In virtù dell’emanazione del D.Lgs. n. 5/2006, artefice dell’abrogazione dell’iniziativa officiosa per la dichiarazione di fallimento ex art. 8 L. fall., era stato statuito che il potere d’iniziativa fallimentare sorgesse in capo al pubblico ministero. In particolare, al contrario di quanto disposto riguardo al debitore ed al creditore, l’art. 6 L. fall. recava la previsione legislativa in ordine alla quale la domanda di fallimento presentata dal P.M. non doveva assumere la forma del ricorso, dal momento che era sufficiente anche una mera “richiesta” da avanzare nei casi annoverati ex art. 7 L. fall., ovverosia: quando l’insolvenza emerge nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dall’irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore; e quando l’insolvenza risultava dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’aveva rilevata nel corso di un procedimento civile.
All’indomani della modifica legislativa del 2006, sia la dottrina che la giurisprudenza sono state attanagliate da un serio interrogativo: se il potere del P.M. di promuovere la richiesta di fallimento rivestisse portata generale o, al contrario, fosse circoscritto ai casi di cui all’art. 7 L. fall. A tal riguardo, è doveroso premettere che, sulla scorta del dettato legislativo precedente alla riforma del 2006, non poche pronunce della Corte di legittimità[27] avevano avallato l’indirizzo secondo cui l’iniziativa del P.M. avesse carattere generale e, quindi, non fosse limitata alle sole fattispecie elencate nel corpus del suddetto art. 7. Ciò, dal momento che si attribuiva all’art. 7 L. fall. un valore esemplificativo delle evenienze in cui si qualificava come necessaria la presentazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento, non costituendo quest’ultimo l’estrinsecazione di un potere d’azione del P.M., ma nient’altro che una denuncia al tribunale affinché provvedesse d’ufficio.
Tuttavia, molteplici erano le voci dissenzienti rispetto a tale corrente di pensiero giurisprudenziale, specialmente in ambito dottrinale: va segnalata soprattutto l’autorevole critica di chi riteneva che l’iniziativa del pubblico ministero, pur rivestendo le caratteristiche dell’azione in senso processuale, non poteva essere considerata alla stregua di una mera segnalazione al tribunale «perché si finirebbe per disconoscere l’analogia di poteri e facoltà spettanti al pubblico ministero rispetto a quelli attribuiti al creditore, e per rendere superflua la previsione dell’art. 7, che ipotizza una vera e propria segnalazione all’ufficio giurisdizionale[28]».
Una volta intervenuta la riforma del 2006, la caratterizzazione dell’iniziativa per la dichiarazione di fallimento da parte del P.M. mutò radicalmente, ascrivendo il carattere di tassatività alle ipotesi ex art. 7 L. fall. Tale cambiamento fu innanzitutto avallato dalla presa di coscienza meritevole di aver ricondotto la figura del P.M. nell’ordito dell’art. 69 c.p.c.
In altri termini, se la norma anzidetta dispone che «il pubblico ministero esercita l’azione civile nei casi stabiliti dalla legge», la conseguenza più immediata risiede nel fatto che non solo si debba dare applicazione alla littera legis – vale a dire che l’organo anzidetto possa intervenire nel processo o esercitare l’azione civile, esclusivamente quando ciò sia prescritto dalla legge – ma anche che non esiste alcun potere generale della procura «di agire nel processo civile, né le ipotesi in cui la legge riconosce al pubblico ministero il potere di agire sono suscettibili di interpretazione analogica o estensiva[29]». Sicché, ben si comprende come appaia fondamentale che l’istanza di fallimento da parte del P.M. debba sempre conservare uno stretto legame con l’azione penale; diversamente opinando – riconoscendogli, cioè, un’iniziativa di carattere generale – «si attribuirebbero al P.M. poteri inquisitori sul regolare andamento delle imprese, che certamente non gli competono[30]».
Tant’è vero che, sulla scorta delle norme codicistiche, emerge lapalissianamente che la figura del P.M. non si staglia allo stesso modo delle parti private: queste ultime godono della possibilità di proporre azione quando siano titolari di un interesse individuale qualificato; al contrario, il P.M. agisce per dovere d’ufficio e nell’interesse pubblico, ricoprendo il ruolo di parte soltanto in senso formale, non potendo, cioè, «disporre degli interessi di indole generale, dei quali la legge gli affida la tutela[31]».
Incanalando tale autorevole scuola di pensiero nell’ambito della legge fallimentare, e segnatamente nel corpus degli artt. 6 e 7 L. fall., ne conseguiva, in primis, che il pubblico ministero non è titolare di un’autonoma e generale iniziativa fallimentare, potendo impiegare siffatto potere soltanto al ricorrere delle ipotesi descritte ex art. 7 L. fall.; in questi ultimi casi, nella circostanza in cui riteneva che la segnalazione da lui ricevuta avesse prima facie un qualche fondamento, egli era tenuto a porre in essere l’iniziativa fallimentare[32]; non avendo la disponibilità degli interessi di indole generale di cui la legge gli affidava la tutela, allorché presentava la domanda di fallimento, egli diventava parte del processo soltanto in senso formale[33].
In particolare, riguardo a tale ultima asserzione, vale la pena rimarcare che il rilievo in ordine al quale il P.M. non fosse parte del processo – o solo parte formale – era confermato oltremodo dalla sua esclusione dal novero dei legittimati al reclamo contro la sentenza che dichiarava il fallimento: ciò si spiega «con la congenita carenza di una parte pubblica che possa dirsi soccombente e, perciò, interessata al mezzo di impugnazione[34]».
Pertanto, se si sposa la tesi secondo cui le ipotesi previste ex art. 7 L. fall., presentano carattere tassativo, è palmare che al pubblico ministero non competa alcun potere di istanza al di fuori delle fattispecie legislative di cui sopra e, in secundis, che, qualora quest’ultimo “abusi” di tale potere assegnatogli dalla legge, è evidente che la nullità della dichiarazione di fallimento si ergerà a inevitabile sanzione per la sopraffazione compiuta. Ciò, dal momento che «si deve radicalmente escludere» che tale organo pubblico «sia titolare di un generale potere di controllo degli imprenditori, al di fuori dei casi indicati dalla legge[35]». In altri termini «egli non può autonomamente esercitare poteri inquisitori sul regolare andamento delle imprese e sulla loro integrità economica[36]».
Benché l’art. 38 del CCII non menzioni i casi specifici di cui all’art. 7 della decorsa legge fallimentare, è evidente che l’ampliamento dei poteri del PM non autorizza a ritenere che da parte sua sia venuto meno il vaglio e la necessità di ponderare se esercitare o meno l’azione concorsuale. Non si ravvisa nessuna coazione o obbligatorietà nella formulazione della norma.
Si può ritenere valido ed ancora pregnante l’insegnamento di F. De Santis secondo cui “non sarà infatti la segnalazione a pregiudicare, né il PM né il Tribunale. Essa è un atto neutro, privo di autonoma efficacia procedimentale e tantomeno decisionale, frutto di una delibazione non vincolante, certamente non pregiudicante la valutazione dello stesso tribunale decidente assolutamente non inferente con il principio di imparzialità: senza alcuna accentuazione decisoria e valenza procedimentale la segnalazione può essere anche una valutazione estemporanea che non vincola nessuno.”[37]
La giurisprudenza ha rimarcato – rispetto all’art. 7 L. fall. – il fatto che il Pubblico Ministero deve conservare l’autonomia necessaria e vagliare con discrezionalità opportuna anche la possibilità di non proporre l’istanza di fallimento, perché non sussistono gli estremi dell’insolvenza e dunque archiviare la segnalazione che gli è pervenuta. Questo vale anche per l’interpretazione dell’art. 38 del CCII. Tuttavia, è doveroso affermare che con il CCII si è abbandonata la lettura casistica o obbligatoria dell’art. 7 per giungere ad un ampio potere della Pubblica accusa.
A giusta ragione la Procura Generale presso la Corte di Cassazione ritiene che “l’art. 38 CCII rappresenta quindi una chiara novità rispetto all’art. 7 L. fall. che fa riferimento al procedimento penale, come luogo “naturale” di acquisizione di tale notizia (quella decoctionisis appresa dal Pubblico Ministero nell’esercizio delle sue funzioni), ma anche all’alternativa rappresentata dall’elencazione casistica degli altri possibili sintomi da cui il PM avrebbe potuto acquisire la notitia decoctionisis, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore. L’unico presupposto è quindi che la notitia decoctionis sia stata acquisita dal P.M. nell'ambito della sua attività istituzionale, e non attraverso una mera ricerca di iniziativa ex novo dell'insolvenza. Attività istituzionale che comporta anche la legittimazione a chiedere l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale, con la conseguenza che tale legittimazione, non più limitata alle ipotesi tipiche dell’art. 7 comma 1 L. fall., potrà essere esercitata anche a seguito di segnalazioni di terzi, diverse ed ulteriori rispetto a quelle dell’autorità giudiziaria. Segnalazioni che potranno provenire, in primo luogo, da creditori che intendano, per varie ragioni, “delegare” al P.M. il vaglio e l’eventuale deposito dell’istanza. Il che potrà accadere, ad esempio, nell’ipotesi dei crediti dei lavoratori dipendenti nei confronti del datore di lavoro incapiente, ipotesi nelle quali l’istanza di apertura della procedura di liquidazione rappresenta, sovente, soltanto un “costo” necessario per accedere al fondo di garanzia dell’INPS. Segnalazioni della sussistenza di uno stato d’insolvenza potranno provenire anche da organi di controllo nell’ipotesi in cui gli stessi, pur non volendo assumere la responsabilità di proporre direttamente l’istanza, comunichino la notitia decoctionis al P.M., al fine di eludere o comunque alleviare la loro eventuale futura responsabilità. Medesimo ampliamento oggettivo, rispetto all’attuale disciplina si riscontra anche nel secondo comma dell’art. 38 del CCII in forza del quale “l’autorità giudiziaria che rivela l’insolvenza nel corso di un procedimento lo segnala al pubblico ministero”. Al pari di quanto già visto con riferimento al primo comma, la segnalazione al P.M. da parte del giudice viene svincolata dai vincoli soggettivi e procedimentali di cui all’art. 7 comma 2 L. fall. che pone l’obbligo della segnalazione di insolvenza del solo giudice che l’abbia rilevata “nel corso di un procedimento civile”. L’art. 38, secondo comma, CCII, fa riferimento all’”autorità giudiziaria”, senza, quindi, alcuna distinzione né tra quella ordinaria e speciale, né, nell’ambito di quella ordinaria, tra settori di appartenenza, con la conseguenza che tutti i giudici avranno l’obbligo di segnalare l’insolvenza rilevata nell’ambito di un qualunque “procedimento”, che potrà, dunque, essere anche un procedimento amministrativo o tributario o di qualsiasi altro tipo. In definitiva, come accennato, il legislatore delegato ha effettivamente restituito “centralità al ruolo del P.M.”, come indicato nella Relazione illustrativa all’art. 38 CCII”[38].
Con l’espressione autorità giudiziaria, dunque, si fa riferimento sia ad un giudice civile che penale, o a qualunque altro potere giurisdizionale, per esempio un giudice amministrativo o tributario. Ma resta sempre fermo quanto sostenuto dalla migliore dottrina anche in commento all’art. 7 della decorsa legge fallimentare.
L’ubi consistam di questo originale pensiero si può attagliare anche all’art. 38. Si ritiene, infatti, che “il potere di iniziativa del P.M. non si configura illimitato, [...] ma il suo esercizio risulta subordinato alla ricorrenza delle ipotesi espressamente previste dall’art. 7”, e che “in tanto il P.M. possa presentare la richiesta di fallimento di un imprenditore in quanto lo stato di insolvenza di quest’ultimo emerga nell’ambito di un procedimento penale promosso nei confronti dello stesso imprenditore. Ne consegue che, difettando il presupposto di cui all’art. 7 n. 1 e cioè la pendenza di un procedimento penale nei confronti [dell’imprenditore] nell’ambito del quale sia risultata l’insolvenza di quest’ultim[o], la dichiarazione di fallimento, ciononostante emessa dal Tribunale, deve ritenersi affetta da nullità, senza che rilevi che la qualità di parte del procedimento penale sia stata assunta [...] successivamente[…]. Ora, a me sembra che nel sistema della Legge fallimentare l’iniziativa del P.M. ruoti attorno a un cardine di garanzia, cioè che l’organo pubblico possa mutuare la notitia decoctionis (soltanto) da procedimenti, civile o penale, nei confronti dell’imprenditore […].Insomma, il P.M. non può farsi promotore di alcun procedimento sui generis soltanto per ricercare notizie sulla solvibilità dell’imprenditore, in funzione peculiare dell’eventuale richiesta di fallimento[…].”[39]
Al netto di quanto esposto, ben si comprende come appaia di importanza cruciale l’analisi cui è deputato il p.m., onde valutare se sia necessario o meno presentare domanda di liquidazione giudiziale, anche nell’ordito dell’art. 38. Come si sostiene in dottrina, tale richiesta, specialmente se pertiene a delle società, non è faccenda trascurabile per le conseguenze che determina: si pensi al “cordone sanitario” eretto attorno a compagini sociali che, sebbene in crisi, avrebbero potuto essere salvate; così come al clamore suscitato da una simile notizia, che spesso conduce ad una vera e propria morte della società stessa.
Tant’è vero che intercorre una considerevole differenza tra la richiesta di fallimento avanzata da creditori e quella inoltrata dal P.M., dal momento che la seconda «non appare davvero il più delle volte comunque rimediabile, perché induce automaticamente alla perdita di fiducia di tutti i soggetti terzi, e l’azienda, se anche versi prima in ipotesi di semplice e ancora reversibile crisi, non potrà davvero nella maggior parte dei casi più rimediare[40]». Pertanto, non si cade in errore se si afferma che la domanda di fallimento promossa ad opera di un organo “qualificato”, quale il pubblico ministero, «produce potenzialmente conseguenze devastanti; è necessario, ancora una volta, avvertire della necessaria prudenza che deve permeare il comportamento del P.M.[41]».
Non è certamente fuori luogo ritenere che tale organo pubblico sia dotato dei poteri d’approfondimento e di indagine «che gli consentono ed impongono, anzi, un attento esame preliminare alla scelta se richiedere o no il fallimento. Del resto, l’esigenza di iniziare una procedura prefallimentare solo quando ne valga davvero la pena risponde ovviamente ai principi dell’economia dei giudizi e del giusto processo, presidio ineliminabile di ogni decisione quando l’onere dell’attivazione spetta al P.M.[42]».