “tipici” previsti dall’art. 7 L. fall., non appare errato ritenere che «non qualsiasi notizia d’insolvenza possa indurre il pubblico ministero ad esercitare l’azione, bensì soltanto quelle notizie che egli abbia legalmente acquisito nell’esercizio delle sue funzioni, ossia che gli provengano dal procedimento, dal processo o dalle indagini[19]»; allo stesso modo, «non tutte le notizie legalmente acquisite devono, per ciò stesso, essere ritenute dal p.m. meritevoli di essere poste a fondamento della domanda ex art. 37, comma 2, ma possono – devono – essere senz’altro vagliate dall’ufficio di procura, se del caso avvalendosi degli efficaci mezzi di indagine che ha a disposizione[20]».
In particolare, tale lettura della nuova norma fa leva soprattutto su quanto statuito dall’art. 112 Cost., a norma del quale è obbligatorio l’esercizio dell’azione penale e non anche dell’azione concorsuale, sconfessando del tutto l’orientamento “estensivo” implementatosi sulla scorta del dettato legislativo ex art. 38 CCII. Ma vi è di più: il P.M. non sarebbe legittimato a presentare il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale su mera segnalazione di un terzo, dal momento che, così agendo, si concreterebbe una palmare violazione del comma 2 del citato art. 38 CCII. Poiché , infatti, è stabilito che «l'autorità giudiziaria che rileva l'insolvenza nel corso di un procedimento lo segnala al pubblico ministero», ne deriva che è la pendenza del processo o del procedimento che “qualifica” la notitia decoctionis, essendo, perciò, da condividersi l’orientamento per il quale la pubblica accusa è legittimata a chiedere il fallimento dell’imprenditore anche se la notitia decoctionis sia stata da lei appresa nel corso di indagini svolte nell’ambito di un “procedimento” nei confronti di soggetti diversi dall’imprenditore medesimo, sia esso individuale o collettivo[21], financo se conclusosi con esito favorevole alle persone sottoposte alle indagini[22].
La vera grande innovazione che permea l’art. 38 CCII si identifica nel fatto che il legislatore ha scelto di utilizzare l’espressione “autorità giudiziaria”, senza alcuno specifico riferimento a quella penale o civile, assorbendo, in tal modo, la vecchia disposizione dell’art. 7 L. fall. 
Pertanto, fuori dal procedimento – penale o civile – ipotizzare altre “fonti” dalle quali l’organo pubblico potrebbe apprendere la notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza è un’operazione che disvela un certo indice di pericolo, dal momento che «si potrebbe finanche immaginare che il pubblico ministero apprenda la notizia dagli organi di stampa che diffondono notizie allarmanti sulla situazione economica di una determinata società[23]» e che non penda alcun procedimento che coinvolga l’impresa stessa. 
Risulta dunque evidente che il P.M non può e non deve essere acquiescente alla segnalazione, ma, eliminata già nella legge fallimentare l’iniziativa d’ufficio, la Procura non può essere insensibile a valutare se effettivamente esistano le condizioni di uno stato di insolvenza - avendo piuttosto “un onere di rappresentazione minimo di cui dare atto nello svolgimento della propria iniziativa”[24]. Pertanto, solo se persuaso del suo sussistere, il P.M. depositerà il necessario ricorso per la declaratoria. 
Ricordiamo infatti che nella sua struttura semantica l’art. 7 L. fall. poneva come condizione che l’insolvenza dovesse risultare; il che implicava che essa fosse rivelativa della provenienza della sua notizia da un procedimento che imponeva un ragionevole processo deduttivo del PM. Il verbo rileva compare anche nell’art. 38 CCII.
È stato infatti scritto – rispetto alla formulazione di cui all’art. 7 L. fall. ma vale anche per l’art. 38 del CCII – che “nel nuovo sistema, in ogni caso, venuto meno il potere ufficioso del tribunale, la richiesta del pubblico ministero non può più qualificarsi come mera denunzia o sollecitazione al tribunale, ma costituisce certamente esercizio di un vero e proprio potere d’azione, espressamente attribuito al pubblico ministero dall’articolo sei della legge fallimentare. Il pubblico ministero ha una legittimazione straordinaria, che può qualificarsi come esercizio di mera azione per il perseguimento di un pubblico interesse, che sottrae alla disponibilità esclusiva dei privati (creditori e debitori) l’emersione e la gestione della crisi d’impresa […]. In tali ipotesi non può peraltro ritenersi che il pubblico ministero debba necessariamente esercitare l’azione, dovendo a ciò determinarsi solo ove siano presenti presupposti per l’accoglimento della richiesta. Sussiste infatti pur sempre uno scarto logico tra le diverse ipotesi indicate nell’articolo 7 della legge fallimentare e la nozione di insolvenza dell’imprenditore, la cui configurabilità appare rimessa alla valutazione del pubblico ministero, verosimilmente all’esito di attività di indagine di approfondimento”[25]. 
Va infatti escluso in forza dell’autonomia che caratterizza il pubblico ministero nell’ambito dell’ordinamento giudiziario, ogni automatismo tra segnalazione ricevuta o appresa ed istanza da parte del P.M, il quale promuoverà la richiesta ex art. 7 L. fall. (oggi art. 38 CCII) solo all’esito di una propria valutazione in ordine alla fondatezza della notitia decoctionis e dalla sussistenza dei presupposti di fallibilità.
Al netto di quanto esposto, ben si può affermare che il P.M., anche nel contesto del CCII, «continui ad essere il “collettore” delle segnalazioni d’insolvenza provenienti dai giudici dei processi e dei procedimenti, ovvero dai magistrati che hanno in corso indagini penali, essendo l’unico legittimato a presentare istanza di apertura della liquidazione giudiziale in nome dell’interesse pubblico[26]».
5 . La legittimazione ad agire del P.M. nella vecchia disciplina: potere generale o casistico? Riflessi sull’art. 38 CCII. Le considerazioni della Procura Generale presso la Corte di Cassazione sulla nuova normativa
In virtù dell’emanazione del D.Lgs. n. 5/2006, artefice dell’abrogazione dell’iniziativa officiosa per la dichiarazione di fallimento ex art. 8 L. fall., era stato statuito che il potere d’iniziativa fallimentare sorgesse in capo al pubblico ministero. In particolare, al contrario di quanto disposto riguardo al debitore ed al creditore, l’art. 6 L. fall. recava la previsione legislativa in ordine alla quale la domanda di fallimento presentata dal P.M. non doveva assumere la forma del ricorso, dal momento che era sufficiente anche una mera “richiesta” da avanzare nei casi annoverati ex art. 7 L. fall., ovverosia: quando l’insolvenza emerge nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dall’irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore; e quando l’insolvenza risultava dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’aveva rilevata nel corso di un procedimento civile. 
All’indomani della modifica legislativa del 2006, sia la dottrina che la giurisprudenza sono state attanagliate da un serio interrogativo: se il potere del P.M. di promuovere la richiesta di fallimento rivestisse portata generale o, al contrario, fosse circoscritto ai casi di cui all’art. 7 L. fall. A tal riguardo, è doveroso premettere che, sulla scorta del dettato legislativo precedente alla riforma del 2006, non poche pronunce della Corte di legittimità[27] avevano avallato l’indirizzo secondo cui l’iniziativa del P.M. avesse carattere generale e, quindi, non fosse limitata alle sole fattispecie elencate nel corpus del suddetto art. 7. Ciò, dal momento che si attribuiva all’art. 7 L. fall. un valore esemplificativo delle evenienze in cui si qualificava come necessaria la presentazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento, non costituendo quest’ultimo l’estrinsecazione di un potere d’azione del P.M., ma nient’altro che una denuncia al tribunale affinché provvedesse d’ufficio. 
Tuttavia, molteplici erano le voci dissenzienti rispetto a tale corrente di pensiero giurisprudenziale, specialmente in ambito dottrinale: va segnalata soprattutto l’autorevole critica di chi riteneva che l’iniziativa del pubblico ministero, pur rivestendo le caratteristiche dell’azione in senso processuale, non poteva essere considerata alla stregua di una mera segnalazione al tribunale «perché si finirebbe per disconoscere l’analogia di poteri e facoltà spettanti al pubblico ministero rispetto a quelli attribuiti al creditore, e per rendere superflua la previsione dell’art. 7, che ipotizza una vera e propria segnalazione all’ufficio giurisdizionale[28]».
Una volta intervenuta la riforma del 2006, la caratterizzazione dell’iniziativa per la dichiarazione di fallimento da parte del P.M. mutò radicalmente, ascrivendo il carattere di tassatività alle ipotesi ex art. 7 L. fall. Tale cambiamento fu innanzitutto avallato dalla presa di coscienza meritevole di aver ricondotto la figura del P.M. nell’ordito dell’art. 69 c.p.c. 
In altri termini, se la norma anzidetta dispone che «il pubblico ministero esercita l’azione civile nei casi stabiliti dalla legge», la conseguenza più immediata risiede nel fatto che non solo si debba dare applicazione alla littera legis – vale a dire che l’organo anzidetto possa intervenire nel processo o esercitare l’azione civile, esclusivamente quando ciò sia prescritto dalla legge – ma anche che non esiste alcun potere generale della procura «di agire nel processo civile, né le ipotesi in cui la legge riconosce al pubblico ministero il potere di agire sono suscettibili di interpretazione analogica o estensiva[29]». Sicché, ben si comprende come appaia fondamentale che l’istanza di fallimento da parte del P.M. debba sempre conservare uno stretto legame con l’azione penale; diversamente opinando – riconoscendogli, cioè, un’iniziativa di carattere generale – «si attribuirebbero al P.M. poteri inquisitori sul regolare andamento delle imprese, che certamente non gli competono[30]». 
Tant’è vero che, sulla scorta delle norme codicistiche, emerge lapalissianamente che la figura del P.M. non si staglia allo stesso modo delle parti private: queste ultime godono della possibilità di proporre azione quando siano titolari di un interesse individuale qualificato; al contrario, il P.M. agisce per dovere d’ufficio e nell’interesse pubblico, ricoprendo il ruolo di parte soltanto in senso formale, non potendo, cioè, «disporre degli interessi di indole generale, dei quali la legge gli affida la tutela[31]».
Incanalando tale autorevole scuola di pensiero nell’ambito della legge fallimentare, e segnatamente nel corpus degli artt. 6 e 7 L. fall., ne conseguiva, in primis, che il pubblico ministero non è titolare di un’autonoma e generale iniziativa fallimentare, potendo impiegare siffatto potere soltanto al ricorrere delle ipotesi descritte ex art. 7 L. fall.; in questi ultimi casi, nella circostanza in cui riteneva che la segnalazione da lui ricevuta avesse prima facie un qualche fondamento, egli era tenuto a porre in essere l’iniziativa fallimentare[32]; non avendo la disponibilità degli interessi di indole generale di cui la legge gli affidava la tutela, allorché presentava la domanda di fallimento, egli diventava parte del processo soltanto in senso formale[33]. 
In particolare, riguardo a tale ultima asserzione, vale la pena rimarcare che il rilievo in ordine al quale il P.M. non fosse parte del processo – o solo parte formale – era confermato oltremodo dalla sua esclusione dal novero dei legittimati al reclamo contro la sentenza che dichiarava il fallimento: ciò si spiega «con la congenita carenza di una parte pubblica che possa dirsi soccombente e, perciò, interessata al mezzo di impugnazione[34]».
Pertanto, se si sposa la tesi secondo cui le ipotesi previste ex art. 7 L. fall., presentano carattere tassativo, è palmare che al pubblico ministero non competa alcun potere di istanza al di fuori delle fattispecie legislative di cui sopra e, in secundis, che, qualora quest’ultimo “abusi” di tale potere assegnatogli dalla legge, è evidente che la nullità della dichiarazione di fallimento si ergerà a inevitabile sanzione per la sopraffazione compiuta. Ciò, dal momento che «si deve radicalmente escludere» che tale organo pubblico «sia titolare di un generale potere di controllo degli imprenditori, al di fuori dei casi indicati dalla legge[35]». In altri termini «egli non può autonomamente esercitare poteri inquisitori sul regolare andamento delle imprese e sulla loro integrità economica[36]».
Benché l’art. 38 del CCII non menzioni i casi specifici di cui all’art. 7 della decorsa legge fallimentare, è evidente che l’ampliamento dei poteri del PM non autorizza a ritenere che da parte sua sia venuto meno il vaglio e la necessità di ponderare se esercitare o meno l’azione concorsuale. Non si ravvisa nessuna coazione o obbligatorietà nella formulazione della norma.
Si può ritenere valido ed ancora pregnante l’insegnamento di F. De Santis secondo cui “non sarà infatti la segnalazione a pregiudicare, né il PM né il Tribunale. Essa è un atto neutro, privo di autonoma efficacia procedimentale e tantomeno decisionale, frutto di una delibazione non vincolante, certamente non pregiudicante la valutazione dello stesso tribunale decidente assolutamente non inferente con il principio di imparzialità: senza alcuna accentuazione decisoria e valenza procedimentale la segnalazione può essere anche una valutazione estemporanea che non vincola nessuno.”[37] 
La giurisprudenza ha rimarcato – rispetto all’art. 7 L. fall. – il fatto che il Pubblico Ministero deve conservare l’autonomia necessaria e vagliare con discrezionalità opportuna anche la possibilità di non proporre l’istanza di fallimento, perché non sussistono gli estremi dell’insolvenza e dunque archiviare la segnalazione che gli è pervenuta. Questo vale anche per l’interpretazione dell’art. 38 del CCII. Tuttavia, è doveroso affermare che con il CCII si è abbandonata la lettura casistica o obbligatoria dell’art. 7 per giungere ad un ampio potere della Pubblica accusa.
A giusta ragione la Procura Generale presso la Corte di Cassazione ritiene che “l’art. 38 CCII rappresenta quindi una chiara novità rispetto all’art. 7 L. fall. che fa riferimento al procedimento penale, come luogo “naturale” di acquisizione di tale notizia (quella decoctionisis appresa dal Pubblico Ministero nell’esercizio delle sue funzioni), ma anche all’alternativa rappresentata dall’elencazione casistica degli altri possibili sintomi da cui il PM avrebbe potuto acquisire la notitia decoctionisis, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore. L’unico presupposto è quindi che la notitia decoctionis sia stata acquisita dal P.M. nell'ambito della sua attività istituzionale, e non attraverso una mera ricerca di iniziativa ex novo dell'insolvenza. Attività istituzionale che comporta anche la legittimazione a chiedere l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale, con la conseguenza che tale legittimazione, non più limitata alle ipotesi tipiche dell’art. 7 comma 1 L. fall., potrà essere esercitata anche a seguito di segnalazioni di terzi, diverse ed ulteriori rispetto a quelle dell’autorità giudiziaria. Segnalazioni che potranno provenire, in primo luogo, da creditori che intendano, per varie ragioni, “delegare” al P.M. il vaglio e l’eventuale deposito dell’istanza. Il che potrà accadere, ad esempio, nell’ipotesi dei crediti dei lavoratori dipendenti nei confronti del datore di lavoro incapiente, ipotesi nelle quali l’istanza di apertura della procedura di liquidazione rappresenta, sovente, soltanto un “costo” necessario per accedere al fondo di garanzia dell’INPS. Segnalazioni della sussistenza di uno stato d’insolvenza potranno provenire anche da organi di controllo nell’ipotesi in cui gli stessi, pur non volendo assumere la responsabilità di proporre direttamente l’istanza, comunichino la notitia decoctionis al P.M., al fine di eludere o comunque alleviare la loro eventuale futura responsabilità. Medesimo ampliamento oggettivo, rispetto all’attuale disciplina si riscontra anche nel secondo comma dell’art. 38 del CCII in forza del quale “l’autorità giudiziaria che rivela l’insolvenza nel corso di un procedimento lo segnala al pubblico ministero”. Al pari di quanto già visto con riferimento al primo comma, la segnalazione al P.M. da parte del giudice viene svincolata dai vincoli soggettivi e procedimentali di cui all’art. 7 comma 2 L. fall. che pone l’obbligo della segnalazione di insolvenza del solo giudice che l’abbia rilevata “nel corso di un procedimento civile”. L’art. 38, secondo comma, CCII, fa riferimento all’”autorità giudiziaria”, senza, quindi, alcuna distinzione né tra quella ordinaria e speciale, né, nell’ambito di quella ordinaria, tra settori di appartenenza, con la conseguenza che tutti i giudici avranno l’obbligo di segnalare l’insolvenza rilevata nell’ambito di un qualunque “procedimento”, che potrà, dunque, essere anche un procedimento amministrativo o tributario o di qualsiasi altro tipo. In definitiva, come accennato, il legislatore delegato ha effettivamente restituito “centralità al ruolo del P.M.”, come indicato nella Relazione illustrativa all’art. 38 CCII”[38].
Con l’espressione autorità giudiziaria, dunque, si fa riferimento sia ad un giudice civile che penale, o a qualunque altro potere giurisdizionale, per esempio un giudice amministrativo o tributario. Ma resta sempre fermo quanto sostenuto dalla migliore dottrina anche in commento all’art. 7 della decorsa legge fallimentare.
L’ubi consistam di questo originale pensiero si può attagliare anche all’art. 38. Si ritiene, infatti, che “il potere di iniziativa del P.M. non si configura illimitato, [...] ma il suo esercizio risulta subordinato alla ricorrenza delle ipotesi espressamente previste dall’art. 7”, e che “in tanto il P.M. possa presentare la richiesta di fallimento di un imprenditore in quanto lo stato di insolvenza di quest’ultimo emerga nell’ambito di un procedimento penale promosso nei confronti dello stesso imprenditore. Ne consegue che, difettando il presupposto di cui all’art. 7 n. 1 e cioè la pendenza di un procedimento penale nei confronti [dell’imprenditore] nell’ambito del quale sia risultata l’insolvenza di quest’ultim[o], la dichiarazione di fallimento, ciononostante emessa dal Tribunale, deve ritenersi affetta da nullità, senza che rilevi che la qualità di parte del procedimento penale sia stata assunta [...] successivamente[…]. Ora, a me sembra che nel sistema della Legge fallimentare l’iniziativa del P.M. ruoti attorno a un cardine di garanzia, cioè che l’organo pubblico possa mutuare la notitia decoctionis (soltanto) da procedimenti, civile o penale, nei confronti dell’imprenditore […].Insomma, il P.M. non può farsi promotore di alcun procedimento sui generis soltanto per ricercare notizie sulla solvibilità dell’imprenditore, in funzione peculiare dell’eventuale richiesta di fallimento[…].”[39]
Al netto di quanto esposto, ben si comprende come appaia di importanza cruciale l’analisi cui è deputato il p.m., onde valutare se sia necessario o meno presentare domanda di liquidazione giudiziale, anche nell’ordito dell’art. 38. Come si sostiene in dottrina, tale richiesta, specialmente se pertiene a delle società, non è faccenda trascurabile per le conseguenze che determina: si pensi al “cordone sanitario” eretto attorno a compagini sociali che, sebbene in crisi, avrebbero potuto essere salvate; così come al clamore suscitato da una simile notizia, che spesso conduce ad una vera e propria morte della società stessa. 
Tant’è vero che intercorre una considerevole differenza tra la richiesta di fallimento avanzata da creditori e quella inoltrata dal P.M., dal momento che la seconda «non appare davvero il più delle volte comunque rimediabile, perché induce automaticamente alla perdita di fiducia di tutti i soggetti terzi, e l’azienda, se anche versi prima in ipotesi di semplice e ancora reversibile crisi, non potrà davvero nella maggior parte dei casi più rimediare[40]». Pertanto, non si cade in errore se si afferma che la domanda di fallimento promossa ad opera di un organo “qualificato”, quale il pubblico ministero, «produce potenzialmente conseguenze devastanti; è necessario, ancora una volta, avvertire della necessaria prudenza che deve permeare il comportamento del P.M.[41]». 
Non è certamente fuori luogo ritenere che tale organo pubblico sia dotato dei poteri d’approfondimento e di indagine «che gli consentono ed impongono, anzi, un attento esame preliminare alla scelta se richiedere o no il fallimento. Del resto, l’esigenza di iniziare una procedura prefallimentare solo quando ne valga davvero la pena risponde ovviamente ai principi dell’economia dei giudizi e del giusto processo, presidio ineliminabile di ogni decisione quando l’onere dell’attivazione spetta al P.M.[42]».
6 . L’eliminazione del potere di ufficio di dichiarare il fallimento. Può lo stesso giudice fallimentare trasmettere gli atti al P.M senza che si configuri una lesione dell’imparzialità e della terzietà dell’organo giudicante? Il ruolo del P.M. di legittimazione costituzionale se ancorato all’art. 111 della Carta
Tuttavia, la vera e propria vexata quaestio, oggetto di una fervente disputa sia dottrinale che giurisprudenziale, ha riguardato l’ammissibilità della segnalazione d’insolvenza al pubblico ministero ad opera del giudice fallimentare, rasentando tale fattispecie il rischio di pregiudicare la terzietà e l’imparzialità del medesimo organo giudicante. A tal riguardo, la Suprema Corte, in prima battuta, ha asserito che «è nulla la sentenza dichiarativa di fallimento pronunciata dal tribunale su iniziativa del P.M. a seguito di segnalazione effettuata dal tribunale fallimentare presso il quale pendeva un procedimento per dichiarazione di fallimento - nel caso di rinuncia da parte dell'unico creditore istante - in quanto la segnalazione dello stato d'insolvenza non può essere effettuata nell'ambito dello stesso giudizio di cui è parte l'imprenditore nei cui confronti si svolge l'istruttoria prefallimentare[43]». Ciò, dal momento che si pone come necessaria l’esigenza di garantire l’osservanza del principio costituzionale del giusto processo, ex art. 111 Cost.: pertanto, affinché il giudice possa definirsi terzo, è d’uopo che «nella vicenda portata al suo esame, egli non abbia assunto iniziative che lo abbiano in qualche modo impegnato in valutazioni che quel carattere pongano in discussione[44]».
La decisione in commento è stata bersaglio di pioventi critiche, avendo esposto il fianco a significative invettive da parte della dottrina che ha mostrato il proprio disappunto su molteplici aspetti. 
Vale la pena, in particolare, riportare quanto sostenuto da De Santis, secondo il quale la trasmissione al P.M. della notitia decoctionis, emersa nel corso del procedimento, non può qualificarsi come un atto avente contenuto decisorio, non incidendo essa sui diritti di alcuno, né essendo suscettibile di impugnazione[45]. In altri termini, si sarebbe al cospetto di un «atto “neutro”, privo di specifica valenza procedimentale o decisoria, il cui impulso riposa su una valutazione estemporanea, che non vincola nessuno: non il pubblico ministero, destinatario della notitia decoctionis; e meno che mai lo stesso tribunale fallimentare, al quale il P.M. riproponga l’istanza di fallimento[46]».
A sostegno di tale tesi si protende l’assioma dell’autonomia che connota la figura dell’organo pubblico: quest’ultimo, quando viene a conoscenza della situazione di decozione in cui versa l’imprenditore, non è in alcun modo obbligato a dar seguito alla segnalazione stessa, soprattutto se quest’ultima è stata effettuata da parte del giudice fallimentare; vale a dire che il P.M. potrebbe sia decidere di presentare istanza di fallimento o, al contrario, archiviare la pratica. In entrambe le circostanze, la sua determinazione sarà insindacabile. 
Ma vi è di più: la procura, pur avendo ricevuto tale notizia d’insolvenza da parte del tribunale, potrebbe anche ricercare elementi utili aliunde e, solo in virtù di questi, decidere poi di incardinare la domanda di fallimento. In ogni caso, ben si comprende come la determinazione di presentare o meno l’istanza di cui sopra sia demandata alla sola discrezionalità del P.M., a nulla rilevando la provenienza della medesima notitia decoctionis
Un incisivo disaccordo con quanto asseverato dalla Cassazione è stato manifestato da F. Auletta la cui analisi verte piuttosto sulla possibilità che il P.M. proponga domanda di fallimento, anche quando tale segnalazione non solo promani dal giudice fallimentare, ma riguardi anche un soggetto che non è in alcun modo parte del procedimento istruito dallo stesso; secondo l’illustre giurista, si tratterebbe di un vero e proprio «accadimento kafkiano»[47]. 
Proseguendo su tale scia, non è minimamente condivisibile quanto asserito in precedenza da parte dell’altra voce dottrinale. In particolare, secondo Auletta, se il giudice fallimentare si atteggia a mo’ di primum movens, rendendo edotto il P.M. della condizione di crisi in cui riversa un imprenditore, l’innovazione legislativa che ha inciso l’art. 7 L. fall. «sarebbe a ben vedere una sovrastruttura ipocritamente conservativa del sottostante status quo ante, in cui l'immanente potere del giudice di promuovere il procedimento per la dichiarazione di fallimento risulterebbe in niente inciso dall'introduzione di un arzigogolo che è la segnalazione del tribunale al P.M. e il ritorno dell'affare davanti al medesimo tribunale sub specie di richiesta per la dichiarazione di fallimento»; ovverosia «l'attore mediato è il tribunale, quello immediato è il P.M., ma senza così aver mai rimosso effettivamente la vietata figura del giudice-attore[48]». 
Alla luce di quanto esposto, l’autore, quindi, sposa quanto addotto dalla Cassazione in un primo momento, affermando che «il procedimento civile di cui all'art. 7, n. 2, non può identificarsi col "procedimento volto all'accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento"»; del resto, la stessa Suprema Corte ha statuito che «eventuali argomentazioni contrarie finiscono per svuotare le ragioni della premessa relativa alla perdita del potere del giudice di aprire il fallimento di ufficio, giacché la terzietà suppone che nella vicenda portata al suo esame, [il giudice] non abbia assunto iniziative, che lo abbiano in qualche modo impegnato in valutazioni che quel carattere pongano in discussione». Dunque, «non risulta possibile l’inclusione del procedimento avviato per la dichiarazione di fallimento nell'area del procedimento civile considerata dall'art. 7, n. 2 L. fall.[49]». 
Eppure, la medesima Corte di legittimità ben presto ribalta radicalmente il suo avviso, sancendo che «il P.M. può esercitare l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento anche quando la "notitia decoctionis" gli sia segnalata dal tribunale fallimentare, che abbia rilevato l'insolvenza nel corso del procedimento ex art. 15 L. fall. (…) Tale interpretazione, conforme ai lavori preparatori della riforma del 2006, non contrasta con i principi di terzietà e imparzialità del giudice, sanciti dall'art. 111 Cost., in quanto la segnalazione è un atto "neutro", privo di contenuto decisorio e assunto con valutazione prima facie, potendo sempre il tribunale, all'esito dell'istruttoria prefallimentare e a cognizione piena, respingere la richiesta del P.M., originata da detta segnalazione[50]».
La S.C. ha adottato tale decisione sia sulla base di quanto caldeggiato da talune correnti dottrinali sia sulla scorta di quanto statuito in precedenza dalla Corte costituzionale, secondo la quale rimane sottratta alla censura di illegittimità ogni ipotesi in cui la dichiarazione di fallimento sia intervenuta a conclusione di un procedimento avviato da soggetto diverso dal giudice decidente. In special modo, secondo il giudice delle leggi, l'iniziativa officiosa prevista dalla normativa previgente non si poneva in contrasto con il principio di imparzialità - terzietà del giudice, quando questi conservi «il fondamentale requisito di soggetto super partes ed equidistante rispetto agli interessi coinvolti»: dunque, non sarebbe sorto alcun contrasto degli artt. 6 e 8 legge fall. – nella precedente formulazione – con l'art. 111 Cost.
Ancor di più, bisogna tener conto anche di quanto stabilito all’interno della Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo recante la riforma della disciplina delle procedure concorsuali: la soppressione della dichiarazione di fallimento di ufficio, ex art. 8 L. fall., «risulta bilanciata dall'affidamento al pubblico ministero del potere di dare corso alla istanza di fallimento su segnalazione qualificata proveniente dal giudice al quale risulti l'insolvenza dell'imprenditore».
Al netto di ciò, non stupisce, quindi, che la Cassazione pronunciandosi a Sezioni Unite abbia avallato quanto sostenuto da F. De Santis; in tal modo, è stata consacrata l’intenzione storica del legislatore che «risulterebbe in sintonia con la formulazione letterale della norma, essendo stato chiaramente specificato che la richiesta di fallimento inoltrata dal pubblico ministero è conseguente alla segnalazione effettuata nell'ambito di qualunque procedimento da cui risulti l'insolvenza, con l'ulteriore precisazione che ciò vale pure nei casi di rinuncia al ricorso per la dichiarazione di fallimento dei creditori istanti[51]».
Tale interpretazione si attaglia alla stessa formulazione dell’art. 38 del CCII, perché nel suo seno il filtro di trasmettere la notizia della decozione si pone in un duplice senso: in primo luogo perché il P.M. è una parte come tutte le altre del processo prefallimentare e dovrà attenersi e subire il giudizio della Camera di Consiglio, sia perché sarebbe auspicabile che la notizia provenisse sempre dall’autorità giudiziaria, come prevede espressamente la norma.
Ecco allora che la dottrina e la giurisprudenza hanno cercato negli anni successivi alla riforma del 2006 di conferire al ruolo di P.M. una legittimazione costituzionale, incanalando ed introiettando nell’alveo del giusto processo ex art. 111 Cost. il suo intervento.
Il P.M. è parte e deve subire come tutte le parti del processo il controllo di un giudice che a sua volta deve avere la consapevolezza della terzietà ed imparzialità del ruolo.
È stato scritto e stigmatizzato: ”il tribunale fallimentare nel sistema segnalazione- iniziativa del pubblico ministero è senz’altro soggetto super partes, equidistante rispetto agli interessi coinvolti tant’è che a seguito dell’azione del pubblico ministero ben potrebbe del tutto legittimamente rigettare la richiesta, giudicando i fatti in maniera difforme da quanto avvenuto in sede di segnalazione, ben potendo ritenere destituita di fondamento l’azione del pubblico mistero e pertanto implicitamente svuotare la segnalazione iniziale dichiarando non sussistere i presupposti per la dichiarazione di fallimento”.[52]

Note:

[1] 
Così, S. Satta, Diritto fallimentare, III ed. aggiornata ed ampliata da R. Vaccarella, F.P. Luiso, Padova, 1996, p. 53. Nel medesimo senso anche A. Bonsignori, Tutela giurisdizionale dei diritti, in Commentario Scialoja- Branca, Bologna-Roma, 1999, p. 25; R. Tiscini, Potere di azione per la dichiarazione di fallimento e potere di segnalazione dello stato d’insolvenza: entità eterogenee a confronto, in Fall., 2011, p. 333.
[2] 
A. Illuminati, Conseguenze operative dell’abrogazione delle procedure di allerta, in Quotidiano più, 3.09.2022 Giuffrè editore. 
[3] 
A. Jorio, Composizione negoziata e pubblico ministero, in Dirittodellacrisi.it, 22 dicembre 2021.
[4] 
In tal senso, si esprime il documento della Procura generale di Cassazione, Il ruolo del pubblico ministero nella crisi d’impresa tra legge fallimentare, Codice della crisi e dell’insolvenza e decreto-legge n. 118 del 2021, in www.procuracassazione.it.
[5] 
Così S. De Flammineis, Il nuovo “ruolo” del P.M tra crisi e perdita della continuità aziendale, in Diritto penale contemporaneo, 2019, 5 ss. 
[6] 
In tal senso, il documento della Procura generale, cit
[7] 
In tal senso, S. De Flammineis, Il nuovo “ruolo” del P.M tra crisi e perdita della continuità aziendale, cit.
[8] 
Così, ancora il documento della Procura generale della Repubblica presso la Corte di cassazione cit.
[9] 
Così, M. Montanari, Profili processuali del nuovo codice della crisi e dell’insolvenza, in Nuova giur. civ. comm., 2019, p. 860.
[10] 
Così Cass., 18 maggio 2017, n. 12537, Ilfallimentarista.it, 2017.
[11] 
Così, A. Farolfi, Il nuovo ruolo del giudice dell’esecuzione nella tempestiva emersione della crisi d’impresa, Riv. es. forz., 2020, p. 58.
[12] 
Così Cass., S.U., 18 aprile 2013, n. 9409, in Riv. dir. proc., 2013, 1170 ss.
[13] 
Così, A. Farolfi, Il nuovo ruolo del giudice dell’esecuzione, cit
[14] 
Ex plurimis, Cass. 18 maggio 2017, n.12537, cit
[15] 
Così il documento della Procura generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, cit.
[16] 
Ibidem.
[17] 
In tal senso, L. Boggio, L’accesso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza, in Giur. it., 2019, n. 9, 943. 
[18] 
Così il documento della Procura generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, cit
[19] 
In tal senso, F. De Santis, Il ricorso del pubblico ministero per l’apertura della liquidazione giudiziale: tra interesse pubblico e modelli processuali comuni, in Dirittodellacrisi.it, 27 maggio 2021. 
[20] 
F. De Santis, Il ricorso del pubblico ministero, cit
[21] 
Così Cass. 30 gennaio 2017, n. 2228. 
[22] 
In tal senso, F. De Santis, Il ricorso del pubblico ministero, cit.
[23] 
In tal senso, S. Della Rocca, Art. 26 D.Lgs. 12-01-2019, n. 14 - Giurisdizione italiana, reperibile online. 
[24] 
Cass. 17511/2020.
[25] 
G. Federico, Segnalazione dell’insolvenza e terzietà del Giudice, in Il fall., 2012, 1299.
[26] 
In tal senso, De Santis, ult. op. cit.
[27] 
Si vedano Cass. n. 5 dicembre 2001, n. 15407, in Foro it., 2002, I, 347; Cass. 19 settembre 1995, n. 9884, in Il fall., 1996, 353. 
[28] 
Così A. Bonsignori, Diritto fallimentare, Torino, 1992, 119 ss. 
[29] 
In tal senso, F. De Santis, La domanda di fallimento, in Trattato di diritto fallimentare, diretto da V. Buonocore, A. Bassi, Padova, 2016, 217. 
[30] 
In tal senso, S. Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1974, 54 ss. 
[31] 
Così, F. De Santis, La domanda di fallimento, cit. 218. 
[32] 
Cfr. M.R. Grossi, La riforma della legge fallimentare, Milano, 2006, 61 ss. 
[33] 
Così, F. De Santis, ult. op. cit. 
[34] 
In tal senso, F. Auletta, Iniziativa del pubblico ministero, in Commentario alla legge fallimentare, diretto da C. Cavallini, Milano, 2010, 141 ss. 
[35] 
In tal senso, C. Cecchella, voce Procedure concorsuali – apertura di fallimento, in Enc. giur., Roma, 2007, 606 ss. 
[36] 
In tal senso, Giannelli, Il fallimento, in AA.VV., Diritto fallimentare, Milano, 2008, 185 ss.; si veda anche Censoni, La dichiarazione di fallimento, in Bonfatti-Censoni, Manuale di diritto fallimentare, III ed., Padova, 2009, 53 ss. 
[37] 
F. De Santis, Segnalazione d’insolvenza, iniziativa fallimentare del pubblico ministero e terzietà del giudice, in Il Il fall., 2009, 524; Cass., 15 giugno 2012, n. 9857.
[38] 
Ancora il documento della Procura generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, cit.
[39] 
Così F. Auletta, Ancora sui limiti della legittimazione del P.M. all’istanza di fallimento, in Riv. dir. proc., 2012, 780 ss.
[40] 
Così, F. Santangeli, P.M. e fallimento, in Dir. fall., 2017, 1 ss. 
[41] 
Ibidem
[42] 
Ibidem
[43] 
Così Cass. Civ. Sez. I, 26 febbraio 2009, n. 4632. 
[44] 
Ibidem
[45] 
Così, F. De Santis, op. cit.
[46] 
Ibidem.
[47] 
Così F. Auletta, Iniziativa del pubblico ministero, cit.
[48] 
Ibidem.
[49] 
Così Cass. Civ. Sez. I, 26 febbraio 2009, n. 4632, cit
[50] 
In tal senso, Cass. civ., sez. I, 15 giugno 2012, n. 9857. 
[51] 
In tal senso, R. Tiscini, Segnalazione dello stato di insolvenza da parte del tribunale fallimentare e iniziativa per la dichiarazione di fallimento ad opera del pubblico ministero. La Corte di cassazione torna sui suoi passi, in www.judicium.it
[52] 
G. Federico, Segnalazione dell’insolvenza e terzietà del giudice, in Il fall., 2012, 1299.

informativa sul trattamento dei dati personali

Articoli 12 e ss. del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR)

Premessa - In questa pagina vengono descritte le modalità di gestione del sito con riferimento al trattamento dei dati personali degli utenti che lo consultano.

Finalità del trattamento cui sono destinati i dati personali - Per tutti gli utenti del sito web i dati personali potranno essere utilizzati per:

  • - permettere la navigazione attraverso le pagine web pubbliche del sito web;
  • - controllare il corretto funzionamento del sito web.

COOKIES

Che cosa sono i cookies - I cookie sono piccoli file di testo che possono essere utilizzati dai siti web per rendere più efficiente l'esperienza per l'utente.

Tipologie di cookies - Si informa che navigando nel sito saranno scaricati cookie definiti tecnici, ossia:

- cookie di autenticazione utilizzati nella misura strettamente necessaria al fornitore a erogare un servizio esplicitamente richiesto dall'utente;

- cookie di terze parti, funzionali a:

PROTEZIONE SPAM

Google reCAPTCHA (Google Inc.)

Google reCAPTCHA è un servizio di protezione dallo SPAM fornito da Google Inc. Questo tipo di servizio analizza il traffico di questa Applicazione, potenzialmente contenente Dati Personali degli Utenti, al fine di filtrarlo da parti di traffico, messaggi e contenuti riconosciuti come SPAM.

Dati Personali raccolti: Cookie e Dati di Utilizzo secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio.

Privacy Policy

VISUALIZZAZIONE DI CONTENUTI DA PIATTAFORME ESTERNE

Questo tipo di servizi permette di visualizzare contenuti ospitati su piattaforme esterne direttamente dalle pagine di questa Applicazione e di interagire con essi.

Nel caso in cui sia installato un servizio di questo tipo, è possibile che, anche nel caso gli Utenti non utilizzino il servizio, lo stesso raccolga dati di traffico relativi alle pagine in cui è installato.

Widget Google Maps (Google Inc.)

Google Maps è un servizio di visualizzazione di mappe gestito da Google Inc. che permette a questa Applicazione di integrare tali contenuti all'interno delle proprie pagine.

Dati Personali raccolti: Cookie e Dati di Utilizzo.

Privacy Policy

Google Fonts (Google Inc.)

Google Fonts è un servizio di visualizzazione di stili di carattere gestito da Google Inc. che permette a questa Applicazione di integrare tali contenuti all'interno delle proprie pagine.

Dati Personali raccolti: Dati di Utilizzo e varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio.

Privacy Policy

Come disabilitare i cookies - Gli utenti hanno la possibilità di rimuovere i cookie in qualsiasi momento attraverso le impostazioni del browser.
I cookies memorizzati sul disco fisso del tuo dispositivo possono comunque essere cancellati ed è inoltre possibile disabilitare i cookies seguendo le indicazioni fornite dai principali browser, ai link seguenti:

Base giuridica del trattamento - Il presente sito internet tratta i dati in base al consenso. Con l'uso o la consultazione del presente sito internet l’interessato acconsente implicitamente alla possibilità di memorizzare solo i cookie strettamente necessari (di seguito “cookie tecnici”) per il funzionamento di questo sito.

Dati personali raccolti e natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati e conseguenze di un eventuale rifiuto - Come tutti i siti web anche il presente sito fa uso di log file, nei quali vengono conservate informazioni raccolte in maniera automatizzata durante le visite degli utenti. Le informazioni raccolte potrebbero essere le seguenti:

  • - indirizzo internet protocollo (IP);
  • - tipo di browser e parametri del dispositivo usato per connettersi al sito;
  • - nome dell'internet service provider (ISP);
  • - data e orario di visita;
  • - pagina web di provenienza del visitatore (referral) e di uscita;

Le suddette informazioni sono trattate in forma automatizzata e raccolte al fine di verificare il corretto funzionamento del sito e per motivi di sicurezza.

Ai fini di sicurezza (filtri antispam, firewall, rilevazione virus), i dati registrati automaticamente possono eventualmente comprendere anche dati personali come l'indirizzo IP, che potrebbe essere utilizzato, conformemente alle leggi vigenti in materia, al fine di bloccare tentativi di danneggiamento al sito medesimo o di recare danno ad altri utenti, o comunque attività dannose o costituenti reato. Tali dati non sono mai utilizzati per l'identificazione o la profilazione dell'utente, ma solo a fini di tutela del sito e dei suoi utenti.

I sistemi informatici e le procedure software preposte al funzionamento di questo sito web acquisiscono, nel corso del loro normale esercizio, alcuni dati personali la cui trasmissione è implicita nell'uso dei protocolli di comunicazione di Internet. In questa categoria di dati rientrano gli indirizzi IP, gli indirizzi in notazione URI (Uniform Resource Identifier) delle risorse richieste, l'orario della richiesta, il metodo utilizzato nel sottoporre la richiesta al server, la dimensione del file ottenuto in risposta, il codice numerico indicante lo stato della risposta data dal server (buon fine, errore, ecc.) ed altri parametri relativi al sistema operativo dell'utente.

Tempi di conservazione dei Suoi dati - I dati personali raccolti durante la navigazione saranno conservati per il tempo necessario a svolgere le attività precisate e non oltre 24 mesi.

Modalità del trattamento - Ai sensi e per gli effetti degli artt. 12 e ss. del GDPR, i dati personali degli interessati saranno registrati, trattati e conservati presso gli archivi elettronici delle Società, adottando misure tecniche e organizzative volte alla tutela dei dati stessi. Il trattamento dei dati personali degli interessati può consistere in qualunque operazione o complesso di operazioni tra quelle indicate all' art. 4, comma 1, punto 2 del GDPR.

Comunicazione e diffusione - I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati, intendendosi con tale termine il darne conoscenza ad uno o più soggetti determinati, dalla Società a terzi per dare attuazione a tutti i necessari adempimenti di legge. In particolare i dati personali dell’interessato potranno essere comunicati a Enti o Uffici Pubblici o autorità di controllo in funzione degli obblighi di legge.

I dati personali dell’interessato potranno essere comunicati nei seguenti termini:

  • - a soggetti che possono accedere ai dati in forza di disposizione di legge, di regolamento o di normativa comunitaria, nei limiti previsti da tali norme;
  • - a soggetti che hanno necessità di accedere ai dati per finalità ausiliare al rapporto che intercorre tra l’interessato e la Società, nei limiti strettamente necessari per svolgere i compiti ausiliari.

Diritti dell’interessato - Ai sensi degli artt. 15 e ss GDPR, l’interessato potrà esercitare i seguenti diritti:

  • 1. accesso: conferma o meno che sia in corso un trattamento dei dati personali dell’interessato e diritto di accesso agli stessi; non è possibile rispondere a richieste manifestamente infondate, eccessive o ripetitive;
  • 2. rettifica: correggere/ottenere la correzione dei dati personali se errati o obsoleti e di completarli, se incompleti;
  • 3. cancellazione/oblio: ottenere, in alcuni casi, la cancellazione dei dati personali forniti; questo non è un diritto assoluto, in quanto le Società potrebbero avere motivi legittimi o legali per conservarli;
  • 4. limitazione: i dati saranno archiviati, ma non potranno essere né trattati, né elaborati ulteriormente, nei casi previsti dalla normativa;
  • 5. portabilità: spostare, copiare o trasferire i dati dai database delle Società a terzi. Questo vale solo per i dati forniti dall’interessato per l’esecuzione di un contratto o per i quali è stato fornito consenso e espresso e il trattamento viene eseguito con mezzi automatizzati;
  • 6. opposizione al marketing diretto;
  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

Dati di contatto - Società per lo studio del diritto della crisi con sede in via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN); email: ssdirittodellacrisi@gmail.com.

Responsabile della protezione dei dati - Il Responsabile della protezione dei dati non è stato nominato perché non ricorrono i presupposti di cui all’art 37 del Regolamento (UE) 2016/679.

Il TITOLARE

del trattamento dei dati personali

Società per lo studio del diritto della crisi

REV 02