Ma pur superando ogni difficoltà con una sorta di cram down (in senso letterale) interpretativo resta un ostacolo difficilmente superabile se non ritenendo, come pure suggerito nell’ambito dell’interpretazione di cui si è dato conto, che il legislatore minus dixit quam voluit [14].
Più che di un ostacolo si tratta di un vero e proprio macigno ed è costituito dall’intervento del tribunale e mi pare evidente che è sull’interpretazione del ruolo allo stesso assegnato che si gioca decide la ratio e quindi le conseguenze della normativa in esame.
Come anticipato, il citato comma 5-bis dispone che, all’esito del deposito della documentazione prescritta, “il tribunale, verificate la completezza e la regolarità della documentazione, dichiara l’improcedibilità del ricorso presentato ai sensi dell'articolo 161, sesto comma, o dell'articolo 182-bis, settimo comma, del citato regio decreto n. 267 del 1942”
Qual è la logica della previsione di un intervento del tribunale che non è invece espressamente previsto nel caso di mancato deposito nel termine del piano e della proposta o degli accordi, essendo del tutto ovvio che tale circostanza comporti l’improcedibilità della domanda? E ancora: perché richiamare il tribunale a verificare la completezza e regolarità della documentazione se questa dovesse consistere solo nella presa d’atto dell’intervenuta rinuncia alla domanda e nella prova dell’avvenuta pubblicazione, fermo restando, si ripete, che l’improcedibilità dovrebbe essere comunque disposta per il solo fatto che vi è la rinuncia?
Pare inevitabile ritenere che un tale intervento non sia richiesto solo perché si verifichino gli effetti di cui si è trattato in precedenza ma che ci debbano essere conseguenze di maggiore rilievo.
Per ipotizzare quali queste possano essere bisogna presumere che il legislatore abbia voluto spingere fortemente verso una maggiore probabilità di successo dell’istituto dei piani attestati e quindi eliminarne, per quanto possibile i punti deboli.
È noto che tutti gli strumenti messi in campo negli anni dal legislatore con il fine di favorire alternative alla procedura liquidatoria siano basati sul paradigma degli accordi stragiudiziali tra debitore e creditori e che siano strutturati evitando le criticità di questi ultimi fornendo agli operatori strumenti caratterizzati da un crescendo di tutele bilanciate da un pari crescendo di vincoli all’autonomia gestoria del debitore e di intervento giurisdizionale.
Le criticità dei patti esclusivamente privatistici sono rappresentate: a) dalla carenza di stabilità dei risultati dell’esecuzione dei medesimi per effetto del rischio di revocatoria in caso di apertura di procedura liquidatoria, b) dall’assenza di tutela contro atteggiamenti aggressivi dei creditori nella fase delle trattative e dell’esecuzione; c) dall’impossibilità di coinvolgere coattivamente nella ristrutturazione dei debiti tutti i creditori; c) nel rischio penale per l’esecuzione di pagamenti in conformità ai patti.
In cima alla lista per ampiezza di tutela c’è il concordato preventivo in cui tutte le criticità sono escluse ma esiste lo spossessamento, sia pure attenuato, e un controllo ad ampio raggio del tribunale. Un gradino sotto stanno gli accordi di ristrutturazione dei debiti che, benché si avviino nella prospettiva del Codice a ridurre il gap con il concordato quanto alla possibilità di coinvolgimento coattivo di tutti i creditori grazie alla previsione delle categorie, hanno attualmente un minore margine di manovra, consentendo il coinvolgimento coatto solo dei creditori bancari.
In fondo alla lista delle tutele si situano i piani attestati per i quali è solo previsto il beneficio della stabilità degli atti esecutivi del piano, ma che hanno l’appetibilità derivante dal percorso totalmente stragiudiziale.
In tale situazione, pur aderendo, in ipotesi, all’interpretazione secondo cui sarebbe possibile una domanda esplicitamente prenotativa di un piano con conseguente elusione del rischio di azioni aggressive dei creditori, resterebbe pur sempre ad ostacolare il successo dei piani il tema della stabilità degli atti esecutivi in quanto si tratta di un beneficio di fruizione assolutamente incerta poiché, a differenza delle procedure di concordato e di accordo, la stabilità è condizionata, in caso di procedura liquidatoria, da un giudizio di correttezza del piano e dell’attestazione che verrà espresso solo dopo l’esecuzione e non invece contenuto implicitamente nel provvedimento di omologazione.
È intuitivo come un tale rischio non possa che influire pesantemente sulla disponibilità non solo dei finanziatori, che normalmente sono gli attori necessari per il confezionamento e il successo del piano, ma a maggior ragione anche di altri soggetti eventualmente necessari (quali i garanti) ma non professionalmente abituati a soppesare il rischio.
Se allora si vuole dare un significato importante all’intervento legislativo si può ipotizzare che il provvedimento del tribunale abbia lo stesso effetto dell’omologazione del concordato e degli ADR e quindi costituisca il presupposto per la incontestabile stabilità del beneficio della esenzione dalla revocatoria.
Un precedente legislativo di un giudizio implicito sull’affidabilità della prospettiva risanatoria, sia pure con effetti parzialmente diversi, data la natura dell’organo, si può rinvenire nell’intervento dell’OCRI in esito al procedimento di composizione assistita della crisi (art. 19 del Codice).
Anche in questo caso lo scopo del legislatore è di favorire un accordo stragiudiziale tra debitore in crisi e creditori e viene perseguito affidando all’Organismo una funzione di garanzia della serietà dell’iniziativa e di stimolo alla conclusione dell’accordo che, se interviene, è depositato presso l’OCRI che procede all’archiviazione
Poiché è previsto che l’accordo così concluso sotto la regia e la vigilanza dell’OCRI “produce gli stessi effetti del piano attestato di risanamento” deve necessariamente ritenersi non solo che debba avere lo stesso contenuto prescritto nell’art. 56 del Codice ma anche, non essendo previsto l’intervento di un attestatore, che la veridicità dei dati e la sua fattibilità siano valutati e ritenuti sussistenti dell’Organismo, per l’ovvia considerazione che, diversamente, questo non potrebbe chiudere il procedimento con l’archiviazione per essere venuta meno la crisi.
Se dunque una valutazione di correttezza e affidabilità del piano è consentita nella fattispecie descritta non si vede perché un identico giudizio non possa competere al tribunale che si trova a valutare un piano corredato dall’attestazione e quindi della stessa documentazione che dovrebbe valutare il giudice della revocatoria in casi di successiva procedura liquidatoria pubblica[15].
Né varrebbe obbiettare che l’esame del tribunale pare essere solo formale in quanto limitato alla regolarità poiché è ben noto che in tale concetto già oggi si fa rientrare il controllo circa l’evidente non fattibilità del piano di concordato in sede di ammissione che è lo stesso esame che deve fare il giudice della revocatoria per atti esecutivi del piano attestato in base al principio enunciato dalla Cassazione secondo cui <Per ritenere esenti dalla domanda di revocatoria fallimentare proposta dalla curatela gli atti esecutivi di un piano attestato di risanamento ex art. 67, comma 3, lett. d), L. fall. (nel testo previgente d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella L. n. 134 del 2012), il giudice deve effettuare, con giudizio "ex ante", una valutazione, parametrata sulla condizione professionale del terzo contraente, circa l'idoneità del piano, del quale gli atti impugnati costituiscono strumento attuativo, a consentire il risanamento dell'esposizione debitoria dell'impresa, seppure in negativo, vale a dire nei soli limiti dell'assoluta, evidente inettitudine del piano presentato dal debitore a tal fine>[16].
Questa interpretazione consente anche di superare l’obbiezione secondo cui l’intervento del tribunale sarebbe sostanzialmente inutile in quanto sia il PM che qualunque creditore potrebbero, all’esito della dichiarata improcedibilità della domanda, instare per il fallimento (o il tribunale valutare istanze già pendenti). È infatti intuitivo che il debitore che ha scelto la strada della declaratoria di improcedibilità e della pubblicazione del piano sia in grado di presentare una situazione di superata insolvenza avendo ad esempio concluso un accordo con i creditori principali e i finanziatori rassicurati dalla prospettiva di una esenzione certa per essere l’esecuzione del piano e quindi l’erogazione dei finanziamenti posteriori alla declaratoria del tribunale.
È chiaro che l’interpretazione prospettata spinge molto in avanti il canone interpretativo secondo cui il legislatore a volte minus dixit quam voluit ma pare potersi dire che è altrettanto chiaro che così si rende maggiormente percorribile la strada della soluzione alternativa della crisi costituita del piano attestato, tanto da potersi sommessamente concludere che se questa lettura non fosse condivisa sarebbe opportuno prevederla positivamente anche prescindendo dalla situazione emergenziale.
* Il testo riprende e amplia la relazione tenuta nell’ambito del convegno Il sostegno bancario alle imprese in “crisi” (ai tempi del “Coronavirus”), Reggio Emilia, 23 ottobre 2020.