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Saggio

Dall'azione di responsabilità alla liquidazione controllata: una tattica processuale con risvolti critici in tema di prededuzione e crediti solidali tra procedure*

Marco Pericciuoli, Cultore di diritto commerciale nell’Università degli Studi di Firenze

9 Settembre 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il contributo analizza il legame venutosi a creare tra l’azione di responsabilità, centrale strumento recuperatorio del fallimento e della liquidazione giudiziale, e l’istituto della liquidazione controllata, attraverso considerazioni di carattere sistemico che portano la prima ad avere uno sbocco naturale nella seconda come strumento di recupero coattivo, analizzandone gli aspetti processuali e le conseguenze sostanziali in ambito distributivo, con particolare attenzione ai temi della prededuzione e dei debiti che vedono le procedure nelle posizioni di coobbligati solidali. 

The paper concerns the new connection between the judgment of liability, main recovery instrument in both old bankruptcy proceeding and the new judicial liquidation, and the controlled winding-up, by systemic thoughts leading the first one to have her natural ending in the second one as a forced debt recovery, analyzing the procedural aspects and substantial consequences on distribution scope, with particular attention to the topics of pre-deductibility and debts with proceedings as joint and several liability debtors. 
Riproduzione riservata
1 . Introduzione: il problema del recupero del credito derivante dall’azione di responsabilità
Con l’avvento del Codice della Crisi e dell’Insolvenza, seppur sfruttando la tendenza ancora in essere nelle procedure fallimentari tuttora aperte con conseguente applicabilità della Legge Fallimentare, l’azione di responsabilità esercitata dal curatore della liquidazione giudiziale si conferma strumento primario di recupero dell’attivo nelle procedure concorsuali liquidatorie maggiori. Tale proliferazione si fonda sia sulla base di un’evoluzione propria[1], sia in relazione al progressivo depotenziamento de facto dell’azione revocatoria[2], laddove gli atti ad essa assoggettabili sono spesso riconfigurati dai curatori quali atti distrattivi rientranti nell’alveo più ampio dell’azione di responsabilità[3], concettualmente e tecnicamente più semplice da esperire, nonché con termini di prescrizione più favorevoli alla curatela[4]. 
Senza entrare nel merito delle caratteristiche proprie e dei presupposti[5] delle azioni di responsabilità promosse dal curatore nei confronti dell’organo amministrativo e dell’organo di controllo, oltre naturalmente alla preliminare valutazione di probabilità di successo basate sulla fondatezza della richiesta risarcitoria, diventa dirimente nell’analisi di rapporto costo-beneficio dell’azione legale la solvibilità del soggetto passivo dell’azione. È considerazione pacifica che le azioni di responsabilità siano particolarmente onerose, poiché le spese, in quanto prevalentemente commisurate al valore di causa, stante la materia, soventemente risultano elevate, sia per quanto riguarda le spese proprie per la procedura sia si tratti di oneri solidali con le altre parti in causa: oltre ovviamente agli onorari professionali del legale della procedura e al pagamento del contributo unificato, bisogna considerare che nelle azioni di responsabilità è pressoché automatica la richiesta da parte del giudice di espletamento di una CTU contabile con lo scopo di quantificare il danno, da cui originano gli ulteriori costi propri del CTP e quello solidale del Consulente d’Ufficio[6]; a questi, si aggiunge l’imposta di registro proporzionale, solidale, relativa alla registrazione della sentenza[7]. L’azione di responsabilità vittoriosa dovrà quindi necessariamente non solo fruttare un ammontare superiore alla somma di tutti gli esborsi affrontati, ma risolvere una nuova serie di criticità: infatti, essa andrà a generare la sentenza di condanna che sarà il titolo su cui si fonderà il pagamento del risarcimento del danno, ma che, qualora i convenuti soccombenti siano individui con patrimoni personali non adeguati a permettere un pronto pagamento nei confronti della curatela, diventerà a sua volta l’origine di una nuova ed onerosa azione legale volta al recupero delle somme, oppure, nell’ipotesi peggiore, qualora i soccombenti presentino patrimoni insufficienti o totalmente inesistenti al momento dell’esecutività del titolo, l’intera azione di responsabilità risulterà una vittoria di Pirro antieconomica per la procedura. 
 Ai fini del presente lavoro, non rilevano pertanto le caratteristiche proprie dell’azione di responsabilità in quanto tale o suoi aspetti che ne possano influenzare il successo o meno, bensì la tutela del credito ottenuto a seguito di un’azione di responsabilità vittoriosa.
2 . Il Sequestro conservativo nell’azione di responsabilità
Diventa pertanto fondamentale – ed è già best practice consolidata per i curatori – al fine di strutturare fin dall’inizio un’azione di responsabilità che presenti un’effettiva utilità economica, che il curatore ed il legale della procedura effettuino una preventiva analisi di solvibilità dei soggetti destinatari dell’azione legale, attraverso una valutazione prospettica del valore che quei patrimoni avranno a conclusione del procedimento[8] – al netto di decrementi di valore e/o alienazioni – e della presenza di eventuali coperture assicurative con conseguente coinvolgimento delle relative compagnie. 
Lo strumento giuridico di carattere generale che l’ordinamento mette a disposizione del “creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito”, anche ante causam o in corso di causa, per salvaguardare i propri interessi è naturalmente il sequestro conservativo[9] ex art.2905 c.c. richiesto ai sensi dell’art.671 c.p.c., che assume contorni più specifici quando viene richiesto all’interno di azioni di responsabilità[10].           
Il sequestro conservativo deve necessariamente fondarsi sui contemporanei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora[11]; se il primo presupposto può ricondursi al profilo di verosimile fondatezza della domanda di condanna risarcitoria, il secondo presupposto in particolare presenta propri elementi oggettivi e soggettivi, così definiti in una massima della Suprema Corte: “Il requisito del periculum in mora occorrente per l'autorizzazione e la successiva convalida del sequestro conservativo, può essere desunto sia da elementi oggettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all'entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci fondamentalmente presumere che, al fine di sottrarsi all'adempimento, egli si accinga a porre in essere atti dispositivi idonei a provocare l'eventuale depauperamento del suo patrimonio”[12].             
Tali elementi assumono particolare rilievo proprio nelle azioni di responsabilità, dove vengono più segnatamente codificati.     
L’elemento oggettivo è stato finora l’aspetto su cui si sono maggiormente soffermate le decisioni sulle concessioni o meno dei sequestri conservativi in tale ambito, declinato con riferimento alla capienza patrimoniale del debitore amministratore/sindaco, data la frequente – per non dire quasi totale, considerata la materia – casistica di petitum notevolmente superiore al valore dei patrimoni personali dei convenuti. Difatti, tale circostanza si verifica soprattutto in virtù del fatto che, nelle società in bonis, il conferimento degli incarichi ad amministratori e sindaci – di natura contrattualistica – sia fortemente sbilanciato verso le capacità di gestione e controllo a discapito della verifica preliminare di una capienza patrimoniale da ritenersi adeguata ex ante rispetto alla funzione di garanzia per un potenziale danno futuro[13]; inoltre, non rilevano né la responsabilità solidale[14], poiché la norma permette al creditore di richiedere il pagamento dell’intero ad ogni singolo coobbligato – salva poi la possibilità di quest’ultimo di esercitare il proprio diritto di regresso sugli altri coobbligati in solido – rendendo di fatto ogni singolo debitore suscettibile di valutazione di capacità patrimoniale rispetto al debito totale, né la presenza di un contratto di assicurazione della responsabilità civile stipulato dai convenuti[15], poiché la chiamata in causa delle compagnie assicurative, così come l’effettiva – da provarsi – efficacia della copertura assicurativa, risulta di fatto solo un’eventualità e non una certezza.     
L’elemento soggettivo[16], per sua natura, risulta più difficile da codificare, trattandosi del risultato di un’analisi volta a identificare la propensione di un soggetto a porre in essere condotte espressamente finalizzate alla riduzione della propria garanzia patrimoniale[17]; volendo comunque non lasciare una marcata preponderanza dell’elemento oggettivo e pertanto accedere ad una visione dinamica del periculum in mora in cui l’elemento soggettivo rilevi maggiormente[18], la predisposizione a ridurre la garanzia patrimoniale può trovare fondamento non solo in condotte successive all’insorgenza del danno, ma anche compiute nell’arco temporale nel quale è stato svolto l’incarico di amministratore/sindaco[19]. 
Stanti gli aspetti costitutivi alla base del sequestro conservativo, l’aspetto che più interessa dello strumento è come questo si collochi all’interno dell’azione di responsabilità vittoriosa, contesto più fertile rispetto ad altri ai fini del riconoscimento della tutela creditizia, che si concretizza nella tutela sostanziale della gradazione creditoria del titolo ottenuto in seguito alla condanna degli amministratori/sindaci al risarcimento del danno che, nella gerarchia dei crediti verso il debitore/amministratore/sindaco, si colloca nel rango chirografario non essendo compresa in nessuna ipotesi di prelazione. La tutela sostanziale risiede nell’art.2916 c.c., il quale identifica nel pignoramento il momento spartiacque a seguito del quale le ipoteche (anche giudiziarie) e i privilegi sono inopponibili al creditore pignoratizio in sede di distribuzione della somma ricavata dall’esecuzione del bene pignorato; infatti, l’ottenimento del sequestro conservativo non altera la natura del credito, e di conseguenza non implica l’ottenimento di una causa di prelazione speciale (privilegio o ipoteca) [20].           
 Sul piano temporale, l’art.686 c.p.c. prevede la conversione del sequestro conservativo in pignoramento al momento in cui – e con decorrenza da quando[21] – il creditore sequestrante ottiene sentenza di condanna esecutiva, con il vantaggio ulteriore, in forza delle disposizioni dell’art.156 disp. att. c.p.c., di non dover nemmeno aspettare che la sentenza di condanna passi in giudicato, la quale – di fatto – innesca immediatamente l’esecuzione individuale. 
Diventa pertanto di importanza primaria per il creditore ottimizzare il procedimento di riscossione del proprio credito nei confronti della persona fisica verso la quale tale credito è vantato. Di fatto, il creditore si trova davanti due opzioni tra cui poter scegliere: i) una procedura esecutiva individuale; ii) una procedura collettiva tra la liquidazione giudiziale e la liquidazione controllata, a seconda dell’inquadramento del debitore sulla base dei criteri dettati dall’art. 2, lett. d) - e), CCII.        
 Nel caso in esame, volendo considerare il destinatario dell’azione legale un soggetto persona fisica che ha ricoperto l’incarico di amministratore/sindaco in una società poi fallita/liquidata giudizialmente, si ritiene residuale – seppur possibile – la casistica che tale soggetto presenti i requisiti per essere assoggettato a liquidazione giudiziale; nella quasi totalità dei casi, il potenziale soccombente sarà ascrivibile alla categoria dei debitori soggetti a sovraindebitamento così come definito dall’art. 2, lett. c), CCII, pertanto assoggettabile a procedure esecutive individuali e liquidazione controllata.
3 . Dalla sentenza di condanna alla liquidazione controllata: note sulla legittimazione attiva
La procedura liquidatoria minore assume oggi la veste della liquidazione controllata, disciplinata dagli artt. 268 e segg. CCII, la quale risulta una sintesi tra i principi cardine della liquidazione giudiziale, alle cui disposizioni spesso rimandano le norme sulla liquidazione controllata anche in virtù della collocazione normativa proprio nel Titolo V del CCII dedicata – appunto – alla liquidazione giudiziale[22], e le modalità più snelle tipiche delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento[23]. 
Ai fini della presente analisi, il primo ambito della liquidazione controllata a risultare di primaria attenzione è la legittimazione attiva[24]. Difatti, oltre a presentare la possibilità di apertura volontaria da parte del debitore – ricalcando l’impulso del vecchio fallimento “in proprio” e dell’attuale liquidazione giudiziale “in proprio” – ai sensi dell’art. 268, comma 1  CCII, e a differenza dell’originale disposizione dell’art.14 ter della L. n. 3/2012, la domanda di apertura della liquidazione controllata del debitore può essere altresì presentata da un creditore anche in pendenza di procedure esecutive individuali, purché i crediti scaduti e non pagati risultanti dall’istruttoria siano non inferiori a cinquantamila Euro, ai sensi dell’art. 268, comma 2, CCII, andandosi pertanto a concretizzare l’analogia processuale della legittimazione attiva da parte dei creditori – seppur con un riferimento monetario quantitativo differente[25] – della liquidazione giudiziale[26].        
In tema di legittimazione attiva, la disciplina genera due questioni rilevanti: la qualifica del credito e la pluralità dei crediti, entrambi originanti dall’art. 268, comma 2, CCII, che suona letteralmente “Quando il debitore è in stato di insolvenza, la domanda può essere presentata da un creditore anche in pendenza di procedure esecutive individuali”.             
Il primo profilo è originato dalla seconda parte del dettato normativo in esame, “la domanda può essere presentata da un creditore anche in pendenza di procedure esecutive individuali”: la presenza della parola “anche” ha indotto la dottrina a riflettere su come inquadrare la presenza di procedure esecutive individuali nel procedimento di apertura della liquidazione controllata. In particolare, gli elementi oggetto di analisi dottrinale sono stati: a) la presenza – o l’assenza – di almeno una procedura esecutiva individuale oppure di una pluralità di esecuzioni individuali, b) il fatto che il creditore istante sia provvisto di titolo esecutivo o meno. A parere di chi scrive, i due aspetti sono così strutturati:                 
i) il dibattito concernente la presenza di almeno una procedura esecutiva individuale oppure di una pluralità di esecuzioni individuali trova origine nella qualificazione della parola “anche” all’interno della lettera normativa, cui si ritiene debba essere attribuito il significato della presenza di una o più procedure esecutive individuali quale condizione sufficiente ma non necessaria per l’apertura della liquidazione controllata. Essendo la procedura liquidatoria minore permeata di principi intrinseci della procedura liquidatoria maggiore, dove l’assenza di procedure esecutive individuali non osta all’apertura della procedura laddove – invece – la presenza di un’esecuzione pendente può al più rafforzare il presupposto di insolvenza rendendola una condizione sufficiente ma non necessaria, non si comprende come mai il legislatore avrebbe scritto la parola “anche” nell’art. 268 – che pertanto appare rafforzativa – invece che la dicitura “solo in presenza di”, qualora avesse invece voluto intenderla come condizione necessaria[27];   
ii) il dibattito sul fatto che il creditore istante sia munito di titolo esecutivo è invece di respiro più ampio, poiché concerne un aspetto più prettamente di natura processuale. Sempre volendo sposare la tesi dell’analogia dei principi che sorreggono la liquidazione controllata e la liquidazione giudiziale, in mancanza di apposita disposizione espressa, si ritiene che il creditore istante non debba necessariamente essere provvisto di titolo esecutivo, poiché, al fine dell’accertamento dell’insolvenza secondo le regole tradizionali, rilevano la presenza del credito e la configurazione del mancato adempimento, non trovando invece rilevanza la presenza del titolo esecutivo[28], la cui natura rivela la propria importanza nelle procedure esecutive individuali e non collettive. 
Il secondo profilo, che parte dall’ambito della legittimazione attiva per poi rientrare nell’ambito dei presupposti oggettivi[29] di apertura della liquidazione controllata[30], origina dalla prima parte dell’art. 268, comma 2, CCII, “Quando il debitore è in stato di insolvenza”, e concerne invece il fatto che il credito vantato dal creditore istante sia l’unico debito del debitore, e la sua capacità di configurare da solo lo stato di insolvenza necessario ad aprire la procedura.   
Questo aspetto è stato fin qui poco attenzionato dalla dottrina. Chi scrive ritiene che la presenza di un unico credito inadempiuto sia condizione necessaria e sufficiente per configurare lo stato d’insolvenza e, di conseguenza, dichiarare aperta la liquidazione controllata[31]. Tale impostazione trova fondamento – nuovamente – nello stretto rapporto intercorrente tra la liquidazione controllata e la liquidazione giudiziale, in particolare sotto due profili:
i) in primo luogo, appare corretto attingere alla consolidata tradizione dottrinale e giurisprudenziale che ha identificato i criteri con cui si configura lo stato di insolvenza del debitore, che travalica i confini della distinzione tra procedure minori e procedure maggiori nel CCII, trattandosi di uno stato oggettivo indipendente dalle caratteristiche soggettive del debitore[32]. Pertanto, sulla base di pacifici orientamenti consolidati, appare ragionevole affermare che lo stato di insolvenza necessario all’apertura della liquidazione controllata, equiparabile allo stato di insolvenza necessario all’apertura del fallimento ai tempi della Legge Fallimentare (regime normativo sotto il quale si è evoluta la configurazione dell’insolvenza) e della liquidazione giudiziale correntemente sotto il Codice della Crisi e dell’Insolvenza, sia desumibile dalla presenza anche di un unico debito[33];
ii) in secondo luogo si rileva il dettato dell’art. 276 CCII, il quale disciplina la chiusura della liquidazione controllata rimandando integralmente al contenuto dell’art. 233 CCII, il quale disciplina i casi di chiusura della liquidazione giudiziale: in particolare, oggetto del nostro interesse è il caso disciplinato dall’art. 233, comma 1, lett. a), CCII, il quale dispone la chiusura della procedura “se nel termine stabilito nella sentenza con cui è stata dichiarata aperta la procedura non sono state proposte domande di ammissione al passivo” con formulazione identica alla Legge Fallimentare. Infatti, seppur la lettera normativa parli al plurale di domande di ammissione al passivo, è pacificamente consolidato che la procedura rimanga aperta anche nel caso di presenza di un’unica insinuazione, che poi si concretizzi in un effettivo credito ammesso al passivo, poiché una procedura senza passivo non ha motivo di esistere. Seppur le qualifiche di creditore istante e di creditore insinuato al passivo siano indipendenti, poiché anche il creditore istante soggiace alle regole ordinarie del concorso e dell’accertamento del passivo ai sensi degli artt. 200 e segg. CCII, si ritiene di poter comunque affermare che, se per consolidare l’esistenza stessa della liquidazione giudiziale sia sufficiente un solo credito durante la fase di accertamento del passivo, tale criterio di sufficiente unicità del credito debba essere applicato anche, se non a maggior ragione, in sede di accertamento dello stato di insolvenza: apparirebbe teleologicamente e sistematicamente errato immaginare una procedura dove siano presenti più crediti in fase istruttoria che in fase di accertamento del passivo, e, essendo a norma dell’art. 233 CCII il numero di crediti necessari alla sussistenza di una liquidazione giudiziale (ergo, di una liquidazione controllata) pari a uno, allora anche in fase istruttoria tale numero non può necessariamente dover essere maggiore di uno. 
Pertanto, appurata la legittimazione attiva sulla base di quanto sin qui esposto, appare più che possibile che un curatore, a seguito di una vittoriosa azione legale nei confronti degli amministratori/sindaci, possa rivolgersi all’utilizzo dello strumento della liquidazione controllata al fine di riscuotere le somme riconosciute come credito in sede di giudizio.
4 . La collocazione e le interferenze dei crediti solidali nelle diverse procedure
Una conseguenza interessante di questo interfacciarsi tra procedure è data dalla qualifica che le varie somme oggetto dell’azione legale, sia quelle a titolo di credito che quelle a titolo di debito, assumono a seconda del punto di vista dal quale vengono osservate. 
La prima posizione è, naturalmente, la somma riconosciuta alla procedura concorsuale quale risarcimento del danno arrecato da parte dell’amministratore/sindaco, ed è anche quella di più facile inquadramento. Tale debito per il debitore/amministratore/sindaco è un credito a favore della liquidazione giudiziale di grado chirografario, non godendo di alcun tipo di prelazione prevista dalla norma, sia che venga fatto valere in sede di procedura esecutiva individuale, sia di liquidazione controllata. A ben vedere, pertanto, appare più conveniente per un creditore chirografario tentare il recupero dei propri denari attraverso l’utilizzo di uno strumento esecutivo collettivo: seppur sia vero che in una procedura collettiva la platea dei creditori concorrenti sia potenzialmente più ampia, a fronte del vantaggio di poter aggredire non beni singoli ma l’universalità oggettiva, si può riscontrare come – all’interno del ceto chirografario – il credito per azione risarcitoria dovrebbe essere ragionevolmente di entità estremamente superiore ai crediti di pari rango, con la conseguenza che, anche in applicazione della par condicio creditorum, il credito per azione risarcitoria dovrebbe poter assorbire la maggior parte delle risorse ripartite per l’intero ceto chirografario. A tal riguardo, per completare il quadro degli altri crediti la cui presenza potrebbe incidere sul grado di soddisfacimento del credito da azione risarcitoria, occorre ricordare che, nella maggior parte dei casi, non trattandosi il debitore di un soggetto che svolge attività d’impresa, nella liquidazione controllata i crediti dotati di privilegio[34] incidono sull’economia del passivo in misura estremamente inferiore rispetto ad una liquidazione giudiziale, risultando pertanto in un più facile raggiungimento del soddisfo del ceto chirografario rispetto alle procedure maggiori, nelle quali i crediti privilegiati assorbono – nella pressoché totalità dei casi – l’intero attivo realizzato. I crediti dotati di prelazione speciale rilevano chiaramente, nell’ottica del concorso, solo per la quota insoddisfatta dalla ripartizione dell’attivo realizzato attraverso la vendita del bene gravato dal diritto reale[35]. 
La seconda posizione, sicuramente più interessante dal punto di vista tecnico e del rapporto tra procedure, è quella relativa alle spese legate al giudizio vero e proprio, più precisamente le spese che assumono natura di debito solidale per tutte le parti coinvolte nel giudizio: tali spese, nelle azioni di responsabilità, si concretizzano negli importi estremamente ingenti dei costi relativi all’espletamento dell’inevitabile Consulenza Tecnica d’Ufficio e dell’imposta di registro dovuta per la registrazione della sentenza[36], con quest’ultima che, essendo proporzionale al 3% dell’importo oggetto di condanna[37], raggiunge facilmente importi ingenti dato l’oggetto del giudizio. Tali posizioni diventano ancor più rilevanti nei casi in cui la liquidazione giudiziale, al momento in cui tali debiti maturano, sia parzialmente o completamente incapiente, con ulteriore risvolto qualora il giudizio sia stato introdotto con patrocinio a spese dello Stato. 
L’aspetto interessante di tali debiti è la loro diversa collocazione nei passivi delle parti coinvolte, poiché, seppur siano debiti identici per natura (rectius, ogni singolo debito è inserito in due distinti stati passivi; non vi è – naturalmente – un raddoppio delle posizioni debitorie), la collocazione è differente a causa del momento di maturazione rispetto alle singole procedure. Per il debitore/amministratore/sindaco (parte soccombente), i debiti derivanti dal giudizio maturano anteriormente all’apertura della liquidazione controllata, all’interno del cui passivo assumeranno la collocazione propria delle loro singole fattispecie: il CTU avrà il privilegio spettante ai professionisti ex art. 2751 bis, n. 2, c.c.; l’imposta di registro relativa alla sentenza, invece, assumerà natura chirografaria, poiché la prelazione attribuibile all’imposta di registro è di natura speciale ex art. 2758, comma 1, c.c. in quanto legata all’effetto traslativo del bene cui si riferisce, che pertanto, trovando origine in questo caso di una sentenza di condanna priva di riferimenti a singoli beni, non può essere applicata. Per la liquidazione giudiziale (parte vincitrice) tali debiti assumono natura prededucibile di grado massimo ex art. 2777 c.c., in quanto spese di giustizia maturate in corso di procedura concorsuale già aperta.     
In particolare, ciò che assume contorni ancor più interessanti è la modalità con cui il coobligato adempiente (solvens) può recuperare quanto gli spetta dal coobbligato inadempiente, tenendo conto dell’eventuale condanna alle spese secondo il principio di soccombenza ex art. 91 c.p.c. o della compensazione delle stesse, sempre considerando che si tratta di due procedure (o, meglio, di una procedura già aperta e di una soggettività passiva in bonis che, per tattica processuale, si tramuterà in una nuova procedura). Si rileva come il legislatore identifichi due fattispecie per perseguire tale obiettivo recuperatorio, ossia la surrogazione ex art. 1203 c.c. e il regresso ex art. 1299 c.c.; senza voler entrare approfonditamente nella teoria generale delle obbligazioni solidali e in quelle relative al rapporto tra esse[38], al nostro fine interessa analizzare le differenze tra i due istituti che più impattano sulle posizioni passive in esame. Innanzitutto, pur trovando entrambi gli istituti il proprio fatto costitutivo nell’adempimento, il regresso è un diritto ex novo in capo al solvens acquisito a titolo originario, mentre la surrogazione, che consiste nel subentro da parte del solvens nei diritti del creditore originario soddisfatto (accipiens) sulla base della continuità del credito, comprese le eventuali garanzie ex art. 1204 c.c., è un diritto acquisito a titolo derivativo. Inoltre, il diritto di surrogazione opera ope legis, mentre il diritto di regresso deve essere fatto valere in giudizio attraverso la proposizione di apposita azione legale. A tal proposito, al fine di permettere un contatto tra la disciplina civilistica e concorsuale, occorre inoltre segnalare come quest’ultima operi distinzioni nette tra surrogazione e regresso (senza modifiche sostanziali tra la vecchia L. fall. e il nuovo CCII): l’art. 230 CCII è l’articolo che conferisce al creditore surrogato gli stessi diritti del creditore originario in sede di ripartizione dell’attivo, in piena conformità con il principio di cristallizzazione del passivo; l’art.160 CCII, che disciplina il regresso, crea problemi però proprio in tal senso andando a creare un diritto ex novo, laddove l’unica soluzione possibile è quella di considerarla come espressa deroga al principio generale di cristallizzazione[39]. Considerato il contesto concorsuale dell’obbligazione solidale in esame e volendo sposare la tesi della – quantomeno iniziale – alternatività delle azioni, appare ragionevole per il curatore della liquidazione giudiziale la scelta di orientarsi prioritariamente verso la surrogazione, che, a parità di probabilità di soddisfacimento per il recupero delle spese sostenute, risulta più economica rispetto al far valere il diritto di regresso. 
Ciò che rileva in tale circostanza è che il debito oggetto di surrogazione assume la medesima gradazione del debito originario, di fatto andando a sostituirlo per quanto riguarda il soggetto verso il quale deve essere effettuato l’adempimento; pertanto, il debitore coobbligato inadempiente vedrebbe estinto il proprio debito attraverso il pagamento di un debito di diversa gradazione – inferiore o superiore – nel passivo del debitore adempiente. Nel caso specifico, qualora sia la liquidazione controllata ad adempiere, subentrerebbe nel passivo della liquidazione giudiziale coobbligata mediante un credito di natura prededucibile, quindi con ragionevole certezza di vedersi riconoscere quanto dovuto; diversamente, la liquidazione giudiziale adempiente subentrerebbe nel passivo della liquidazione controllata coobbligata mediante un credito di natura privilegiata o – addirittura – chirografaria, pertanto con una maggiore aleatorietà di soddisfacimento. Quest’ultima situazione assume ulteriori diversi risvolti a seconda che il credito derivante dalla sentenza di condanna sia semplicemente chirografario oppure sia stato munito di privilegio ipotecario a seguito di iscrizione di ipoteca giudiziale: nel primo caso, il diritto di surrogazione privilegiato o chirografario troverebbe soddisfazione con precedenza o pariteticità rispetto al credito principale chirografario; nel secondo caso, il diritto di surrogazione privilegiato o chirografario verrebbe soddisfatto successivamente (melius, in parallelo attraverso la disciplina delle masse speciali ex art. 223 CCII) rispetto al credito principale ipotecario.     
È intuibile come le combinazioni in cui sia la liquidazione giudiziale a trovarsi ad adempiere presentino maggiori criticità. In primo luogo, pur essendo la surrogazione un metodo di neutralizzazione del meccanismo anticipo/restituzione, nell’economia della liquidazione giudiziale il pagamento del debito solidale comporta in primis un aumento delle uscite della procedura con conseguente estinzione di un debito prededucibile e, in un secondo momento, un’entrata con conseguente aumento dell’attivo ripartibile.       
In secondo luogo, il meccanismo appena descritto, basato sul fattore temporale, comporta che possano oltretutto verificarsi arbitraggi, entro i limiti fissati dalla norma, basati sulle tempistiche dei pagamenti e dei riparti, con alterazioni incisive sulle dinamiche distributive. 
Seppur applicabile ad ogni debito solidale per spese di giustizia relative al giudizio, la criticità assume portata massima con riferimento al menzionato pagamento dell’imposta di registro relativa alla registrazione della sentenza. Infatti, si può ben immaginare come, al termine del giudizio, la parte più interessata alla registrazione celere della sentenza sia la procedura di liquidazione giudiziale, proprio perché da tale sentenza si aprono i vari percorsi di recupero del credito, tra cui la legittimazione attiva all’apertura della liquidazione controllata nei confronti del convenuto soccombente.             
Tale debito solidale, però, è assoggettato ad una norma speciale ad essa riferita[40], che prevede espresse disposizioni particolari in tema di surrogazione, tali che “l’applicabilità di questa disciplina anche ai crediti tributari non è, tuttavia, pacifica perché ci si è interrogati circa la possibilità di estendere a un soggetto privato un regime di favore che la legge accorda al credito tributario proprio per tutelare quell’interesse fiscale che, con il pagamento, cessa di esistere”[41]. In particolare, l’art. 58, comma 1, TUR prevede che la surroga sia concessa solo ad alcuni tra i soggetti solidalmente obbligati al pagamento ai sensi dell’art. 57, comma 1, ossia ai soggetti indicati dall' art. 10, lett. b) e c), TUR, che sono “b) i notai, gli ufficiali giudiziari, i segretari o delegati della pubblica amministrazione e gli altri pubblici ufficiali per gli atti da essi redatti, ricevuti o autenticati; c) i cancellieri e i segretari per le sentenze, i decreti e gli altri atti degli organi giurisdizionali alla cui formazione hanno partecipato nell'esercizio delle loro funzioni”, e quindi escludendo le parti in causa. Sull’esclusività della facoltà di surroga solo per tali soggetti, si è espressa anche la Corte Costituzionale[42] la quale afferma che “nelle parti relative alla previsione della solidarietà nel pagamento dell'imposta di registro tra le parti in causa e alla mancata previsione della surrogazione a favore delle parti in causa che hanno pagato l'imposta stessa nelle ragioni, azioni e ai privilegi spettanti all'Amministrazione finanziaria. Va, infatti, osservato che: a) la solidarietà risulta perfettamente conforme ai principi più volte affermati da questa Corte in ordine alle disposizioni legislative prevedenti la solidarietà in materia di imposte indirette in quanto è giustificata da rapporti giuridico-economici tra gli obbligati idonei alla configurazione di motivazioni unitarie e che, quindi, ben possono ragionevolmente comportare il suddetto vincolo, in evidente parallelismo con quanto si verifica per le parti del contratto; b) il rischio per l'attore vittorioso di dover pagare l'imposta di registro, se rientra nel generale calcolo di convenienza dell'esercizio dell'azione giudiziaria, non si traduce, perciò solo, in un impedimento alla tutela giurisdizionale dei propri diritti; c) l'inapplicabilità alle parti in causa della surrogazione non rende incostituzionale la previsione della solidarietà, di cui si è detto, restando comunque salva la possibilità per le stesse parti di avvalersi dell'azione di regresso accordata in generale per le obbligazioni solidali dall'art. 1299 c.c.”. Tale interpretazione, che – giustamente e a differenza della citata giurisprudenza che tende a equipararli – distingue le fattispecie di surrogazione e regresso, elimina di fatto la possibilità di scelta in capo al solvens, obbligandolo a percorrere la sola via del regresso; di fatto, però, in tale maniera – non condivisibile in toto, a parere di chi scrive – , non solo si dà più importanza al concetto di creditore invece che al concetto di credito in una fase post-adempimento, ma anche si va palesemente a penalizzare il solvens, il quale, per far valere il proprio diritto, dovrà attivarsi attraverso una specifica azione di regresso – con relativo sostenimento di costi – per veder riconosciuto il proprio credito. 
5 . La questione distributiva per crediti e debiti risultanti dalle azioni legali e le criticità della prededuzione nella liquidazione giudiziale
Criticità ben più rilevante, da un punto di vista tanto giuridico quanto pratico, si verifica qualora la liquidazione giudiziale risulti – al termine dell’azione di responsabilità e prima dell’incasso del credito derivante dall’azione legale – ancora parzialmente o totalmente incapiente per soddisfare anche i crediti prededucibili, che, in questi casi, sono relativi all’azione di responsabilità stessa.    
Al fine di un miglior inquadramento di quanto seguirà, occorre preliminarmente sposare l’approccio dottrinale che prevede la suddivisione dei crediti prededucibili in due gradi di soddisfacimento, riconoscendo l’esistenza di “prededuzioni che derivano da atti di impresa e crediti in prededuzione che derivano da atti della (e nella) procedura”, dove i primi – di rango inferiore, fondati sul principio di funzionalità – vengono definiti “superprivilegi” e i secondi – di rango superiore, sulla base dell’art. 2777 c.c. – “superprededuzioni”[43].      Secondo l’approccio appena esposto, all’interno della classe dei creditori prededucibili è necessario graduare a propria volta i crediti secondo l’ordine di prelazione, distinguendo in primis tra superprededuzioni e superprivilegi, e successivamente suddividere questi ultimi tra i vari gradi di privilegio e il chirografo[44]: tale soluzione, di carattere estremamente pratico, risolve la problematica dei riparti parziali in presenza di una classe prededucibile estremamente rilevante ed eterogenea, come nei casi – sempre più frequenti – di esercizio provvisorio dell’impresa, dove, in applicazione dell’art. 211 CCII, comma 8, “i crediti sorti nel corso dell'esercizio sono soddisfatti in prededuzione ai sensi dell'articolo 221, comma 1, lettera a)”. 
Tale impostazione genera plurime conseguenze nei casi in cui l’attivo non sia sufficiente a pagare tutte le prededuzioni sino a quel momento rilevate. 
Quando la procedura di liquidazione giudiziale si avvale della facoltà di ottenere il patrocinio a carico dello Stato per il sostenimento delle spese di giudizio, sono prenotate a debito tutte tali spese sulla base di quanto previsto dal D.P.R. n. 115/2002[45], comprese quelle relative alla CTU e il debito per il pagamento dell’imposta di registro, in quanto direttamente connesso alla causa posta a carico dell’Erario[46]; a queste si aggiungono, ovviamente, tutte le spese sostenute dalla procedura in sede di azione legale, e consisteranno prevalentemente nei compensi dei professionisti (legale e CTP) nominati dalla procedura stessa.             
 D’altra parte, però, vi è appunto la casistica delle spese prenotate a debito e/o anticipate dall’Erario[47]. Tali spese, in quanto spese effettuate da una procedura incapiente, vengono interamente accorpate nella disciplina del privilegio per le spese di giustizia ex art. 2777 c.c., che conferisce il privilegio generale – all’interno della prededuzione – di grado massimo; in realtà, tutte le spese sostenute in corso di procedura rientrano nella disciplina della superprededucibilità ex art. 2777 c.c., pertanto l’unico criterio per la loro ricomprensione o meno nelle spese anticipate dall’Erario consiste nel momento della maturazione del debito, al tempo del quale il discrimine è la presenza o meno di attivo nella liquidazione giudiziale. Fermo restando che “se la procedura fallimentare è ammessa al c.d. gratuito patrocinio, non rischia che venga posta a suo carico l’imposta di registro della sentenza, così come non sono poste a suo carico le spese processuali, ad esempio quelle della consulenza tecnica che viene spesso disposta nei giudizi di responsabilità per mala gestio”[48], la conseguenza consiste nel fatto che, qualora la procedura inizialmente incapiente trovi una successiva capienza, l’accorpamento degli anticipi dell’Erario dovrebbe essere il primo macro-credito superprededucibile ad essere soddisfatto poiché, per la disciplina delle spese prenotate a debito ai sensi dell’art. 146, comma 4, TUSG, “le spese prenotate a debito o anticipate sono recuperate, appena vi sono disponibilità liquide, sulle somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo”, a seguito di revoca del beneficio da parte del giudice delegato che ne aveva attestata la necessità[49].         
Si potrebbe quindi verificare il caso in cui un credito superprededucibile, grazie alla sua ricomprensione nel macro-credito superprededucibile per spese di giustizia anticipate dall’Erario, venga soddisfatto integralmente prima di un altro credito superprededucibile per spese di giustizia ma, per motivi temporali, non rientrante nel macro-credito delle spese anticipate dall’Erario: si assisterebbe pertanto ad una violazione di par condicio creditorum tra spese di giustizia (della procedura) prenotate a debito, compattate in un unico debito verso l’Erario, e spese di giustizia (della procedura) maturate in contesto di non prenotazione a debito frammentate nelle singole voci di spesa, tutte – per natura – superprededuzioni ex art. 2777 c.c., pur adempiendo il curatore letteralmente alla disposizione prevista che, attraverso l’obbligo del pagamento allo Stato non appena possibile, cerca di porre l’Erario su un gradino più alto dei pari grado[50]. 
Diventa pertanto onere del curatore valutare attentamente le modalità di pagamento di questi crediti superprededucibili, poiché “qualora siano liquidi, esigibili e non contestati per collocazione e ammontare” essi rispetterebbero le caratteristiche, oltre che per poter essere accertati in deroga agli art. 200 e segg. CCII, per essere soddisfatti al di fuori del procedimento di riparto in base a quanto previsto dall’art. 222, comma 3, CCII. Tale meccanismo di soddisfacimento, però, risulta possibile solo qualora l’attivo sia presumibilmente sufficiente a soddisfare tutti i titolari di tali crediti prededucibili, pertanto, nell’ipotesi sopra descritta, anche il pagamento delle superprededuzioni della procedura rischia di alterare la par condicio creditorum all’interno del più alto rango di crediti, dovendo invece essere rispettato un pari soddisfacimento relativo. La criticità più evidente è data dal fatto che, all’interno delle superprededuzioni per spese di giustizia anticipate dall’Erario, tra tali pagamenti rientrino spese per debiti solidali: qualora successivamente la liquidazione giudiziale riuscisse ad incassare dal soccombente – attraverso l’esercizio della surrogazione e/o del regresso – quanto dovuto, con l’apporto di nuovo attivo, il curatore si troverebbe a dover effettuare un ricalcolo di tutti i pagamenti già effettuati, con il rischio che il saldo verso l’Erario, ridotto dei debiti solidali ma ancora da soddisfare completamente per i debiti della procedura, risulti addirittura favorevole alla liquidazione giudiziale, con ulteriore complicazione nella gestione operativa di tali flussi monetari.            
Verrebbe da suggerire, pertanto, che il curatore che si trovi con superprededuzioni suddivise in spese anticipate dall’Erario, attivo insufficiente realizzato successivamente e nuove superprededuzioni non più anticipabili dall’Erario effettui i pagamenti – nel rispetto della par condicio creditorum – solo quando abbia la certezza che non realizzerà ulteriore attivo, soprattutto una volta concluse le operazioni legate all’incasso dei crediti vantati dalla liquidazione giudiziale: complicata in tal senso sarebbe la gestione di tali previsioni in caso di chiusura della procedura in pendenza di cause.         
A parere di chi scrive, la violazione volontaria della norma in tema di pagamento immediato delle spese prenotate a debito[51] – di carattere temporale – risulta meno grave della violazione della par condicio creditorum – principio cardine della concorsualità – all’interno delle superprededuzioni; pertanto, il curatore dovrebbe effettuare un arbitraggio temporale sui pagamenti di tutte le spese di giustizia sostenute in corso di procedura[52]. 
6 . Un appunto sull’ipoteca giudiziale
Ferma restando l’intenzione di analizzare la questione sotto il punto di vista della tutela del credito, ed in particolare, come precedentemente accennato, alla scelta della liquidazione controllata come forma alternativa all’esecuzione individuale, è necessario confrontarsi con una tattica processuale alternativa, ossia quella che prevede di avvalersi dell’utilizzo dell’ipoteca giudiziale. 
Infatti, le riflessioni gerarchiche espresse in precedenza possono essere parzialmente alterate qualora il curatore della liquidazione giudiziale abbia optato per trascrivere ipoteca giudiziale a seguito dell’ottenimento della sentenza di condanna, usufruendo del beneficio concesso alla parte vittoriosa in forza dell’art. 2818, comma 1, c.c., il quale statuisce che “ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione ovvero al risarcimento di danni da liquidarsi successivamente è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore”. L’utilizzo di tale strumento concede al credito derivante dalla sentenza di condanna al risarcimento del danno la possibilità di elevarsi di rango: infatti, da chirografario, la forza dell’ipoteca conferisce causa di prelazione speciale da poter far gravare sui beni del debitore. Orbene, va però segnalato il conflitto tattico-processuale che si viene a generare con il citato art. 686 c.p.c., poiché, sulla base dello stesso, la conversione del sequestro in pignoramento fa sì che, in seguito al pignoramento stesso, le posizioni gravanti sul bene pignorato si cristallizzino, rendendo inopponibile a terzi ogni futura iscrizione; ergo il credito chirografario pignoratizio non può elevarsi successivamente a rango ipotecario. Il creditore vittorioso pertanto si trova di fronte ad un bivio della propria strategia di tutela del credito: la prima ipotesi è quella – già esposta in precedenza – di convertire il sequestro in pignoramento, consolidando la propria posizione chirografaria e con la certezza che nessun altro creditore possa alterare l’ordine di prelazione sul singolo bene; la seconda ipotesi consiste nel non convertire il sequestro in pignoramento e avvalersi invece della sentenza di condanna per iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del debitore, quindi elevando il proprio credito al rango di prelatizio ipotecario prima di dare inizio ad un nuovo procedimento esecutivo: si rappresenta preliminarmente il rischio che tale scelta di far decadere la consecuzione tra sequestro e pignoramento per poi iniziare l’iter di iscrizione di ipoteca giudiziale comporta, ossia la creazione di uno iato temporale fisiologico all’interno del quale anche altri creditori possono aggredire il bene.           
Individuare una regola generale su quale sia la strada con più possibilità di soddisfacimento del credito è difficile esercizio di stile, ma è possibile riconoscere nella composizione del passivo del debitore/soccombente un ragionevole e ragionato criterio secondo il quale decidere rispetto al caso specifico. In particolare, oggetto di analisi preventiva sarà l’eventuale presenza e ammontare di ipoteche anteriori per comprendere quanto del ricavato della vendita del bene sarà assorbito dall’ipoteca (o più ipoteche) di grado superiore ai sensi degli art. 2852 e segg. c.c. e, di conseguenza, quanto attivo residuo sarà a disposizione dei creditori di grado inferiore, la cui composizione sarà anch’essa da analizzare: infatti, la scelta comporterà un futuro collocamento del proprio credito o in funzione dell’eventuale ipoteca di grado inferiore iscritta a seguito della sentenza di condanna o nella massa chirografaria (con conseguente attribuzione di un peso intra-classe ai fini del pari soddisfacimento percentuale) sottostando ai creditori privilegiati. Non rileva, al fine della presente analisi, la presenza di privilegio fondiario anteriore, in quanto le disposizioni dell’art. 41, comma 2, TUB riconoscono un privilegio di natura meramente processuale senza alterazione della par condicio creditorum[53].   
Potremmo affermare che potrebbe avere più senso percorrere l’opzione dell’ipoteca giudiziale in presenza di beni liberi da gravami precedenti, così da avere una pressoché certezza del soddisfacimento (nonostante i maggiori costi che l’ipoteca giudiziale comporta) grazie alla prelazione speciale assoluta, con risultato identico sia in caso di esecuzione individuale sia di liquidazione controllata. In presenza di altre ipoteche anteriori, e quindi dovendo necessariamente soddisfarsi su un potenziale residuo attivo, sarà la presenza di crediti privilegiati (nell’an e nel quantum) a far capire quanto successivo residuo sarà disponibile per la massa chirografaria (da considerare nel quantum) al fine di determinare la possibilità e la capacità di soddisfacimento; in prima ipotesi, un’ipoteca giudiziale permetterebbe di accodarsi alle ipoteche anteriori nella distribuzione del ricavato dalla vendita del bene (con pari soddisfacimento sia in caso di esecuzione individuale sia di liquidazione controllata), mentre la conversione del sequestro in pignoramento consoliderebbe il rango chirografario del credito, che, in caso di esecuzione individuale, concorrerebbe sul residuo della vendita dopo le ipoteche anteriormente iscritte (quindi, con risultato analogo ad un’iscrizione ipotecaria), mentre avrebbe, in caso di liquidazione controllata, l’ulteriore vantaggio di aggredire l’intera massa attiva, pur concorrendo insieme ai pari grado e sottostando ai creditori privilegiati. Inoltre, seppur partendo da una posizione estremamente vantaggiosa rispetto a tutti gli altri creditori, sia in termini di rango che in termini quantitativi, il credito ipotecario trova comunque più possibilità di soddisfacimento in una procedura collettiva, poiché soltanto in  esse viene tutelato il credito residuo in caso di incapienza dell’attivo realizzato dalla vendita del bene gravato, che, seppur con rango chirografario, beneficia dell’aggressione della massa mobiliare derivante dall’universalità oggettiva.                         
Probabilmente, in presenza di un quantitativo elevato di ipoteche, creditori privilegiati e chirografari, l’azione di responsabilità originaria non sarebbe nemmeno stata promossa per motivi di convenienza e (ir)ragionevole possibilità di successo nell’effettiva possibilità di recupero del credito. 
In linea generale, stante le riflessioni già esposte nel paragrafo precedente, si ritiene pertanto comunque più generalmente valida nel caso in esame l’opzione della conversione del sequestro in pignoramento con successiva istanza di liquidazione controllata. 
7 . Conclusioni
La (ormai non più così nuova) liquidazione controllata, così come concepita grazie alla legittimazione attiva del creditore, può rivelarsi un ottimo strumento di riscossione del credito, qualora sussistano i presupposti per l’accesso a questa versione minore della liquidazione giudiziale, soprattutto in ottica comparativa rispetto alle esecuzioni individuali; pur non potendo sovrapporre esecuzioni individuali e collettive, è evidente come il ruolo del creditore istante sia completamente diverso nei due scenari: se, nelle prime, il creditore procedente gioca un ruolo costantemente attivo e d’impulso in più fasi, nelle seconde il ruolo giocato dal creditore istante (e/o insinuato) si limita all’impulso di apertura della procedura (e/o all’insinuazione al passivo) per poi restare sostanzialmente in attesa della fase di riparto, con evidente risparmio di risorse nel secondo caso, laddove l’intera attività è demandata agli organi della procedura.     
 La portata massima di questa tattica processuale si può riscontrare all’interno delle azioni di responsabilità nelle liquidazioni giudiziali (o nei vecchi fallimenti ancora aperti), quando il curatore, a fronte di una sentenza favorevole per cifre estremamente ingenti e spesso sproporzionatamente maggiori rispetto al patrimonio del soggetto convenuto, si trova a dover effettivamente riscuotere le somme che gli spettano, all’interno del comune scenario in cui tali vittorie in sede di causa risultano poi destinate ad un insuccesso (parziale o totale) in sede di effettiva riscossione. Oltre ai patrimoni non adeguatamente capienti, si pensi sennò ai patrimoni con beni all’estero: un creditore che deve aggredire simili beni trova ostacoli ben maggiori rispetto all’applicazione della vis attrattiva dell’universalità oggettiva della procedura di liquidazione controllata.     
Secondo un’ottica di economicità delle procedure concorsuali, l’opzione di richiesta di apertura di una liquidazione controllata del proprio debitore/soccombente risulta spesso la più economica e la più facile per il curatore vittorioso che, rebus sic stantibus, invece di cominciare un nuovo procedimento di riscossione coattiva del proprio credito, “delega” tali operazioni agli organi della liquidazione controllata, restando di fatto – e a costo zero – in attesa del futuro riparto.

Note:

[1] 
D. Galletti, “La liquidazione giudiziale del danno nelle azioni di responsabilità dopo il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza”, in Giust. Civ., 2022, 2, pp. 299-333, e N. Rocco Di Torrepadula, “Il danno liquidabile nelle azioni di responsabilità, tra criteri legali ed equità”, in Dir. fall., 2020, 2, pp. 302-317, tracciano l’evoluzione dello strumento, concentrandosi sulla quantificazione del danno analizzando anche i soggetti attivi e passivi dell’azione, dalla Legge Fallimentare al Codice della Crisi e dell’Insolvenza, attraversando inoltre le modifiche al Codice Civile; G. Carmellino, “Azioni di responsabilità esercitate da curatori e commissari”, in Fallimento, 2022, 11, 1450, illustra una panoramica sugli orientamenti giurisprudenziali dell’ultimo decennio.  
[2] 
S. Ziino, “L’arbitrabilità delle azioni revocatorie e di inefficacia nella prospettiva del codice della crisi”, in Dir. fall., 2020, 5, pp. 1011-1044, il quale effettua una ricognizione critica di ampio respiro delle caratteristiche generali delle azioni revocatorie; C. Costa, “Le principali novità in materia di revocatoria fallimentare nel Codice della Crisi e dell’Insolvenza” in Dir. fall., 2021, 6, pp. 1272-1286, si concentra invece sull’evoluzione storica delle azioni revocatorie fallimentari, in particolare ponendo come spartiacque la riforma del diritto societario del 2005-2006, e, da un punto di vista tecnico, di come l’avvento del CCII, pur conservando l’impianto generale contenuto nella Legge Fallimentare, abbia posto al centro della disciplina la data di decorrenza del cd. periodo sospetto e le relative criticità legate al suo ampliamento: nel suo elaborato, l’autore configura il ridimensionamento dell’azione revocatoria operato nella riforma del 2005-2006 come, in realtà, “una sua riconduzione allo spirito originario di strumento di reazione a comportamenti dannosi per la massa, o comunque in violazione della par condicio creditorum, posti in essere prima della dichiarazione di fallimento”. Entrambi i saggi, seppur risalenti al periodo di limbo post D.Lgs. n. 14/2019 nel quale la Legge Fallimentare era ancora in vigore, rimangono validi nelle loro considerazioni in quanto le norme esaminate all’epoca non hanno ricevuto modifiche ad opera delle norme correttive e modificative emanate fino all’entrata in vigore del Codice della Crisi e dell’Insolvenza. Più recentemente, e sempre con focalizzazione sulle criticità legate al periodo sospetto, L. Salamone, “Datazione del c.d. periodo sospetto e consecuzione di procedure concorsuali. Le nuove revocatorie”, in Dir. fall., 2023, 1, pp. 54-75. 
Sulla riduzione del numero delle azioni revocatorie, M. Fabiani, “La par condicio creditorum al tempo del codice della crisi”, in Quest. Giust., 2019, 2, pp. 202-227, nel par.12 all’interno della disamina sulle azioni revocatorie, afferma che “Si è parlato di depotenziamento dell’azione revocatoria o persino di smantellamento, ma ciò che è sicuro – perché i dati statistici lo confermano – è il fatto che l’azione non è più al centro del sistema del concorso, non è più il paradigma della “concorsualità sistematizzata”. È ben vero che la legge non l’ha formalmente soppressa, ma l’esperienza ci dice che le azioni che vengono intraprese rappresentano quantitativamente una ridottissima percentuale rispetto al passato”.
[3] 
M. Fabiani, op.cit., nel par.20 dedicato alle azioni risarcitorie evidenzia come “Non vi è dubbio che siano configurabili condotte che danno luogo tanto a reazioni revocatorie quanto a reazioni sul piano della responsabilità.” 
[4] 
A. Tanga, “Prescrizione dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare e rilevanza delle dimissioni di un sindaco”, in Dir. fall., 2021, 6, pp. 1363-1372.
[5] 
Oltre ai riferimenti presenti nella nota n.1, si veda sul tema anche V. Lenoci, “Nesso causale e criteri di quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità promosse dal curatore fallimentare anche alla luce del nuovo codice della crisi e dell’insolvenza”, in Dir. fall., 2019, 2, pp. 364-400. 
[6] 
Cass., Sez. V, 20 ottobre 2021, n.29127: “è principio giurisprudenziale consolidato quello per cui, in tema di consulenza tecnica di ufficio, il compenso dovuto al consulente deve essere posto solidalmente a carico di tutte le parti, atteso che l'attività posta in essere dal professionista è finalizzata alla realizzazione del superiore interesse della giustizia, che invece non rileva nei rapporti interni tra le parti, nei quali la ripartizione delle spese è regolata dal diverso principio della soccombenza (v., per tutte, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28094 del 30/12/2009 Rv. 610997 - 01). Infatti, il principio di solidarietà, costantemente affermato dalla Corte di cassazione, impone che fra le parti del processo civile in relazione al compenso dovuto al C.T.U., che ha il suo fondamento nella peculiare natura della prestazione, effettuata a favore di tutti i partecipanti al giudizio in funzione del superiore interesse di giustizia (art. 61 c.p.c.), non abbia alcuna interferenza il diverso principio, che si pone su tutt'altro piano, della soccombenza, il quale presiede la regolazione delle spese fra le parti. Il primo attiene, invero, al rapporto fra il C.T.U., ausiliario esterno del giudice, ed i soggetti, che beneficiando della sua attività sono ex art. 1294 c.c. tenuti in solido al pagamento del corrispettivo dovutogli, mentre il secondo, riguarda invece i rapporti interni fra i condebitori, donde è del tutto irrilevante, per il creditore precedente, che successivamente abbiano avuto regolazione giudiziale, con conseguente costituzione di un titolo esecutivo nei confronti di un coobbligato, risultato insolvente.” 
[7] 
P. Gobio Casali, “Azione di responsabilità del curatore e imposta di registro”, in Dir. fall., 2023, 1, pp. 149-157, il quale, con nota a sentenza di Cass., sez. I, 7 giugno 2022, n.18249, effettua una ricognizione critica dell’applicazione dell’imposta di registro alle sentenze di condanna degli amministratori a seguito di azioni di responsabilità promosse dal curatore, soffermandosi in particolar modo sulle criticità legate alla prenotazione a debito. 
[8] 
Tale valutazione non è altro che diretta applicazione della responsabilità patrimoniale disciplinata dall’art.2740 c.c.: “il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”, tarata sul destinatario dell’azione legale. 
[9] 
A titolo non esaustivo, D. Dalfino, “Il sequestro conservativo”, in (a cura di) A. Carratta, “I procedimenti cautelari”, Bologna, 2013, pp.481 e segg; 
[10] 
Sul punto, (a cura di) M. Spadaro, “Orientamenti giurisprudenziali di merito – Azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e presupposti del sequestro conservativo” in Fallimento, 2023, 7, pp.999-1000, fornisce una panoramica sugli orientamenti aventi ad oggetto i principali temi relativi all’azione di responsabilità (legittimazione attiva, presupposti, natura contrattuale), soffermandosi anche sul come il sequestro conservativo si inserisca in tale contesto; in particolare, viene esaminata la declinazione dei suoi presupposti, con specifico esame delle declinazioni del periculum in mora
[11] 
V. Lo Voi, “I sequestri cautelari: conservativo e giudiziario”, in (a cura di) S. Ruscica, G. Mascaro, “Il pignoramento”, Cedam, Milano, 2023, pp.277 e segg. 
[12] 
Cass., Sez. I, 15 marzo 2005, n. 5579, in Società, 2005, p.862 
[13] 
Per un’analisi completa, M. Farina, “Il periculum in mora nel sequestro conservativo a cautela dell'utile proposizione di azioni di responsabilità contro amministratori e sindaci” in Società, 2022, 10, pp.1164-1173, partendo dal commento alla sentenza Trib. Firenze, sez. Imprese, 10 gennaio 2022, in Società, 2022, 10, pp.1160-1163. L’Autore si sofferma anche sulla casistica nella quale esista una responsabilità solidale nei confronti dell’unico creditore, nonché sulla casistica nella quale i soggetti passivi abbiano stipulato un contratto di assicurazione della responsabilità civile. 
[14] 
M. Farina, op. cit., pp.1169-1171. 
[15] 
M. Farina, op. cit., pp. 1171-1173. 
[16] 
Sulla presenza di un elemento soggettivo e sulla sua configurazione generica, la giurisprudenza di legittimità è pacificamente allineata da decenni; a titolo non esaustivo, Cass., sez. III, 13 febbraio 2002, n. 2081; Cass., Sez. I, 17 giugno 1998, n. 6042; Cass., Sez. I, 09 febbraio 1990, n. 902; Cass., Sez. I, 09 gennaio 1987, n. 69; Cass., Sez. III, 10 settembre 1986, n. 5541, tutte in Mass. Giur. It. 
[17] 
M. Farina, op. cit., pp.1165-1166. 
[18] 
Trib. Firenze, sez. Imprese, 10 gennaio 2022, in Società, 2022, 10, pp. 1163. 
[19] 
Si segnala che la sentenza citata (Trib. Firenze, sez. Imprese, 10 gennaio 2022, in Società, 2022, 10, pp. 1163), dopo aver sollevato tale possibilità anche con riferimento alle fattispecie che possono assumere anche rilevanza penale, ne delinea comunque un limite applicativo già nella casistica ivi esaminata: “Nel caso di specie, ancorché parte delle condotte disegnate abbiano trovato riscontro documentale, si ritiene che queste non siano tali da integrare il profilo soggettivo del periculum, in quanto, anche in considerazione della natura del presente giudizio, non vi sono elementi sufficienti a dare loro tale connotazione.” 
[20] 
Cass., sez. III, 10 ottobre 2017, n.23667, con nota di G. Finocchiaro, “In tema di concorso tra creditore sequestrante e creditore assistito da ipoteca iscritta dopo la trascrizione del sequestro”, in Riv. Dir. Proc., 2018, 4-5, pagg. 1350-1355; in particolare, la sentenza prevede i seguenti passaggi fondamentali: in tema di inefficacia rispetto al creditore sequestrante, “l’ipoteca iscritta successivamente alla trascrizione del sequestro è improduttiva di effetti nei confronti del (solo) creditore sequestrante” e “L’inefficacia relativa implica che nella distribuzione del ricavato dall’espropriazione il creditore assistito da ipoteca iscritta dopo il sequestro deve essere trattato alla stregua di un  creditore chirografario, ma soltanto rispetto al sequestrante, poiché l’iscrizione ipotecaria è, invece, pienamente opponibile agli altri intervenuti nell’esecuzione”; in tema di mancato ottenimento di una causa legittima di prelazione, “La misura cautelare ex art. 671 c.p.c. non costituisce alcun diritto di prelazione in favore del sequestrante per il solo fatto della trascrizione del vincolo reale; conseguentemente, in assenza di peculiari privilegi attinenti allo specifico credito, ai fini della distribuzione anche il sequestrante deve essere considerato chirografario”; il principio di diritto è pertanto: “Ai sensi dell’art. 2916, n. 1, c.c., dettato in relazione agli effetti del pignoramento ed applicabile al sequestro conservativo ai sensi dell’art. 2906 c.c., le ipoteche iscritte dopo il sequestro sono improduttive di effetti nei confronti del sequestrante; conseguentemente, la somma ricavata dall’esecuzione deve essere distribuita effettuando dapprima una proporzione tra tutti i crediti dei creditori chirografari e degli ipotecari (declassati a chirografari) e poi attribuendo al sequestrante un importo non eccedente quello per il quale la misura cautelare era stata concessa”. 
[21] 
G. Finocchiaro, op.cit., p. 1352, in nota, spiega che “il pignoramento derivante dalla conversione, ex art. 686 c.p.c., di sequestro conservativo, non retroagisce, quanto ai suoi effetti, al momento della concessione della misura cautelare, con la conseguenza che il creditore intervenuto nella successiva esecuzione, sia questa promossa dallo stesso sequestrante o da altri, non può opporre gli effetti del pignoramento, di cui agli artt. 2913 e ss. c.c., agli atti pregiudizievoli in ordine ai beni del debitore, intervenuti tra la concessione del sequestro e il pignoramento”. 
[22] 
Sul punto, la perfetta sintesi è offerta da F. Cesare, “La liquidazione controllata” in Dirittodellacrisi.it (https://dirittodellacrisi.it/articolo/la-liquidazione-controllata ) del 26 aprile 2023, quando afferma “L’appartenenza della species liquidazione controllata all’interno del genus liquidazione giudiziale non ha una valenza meramente teorica. Il rimando delle norme disciplinanti la procedura maggiore induce a ritenere che nel caso in cui vi sia una lacuna nella liquidazione controllata, o anche quando una disciplina o un istituto non siano previsti potranno applicarsi gli articoli della liquidazione giudiziale.” 
[23] 
Sulla nascita e sulla struttura generale della nuova liquidazione controllata, i chiarimenti più importanti sono forniti dalla Relazione Illustrativa al Codice della Crisi, la quale illustra che “La liquidazione controllata è il procedimento, equivalente alla liquidazione giudiziale, finalizzato alla liquidazione del patrimonio del consumatore, del professionista, dell’imprenditore agricolo, dell’imprenditore minore e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale, che si trovi in stato di crisi o di insolvenza. … Considerato che la liquidazione concerne patrimoni tendenzialmente di limitato valore e situazioni economico finanziarie connotate da limitata complessità, la procedura è semplificata rispetto alla liquidazione giudiziale.” 
[24] 
Sul tema del procedimento di apertura della liquidazione controllata, su tutti G. Rana, “Il procedimento di apertura della liquidazione controllata” in Dir. fall., 2023, 1, pp. 76-99, e A. Crivelli, “Principali aspetti processuali nel procedimento di apertura della liquidazione controllata” in Fallimento, 2021, 7, pp. 885-897. 
[25] 
G. Rana, op. cit., p. 79: “Si noti, sempre in ottica deflattiva, anche la previsione della necessità della esistenza di debiti scaduti per almeno cinquantamila euro (art. 268, comma 2, CCII) nel caso di ricorso del creditore. … Il limite dovrebbe anche servire a scoraggiare, in qualche modo, il ricorso alla domanda di liquidazione nei casi in cui questa è finalizzata solo a far pressione per esigere piccoli crediti.” 
[26] 
A. Farolfi, “Liquidazione controllata: problemi applicativi e nuove opportunità”, in Fallimento, 2024, 2, p. 237: “Se, infatti, nell’impianto della L. n. 3/2012 il debitore era il deus ex machina di ogni procedura che lo riguardasse, essendo a lui solo riconosciuta la legittimazione attiva, ora la liquidazione controllata, al pari di quella giudiziale e prima ancora del fallimento, può essere aperta a seguito di una domanda giudiziale proposta da un creditore.” 
[27] 
In tal senso, anche G. Rana, op.cit., pp. 80-81, e S. De Matteis, “La liquidazione controllata nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” in Dir. fall., 2021, 2, p. 353. 
[28] 
Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2013, n. 1521, in Riv. Esec. Forz., 2013, 2, pp. 345-359, sebbene si concentri sull’iter di ammissibilità al concordato preventivo, sancisce che “L’art. 6 legge fallim. stabilisce infatti che il fallimento è dichiarato, fra l’altro, su istanza di uno o più creditori, circostanza che non presuppone un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, né l’esecutività del titolo, essendo viceversa a tal fine sufficiente un accertamento incidentale da parte del giudice, all’esclusivo scopo di accertare la legittimazione dell’istante”, dove l’art. 6 L. fall. confluisce senza sostanziali modifiche nell’art. 37 CCII. La sentenza in oggetto è stata annotata da diversi autori, tra cui G. Carmellino “Il giudizio di fattibilità del piano di concordato preventivo nella prospettiva delle Sezioni Unite” in Riv. Esec. Forz., 2013, 2, pp. 359-381; F. De Santis “Causa «in concreto» della proposta di concordato preventivo e giudizio «permanente» di fattibilità del piano” in Fallimento, 2013, 3, pp. 279-286; I. Pagni “Il controllo di fattibilità del piano di concordato dopo la sentenza 23 gennaio 2013, n. 1521: la prospettiva ‘‘funzionale’’ aperta dal richiamo alla ‘‘causa concreta’” in Fallimento, 2013, 3, pp. 286-290; A. Di Majo “Il percorso ‘‘lungo’’ della fattibilità del piano proposto nel concordato” in Fallimento, 2013, 3, pp. 291-293. 
[29] 
S. De Matteis, op. cit., p. 351: “La legittimazione attiva dei creditori … è collegata allo stato di insolvenza. ... ricorrendo tale presupposto oggettivo…
[30] 
F. Cesare, op. cit., afferma che “È dunque onere del creditore provare l’irreversibilità della crisi, ovvero l’evidenza di inadempimenti o altri fatti esterni in grado di dimostrare che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.” 
[31] 
In senso contrario, G. Rana, op. cit., p. 79: “il riferimento agli atti dell’istruttoria vale da solo ad escludere che debba trattarsi del solo credito del ricorrente e fa emergere anche una certa rilevanza dell’istruttoria documentale che il tribunale dovrà svolgere per esaminare la domanda” .
[32] 
Sia l’art. 121 CCII per quanto concerne la liquidazione giudiziale che l’art. 268 CCII per quanto concerne la liquidazione controllata, parlano di debitori in stato di insolvenza, che viene definita dall’art. 2, comma 1, lett. b), CCII come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”, rendendolo di fatto un elemento neutro (oggettivo, quindi trasversale) rispetto agli ambiti applicativi soggettivi. 
[33] 
Sull’accertamento dello stato di insolvenza, la giurisprudenza in conformità formatasi in ambito di presupposti oggettivi per la declaratoria di fallimento, Cass., sez. VI, 10 giugno 2019, n. 15572, “il ricorrente si duole del fatto che l'inadempimento di un'unica obbligazione non costituiva elemento univoco di giudizio per valutare l'insolvenza. Il ricorso è infondato. … lo stato d'insolvenza dell'imprenditore commerciale quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d'impotenza strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività”, e Cass., Sez. I, 07 aprile 2015, n. 6914, con riferimento all’accertamento dello stato d’insolvenza basato su un unico credito addirittura sub iudice, “Il riscontro dello stato d'insolvenza del debitore prescinde, inoltre, da ogni indagine sull'effettiva esistenza ed entità dei crediti, essendo a tal fine sufficiente l'accertamento di uno stato d'impotenza economico patrimoniale, idoneo a privare tale soggetto della possibilità di far fronte, con mezzi "normali", ai propri debiti”.
[34] 
In una liquidazione controllata, i crediti dotati di privilegio sono prevalentemente quelli di natura erariale e, nei casi dove il soggetto è stato chiamato in giudizio, i crediti professionali dei consulenti che assistono il debitore. 
[35] 
Art. 153, comma 1, CCII: “I creditori garantiti da ipoteca, pegno o privilegio fanno valere il loro diritto di prelazione sul prezzo dei beni vincolati per il capitale, gli interessi e le spese; se non sono soddisfatti integralmente, concorrono, per quanto è ancora loro dovuto, con i creditori chirografari nelle ripartizioni del resto dell’attivo”. 
[36] 
Art. 37 del D.P.R. n. 131/1986, Testo Unico dell’Imposta di Registro (TUR). 
[37] 
Art. 8, Tariffa, parte I del D.P.R. n. 131/1986, Testo Unico dell’Imposta di Registro (TUR). 
[38] 
La dottrina è tornata in anni recenti ad analizzare, spesso attraverso le relative note a sentenza, il rapporto e le differenze tra regresso e surrogazione con l’insorgenza delle problematiche relative ai finanziamenti alle imprese garantiti da enti pubblici, anche attraverso riepilogazioni dell’andamento dottrinale e giurisprudenziale precedente; particolarmente apprezzabili ed esaurienti le analisi comparative effettuate da M. Fabiani, “I crediti SACE per le garanzie ai finanziamenti alle imprese: la contraddizione tra il sistema dei privilegi e la ragion di Stato”, in Fallimento, 2022, 4, pp. 504 - 506; L. Panzani, “I privilegi dei crediti finanziari” in Fallimento, 2021, 10, pp. 1258-1260; A. Bolognese, “Il privilegio dei crediti nascenti dalla revoca del finanziamento pubblico per il sostegno alle imprese: il caso della revoca della garanzia” in Fallimento, 2019, 7, pp. 903-904. Meno recentemente e partendo nelle proprie analisi dalla posizione del fideiussore, F. Cerri, “I rimedi spettanti al fideiussore escusso dopo la dichiarazione di fallimento del debitore comune tra surroga e regresso” in Dir. fall., 2013, 3-4, pp.243-256; A. Fici, “Sull’ammissibilità al passivo del credito di regresso del fideiussore adempiente dopo il fallimento del debitore garantito” in Fallimento, 2008, 8, pp.929-937; G. Petti, “Surrogazione e regresso del fideiussore nel fallimento” in Fallimento, 2008, 6, pp. 648-654; F. Venturini, “Surrogazione legale e regresso, a seguito dell’adempimento di obbligazioni solidali ad interesse comune da parte di uno dei condebitori” in Nuove Leggi civ. comm., 2008, 1, pp. 56 e segg. Partendo da argomenti diversi dalla disciplina concorsuale, G. Stella, “Il diritto di regresso e surrogazione del garante che paga i tributi doganali: il problema del regime della prescrizione” in Corr. Giur., 2014, 1, pp. 49-62; R. Di Cristo, “Obbligo di mantenimento e regresso nei rapporti tra genitori naturali”, in Famiglia, Persone e Successioni, 2008, 11, 923-924. 
La giurisprudenza, invece, ha prima tentato di distinguere gli istituti, salvo poi, più recentemente, orientarsi verso la loro assimilazione. La recente Cass. Sez. I, 30 gennaio 2019, n. 2664 (con nota di A.Bolognese, op.cit.) afferma che “secondo consolidati orientamenti della giurisprudenza di questa Corte, “l’azione di regresso spettante al debitore solidale, che abbia effettuato il pagamento, è in sostanza un’azione di surrogazione” e che il termine “regresso” e il termine “surroga”, che in concreto vengano utilizzate, sono da ritenere tra loro equivalenti; per il primo punto, si veda ad esempio Cass., 5 giugno 2007, n. 13180; per il secondo, Cass., 28 luglio 2017, n. 18782”; da tali rimandi, Cass., Sez. I, 05 giugno 2007, n.13180: “secondo il costante orientamento giurisprudenziale, il coobbligato che paga al creditore ha diritto di surrogarsi nei diritti dell'aCCIIpiens, per cui regresso e surrogazione devono ritenersi concorrenti (cfr. tra le molte: Cass. n. 577 del 1973; Cass. n. 1762 del 1982 nelle quali si afferma che l'azione di regresso spettante al debitore solidale, che abbia effettuato il pagamento, è in sostanza un'azione di surrogazione, mediante la quale egli subentra nei diritti del creditore soddisfatto nelle stesse condizioni di questo).”, mentre Cass. civ., Sez. III, 28 luglio 2017, n.18782: “non sussiste tra la surroga ex art. 1949 c.c. e il regresso ex art. 1954 c.c. alcun rapporto di alternatività o incompatibilità, in quanto chi agisce in regresso fa valere anche il diritto di surrogazione legale, seppur - può aggiungersi - nei limiti di quella parte dell'obbligazione che non deve restare definitivamente a suo carico” e “Spetta quindi al confideiussore che abbia pagato il debito effettuare la scelta tra l'azione di surroga e quella di regresso nei confronti degli altri confideiussori, azioni legate - com'è evidente - da un rapporto da genus a species. Scelta che, per quanto detto, nel caso che occupa appare in ogni caso assolutamente inequivoca, concernendo essa in via esclusiva la metà della somma pagata, con i relativi accessori”. 
[39] 
A. Fici, op. cit., pag. 936. 
[40] 
Come già illustrato in precedenza, l’imposta di registro è disciplinata dal D.P.R. n. 131/1986, Testo Unico dell’Imposta di Registro (TUR). 
[41] 
G. Fransoni, “Codice della crisi d’impresa e privilegi fiscali: rivoluzionarie novità?” in Rass. Trib., 2019, 2, pp. 254-255. 
[42] 
Corte Cost., 19 giugno 2000, n.215 in Giur. Costit., 2000, 1722. 
[43] 
Il tema è affrontato esaurientemente da M. Fabiani, “La prededuzione nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” in (a cura di) D. Vattermoli, “La questione distributiva nel diritto della crisi e dell’insolvenza”, Pacini Ed., Pisa, 2023, pp. 151-155. In particolare, a p. 154, i “superprivilegi” sono definiti come crediti relativi all’impresa (es. fornitori in corso di esercizio provvisorio), mentre le “superprededuzioni” sono definiti come crediti relativi al procedimento (es. compenso del commissario giudiziale). 
[44] 
Sempre M. Fabiani, op.cit., solleva così il problema iniziale: “Una volta che si condivida l’assimilazione tra prededuzione correlata all’impresa e superprivilegio, è doveroso confrontarsi con un tema ulteriore e cioè se esista una graduazione interna alla procedura di concorso tra diverse tipologie di prededuzioni.” per poi però specificare che “Qui ci si vuol riferire non al fatto che determinati crediti prededucibili siano privilegiati o chirografari ma al fatto, ben diverso, che vi sono crediti in prededuzioni che derivano da atti di impresa e crediti in prededuzione che derivano da atti della (e nella) procedura.” di fatto affrontando poi solo la distinzione tra prededuzioni “superprivilegiate” e “superprededucibili”. Il problema viene in seguito così riproposto e parzialmente risolto: “A questo punto si tratta di comprendere, nel caso di insufficienza del patrimonio rispetto all’intera massa di debito prededucibile, se il criterio distributivo debba essere quello che deriva dalla natura del credito (privilegiato o chirografario) oppure se non si debba ritenere sussistente una “superprededuzione” in apice costituita dai debiti del procedimento. La risposta può essere affermativa se si concede che nell’ambito della graduazione tra crediti, l’art. 2777 c.c. pone al vertice – in relazione ai processi espropriativi - i crediti per spese di giustizia.”, con il successivo corollario “(i) nell’art. 6 CCII, comma 1, lett. d) si mantiene la distinzione tra crediti afferenti la gestione del patrimonio del debitore e la continuazione dell’esercizio dell’impresa da una parte e crediti relativi ai compensi degli organi dall’altra; (ii) l’art. 2777 c.c. innalza al vertice della graduazione le spese di giustizia, sembra più che ragionevole che l’ordine di distribuzione delle risorse, 
 all’interno di una procedura di concorso, nel caso di insufficienza del patrimonio a soddisfare per l’intero la massa debitoria prededucibile, debba seguire una regola di graduazione che antepone le spese del procedimento ai crediti prededucibili che pertengono all’attività economica.”. Pertanto, suddividere inizialmente le prededuzioni tra “superprededuzioni” al vertice sulla base dell’art. 2777 c.c. e restanti prededuzioni “superprivilegiate”, per poi graduare nuovamente queste ultime secondo l’ordine di privilegi e chirografi non appare incompatibile con il ragionamento sin qui esposto. 
[45] 
Testo Unico delle Spese di Giustizia; il patrocinio a spese dello Stato è disciplinato nella parte III, artt. 74-145, e, in particolare, l’ammissione a tale istituto da parte delle procedure fallimentari è concessa in forza dell’art. 144, il quale dispone che “Nel processo in cui è parte un fallimento, se il decreto del giudice delegato attesta che non è disponibile il denaro necessario per le spese, il fallimento si considera ammesso al patrocinio ai sensi e per gli effetti delle norme previste dalla presente parte del testo unico, eccetto quelle incompatibili con l'ammissione di ufficio”. 
[46] 
P. Gobio Casali, op.cit., p.151-152, illustrando la sentenza commentata, spiega come il disposto dell’art. 59, lett. d), D.P.R. n. 131/1986 (TUR), il quale stabilisce che “si registrano a debito, cioè senza contemporaneo pagamento delle imposte dovute…le sentenze e gli altri atti degli organi giurisdizionali che condannano al risarcimento del danno prodotto da fatti costituenti reato”, venga superato da principi di carattere generale supportati da giurisprudenza pregressa: “L’impostazione è in linea con altre decisioni rese in ambiti diversi da quello tributario, nelle quali la Cassazione ha statuito che, in applicazione del principio di autonomia e separazione dei giudizi penale e civile, il giudice civile investito della domanda di risarcimento del danno da reato deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità con pienezza di cognizione, non essendo vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale”. 
[47] 
La più completa ed attuale ricognizione sul tema è P. Russolillo, “Disciplina delle spese nella Liquidazione Giudiziale”, su Dirittodellacrisi.it del 18 gennaio 2024.
[48] 
P. Gobio Casali, op.cit., p.155. 
[49] 
P. Russolillo, op. cit., in particolare spiega che “Il giudice delegato, per conto suo, provvede alla revoca del beneficio non appena la procedura abbia acquisito la liquidità sufficiente a sostenere le spese di giudizio, provvedimento che sottende una valutazione estesa a tutti costi prededucibili maturati, oltre che prevedibilmente maturandi, in quel momento.”, ponendo a carico del giudice delegato anche una – auspicabile per chi scrive – valutazione prospettica delle risorse della liquidazione giudiziale. Inoltre, “Il provvedimento di revoca per sopravvenuta acquisizione di risorse liquide sufficienti non è peraltro equiparabile a quello previsto dall’art. 136, comma 1, T.u.s.g., per il caso in cui la parte ammessa al beneficio abbia mutato in corso di causa le proprie condizioni reddituali, in quanto, almeno secondo l’opzione interpretativa qui condivisa, non è finalizzata solo ad evitare esborsi futuri a carico dell’Erario, ma anche a consentire la reintegrazione dei costi pubblici fino a quel momento sostenuti.”, di fatto andando a depotenziare il  tentativo erariale di sopravanzare gli altri creditori superprededucibili. 
[50] 
Ancora P. Russolillo, op. cit., rappresenta una duplice via interpretativa “La citata risposta a quesito – risposta della Direzione Generale degli Affari Interni presso il Dipartimento degli Affari di Giustizia (DAG) del Ministero della Giustizia a quesito posto dall’Ispettorato generale n. 13688.U del 22/01/2021 – aggiunge che gli effetti derivanti dalla revoca del beneficio per sopravvenuta capacità della procedura di sostenere le spese dei giudizi promossi non equivalgono a quelli previsti dall’art. 136 T.u.s.g., in quanto non sono limitati alle sole spese processuali successivamente maturate (effetto ex nunc), ma si estendono ad ogni spesa anteriore già anticipata o prenotata a debito (effetto ex tunc), persino quando il giudizio sia definito.”, ma anche “Deve peraltro darsi conto di un diverso orientamento. Si è sostenuto, infatti, che la revoca del gratuito patrocinio per sopravvenuta liquidità, non diversamente da quanto previsto dall’art. 136 T.u.s.g., produce effetti ex nunc, e cioè a partire da quando essa sia sopravvenuta.”. 
[51] 
Sempre P. Russolillo, op. cit., affronta la questione: “Deve ora darsi conto della possibilità che l’attivo realizzato consenta il recupero delle spese prenotate a debito e di eventuali anticipazioni già eseguite dall’Erario ai sensi dell’art. 146, comma 3, T.u.s.g., ma non sia sufficiente per la soddisfazione integrale degli altri crediti prededucibili maturati, inclusi quelli dei soggetti, come il curatore, che abbiano operato quali ausiliari.”, poiché “si pone allora la delicata problematica del coordinamento fra le regole sulla distribuzione dell’attivo disponibile, ma insufficiente, fra i creditori in prededuzione con il perdurante diritto all’anticipazione erariale di cui possono beneficiare alcuni di essi”, ponendo però l’attenzione sul caso in cui “Costituisce, per contro, un erroneo modus procedendi, fonte di responsabilità erariale, quello di escludere ex ante dal riparto delle somme disponibili il compenso del curatore e quello degli altri professionisti che possono accedere al beneficio di cui all’art. 146, comma 3, T.u.s.g., al fine di consentire una maggiore soddisfazione degli altri crediti in prededuzione, posto che così operando si finirebbe col far gravare sulla finanza pubblica una somma che invece avrebbe dovuto essere pagata con la liquidità acquisita alla massa.”; tale condivisibile impostazione non prevede però il caso in cui parte delle spese di giustizia siano anticipate dall’Erario e parte, invece, non lo siano, che qui invece si prospetta. 
[52] 
Si concorda pienamente con P. Russolillo, op. cit., quando afferma che “Viene da sé che la possibilità di dar corso ad un riparto parziale in favore dei prededucibili, in presenza di liquidità limitata, si complica ulteriormente quando vi siano giudizi pendenti in cui la procedura è ammessa la patrocinio a spese dello Stato, dovendo in tal caso essere sempre preservata una disponibilità di cassa idonea a favorire il recupero erariale”. 
[53] 
A completezza del rapporto tra esecuzioni individuali e liquidazione controllata, si segnala il contributo di R. Coletta, “Il privilegio fondiario nella liquidazione controllata (o della differenza tra «rinvio» e «interpretazione analogica»)” in Riv. Esec. Forz., 2024, 1, pp. 91-111, dove l’Autore si accorda alla decisione in commento sull’ammissibilità del privilegio fondiario nella liquidazione controllata, constatando come il privilegio fondiario, di natura processuale, non alteri il concorso sostanziale; un altro contributo recente è F. Gaffuri, “Il privilegio fondiario nel contesto della liquidazione controllata” in Bilancio e Revisione, 2024, 6, pp. 57-64, che traccia inoltre una rassegna degli orientamenti favorevoli o contrari all’applicazione dell’art. 41, comma 2, TUB nell’ambito della liquidazione controllata. 

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