Saggio
Dall'azione di responsabilità alla liquidazione controllata: una tattica processuale con risvolti critici in tema di prededuzione e crediti solidali tra procedure*
Marco Pericciuoli, Cultore di diritto commerciale nell’Università degli Studi di Firenze
9 Settembre 2024
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Sommario:
1 . Introduzione: il problema del recupero del credito derivante dall’azione di responsabilità
2 . Il Sequestro conservativo nell’azione di responsabilità
3 . Dalla sentenza di condanna alla liquidazione controllata: note sulla legittimazione attiva
4 . La collocazione e le interferenze dei crediti solidali nelle diverse procedure
Ai fini del presente lavoro, non rilevano pertanto le caratteristiche proprie dell’azione di responsabilità in quanto tale o suoi aspetti che ne possano influenzare il successo o meno, bensì la tutela del credito ottenuto a seguito di un’azione di responsabilità vittoriosa.
Il sequestro conservativo deve necessariamente fondarsi sui contemporanei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora[11]; se il primo presupposto può ricondursi al profilo di verosimile fondatezza della domanda di condanna risarcitoria, il secondo presupposto in particolare presenta propri elementi oggettivi e soggettivi, così definiti in una massima della Suprema Corte: “Il requisito del periculum in mora occorrente per l'autorizzazione e la successiva convalida del sequestro conservativo, può essere desunto sia da elementi oggettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all'entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci fondamentalmente presumere che, al fine di sottrarsi all'adempimento, egli si accinga a porre in essere atti dispositivi idonei a provocare l'eventuale depauperamento del suo patrimonio”[12].
Tali elementi assumono particolare rilievo proprio nelle azioni di responsabilità, dove vengono più segnatamente codificati.
L’elemento oggettivo è stato finora l’aspetto su cui si sono maggiormente soffermate le decisioni sulle concessioni o meno dei sequestri conservativi in tale ambito, declinato con riferimento alla capienza patrimoniale del debitore amministratore/sindaco, data la frequente – per non dire quasi totale, considerata la materia – casistica di petitum notevolmente superiore al valore dei patrimoni personali dei convenuti. Difatti, tale circostanza si verifica soprattutto in virtù del fatto che, nelle società in bonis, il conferimento degli incarichi ad amministratori e sindaci – di natura contrattualistica – sia fortemente sbilanciato verso le capacità di gestione e controllo a discapito della verifica preliminare di una capienza patrimoniale da ritenersi adeguata ex ante rispetto alla funzione di garanzia per un potenziale danno futuro[13]; inoltre, non rilevano né la responsabilità solidale[14], poiché la norma permette al creditore di richiedere il pagamento dell’intero ad ogni singolo coobbligato – salva poi la possibilità di quest’ultimo di esercitare il proprio diritto di regresso sugli altri coobbligati in solido – rendendo di fatto ogni singolo debitore suscettibile di valutazione di capacità patrimoniale rispetto al debito totale, né la presenza di un contratto di assicurazione della responsabilità civile stipulato dai convenuti[15], poiché la chiamata in causa delle compagnie assicurative, così come l’effettiva – da provarsi – efficacia della copertura assicurativa, risulta di fatto solo un’eventualità e non una certezza.
L’elemento soggettivo[16], per sua natura, risulta più difficile da codificare, trattandosi del risultato di un’analisi volta a identificare la propensione di un soggetto a porre in essere condotte espressamente finalizzate alla riduzione della propria garanzia patrimoniale[17]; volendo comunque non lasciare una marcata preponderanza dell’elemento oggettivo e pertanto accedere ad una visione dinamica del periculum in mora in cui l’elemento soggettivo rilevi maggiormente[18], la predisposizione a ridurre la garanzia patrimoniale può trovare fondamento non solo in condotte successive all’insorgenza del danno, ma anche compiute nell’arco temporale nel quale è stato svolto l’incarico di amministratore/sindaco[19].
Sul piano temporale, l’art.686 c.p.c. prevede la conversione del sequestro conservativo in pignoramento al momento in cui – e con decorrenza da quando[21] – il creditore sequestrante ottiene sentenza di condanna esecutiva, con il vantaggio ulteriore, in forza delle disposizioni dell’art.156 disp. att. c.p.c., di non dover nemmeno aspettare che la sentenza di condanna passi in giudicato, la quale – di fatto – innesca immediatamente l’esecuzione individuale.
Nel caso in esame, volendo considerare il destinatario dell’azione legale un soggetto persona fisica che ha ricoperto l’incarico di amministratore/sindaco in una società poi fallita/liquidata giudizialmente, si ritiene residuale – seppur possibile – la casistica che tale soggetto presenti i requisiti per essere assoggettato a liquidazione giudiziale; nella quasi totalità dei casi, il potenziale soccombente sarà ascrivibile alla categoria dei debitori soggetti a sovraindebitamento così come definito dall’art. 2, lett. c), CCII, pertanto assoggettabile a procedure esecutive individuali e liquidazione controllata.
Il primo profilo è originato dalla seconda parte del dettato normativo in esame, “la domanda può essere presentata da un creditore anche in pendenza di procedure esecutive individuali”: la presenza della parola “anche” ha indotto la dottrina a riflettere su come inquadrare la presenza di procedure esecutive individuali nel procedimento di apertura della liquidazione controllata. In particolare, gli elementi oggetto di analisi dottrinale sono stati: a) la presenza – o l’assenza – di almeno una procedura esecutiva individuale oppure di una pluralità di esecuzioni individuali, b) il fatto che il creditore istante sia provvisto di titolo esecutivo o meno. A parere di chi scrive, i due aspetti sono così strutturati:
i) il dibattito concernente la presenza di almeno una procedura esecutiva individuale oppure di una pluralità di esecuzioni individuali trova origine nella qualificazione della parola “anche” all’interno della lettera normativa, cui si ritiene debba essere attribuito il significato della presenza di una o più procedure esecutive individuali quale condizione sufficiente ma non necessaria per l’apertura della liquidazione controllata. Essendo la procedura liquidatoria minore permeata di principi intrinseci della procedura liquidatoria maggiore, dove l’assenza di procedure esecutive individuali non osta all’apertura della procedura laddove – invece – la presenza di un’esecuzione pendente può al più rafforzare il presupposto di insolvenza rendendola una condizione sufficiente ma non necessaria, non si comprende come mai il legislatore avrebbe scritto la parola “anche” nell’art. 268 – che pertanto appare rafforzativa – invece che la dicitura “solo in presenza di”, qualora avesse invece voluto intenderla come condizione necessaria[27];
ii) il dibattito sul fatto che il creditore istante sia munito di titolo esecutivo è invece di respiro più ampio, poiché concerne un aspetto più prettamente di natura processuale. Sempre volendo sposare la tesi dell’analogia dei principi che sorreggono la liquidazione controllata e la liquidazione giudiziale, in mancanza di apposita disposizione espressa, si ritiene che il creditore istante non debba necessariamente essere provvisto di titolo esecutivo, poiché, al fine dell’accertamento dell’insolvenza secondo le regole tradizionali, rilevano la presenza del credito e la configurazione del mancato adempimento, non trovando invece rilevanza la presenza del titolo esecutivo[28], la cui natura rivela la propria importanza nelle procedure esecutive individuali e non collettive.
Questo aspetto è stato fin qui poco attenzionato dalla dottrina. Chi scrive ritiene che la presenza di un unico credito inadempiuto sia condizione necessaria e sufficiente per configurare lo stato d’insolvenza e, di conseguenza, dichiarare aperta la liquidazione controllata[31]. Tale impostazione trova fondamento – nuovamente – nello stretto rapporto intercorrente tra la liquidazione controllata e la liquidazione giudiziale, in particolare sotto due profili:
i) in primo luogo, appare corretto attingere alla consolidata tradizione dottrinale e giurisprudenziale che ha identificato i criteri con cui si configura lo stato di insolvenza del debitore, che travalica i confini della distinzione tra procedure minori e procedure maggiori nel CCII, trattandosi di uno stato oggettivo indipendente dalle caratteristiche soggettive del debitore[32]. Pertanto, sulla base di pacifici orientamenti consolidati, appare ragionevole affermare che lo stato di insolvenza necessario all’apertura della liquidazione controllata, equiparabile allo stato di insolvenza necessario all’apertura del fallimento ai tempi della Legge Fallimentare (regime normativo sotto il quale si è evoluta la configurazione dell’insolvenza) e della liquidazione giudiziale correntemente sotto il Codice della Crisi e dell’Insolvenza, sia desumibile dalla presenza anche di un unico debito[33];
ii) in secondo luogo si rileva il dettato dell’art. 276 CCII, il quale disciplina la chiusura della liquidazione controllata rimandando integralmente al contenuto dell’art. 233 CCII, il quale disciplina i casi di chiusura della liquidazione giudiziale: in particolare, oggetto del nostro interesse è il caso disciplinato dall’art. 233, comma 1, lett. a), CCII, il quale dispone la chiusura della procedura “se nel termine stabilito nella sentenza con cui è stata dichiarata aperta la procedura non sono state proposte domande di ammissione al passivo” con formulazione identica alla Legge Fallimentare. Infatti, seppur la lettera normativa parli al plurale di domande di ammissione al passivo, è pacificamente consolidato che la procedura rimanga aperta anche nel caso di presenza di un’unica insinuazione, che poi si concretizzi in un effettivo credito ammesso al passivo, poiché una procedura senza passivo non ha motivo di esistere. Seppur le qualifiche di creditore istante e di creditore insinuato al passivo siano indipendenti, poiché anche il creditore istante soggiace alle regole ordinarie del concorso e dell’accertamento del passivo ai sensi degli artt. 200 e segg. CCII, si ritiene di poter comunque affermare che, se per consolidare l’esistenza stessa della liquidazione giudiziale sia sufficiente un solo credito durante la fase di accertamento del passivo, tale criterio di sufficiente unicità del credito debba essere applicato anche, se non a maggior ragione, in sede di accertamento dello stato di insolvenza: apparirebbe teleologicamente e sistematicamente errato immaginare una procedura dove siano presenti più crediti in fase istruttoria che in fase di accertamento del passivo, e, essendo a norma dell’art. 233 CCII il numero di crediti necessari alla sussistenza di una liquidazione giudiziale (ergo, di una liquidazione controllata) pari a uno, allora anche in fase istruttoria tale numero non può necessariamente dover essere maggiore di uno.
In particolare, ciò che assume contorni ancor più interessanti è la modalità con cui il coobligato adempiente (solvens) può recuperare quanto gli spetta dal coobbligato inadempiente, tenendo conto dell’eventuale condanna alle spese secondo il principio di soccombenza ex art. 91 c.p.c. o della compensazione delle stesse, sempre considerando che si tratta di due procedure (o, meglio, di una procedura già aperta e di una soggettività passiva in bonis che, per tattica processuale, si tramuterà in una nuova procedura). Si rileva come il legislatore identifichi due fattispecie per perseguire tale obiettivo recuperatorio, ossia la surrogazione ex art. 1203 c.c. e il regresso ex art. 1299 c.c.; senza voler entrare approfonditamente nella teoria generale delle obbligazioni solidali e in quelle relative al rapporto tra esse[38], al nostro fine interessa analizzare le differenze tra i due istituti che più impattano sulle posizioni passive in esame. Innanzitutto, pur trovando entrambi gli istituti il proprio fatto costitutivo nell’adempimento, il regresso è un diritto ex novo in capo al solvens acquisito a titolo originario, mentre la surrogazione, che consiste nel subentro da parte del solvens nei diritti del creditore originario soddisfatto (accipiens) sulla base della continuità del credito, comprese le eventuali garanzie ex art. 1204 c.c., è un diritto acquisito a titolo derivativo. Inoltre, il diritto di surrogazione opera ope legis, mentre il diritto di regresso deve essere fatto valere in giudizio attraverso la proposizione di apposita azione legale. A tal proposito, al fine di permettere un contatto tra la disciplina civilistica e concorsuale, occorre inoltre segnalare come quest’ultima operi distinzioni nette tra surrogazione e regresso (senza modifiche sostanziali tra la vecchia L. fall. e il nuovo CCII): l’art. 230 CCII è l’articolo che conferisce al creditore surrogato gli stessi diritti del creditore originario in sede di ripartizione dell’attivo, in piena conformità con il principio di cristallizzazione del passivo; l’art.160 CCII, che disciplina il regresso, crea problemi però proprio in tal senso andando a creare un diritto ex novo, laddove l’unica soluzione possibile è quella di considerarla come espressa deroga al principio generale di cristallizzazione[39]. Considerato il contesto concorsuale dell’obbligazione solidale in esame e volendo sposare la tesi della – quantomeno iniziale – alternatività delle azioni, appare ragionevole per il curatore della liquidazione giudiziale la scelta di orientarsi prioritariamente verso la surrogazione, che, a parità di probabilità di soddisfacimento per il recupero delle spese sostenute, risulta più economica rispetto al far valere il diritto di regresso.
È intuibile come le combinazioni in cui sia la liquidazione giudiziale a trovarsi ad adempiere presentino maggiori criticità. In primo luogo, pur essendo la surrogazione un metodo di neutralizzazione del meccanismo anticipo/restituzione, nell’economia della liquidazione giudiziale il pagamento del debito solidale comporta in primis un aumento delle uscite della procedura con conseguente estinzione di un debito prededucibile e, in un secondo momento, un’entrata con conseguente aumento dell’attivo ripartibile.
In secondo luogo, il meccanismo appena descritto, basato sul fattore temporale, comporta che possano oltretutto verificarsi arbitraggi, entro i limiti fissati dalla norma, basati sulle tempistiche dei pagamenti e dei riparti, con alterazioni incisive sulle dinamiche distributive.
Seppur applicabile ad ogni debito solidale per spese di giustizia relative al giudizio, la criticità assume portata massima con riferimento al menzionato pagamento dell’imposta di registro relativa alla registrazione della sentenza. Infatti, si può ben immaginare come, al termine del giudizio, la parte più interessata alla registrazione celere della sentenza sia la procedura di liquidazione giudiziale, proprio perché da tale sentenza si aprono i vari percorsi di recupero del credito, tra cui la legittimazione attiva all’apertura della liquidazione controllata nei confronti del convenuto soccombente.
Tale debito solidale, però, è assoggettato ad una norma speciale ad essa riferita[40], che prevede espresse disposizioni particolari in tema di surrogazione, tali che “l’applicabilità di questa disciplina anche ai crediti tributari non è, tuttavia, pacifica perché ci si è interrogati circa la possibilità di estendere a un soggetto privato un regime di favore che la legge accorda al credito tributario proprio per tutelare quell’interesse fiscale che, con il pagamento, cessa di esistere”[41]. In particolare, l’art. 58, comma 1, TUR prevede che la surroga sia concessa solo ad alcuni tra i soggetti solidalmente obbligati al pagamento ai sensi dell’art. 57, comma 1, ossia ai soggetti indicati dall' art. 10, lett. b) e c), TUR, che sono “b) i notai, gli ufficiali giudiziari, i segretari o delegati della pubblica amministrazione e gli altri pubblici ufficiali per gli atti da essi redatti, ricevuti o autenticati; c) i cancellieri e i segretari per le sentenze, i decreti e gli altri atti degli organi giurisdizionali alla cui formazione hanno partecipato nell'esercizio delle loro funzioni”, e quindi escludendo le parti in causa. Sull’esclusività della facoltà di surroga solo per tali soggetti, si è espressa anche la Corte Costituzionale[42] la quale afferma che “nelle parti relative alla previsione della solidarietà nel pagamento dell'imposta di registro tra le parti in causa e alla mancata previsione della surrogazione a favore delle parti in causa che hanno pagato l'imposta stessa nelle ragioni, azioni e ai privilegi spettanti all'Amministrazione finanziaria. Va, infatti, osservato che: a) la solidarietà risulta perfettamente conforme ai principi più volte affermati da questa Corte in ordine alle disposizioni legislative prevedenti la solidarietà in materia di imposte indirette in quanto è giustificata da rapporti giuridico-economici tra gli obbligati idonei alla configurazione di motivazioni unitarie e che, quindi, ben possono ragionevolmente comportare il suddetto vincolo, in evidente parallelismo con quanto si verifica per le parti del contratto; b) il rischio per l'attore vittorioso di dover pagare l'imposta di registro, se rientra nel generale calcolo di convenienza dell'esercizio dell'azione giudiziaria, non si traduce, perciò solo, in un impedimento alla tutela giurisdizionale dei propri diritti; c) l'inapplicabilità alle parti in causa della surrogazione non rende incostituzionale la previsione della solidarietà, di cui si è detto, restando comunque salva la possibilità per le stesse parti di avvalersi dell'azione di regresso accordata in generale per le obbligazioni solidali dall'art. 1299 c.c.”. Tale interpretazione, che – giustamente e a differenza della citata giurisprudenza che tende a equipararli – distingue le fattispecie di surrogazione e regresso, elimina di fatto la possibilità di scelta in capo al solvens, obbligandolo a percorrere la sola via del regresso; di fatto, però, in tale maniera – non condivisibile in toto, a parere di chi scrive – , non solo si dà più importanza al concetto di creditore invece che al concetto di credito in una fase post-adempimento, ma anche si va palesemente a penalizzare il solvens, il quale, per far valere il proprio diritto, dovrà attivarsi attraverso una specifica azione di regresso – con relativo sostenimento di costi – per veder riconosciuto il proprio credito.
Quando la procedura di liquidazione giudiziale si avvale della facoltà di ottenere il patrocinio a carico dello Stato per il sostenimento delle spese di giudizio, sono prenotate a debito tutte tali spese sulla base di quanto previsto dal D.P.R. n. 115/2002[45], comprese quelle relative alla CTU e il debito per il pagamento dell’imposta di registro, in quanto direttamente connesso alla causa posta a carico dell’Erario[46]; a queste si aggiungono, ovviamente, tutte le spese sostenute dalla procedura in sede di azione legale, e consisteranno prevalentemente nei compensi dei professionisti (legale e CTP) nominati dalla procedura stessa.
D’altra parte, però, vi è appunto la casistica delle spese prenotate a debito e/o anticipate dall’Erario[47]. Tali spese, in quanto spese effettuate da una procedura incapiente, vengono interamente accorpate nella disciplina del privilegio per le spese di giustizia ex art. 2777 c.c., che conferisce il privilegio generale – all’interno della prededuzione – di grado massimo; in realtà, tutte le spese sostenute in corso di procedura rientrano nella disciplina della superprededucibilità ex art. 2777 c.c., pertanto l’unico criterio per la loro ricomprensione o meno nelle spese anticipate dall’Erario consiste nel momento della maturazione del debito, al tempo del quale il discrimine è la presenza o meno di attivo nella liquidazione giudiziale. Fermo restando che “se la procedura fallimentare è ammessa al c.d. gratuito patrocinio, non rischia che venga posta a suo carico l’imposta di registro della sentenza, così come non sono poste a suo carico le spese processuali, ad esempio quelle della consulenza tecnica che viene spesso disposta nei giudizi di responsabilità per mala gestio”[48], la conseguenza consiste nel fatto che, qualora la procedura inizialmente incapiente trovi una successiva capienza, l’accorpamento degli anticipi dell’Erario dovrebbe essere il primo macro-credito superprededucibile ad essere soddisfatto poiché, per la disciplina delle spese prenotate a debito ai sensi dell’art. 146, comma 4, TUSG, “le spese prenotate a debito o anticipate sono recuperate, appena vi sono disponibilità liquide, sulle somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo”, a seguito di revoca del beneficio da parte del giudice delegato che ne aveva attestata la necessità[49].
Si potrebbe quindi verificare il caso in cui un credito superprededucibile, grazie alla sua ricomprensione nel macro-credito superprededucibile per spese di giustizia anticipate dall’Erario, venga soddisfatto integralmente prima di un altro credito superprededucibile per spese di giustizia ma, per motivi temporali, non rientrante nel macro-credito delle spese anticipate dall’Erario: si assisterebbe pertanto ad una violazione di par condicio creditorum tra spese di giustizia (della procedura) prenotate a debito, compattate in un unico debito verso l’Erario, e spese di giustizia (della procedura) maturate in contesto di non prenotazione a debito frammentate nelle singole voci di spesa, tutte – per natura – superprededuzioni ex art. 2777 c.c., pur adempiendo il curatore letteralmente alla disposizione prevista che, attraverso l’obbligo del pagamento allo Stato non appena possibile, cerca di porre l’Erario su un gradino più alto dei pari grado[50].
A parere di chi scrive, la violazione volontaria della norma in tema di pagamento immediato delle spese prenotate a debito[51] – di carattere temporale – risulta meno grave della violazione della par condicio creditorum – principio cardine della concorsualità – all’interno delle superprededuzioni; pertanto, il curatore dovrebbe effettuare un arbitraggio temporale sui pagamenti di tutte le spese di giustizia sostenute in corso di procedura[52].
Individuare una regola generale su quale sia la strada con più possibilità di soddisfacimento del credito è difficile esercizio di stile, ma è possibile riconoscere nella composizione del passivo del debitore/soccombente un ragionevole e ragionato criterio secondo il quale decidere rispetto al caso specifico. In particolare, oggetto di analisi preventiva sarà l’eventuale presenza e ammontare di ipoteche anteriori per comprendere quanto del ricavato della vendita del bene sarà assorbito dall’ipoteca (o più ipoteche) di grado superiore ai sensi degli art. 2852 e segg. c.c. e, di conseguenza, quanto attivo residuo sarà a disposizione dei creditori di grado inferiore, la cui composizione sarà anch’essa da analizzare: infatti, la scelta comporterà un futuro collocamento del proprio credito o in funzione dell’eventuale ipoteca di grado inferiore iscritta a seguito della sentenza di condanna o nella massa chirografaria (con conseguente attribuzione di un peso intra-classe ai fini del pari soddisfacimento percentuale) sottostando ai creditori privilegiati. Non rileva, al fine della presente analisi, la presenza di privilegio fondiario anteriore, in quanto le disposizioni dell’art. 41, comma 2, TUB riconoscono un privilegio di natura meramente processuale senza alterazione della par condicio creditorum[53].
Potremmo affermare che potrebbe avere più senso percorrere l’opzione dell’ipoteca giudiziale in presenza di beni liberi da gravami precedenti, così da avere una pressoché certezza del soddisfacimento (nonostante i maggiori costi che l’ipoteca giudiziale comporta) grazie alla prelazione speciale assoluta, con risultato identico sia in caso di esecuzione individuale sia di liquidazione controllata. In presenza di altre ipoteche anteriori, e quindi dovendo necessariamente soddisfarsi su un potenziale residuo attivo, sarà la presenza di crediti privilegiati (nell’an e nel quantum) a far capire quanto successivo residuo sarà disponibile per la massa chirografaria (da considerare nel quantum) al fine di determinare la possibilità e la capacità di soddisfacimento; in prima ipotesi, un’ipoteca giudiziale permetterebbe di accodarsi alle ipoteche anteriori nella distribuzione del ricavato dalla vendita del bene (con pari soddisfacimento sia in caso di esecuzione individuale sia di liquidazione controllata), mentre la conversione del sequestro in pignoramento consoliderebbe il rango chirografario del credito, che, in caso di esecuzione individuale, concorrerebbe sul residuo della vendita dopo le ipoteche anteriormente iscritte (quindi, con risultato analogo ad un’iscrizione ipotecaria), mentre avrebbe, in caso di liquidazione controllata, l’ulteriore vantaggio di aggredire l’intera massa attiva, pur concorrendo insieme ai pari grado e sottostando ai creditori privilegiati. Inoltre, seppur partendo da una posizione estremamente vantaggiosa rispetto a tutti gli altri creditori, sia in termini di rango che in termini quantitativi, il credito ipotecario trova comunque più possibilità di soddisfacimento in una procedura collettiva, poiché soltanto in esse viene tutelato il credito residuo in caso di incapienza dell’attivo realizzato dalla vendita del bene gravato, che, seppur con rango chirografario, beneficia dell’aggressione della massa mobiliare derivante dall’universalità oggettiva.
Probabilmente, in presenza di un quantitativo elevato di ipoteche, creditori privilegiati e chirografari, l’azione di responsabilità originaria non sarebbe nemmeno stata promossa per motivi di convenienza e (ir)ragionevole possibilità di successo nell’effettiva possibilità di recupero del credito.
In linea generale, stante le riflessioni già esposte nel paragrafo precedente, si ritiene pertanto comunque più generalmente valida nel caso in esame l’opzione della conversione del sequestro in pignoramento con successiva istanza di liquidazione controllata.
La portata massima di questa tattica processuale si può riscontrare all’interno delle azioni di responsabilità nelle liquidazioni giudiziali (o nei vecchi fallimenti ancora aperti), quando il curatore, a fronte di una sentenza favorevole per cifre estremamente ingenti e spesso sproporzionatamente maggiori rispetto al patrimonio del soggetto convenuto, si trova a dover effettivamente riscuotere le somme che gli spettano, all’interno del comune scenario in cui tali vittorie in sede di causa risultano poi destinate ad un insuccesso (parziale o totale) in sede di effettiva riscossione. Oltre ai patrimoni non adeguatamente capienti, si pensi sennò ai patrimoni con beni all’estero: un creditore che deve aggredire simili beni trova ostacoli ben maggiori rispetto all’applicazione della vis attrattiva dell’universalità oggettiva della procedura di liquidazione controllata.
Secondo un’ottica di economicità delle procedure concorsuali, l’opzione di richiesta di apertura di una liquidazione controllata del proprio debitore/soccombente risulta spesso la più economica e la più facile per il curatore vittorioso che, rebus sic stantibus, invece di cominciare un nuovo procedimento di riscossione coattiva del proprio credito, “delega” tali operazioni agli organi della liquidazione controllata, restando di fatto – e a costo zero – in attesa del futuro riparto.
Note: