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Saggio

Continuità diretta e continuità indiretta: presupposti, regole, criticità*

Andrea Zuliani, Consigliere della Suprema Corte di Cassazione

2 Marzo 2022

*Lo scritto è stato redatto in occasione del corso P21091 della Scuola Superiore della Magistratura ed è in corso di pubblicazione nei Quaderni della Scuola”.
Il saggio è stato altresì sottoposto in forma anonima alla valutazione di un refereee.
L’Autore affronta ad ampio spettro il tema della continuità nel concordato preventivo.
Riproduzione riservata
1 . La continuità valore aggiunto del patrimonio
La “continuità aziendale” è innanzitutto un’attitudine dell’impresa che conferisce valore al suo patrimonio. L’art. 2423-bis, comma 1, n. 1, c.c. indica, quale primo principio per la redazione del bilancio delle società per azioni, che “la valutazione delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell’attività”. La conservazione di tale attitudine deve essere una delle principali preoccupazioni[1] dell’imprenditore e, in particolare, degli amministratori delle società. L’obbligo, recentemente esplicitato dal legislatore, di dotare l’impresa societaria o collettiva di “un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa” ha quale scopo dichiarato la “rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale” (art. 2086, comma 2, c.c.)[2]. Tale perdita comporta la necessità di variazioni nei criteri di valutazione delle poste di bilancio e, in particolare, la tendenziale eliminazione dei valori immateriali[3], nonché l’avvio della fase di liquidazione dell’impresa, salva la possibilità di puntare al “recupero della continuità aziendale”, utilizzando “uno degli strumenti previsti dall’ordinamento a tal fine”, e fermo restando il dovere anche dei liquidatori di fare tutto quanto possibile e necessario per conservare e sfruttare l’eventuale residua attitudine alla “continuazione, anche parziale, dell’attività d’impresa” (v. art. 2490, comma 5, c.c.).
Ai fini di questo breve studio sul concordato preventivo, risultano particolarmente fertili e interessanti sia la stretta associazione tra “crisi dell’impresa” e “perdita della continuità aziendale”, posta e ribadita nell’art. 2086, comma 2, c.c., sia la possibile compatibilità tra liquidazione dell’impresa e conservazione (almeno parziale) della continuità aziendale.
2 . Il concordato preventivo soluzione “condivisa” della crisi d’impresa
La crisi dell’impresa è concetto che, nel diritto concorsuale, è strettamente collegato a quello di insolvenza. Secondo l’art. 160, comma 3, legge fall., “per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”, dunque la crisi comprende in sé anche l’insolvenza e, quest’ultima, non è altro che una specie della prima. È noto che il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII: decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14) ha invece enucleato una distinta nozione di “crisi”, definita come “lo stato di squilibrio[4] economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore” (art. 2, lett. a)). È comunque evidente che la nozione di crisi rimane tributaria di quella di insolvenza, in quanto probabilità di insolvenza.
La prospettiva dell’insolvenza del debitore apre la questione della sua responsabilità patrimoniale e del concorso dei creditori sul suo patrimonio, regolata innanzitutto dagli artt. 2740 e 2741 c.c., in forza dei quali tutti i beni del debitore sono destinati ai creditori e questi ultimi hanno uguale diritto di essere soddisfatti sul ricavato della liquidazione di quei beni, “salve le cause legittime di prelazione”.
In particolare, l’insolvenza dell’imprenditore preannuncia la concreta possibilità (di solito, la certezza) che le risorse ricavabili dalla liquidazione dei beni del debitore non siano sufficienti a pagare tutti i creditori e men che meno a pagarli tutti integralmente. Di fronte a questa prospettiva di “male comune” il concordato preventivo rappresenta un’ipotesi di soluzione condivisa della crisi o insolvenza dell’impresa[5].
L’iniziativa del concordato spetta al debitore, il quale formula ai creditori una proposta che può consistere nella liquidazione ordinata e controllata del suo patrimonio (sostanzialmente nient’altro che un “accordo” su come realizzare la responsabilità patrimoniale del debitore già prevista dal codice civile) oppure in soluzioni diverse dalla liquidazione[6], solitamente basate sullo sfruttamento della residua redditività del patrimonio, ovverosia sulla continuità aziendale[7]. 
È da considerare connotato essenziale del concordato preventivo, anche per riguardo al valore semantico del sostantivo, una approvazione dello stesso da parte dei creditori, sia pure sulla base di maggioranze stabilite dalla legge, capaci di imporre quella soluzione a minoranze dissenzienti. Il consenso espresso a maggioranza dalla comunità dei creditori ai quali si propone un parziale sacrificio delle loro ragioni costituisce il fondamento giuridico del concordato, che lo mantiene nell’alveo del principio dell’autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.). Ai creditori spetta la valutazione della “convenienza” e, quindi, il gradimento della proposta di concordato, mentre al tribunale la legge assegna il compito di controllare la legalità sostanziale e processuale dell’“accordo” tra debitore e comunità dei creditori. In particolare, il tribunale è garante che l’accordo si formi sulla base di un consenso dei creditori informato e correttamente espresso.
3 . La disciplina del concordato preventivo in un’epoca di transizione
La disciplina legale delle procedure concorsuali in generale e del concordato preventivo in particolare si trova in una fase di transizione per molti versi singolare. È tuttora vigente la legge fallimentare (regio decreto 16 marzo 1942, n. 267), molte volte e anche recentemente rimaneggiata. È poi legge dello stato, da quasi tre anni, ma non è ancora entrato in vigore, se non in piccola parte, il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (d. lgs. n. 14 del 2019), che ha già subito importanti modifiche ad opera del primo “decreto correttivo” (d. lgs. n. 147 del 2020) e che certamente subirà altre modifiche prima del 16 maggio 2022, data ora prevista per la sua entrata in vigore, dopo la proroga stabilita dall’art. 1 del decreto legge 24 agosto 2021, n. 118, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 ottobre 2021, n. 147. Alcune ulteriori modifiche del CCII sono ritenute necessarie per adattarlo alle previsioni della c.d. Direttiva Insolvency (2019/1023 del 20 giugno 2019), che l’Italia dovrà recepire entro il 17 luglio 2022. 
Lo stesso decreto legge n. 118 del 2021, oltre ad avere introdotto alcune modifiche al testo della legge fallimentare, ha completamente ridisegnato la disciplina della fase in cui l’imprenditore “si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza”, affidandogli la possibilità di chiedere la nomina di “un esperto indipendente quando risulta ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa”, con lo scopo di condurre le trattative finalizzate a una “Composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa”. La parte della nuova disciplina che più rileva in questa sede è quella che attribuisce all’imprenditore la possibilità – in caso di esito negativo delle trattative – di chiedere al tribunale l’omologazione di un “concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio”, che prescinde da qualsiasi approvazione mediante votazione da parte dei creditori, i quali hanno soltanto la possibilità di “proporre opposizione all’omologazione costituendosi” entro un termine perentorio. La nuova disciplina della “Composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa” e del “Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio” si affianca a quella della legge fallimentare (e, domani, si deve presumere, si affiancherà a quella del CCII), lasciando formalmente intatta la disciplina del concordato preventivo. C’è da chiedersi, peraltro, se il concordato semplificato, per la sua indubbia appetibilità per l’imprenditore in crisi e per i soggetti eventualmente interessati a subentrare nella sua attività, non sia destinato a marginalizzare, nella pratica, il ricorso al più complesso e articolato concordato preventivo[8]. 
Il presente lavoro si basa innanzitutto sulla disciplina del concordato preventivo contenuta nella legge fallimentare, tuttora vigente, non senza considerare, laddove utile e opportuno, le novità e le peculiarità introdotte dall’attuale testo del CCII.
4 . Il “Concordato con continuità aziendale” (art. 186-bis legge fall.)
Una specifica disciplina legale della continuità nel concordato preventivo è stata introdotta nel 2012, con l’inserimento nella legge fallimentare dell’art. 186-bis, rubricato “Concordato con continuità aziendale”. Non che prima di allora non fosse in astratto possibile impostare e proporre un concordato preventivo basato sulla continuità aziendale, essendo ciò sicuramente consentito dall’ampia formula dell’art. 160, come novellato tra il 2005 e il 2007 (“L’imprenditore … può proporre … un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere: a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma”). Ma la mancanza di un’apposita disciplina rendeva di fatto quella soluzione assai difficilmente praticabile.
L’art. 186-bis legge fall. consente di definire in buona misura i confini del concetto normativo di “concordato con continuità”. Innanzitutto si chiarisce che la continuità è un elemento del piano e, quindi, uno strumento a servizio della proposta e dell’adempimento del concordato. In sostanza, un piano di concordato con continuità è un piano che vuole sfruttare, a vantaggio dei creditori, il valore della continuità che persiste nonostante la crisi/insolvenza dell’impresa.
In secondo luogo, la disposizione di legge non lascia dubbi sul fatto che la continuità del piano possa essere tanto diretta (in capo al medesimo soggetto imprenditore) quanto indiretta (attuata mediante “la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione”). È da notare sin d’ora che soltanto con il primo tipo di continuità (diretta) l’imprenditore propone ai creditori, quale strumento per la loro soddisfazione, qualcosa di diverso dalla liquidazione del suo patrimonio, perché la continuità indiretta consiste semplicemente nella liquidazione del patrimonio organizzato in azienda in esercizio, cosa che può avvenire anche in sede di esecuzione fallimentare (art. 104-ter, comma 2, lett. d), legge fall.).
L’art. 186-bis legge fall. chiarisce, altresì, che la disciplina del concordato con continuità si applica anche nel caso del c.d. concordato misto, ovverosia nel caso in cui il piano preveda “anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa”.
Manca, invece, nell’art. 186-bis legge fall. qualsiasi riferimento all’affitto dell’azienda, il che ha fatto sorgere il dubbio, tra gli interpreti, se possa essere considerato concordato con continuità quello in cui l’azienda dell’imprenditore in crisi/insolvente sia già stata affittata a un altro soggetto prima della presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo[9]. Sul piano testuale, si osservava che la disposizione di legge fa riferimento ad un’azienda “in esercizio” e che il concedente – fin che dura l’affitto – non esercita attività d’impresa, essendo questa gestita dall’affittuario.
La scelta per la piena compatibilità tra affitto d’azienda – anche anteriore alla domanda di concordato – e concordato con continuità aziendale venne tuttavia espressa dal legislatore della delega per la redazione del CCII (art. 6, comma 1, lett. i), n. 3, della legge 19 ottobre 2017, n. 155), delega attuata con l’art. 84, comma 2, CCII, ove si annovera, tra le ipotesi di continuità nel concordato quella dell’“affitto, stipulato anche anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso”. Si tratta del c.d. “affitto ponte” che l’imprenditore stipula al fine di salvaguardare, con la dovuta tempestività nell’interesse dei creditori, i valori immateriali insiti nella conservazione della capacità produttiva del patrimonio organizzato in azienda.
Per quel che riguarda l’interpretazione della tuttora vigente legge fallimentare, è intervenuta una sentenza della Corte di Cassazione a statuire che “Il concordato con continuità aziendale … è configurabile anche qualora l’azienda sia già stata affittata o si pianifichi debba esserlo” (Cass. 19 novembre 2018, n. 29742[10]).
5 . (Segue). Disciplina della continuità nel concordato preventivo
Definiti in questo modo i “confini” del concordato con continuità, la sua specifica disciplina è contenuta nello stesso art. 186-bis, ma anche altrove, soprattutto nell’art. 182-quinquies, contestualmente aggiunto nella legge fallimentare. Occorre analizzarla sommariamente, per constatare che si tratta, in parte, di disposizioni di favore, per rendere concretamente perseguibile la continuità nel concordato preventivo, ma anche, in altra parte, di disposizioni di rigore, volte a porre requisiti di ammissibilità ulteriori, che non sono richiesti per il concordato preventivo semplicemente liquidatorio.
Innanzitutto, tra le disposizioni di rigore, vi è la necessità di “analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla continuazione dell’attività d’impresa” (art. 186-bis, comma 2, lett. a), legge fall.)[11]. In una situazione in cui la passata gestione dell’impresa ha portato alla crisi e alla necessità di proporre il concordato, non si vuole che la fiducia dell’imprenditore sulla utilità della prosecuzione dell’attività d’impresa – che porta con sé il rischio di accumulare altre ingenti passività – sia basata su un’approssimativa intuizione, ma si richiede una accurata analisi di costi e ricavi attesi per il futuro.
Ancor più stringente è il requisito richiesto dall’ art. 186-bis, comma 2, lett. b), legge fall., in forza del quale la relazione del professionista indipendente che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano (art. 161, comma 3, legge fall.) deve altresì attestare “che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”[12]. È questo l’unico caso in cui la convenienza per i creditori diventa un requisito di ammissibilità del concordato, in mancanza del quale i creditori nemmeno saranno chiamati ad esprimere il loro eventuale gradimento sulla proposta del debitore. Ed è probabilmente uno dei casi in cui sarà necessaria una modifica di adeguamento della normativa interna alla Direttiva Insolvency, perché questa, se da un lato, fa salvo il principio per cui il piano di ristrutturazione dei debiti dell’imprenditore deve superare la verifica del migliore soddisfacimento dei creditori, dall’altro lato, è chiarissima nell’indicare che tale verifica riguarda i “creditori dissenzienti” e che il rispetto del principio “è esaminato da un’autorità giudiziaria o amministrativa solo se il piano di ristrutturazione è stato contestato per tale motivo”[13]. Viceversa, l’attuale disciplina interna contenuta nella legge fallimentare, ma anche quella dell’attuale versione del CCII, impongono al tribunale una decisione di inammissibilità d’ufficio, in caso di mancata attestazione della convenienza, che riguarda il solo concordato con continuità aziendale[14].
Altre disposizioni specifiche sono invece volte a favorire la praticabilità del concordato con continuità.
Tale è la previsione della possibilità, a determinate condizioni, di proseguire o di attivare rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni (art. 186-bis, commi 3, 4 e 5, legge fall.[15]).
È inoltre disposta l’inefficacia delle eventuali clausole che prevedano la risoluzione del contratto pendente per effetto dell’apertura della procedura di concordato preventivo (186-bis, comma 3, legge fall.[16]).
Vanno poi ricordate le speciali possibilità per l’imprenditore di essere autorizzato a stipulare finanziamenti prededucibili, laddove necessari per finanziare la prosecuzione dell’attività d’impresa (art. 182-quinquies, commi da 1 a 4, legge fall.[17])
È poi ammessa, per il solo concordato con continuità, la possibilità che siano autorizzati pagamenti di “crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi”, se un professionista indipendente “attesta che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione dell’attività d’impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori” (artt. 182-quinquies, comma 5, legge fall.[18]). La disposizione è stata recentemente integrata con lo specifico riferimento ai crediti dei “lavoratori addetti all’attività di cui è prevista la continuazione” (art. 20, comma 1, lett. d), n. 1, decreto legge n. 118 del 2021).
È riservata al concordato con continuità anche la speciale possibilità di una moratoria nel pagamento dei crediti privilegiati (artt. 186-bis, comma 2, lett. c), legge fall.[19]).
Infine, il rinovellato art. 182-quinquies, comma 6, legge fall. (sul quale è intervenuto l’art. 20, comma 1, lett. d), n. 2, del decreto legge n. 118 del 2021) consente all’imprenditore che ha proposto o si prepara a proporre un concordato con continuità aziendale di essere autorizzato a continuare a pagare regolarmente – se del caso, anche mettendosi in regola con il pagamento delle rate già scadute – le rate del contratto di mutuo con garanzia reale gravante su beni strumentali all’esercizio dell’impresa”, sempre che il professionista indipendente attesti “che il credito garantito potrebbe essere soddisfatto integralmente con il ricavato della liquidazione del bene effettuata a valore di mercato e che il rimborso delle rate a scadere non lede i diritti degli altri creditori”[20].
6 . Il problema della qualificazione del concordato “in” continuità
Si può ben dire che tutta questa disciplina speciale del concordato con continuità non poneva, e forse non porrebbe tuttora, il problema della qualificazione di un determinato concordato preventivo come concordato in continuità o concordato liquidatorio. A ben vedere, la disciplina della continuità nel concordato trova applicazione laddove un concreto concordato presenti aspetti di continuità e riguarda solo quegli aspetti. Allo stesso modo, come si vedrà meglio in seguito, la liquidazione del patrimonio del debitore nel concordato preventivo ha una sua disciplina che si applica alla liquidazione, a prescindere dal fatto che quel concreto concordato abbia aspetti di continuità o addirittura debba essere considerato un concordato in continuità.
Siffatta indifferenza qualificatoria è però entrata in crisi dopo che un’ennesima novella apportata alla legge fallimentare ha stabilito un preciso limite all’ammissibilità del concordato preventivo (“In ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari”) e ha posto una deroga a tale limite per il solo “concordato con continuità aziendale di cui all’art. 186-bis” (art. 160, comma 4)[21]. 
La nuova disposizione è stata subito letta come espressione del favor continuitatis del legislatore, anche se, a ben vedere, essa esprime piuttosto uno sfavor per il concordato liquidatorio, la cui alternativa praticabile nei casi concreti è la liquidazione fallimentare e non certo il concordato con continuità. Resta comunque il fatto che oggi un concordato che proponga ai creditori esattamente le medesime condizioni (per esempio pagamento integrale dei privilegiati e pagamento del 19% ai chirografari) è ammissibile, se è un concordato con continuità, ed inammissibile se è liquidatorio; il che significa che proprio la continuità conferisce al concordato un valore giuridico che prescinde dal grado di soddisfazione dei creditori.
E a questo punto si è posto agli interpreti il problema di stabilire quale e quanta continuità debba esserci in un concordato preventivo – in particolare in un concordato c.d. misto, in cui il piano preveda sia la continuazione, diretta o indiretta, dell’esercizio dell’impresa, sia la separata liquidazione di beni non funzionali – perché si giustifichi l’applicazione della deroga al rigoroso limite della necessità di assicurare ai creditori chirografari il pagamento almeno del venti per cento dei loro crediti[22]. Problema che la maggioritaria giurisprudenza di merito ha ritenuto di risolvere utilizzando il requisito della “prevalenza”, ovverosia stabilendo che è da intendersi concordato con continuità, ai fini dell’applicazione della deroga al limite minimo di soddisfazione per i creditori chirografari, quello in cui le risorse necessarie per adempiere il concordato derivano in misura maggioritaria dalla continuità, mentre non lo è quello in cui, per essendoci una continuità aziendale, la maggioranza delle risorse siano attese dalla liquidazione dei beni non funzionali [23]. Tale impostazione – figlia probabilmente della preoccupazione di non agevolare continuità marginali o provvisorie, finalizzate soltanto ad aggirare il limite di legge – ha trovato pieno riscontro in un criterio dettato dalla legge delega per la redazione del Codice[24], criterio attuato e soffertamente declinato dal legislatore delegato nei commi 2 e 3 dell’art. 84 CCII, che hanno posto la distinzione tra prevalenza quantitativa (l’unica chiaramente indicata dal legislatore delegante) e prevalenza qualitativa (incentrata sul mantenimento di una certa quota, e per un certo tempo, dei lavoratori impiegati presso l’azienda nell’ultimo biennio anteriore alla presentazione della domanda di concordato)[25].
In realtà, per quanto riguarda l’interpretazione della sola legge fallimentare, pare corretto riconoscere che il requisito della prevalenza non è imposto e non è previsto dal testo normativo, che si limita a stabilire la piena compatibilità tra disciplina del concordato con continuità e “liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa”. La giusta preoccupazione di evitare forzature e proposte di concordato con continuità solo apparenti, finalizzate ad aggirare il limite di legge, può trovare adeguata risposta da parte dei tribunali esigendo che si dia dimostrazione che il piano preveda una continuità reale ed effettiva, senza necessità di introdurre un confronto e un giudizio di prevalenza tra continuità e liquidazione dei beni non funzionali.
Del resto, a ben vedere, la deroga al limite del minimo pagamento assicurato ai creditori chirografari è solo uno degli aspetti della disciplina della continuità nel concordato, che, al pari degli altri, si può considerare applicabile ai concordati con continuità (effettiva), senza alcuna preoccupazione di definire il concordato in continuità. Come si è visto sopra, le altre disposizioni volte a disciplinare la continuità non sono tutte disposizioni di favore, essendo talvolta disposizioni di rigore, dettate da prudenza e diffidenza nei confronti della continuità (necessità di previsione analitica di costi e ricavi, necessità di attestazione preventiva della convenienza per i creditori). E non avrebbe certo senso limitare tale rigore – così come il resto della disciplina della continuità nel concordato – alla sola ipotesi della prevalenza della continuità (comunque la si intenda) rispetto alla liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa.
In tal senso, ovverosia nel senso che ogni concordato con continuità deve essere considerato un concordato in continuità, si è da ultimo espressa la stessa Corte di Cassazione[26], anche contraddicendo una diffusa tendenza, maturata in vari arresti successivi alla promulgazione del CCII, a interpretare la legge fallimentare alla luce delle disposizioni del Codice[27].
7 . La disciplina della liquidazione nel concordato preventivo con continuità
Discorso analogo a quello appena svolto per quel che riguarda la disciplina della continuità nel concordato preventivo deve essere ripetuto anche con riferimento alla disciplina della liquidazione nel concordato preventivo.
Non c’è alcun dubbio che la liquidazione dei beni non funzionali all’esercizio dell’impresa debba avvenire, dopo la domanda di concordato, in ogni caso rispettando le regole delle vendite competitive, come disposto dall’art. 163-bis legge fall., introdotto anch’esso dal decreto legge n° 83 del 2015, come convertito dalla legge n° 132 del 2015. E lo stesso vale, per l’esplicito tenore della medesima disposizione, anche nel caso di cessione dell’azienda, sebbene questa sia esattamente una delle forme in cui si concretizza il concordato con continuità. Si può quindi ben dire che proprio il concordato con continuità indiretta realizzato mediante la cessione dell’azienda rappresenta il caso paradigmatico della necessaria convivenza della disciplina della continuità e della disciplina della liquidazione: in quanto viene sfruttata la residua capacità produttiva di reddito dell’azienda, si tratta di concordato con continuità; in quanto si procede alla liquidazione del patrimonio del debitore (sia pure organizzato in complesso aziendale), si applica la disciplina della liquidazione dell’attivo che impone le vendite competitive.
Sotto questo profilo, è dato di comune esperienza che il debitore e il soggetto da lui individuato quale auspicato cessionario dell’azienda non gradiscono la necessità di sottoporre l’offerta del secondo alla competizione con eventuali offerte concorrenti. A tal fine, non è rara l’impostazione del concordato con continuità in modo diverso, ovverosia mediante ingresso del nuovo soggetto economico nel capitale della società che propone il concordato, di modo che quest’ultimo si presenta, formalmente, quale concordato con continuità diretta (non cambia il soggetto giuridico imprenditore), ma sostanzialmente come passaggio dell’azienda da un imprenditore (in senso economico) a un altro.
Di fronte a tali fattispecie, peraltro sempre da valutare con stretta attinenza a tutte le caratteristiche del caso concreto, diverse sono state le risposte della giurisprudenza di merito. Per limitarsi a due esempi, il Tribunale di Padova ha ritenuto necessario rispettare l’art. 163-bis e ha quindi disposto (imposto) una gara per la ricerca di offerte migliorative, in un caso in cui il piano del concordato era basato su un intervento salvifico di un nuovo socio che, in cambio della cessione dell’intero capitale della società debitrice, si impegnava a sottoscrivere un aumento di capitale a pagamento, a prestare garanzia per un cospicuo finanziamento bancario e a destinare ai creditori i flussi della continuità aziendale dei successivi tre anni di gestione della società[28]. Viceversa, il Tribunale di Bergamo, in un caso in cui una situazione analoga era stata però impostata come concordato con assuntore (art. 160, comma 1, lett. b), legge fall.), con liberazione immediata dai debiti della società proponente il concordato (di cui l’assuntore acquisiva il 95% del capitale della debitrice), ha ritenuto non necessario esperire la gara ex art. 163-bis legge fall., “posto che l’assunzione del concordato è fattispecie ben diversa da quella che prevede il mero acquisto a titolo particolare di uno o più beni o anche di un insieme di beni dalla società debitrice”[29].
Non c’è motivo per ritenere che la rilevanza della disciplina della liquidazione anche nel concordato preventivo con continuità indiretta e nel concordato misto venga meno anche dopo l’omologazione, ovverosia nella fase esecutiva del concordato. Pertanto, se sono previste la vendita dell’azienda o la vendita di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa in fase di esecuzione, il provvedimento con cui si omologa il concordato deve contenere la nomina di un liquidatore giudiziale e del comitato dei creditori, secondo quanto previsto dall’art. 182 legge fall.[30].
8 . Concordato preventivo e affitto d’azienda
Si è visto al paragrafo 4. che l’affitto d’azienda, quantomeno se finalizzato alla successiva cessione (c.d. affitto ponte), è considerato uno strumento attraverso il quale perseguire un concordato con continuità, tanto nel caso in cui l’affitto venga stipulato durante la procedura di concordato, quanto nel caso in cui sia stato già stipulato dall’imprenditore prima di presentare la domanda di ammissione al concordato.
In effetti, è questa un’ipotesi che si verifica frequentemente e che va apprezzata caso per caso, senza pregiudizi (nei confronti dell’affitto già stipulato dall’imprenditore) e rispettando alcune norme più o meno inderogabili (nel caso di affitto stipulato in corso di procedura).
L’affitto stipulato dall’imprenditore prima della presentazione della domanda di concordato si presenta spesso come una soluzione necessaria per conservare la continuità aziendale e il suo residuo valore immateriale. Ad esso è solitamente abbinata un’offerta irrevocabile d’acquisto dell’azienda a un determinato prezzo, perché il soggetto che assume la gestione in affitto aspira ad acquistare l’azienda. Su tale offerta è naturalmente imprescindibile l’avvio di un “procedimento competitivo” finalizzato alla “ricerca di [altri] interessati all’acquisto”, anche nel caso in cui il contratto d’affitto e la connessa offerta irrevocabile non vi facciano alcun cenno o addirittura prevedano un obbligo incondizionato della concedente di trasferire l’azienda all’affittuaria (preliminare bilaterale). È infatti importante ricordare che le disposizioni dell’art. 163-bis legge fall. “si applicano anche quando il debitore ha stipulato un contratto che comunque abbia la finalità del trasferimento non immediato dell’azienda, del ramo d’azienda o di specifici beni”, come precisa l’ultimo periodo del suo primo comma. In altri termini, il tribunale, nel disporre il procedimento competitivo, può anche incidere, modificandolo, sul contenuto del contratto concluso dall’imprenditore prima di proporre la domanda di concordato, nella misura in cui ciò sia necessario per assicurare una competizione effettiva e basata sulla possibilità per i terzi di presentare offerte tra loro comparabili. Non c’è dubbio che la detenzione dell’azienda in forza del contratto d’affitto mette l’affittuario in una posizione di vantaggio, se non altro sul piano delle informazioni utili disponibili, rispetto ad altri eventuali interessati all’acquisto. Ma ciò non sarà di assoluto impedimento allo svolgimento di un procedimento competitivo, essendo compito del giudice – con l’ausilio del commissario giudiziale – fare in modo che all’affitto non si abbinino altri, occulti e indiretti vantaggi per l’affittuario, come, ad esempio, la sua esclusiva possibilità di confidare nel subentro anche nel separato contratto di locazione degli immobili in cui si svolge l’attività aziendale e che sia di proprietà dei soci della proponente il concordato o, comunque, di un soggetto ad essi riferibile.
Un vantaggio particolare può essere attribuito all’affittuario anche tramite una clausola di prelazione sulla cessione dell’azienda. Peraltro, non si tratta di un vantaggio necessariamente incompatibile o controproducente rispetto al miglior esito del procedimento competitivo. Basti pensare che l’art. 104-bis, comma 5, legge fall.[31] prevede la possibilità che anche il curatore fallimentare, nel momento in cui affitta l’azienda, possa, su autorizzazione del giudice delegato e previo parere favorevole del comitato dei creditori, concedere all’affittuario il diritto di prelazione, disponendo sulle modalità del relativo esercizio, dopo la “determinazione del prezzo”, evidentemente in esito alla procedura competitiva[32]. Pertanto, anche in applicazione dell’art. 163-bis legge fall., non sarà normalmente necessario espungere il diritto di prelazione dal contratto di affitto stipulato dall’imprenditore prima della domanda di concordato. L’importante è che la presenza e il funzionamento del diritto di prelazione siano adeguatamente illustrati nel bando di vendita, il che indurrà eventuali interessati all’acquisto a fare immediatamente un’offerta corrispondente al prezzo più alto che sono disposti a pagare, piuttosto che formulare un’offerta minima riservandosi eventuali rilanci in sede di gara.
Nel caso in cui il contratto d’affitto venga proposto e debba essere stipulato dopo la presentazione della domanda di concordato, dovrà normalmente essere svolto un procedimento competitivo per la scelta dell’affittuario, come prescrive l’art. 163-bis, comma 6, legge fall., sia pure con la consueta formula condizionante “in quanto compatibile”[33]. In effetti, lo scopo di conservare la continuità con i suoi valori immateriali potrebbe porre la necessità dell’affitto con un’urgenza tale da essere incompatibile con lo svolgimento del procedimento competitivo o, perlomeno, con il suo svolgimento nei tempi e con le modalità astrattamente più opportune. In ogni caso, particolare attenzione dovrà essere data dal tribunale e dal commissario giudiziale alle “garanzie che devono essere prestate dagli offerenti”, in particolare considerando l’ipotesi che l’azienda debba tornare, al termine dell’affitto, in capo alla società proponente. Infatti, non esiste, nella disciplina del concordato preventivo, una disposizione come quella dell’art. 104-bis, comma 6, legge fall.[34] che, per l’affitto stipulato dal curatore, stabilisce che “La retrocessione al fallimento di aziende, o rami di aziende, non comporta la responsabilità della procedura per i debiti maturati sino alla retrocessione, in deroga a quanto previsto dagli articoli 2112 e 2560 del codice civile”[35].
9 . Il valore giuridico della continuità nel concordato preventivo
Si è visto che l’esegesi dell’art. 186-bis legge fall. impone di considerare la continuità aziendale un elemento del piano di concordato e, quindi, uno strumento finalizzato alla (credibilità della) proposta per il soddisfacimento dei creditori, da sottoporre al loro gradimento. Tale carattere strumentale della continuità è messo ancor più in evidenza nell’art. 84, comma 1, CCII, ove si legge che “Con il concordato preventivo il debitore realizza il soddisfacimento dei creditori mediante la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio”. Continuità e liquidazione sono dunque messe sullo stesso livello e si fanno preferire, nel caso concreto, solo in base al rispettivo grado di capacità di fare prevedere un miglior soddisfacimento dei creditori.
Si è anche constatato che la disciplina della continuità nel concordato preventivo non è soltanto una disciplina di favore, ma anche, al contrario, una disciplina di rigore, soprattutto con riferimento alla necessità di preventiva attestazione della convenienza per i creditori, che non è richiesta per il concordato liquidatorio[36].
Nello stesso tempo, la sopravvenuta possibilità che un concordato preventivo, a parità di soddisfazione del ceto creditorio, risulti ammissibile, se in continuità, e inammissibile, se liquidatorio, pone il tema della continuità come valore in sé (non meramente strumentale). Tuttavia, il permanente rigoroso ancoraggio della continuità al miglior soddisfacimento dei creditori, addirittura inteso come requisito di ammissibilità della domanda, a prescindere da qualsiasi contestazione o votazione da parte dei creditori, porta alla conclusione che tuttora, sia nella legge fallimentare, sia nel CCII, la continuità può essere perseguita soltanto laddove essa non sia dannosa per i creditori e, anzi, soltanto laddove essa porti un vantaggio ai creditori. In altri termini, non è consentito ai giudici, nell’ambito della procedura di concordato preventivo, bilanciare i diritti dei creditori con l’interesse generale alla continuazione di un’attività produttiva; nel concordato preventivo non è previsto alcun affievolimento dei diritti dei creditori, ma soltanto la loro tutela nel migliore dei modi possibili nella situazione di fatto verificatasi (crisi/insolvenza del debitore), con il loro coinvolgimento mediante espressione del consenso di una maggioranza legittimata ad imporre la sua volontà all’eventuale minoranza dissenziente[37].
La logica del bilanciamento tra diritti dei creditori e interessi generali appartiene alla disciplina di altre procedure, il cui governo, non a caso, non è affidato al giudice, ma all’autorità amministrativa, che è il soggetto istituzionalmente preposto a questo tipo di tutela affievolita dei diritti soggettivi. È presto per stabilire se e in che misura tale fondamentale spartiacque tra procedure il cui scopo è sempre il miglior soddisfacimento dei creditori (affidate al governo del giudice e basate sul consenso espresso a maggioranza dai creditori, correttamente informati) e procedure i cui scopi sono anche, e principalmente, altri (affidate all’autorità amministrativa e nelle quali non è richiesta l’approvazione dei creditori) sia ora messa in discussione dalle novità introdotte dal decreto legge n. 118 del 2021, convertito in legge n. 147 del 2021, il cui primo e dichiarato obiettivo è il “risanamento aziendale”[38].
10 . Il piano di concordato con continuità diretta
La redazione e l’attestazione del piano sono l’aspetto più complesso e delicato del concordato preventivo con continuità. Nel caso di concordato liquidatorio, il piano è solitamente piuttosto semplice e si presenta non dissimile da un normale programma di liquidazione di un curatore fallimentare. Si tratta, alla fin fine, di organizzare la vendita di beni, rispettando le norme che impongono la ricerca degli acquirenti mediante procedure competitive.
Ben più complessa è l’organizzazione di un piano che deve formulare previsioni attendibili sui risultati della gestione dell’attività di impresa. Come si è visto, esso deve necessariamente contenere un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività, delle risorse finanziarie per farvi fronte e delle relative modalità di copertura. Ciò per esplicita disposizione di legge (art. 186-bis, comma 2, lett. a), legge fall.[39]). Ma non meno essenziale, seppur non esplicitata nel testo normativo, è l’esatta (e convincente) individuazione delle cause della crisi, presupposto ineludibile per poter motivare quella discontinuità rispetto al passato che serve per dare effettivo fondamento alla previsione che la gestione presente e futura gestione aziendale non produrrà ulteriori perdite, come avvenuto in passato. Si tratta di dimostrare che l’azienda può produrre reddito e, dato che la sua precedente gestione ha dato un esito opposto, il primo passo della dimostrazione consiste nell’esatta indicazione delle cause di tale insuccesso e nella descrizione delle azioni poste in essere (o da porre in essere) per rimuovere quelle cause. Anche se può sembrare un gioco di parole, si deve quindi affermare che un elemento essenziale di qualsiasi piano di concordato preventivo con continuità aziendale è l’illustrazione della discontinuità rispetto al passato[40]. 
Su questo essenziale aspetto della discontinuità è opportuno che il giudice delegato, con l’ausilio del commissario giudiziale, cominci fin da subito a fare chiarezza e pretenda alcune immediate indicazioni da parte degli esponenti e dei professionisti di un’impresa che, proponendo il concordato, sia ancora in attività. Ciò anche quando si tratti – come solitamente accade – di una domanda di concordato in bianco ai sensi dell’art. 161, comma 6, legge fall. Infatti, sebbene in quella fase il deposito del piano non sia possibile, perché il documento è ancora in elaborazione, la richiesta di un termine per integrare la domanda con la predisposizione di un piano di continuità aziendale presuppone che ci sia già almeno un’idea abbastanza precisa su cosa giustifichi la prospettiva di una futura redditività per la gestione di un’azienda che nel recente passato ha prodotto perdite e determinato la crisi.
Un tema classico del piano di concordato in continuità diretta è quello della sua durata massima compatibile con la necessità di formulare una ragionevole previsione di fattibilità. Sebbene sia evidente che l’attendibilità di qualsiasi previsione sul futuro tende a ridursi man mano che aumenta l’orizzonte temporale, occorre considerare che le operazioni di riorganizzazione aziendale, salve rare eccezioni, non possono essere svolte in tempi brevi. La giurisprudenza di merito tende a ritenere non superabile il limite massimo di cinque anni per la durata di un piano[41], termine sul quale sostanzialmente concordano anche i “Principi di attestazione dei piani di risanamento” del CNDCEC, anche se questi ammettono alcune limitate e motivate eccezioni[42].
Dalla maggiore complessità del piano di concordato basato sulla continuità diretta derivano la maggiore delicatezza e, inevitabilmente, la maggiore opinabilità del giudizio sulla sua fattibilità. Tale giudizio spetta innanzitutto al professionista indipendente, che deve attestare la veridicità dei dati aziendali e, appunto, la fattibilità del piano. Spetta poi ai creditori esprimere la propria fiducia su tale aspetto (insieme al gradimento sul contenuto della proposta), approvando il concordato con le maggioranze previste dalla legge. Questione che ha invece affaticato gli interpreti è se anche il tribunale sia chiamato a valutare la fattibilità del piano e, quindi, a dichiarare inammissibile (o, nella fase successiva, a non omologare) un concordato il cui piano sia ritenuto non fattibile, contrariamente a quanto attestato dal professionista indipendente.
È noto che la Corte di Cassazione, dopo avere inizialmente posto l’accento, all’indomani delle riforme della legge fallimentare degli anni 2005/2007, sul divieto per il giudice di entrare nel merito della proposta e del piano di concordato[43], ha poi mutato il modo, se non proprio il contenuto, della propria giurisprudenza, creando il distinguo tra fattibilità giuridica e fattibilità economica, per affermare che la prima deve essere sempre sindacata dal tribunale, mentre la seconda può e deve esserlo solo per rilevare “la sussistenza o meno di un’assoluta e manifesta non attitudine del piano presentato dal debitore a raggiungere gli obiettivi prefissati, ossia a realizzare la causa concreta del concordato”[44].
La legge delega e il CCII hanno quindi definitivamente rotto gli indugi stabilendo expressis verbis che il tribunale darà luogo all’apertura del concordato preventivo solo una volta “verificata … la fattibilità economica del piano” (art. 47 comma 1, CCII[45]). Sembrerebbe dunque ormai assodato che, perlomeno dal momento in cui entrerà in vigore il CCII, il tribunale dovrà decidere le sorti di una domanda di concordato anche sulla base di un proprio giudizio sulla fattibilità del piano, intesa come credibilità delle sue previsioni sulla futura disponibilità di risorse sufficienti per soddisfare i creditori nei modi e nelle misure indicate nella proposta. 
Tuttavia, è da ritenere auspicabile che i giudici continuino, anche in futuro, a considerare il proprio giudizio sulla “fattibilità economica” come un controllo, per così dire di secondo grado, sulla completezza e sulla coerenza dell’attestazione del professionista indipendente (naturalmente anche su eventuali grossolane lacune o incoerenze del piano, le quali però non potrebbero non tradursi anche in una altrettanto grossolana difettosità dell’attestazione che non abbia rilevato quei macroscopici difetti del piano). La novità normativa non dovrebbe invece comportare che i giudici possano e debbano dichiarare non fattibile il piano anche senza evidenziare difetti nell’attestazione, semplicemente sulla base di una propria opinione sulla fattibilità diversa da quella – pur anch’essa ragionevole – dell’attestatore. Infatti, poiché il decreto di inammissibilità deve essere motivato (art. 47, comma 3, CCII), e poiché il Codice continuerà a prevedere l’obbligatoria presentazione della relazione contenente l’attestazione di un professionista accreditato dai requisiti di indipendenza, non si vede come potrebbe considerarsi ben motivato un decreto che affermasse la non fattibilità del piano senza prendere in considerazione e confutare i motivi esposti dall’esperto indipendente per attestare il contrario. E poiché il giudizio sulla “fattibilità economica” presuppone competenze, appunto, economiche, piuttosto che giuridiche, difficilmente il giudice potrà sovrapporre la sua opinione a quella dell’attestatore, se non ravvisando nella relazione di questo lacune e/o contraddizioni logiche evidenti. Ciò vale soprattutto proprio per il concordato in continuità diretta, ove il giudizio di fattibilità è sicuramente più complesso e delicato, ma anche più squisitamente tecnico-aziendalistico. Anche laddove il tribunale possa e voglia acquisire il parere del commissario giudiziale (e quindi di un tecnico con competenze analoghe a quelle dell’attestatore) è ben difficile che costui possa a sua volta esprimere un parere contrario alla fattibilità solo sulla base di proprie diverse valutazioni e senza giudicare errate, ingiustificate, irragionevoli o lacunose quelle del collega attestatore[46].
11 . La proposta di concordato con continuità diretta
Vale anche per il concordato con continuità diretta l’ampia formula per cui “la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti [possono avvenire] attraverso qualsiasi forma” (art. 160, comma 1, lett. a), legge fall.). Non di meno, “la proposta deve indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore” (art. 161, comma 2, lett. e), legge fall.[47]). Mentre nel concordato con liquidazione del patrimonio (e quindi anche nel caso di continuità indiretta) l’utilità offerta ai creditori può consistere nella stessa cessio bonorum, rimandandosi all’esito della liquidazione la verifica del risultato effettivo in termini di percentuali di soddisfacimento dei creditori[48], nel concordato basato sulla continuità diretta, in mancanza di cessio bonorum, si pone il problema di offrire ai creditori una diversa specifica utilità e, quindi, di indicare in modo preciso l’oggetto della proposta. In sostanza, poiché con la continuità diretta l’imprenditore propone ai creditori di accettare qualcosa di diverso rispetto alla liquidazione del suo patrimonio, cui essi hanno diritto ai sensi degli artt. 2740 e 2741 c.c., egli è tenuto a precisare quale sia lo specifico oggetto di tale proposta alternativa.
È vero che il debitore può offrire ai creditori azioni, quote e altri strumenti finanziari di partecipazione, coinvolgendoli direttamente nel rischio d’impresa, peraltro con la necessità di una dettagliata descrizione dei relativi diritti. In tal caso, con l’emissione e l’attribuzione dei titoli già si perfeziona l’adempimento del concordato, essendo proprio quei titoli l’oggetto della proposta. Ma se il debitore non vuole o non può rendere i creditori compartecipi delle future vicende dell’impresa e se, quindi, i creditori sono destinati a rimanere tali anche dopo l’omologazione del concordato, si rende necessario offrire loro pagamenti in denaro espressi in precise percentuali dei crediti originari (se del caso ulteriormente modulabili e migliorabili in base agli esiti della continuità, ma mai pagamenti solo eventuali, condizionati agli esiti della continuità)[49]. In questo caso, l’adempimento del concordato si avrà solo con il pagamento dei crediti come risultanti all’esito della ristrutturazione (id est: nelle percentuali offerte rispetto ai crediti originari) e il mancato pagamento, integrale o parziale, legittimerà i creditori a chiedere la risoluzione del concordato, fermo il requisito generale della non scarsa importanza dell’inadempimento.
L’adempimento o l’inadempimento del concordato dipenderanno dalla capacità dell’impresa di centrare le previsioni del piano e, quindi, dai risultati della continuità aziendale. Se i risultati saranno inferiori alle aspettative, l’imprenditore non avrà le risorse finanziarie sufficienti per adempiere il concordato (ovverosia: per pagare i suoi debiti quali risultanti per effetto dell’omologazione del concordato e delle relative falcidie). Se le previsioni del piano saranno rispettate, l’imprenditore sarà in grado di adempiere il concordato. Se la continuità aziendale dovesse produrre risultati addirittura migliori delle attese, il surplus rispetto a quanto necessario per adempiere il concordato verrebbe legittimamente trattenuto dall’imprenditore e, trattandosi di una società, una volta adempiuto il concordato, potrebbe essere distribuito tra i soci.
12 . (Segue) Il tema della destinazione dei flussi di cassa netti prodotti dalla continuità diretta
Dal discorso sull’oggetto della proposta nel concordato con continuità diretta si può utilmente passare alla trattazione del tema, assai dibattuto, della destinazione dei flussi di cassa derivanti dalla continuità. La discussione verte sulla possibilità di considerare i flussi di cassa come finanza esterna e sulla conseguente possibilità di destinarli al pagamento dei creditori senza necessità di rispettare l’ordine delle cause legittime di prelazione[50].
Secondo la tesi favorevole, siccome i flussi della continuità futura non esistono nel patrimonio dell’imprenditore nel momento in cui si potrebbe/dovrebbe procedere alla liquidazione del suo patrimonio (il momento in cui viene presentata la domanda di concordato), essi sarebbero da considerare come finanza esterna, sulla quale i creditori non vantano diritti, con la conseguenza che il debitore potrebbe farne quello che vuole, in particolare, distribuirli a suo piacimento tra i creditori, in deroga al divieto di “alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione” (art. 160, comma 2, legge fall.[51]).
Messa in questi termini, non c’è da stupirsi che l’impostazione del tema abbia avuto scarsa fortuna nella giurisprudenza di merito[52], fino al rifiuto netto espresso dalla Corte di Cassazione[53]. I flussi della continuità diretta, in quanto generati dall’utilizzazione del patrimonio del debitore (vincolato alla soddisfazione dei creditori ai sensi dell’art. 2740 c.c.), sono finanza nuova, ma non possono essere considerati finanza esterna, la quale consiste in risorse messe a disposizione dei creditori da qualcun altro, nei confronti del quale i creditori non vantano alcun diritto.
Tenuto fermo questo principio, il tema della destinazione dei flussi di cassa della continuità diretta merita tuttavia di essere trattato e analizzato tenendo ben distinti tre diversi piani: quello dell’oggetto della proposta di concordato con continuità diretta; quello del presupposto per la degradazione al chirografo dei crediti privilegiati; quello, infine, del trattamento da riservare ai crediti privilegiati degradati.
Se è vero, come si è scritto sopra, che l’imprenditore che propone ai creditori un concordato con continuità diretta deve offrire pagamenti in esatte percentuali sull’ammontare dei loro crediti, discende che, qualora i risultati della continuità siano superiori alle aspettative di piano, gli utili eccedenti rispetto a quanto necessario per adempiere al concordato resteranno all’imprenditore e, una volta adempiuti integralmente gli obblighi concordatari, potranno anche essere distribuiti ai soci. In questo fortunato caso, solo apparentemente si distribuiscono utili ai soci senza avere pagato integralmente i creditori, perché, in realtà, l’omologazione del concordato ha trasformato gli originari diritti dei creditori (con il loro consenso espresso nelle forme di legge) in quelli corrispondenti alla proposta del debitore, sicché la distribuzione degli utili ai soci avviene dopo che sono stati integralmente pagati i debiti, quali risultanti all’esito dell’omologazione del concordato. Tale eventuale surplus rispetto alle previsioni di piano e alle risorse necessarie per adempiere il concordato, se può essere distribuito ai soci, ben potrebbe essere attribuito liberamente anche a taluni creditori, senza alcuna necessità di considerare e rispettare le cause legittime di prelazione. In quanto risorse disponibili dopo che il concordato è stato integralmente adempiuto, e che sono stati quindi estinti i debiti risultanti all’esito dell’omologazione, esse possono effettivamente essere considerate finanza esterna[54].
Se si resta, invece, all’interno del perimetro della proposta di concordato, non c’è dubbio che essa deve tenere nel debito conto l’esistenza delle cause di prelazione, peraltro distinguendosi il presupposto per la degradazione dei crediti privilegiati e il trattamento dei crediti degradati.
L’art. 160, comma 2, legge fall., per ammettere la degradazione dei crediti privilegiati richiede che il piano (rectius: la proposta) ne preveda la soddisfazione “in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, terzo comma, lett. d)” [55]. Se per i privilegi speciali, il pegno e l’ipoteca l’applicazione di tale norma è abbastanza semplice, il problema interpretativo si pone per i privilegi generali mobiliari, in quanto ci si domanda se i flussi di cassa generati dalla continuità durante l’esecuzione del piano siano “diritti” sui quali grava il privilegio. Se la risposta fosse affermativa, non sarebbe possibile degradare al chirografo i crediti privilegiati generali prima di avere esaurito tutti i flussi generati dalla continuità aziendale e, quindi, non sarebbe consentito destinare i flussi al pagamento dei crediti chirografari, se non dopo avere pagato per intero tutti i crediti privilegiati generali; né destinarli al pagamento di crediti privilegiati di rango inferiore, se non dopo avere pagato per intero i crediti privilegiati di rango superiore. In tale prospettiva, poiché il concordato deve garantire una qualche utilità a tutti i creditori, o i flussi previsti sono più che sufficienti a pagare tutti i crediti privilegiati generali, in modo che resti qualche risorsa per un riparto residuo ai chirografari, oppure il concordato in continuità necessita di un contributo di (vera) finanza esterna che possa essere liberamente destinato ai chirografari, nonostante il pagamento solo parziale dei crediti privilegiati generali.
Ma la disposizione contenuta nell’art. 160, comma 2, legge fall. (così come quella dell’art. 85, comma 7, CCII) non sembra consentire una interpretazione così rigorosa. Essa pretende che i crediti privilegiati siano soddisfatti in misura non inferiore a quella realizzabile dai beni e dai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione “in caso di liquidazione”. Il confine oltre il quale c’è la degradazione al chirografo è delineato dal confronto con la liquidazione “dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione”, dunque senza considerare i redditi che possono derivare dal futuro sfruttamento di quei beni e diritti. Certo, trattandosi di beni e diritti organizzati in compendio aziendale, viene in rilievo anche il valore immateriale che potrebbe essere realizzato allo stesso modo nella liquidazione fallimentare mediante la vendita dell’azienda, ma non altro. Si dovrà considerare anche l’utile che il curatore potrebbe ottenere dall’esercizio provvisorio o dall’affitto dell’azienda eventualmente disposti in funzione della successiva cessione e per il tempo strettamente necessario. Ma il programma di liquidazione del curatore, per quanto brillante e attento a non disperdere i valori immateriali, mai potrebbe trasformarsi in un piano industriale di medio o lungo termine finalizzato a realizzare tramite la risanata continuità le risorse necessarie per pagare i creditori, perché in quel caso non sarebbe più un “programma di liquidazione”. Dunque i flussi di cassa attesi dalla futura continuità aziendale non devono essere considerati al fine di stabilire il limite di valore oltre il quale i crediti con privilegi mobiliari generali possono essere degradati al chirografo. Non perché questi flussi debbano essere considerati finanza esterna, estranea all’ambito della responsabilità patrimoniale del debitore, ma semplicemente perché la disposizione che prevede il presupposto della degradazione al chirografo è scritta in un altro modo.
Appurato così che una proposta di concordato con continuità diretta può prevedere la degradazione dei crediti privilegiati generali prima di stabilire la destinazione dei flussi della continuità futuri, ciò non basta per giungere alla conclusione che il debitore possa liberamente disporre di quei flussi, perché si deve ancora considerare il terzo e ultimo aspetto del problema, ovverosia quello relativo al trattamento da riservare ai crediti privilegiati degradati. Sempre l’art. 160, comma 2, legge fall.[56] dispone che, quando sussiste il presupposto per la degradazione dei creditori privilegiati, “la quota residua del loro credito è trattata come credito chirografario”. Ciò significa che a tutti i crediti degradati può essere attribuito il medesimo trattamento, comune anche ai creditori chirografari originari, in perfetto ossequio a quanto disposto dall’art. 2741, comma 1, c.c. Significa anche che è possibile proporre trattamenti differenziati, ma solo previo raggruppamento dei creditori in classi omogenee per posizione giuridica e interessi economici, in modo che siano necessariamente trattati allo stesso modo i creditori inseriti nella medesima classe e che sia invece possibile il trattamento differenziato delle varie classi (art. 160, comma 1, lett. c) e d), legge fall.[57]). Sennonché, a questo punto rimane da inserire nel quado la disposizione secondo cui “Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione” (art. 160, comma 2, ultimo periodo, legge fall.[58]).
Da questa disposizione si comprende che, se è vero che ogni credito privilegiato incapiente “è trattato come credito chirografario”, per altro verso esso continua a essere, in nuce, un credito privilegiato; la legge mantiene memoria della sua passata nobiltà; si può considerare un credito privilegiato affievolito. Infatti, tale disposizione, in quanto si riferisce ai crediti inseriti in una classe, si riferisce certamente ai crediti privilegiati (almeno parzialmente) incapienti, perché i crediti privilegiati pienamente capienti non vengono classati per proporne un determinato trattamento, ma vengono semplicemente pagati alla scadenza (se del caso alla scadenza moderatamente differita, come consentito dalla legge). E, tuttavia, proprio per questi crediti da trattare come chirografari, la legge si ricorda che sono (quindi, in qualche modo, continuano a essere) crediti privilegiati, perché vieta di “alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione”.
Ecco, allora, che l’affermazione secondo cui i flussi di cassa non sono finanza esterna, se da un lato non impedisce la degradazione dei crediti privilegiati generali prima di proporre la distribuzione dei flussi tra i creditori, dall’altro lato impone di rispettare il divieto di alterare l’ordine dei privilegi, divieto che opera proprio dopo che i crediti privilegiati sono stati (in ipotesi legittimamente) degradati perché incapienti. Tale divieto non può essere inteso nel senso di impedire che si proponga un pagamento ai chirografari o agli ex privilegiati di rango inferiore prima che sia stato interamente pagato l’ex privilegiato di rango superiore. Infatti, così ragionando, perderebbe senso la stessa previsione della possibilità di degradare i crediti privilegiati e di formare una pluralità di classi coinvolgendo anche i creditori ex privilegiati. Allora, il divieto potrà essere interpretato, o nel senso che il trattamento delle classi deve essere tale per cui le classi in cui vengono inseriti gli ex privilegiati di rango superiore devono sempre avere un trattamento migliore di quelle in cui vengono inseriti gli ex privilegiati di rango inferiore, oppure, meglio, nel senso che le classi in cui vengono inseriti gli ex privilegiati di rango superiore non devono avere un trattamento deteriore rispetto a quello riservato a classi in cui si raggruppano crediti con rango inferiore. Proprio in quest’ultimo senso intende la regola – per quanto riguarda i crediti privilegiati fiscali e previdenziali – l’art. 182-ter legge fall.[59].
Non è questa, tuttavia, la soluzione adottata dalla citata ordinanza della Corte di Cassazione n. 10844 del 2020, che ha confermato l’inammissibilità (già conformemente pronunciata nei due gradi di giudizio di merito) di una proposta di concordato in continuità che prevedeva “una misura, progressivamente discendente, del soddisfacimento dei creditori” e, quindi, pagamenti in favore dei privilegiati di rango inferiore e dei creditori chirografari, senza il previo pagamento integrale dei creditori preferiti. Secondo tale provvedimento della Corte di Cassazione, il pagamento dei creditori chirografari, in mancanza di pagamento integrale dei privilegiati generali, sarebbe consentito solo con (vera) finanza esterna ovvero con i proventi della vendita di beni immobili che residuino dopo il pagamento degli eventuali creditori ipotecari[60]. Peraltro, dalla lettura della motivazione dell’ordinanza sembra di capire che si trattasse, in quel caso, di una continuità indiretta, con riferimento alla quale sarebbe stato corretto giungere al medesimo risultato dell’inammissibilità della proposta mediante l’affermazione, a monte, dell’illegittimità della degradazione al chirografo dei crediti dotati di privilegio mobiliare generale, perché il concordato con continuità indiretta è un concordato liquidatorio del patrimonio (organizzato in azienda) che raggiunge il medesimo risultato finanziario che potrebbe essere ottenuto anche nella liquidazione fallimentare e che la proposta di concordato non può quindi distrarre dalla destinazione in favore dei creditori muniti di privilegio generale mobiliare[61].

Note:

[1] 
È probabilmente significativo che nella ben nota espressione inglese going concern si usi, per indicare l’impresa, proprio l’espressione concern – in luogo di altre, altrove più comuni, come business, firm, company – il cui significato principale è proprio “cura”, “interesse”, “preoccupazione”.
[2] 
La rilevazione tempestiva della perdita della continuità non è l’unica funzione dell’obbligo di dotarsi di assetti adeguati, come lascia intendere l’uso della congiunzione “anche”, ma è comunque l’unica funzione esplicitata nella disposizione di legge.
[3] 
Sull’impatto della perdita della prospettiva della continuità sulla redazione del bilancio si vedano i principi dettati dall’Organismo Italiano di Contabilità per i bilanci di liquidazione (OIC 5).
[4] 
Il sostantivo “squilibrio” è stato introdotto dall’art. 1 del decreto legislativo 26 ottobre 2020 n. 147 (c.d. decreto correttivo), in sostituzione del termine “difficoltà” che compariva nel testo originario del CCII.
[5] 
Anche il CCII, pur tenendo distinte le nozioni di crisi e di insolvenza, indica entrambe le situazioni quali alternativi presupposti per l’ammissione al concordato preventivo: art. 85, comma 1.
[6] 
L’ampia formula utilizzata tanto dall’art. 160 legge fall. che dall’art. 85 CCII è che il concordato può prevedere “la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma”.
[7] 
Naturalmente, la singola concreta proposta di concordato ben potrà essere basata su una combinazione di entrambe le soluzioni, ovverosia la liquidazione di alcuni beni del patrimonio del debitore e il diverso sfruttamento di altri beni o anche, per alcuni o per tutti i beni, uno sfruttamento temporaneo della loro redditività con differimento nel tempo della loro liquidazione.
[8] 
La letteratura sul d.l. n. 118 del 2021 è già cospicua ed è caratterizzata da accentuate diversità di vedute sulla valutazione delle novità in esso contenute. V., per tutti, F. Lamanna, Nuove misure sulla crisi d’impresa del D.L. 118/2021: Penelope disfa il Codice della crisi recitando il "de profundis" per il sistema dell'allerta, Focus del 25 agosto 2021 sul portale on line Il Fallimentarista; D. Galletti, Breve storia di una (contro)riforma “annunciata”, ivi, 1° settembre 2021; L. Panzani, Il D.L. “Pagni” ovvero la lezione (positiva) del covid, in Saggi e contributi del 25 agosto 2021 sulla rivista on line Diritto della Crisi; G. Bozza, Il concordato semplificato introdotto dal d.l. n. 118 del 2021, convertito, con modifiche dalla l. n. 147 del 2021, ivi, 9 novembre 2021; S. Leuzzi, Analisi differenziale fra concordati: concordato semplificato vs ordinario, ivi, 9 novembre 2021; I. Pagni e M. Fabiani, La transizione dal codice della crisi alla composizione negoziata (e viceversa), ivi, 12 novembre 2021; S. Ambrosini, La “miniriforma” del 2021: rinvio (parziale) del cci, composizione negoziata e concordato semplificato, in Dir. fall. 2021, I, 901.
[9] 
Per un utile riepilogo dei termini della questione, v. S. Ambrosini, Il concordato preventivo con affitto d’azienda rientra, dunque, nel perimetro applicativo dell’art. 186-bis, in Articoli della rivista on line ilCaso.it del 2 gennaio 2019.
[10] 
Pubblicata in Foro it. 2019, I, 162, con nota di M. Fabiani, Il codice della crisi di impresa e dell'insolvenza tra definizioni, principi generali e qualche ammissione.
[11] 
Cui corrisponde l’art. 87, comma 1, lett. g), CCII.
[12] 
Disposizione cui corrisponde, nel CCII, l’art. 87, comma 3; inoltre, l’art. 87, comma 1, lett. f), aggiunge la necessità che siano indicate nel piano “le ragioni” della funzionalità della continuazione al miglior soddisfacimento dei creditori.
[13] 
V. art. 10, par. 2, lett. d), e comma 2°, della Direttiva.
[14] 
Per adeguarsi alla Direttiva, la normativa interna ben potrà prevedere che alla domanda di concordato preventivo con continuità aziendale sia allegato – per una compiuta informazione ai creditori – il parere motivato di un professionista indipendente sulla convenienza della prosecuzione dell’attività d’impresa, ma non pretendere una attestazione positiva di tale convenienza.
[15] 
Le corrispondenti disposizioni nel CCII sono contenute nell’art. 95. La disciplina della legge fallimentare è stata da ultimo modificata dall’art. 2, comma 4, del decreto legge del 18 aprile 2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla legge 14 giugno 2019 n. 55. È poi da tenere in considerazione quanto disposto dall’art. 110 del Codice dei Contratti Pubblici (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50), che tra l’altro delega all’ANAC di stabilire se un’impresa in concordato preventivo, per partecipare a gare per l’affidamento di contratti pubblici, debba assicurare la disponibilità ad intervenire, in caso di inadempimento, di un altro operatore in possesso dei requisiti di capacità finanziaria, tecnica ed economica.
[16] 
La corrispondente disposizione del CCII è sempre nell’art. 95. Va segnalato che in entrambe le discipline (nella legge fallimentare a seguito delle modifiche introdotte dal decreto legge n. 32 del 2019), l’inefficacia delle clausole risolutive espresse è estesa al concordato liquidatorio, se il professionista indipendente “attesta che la continuazione [id est: del rapporto contrattuale] è necessaria per la migliore liquidazione dell’azienda in esercizio”. Ma si tratta di disposizioni quanto mai incoerenti rispetto alla definizione del concordato con continuità estesa all’ipotesi di continuità indiretta, sicché l’inefficacia delle clausole risolutive espresse in questi casi non avrebbe avuto bisogno di essere disposta in una norma specifica.
[17] 
Artt. 99, 101 e 102 CCII.
[18] 
Art. 100, comma 1, CCII.
[19] 
Anche questa disposizione è stata emendata dal decreto legge n. 118 del 2021 (art. 20, comma 1, lett. g)), in funzione di un – imperfetto – coordinamento con il corrispondente art. 86 CCII. Il coordinamento consiste nell’allungamento da uno a due anni della moratoria originariamente consentita dall’art. 186-bis legge fall., ma rimane – e, in qualche modo, si aggrava – la differenza tra esclusione dal diritto di voto di questi creditori, tuttora prevista nella legge fallimentare, ed esplicito riconoscimento di quel diritto nell’art. 86 CCII.
[20] 
Anche in questo caso si tratta di un’anticipazione di quanto previsto dall’art. 100, comma 2, CCII.
[21] 
Comma aggiunto dal decreto legge 27 giugno 2015, n. 83, nel testo risultante a seguito della legge di conversione 6 agosto 2015, n. 132 del 2015. La medesima novella ha anche differenziato la disciplina del concordato preventivo liquidatorio e del concordato preventivo con continuità aziendale per quanto riguarda il presupposto per l’ammissibilità di una proposta concorrente da parte di uno a più creditori che rappresentino almeno il 10% del passivo (art. 163, comma 5).
[22] 
L’art. 84, comma 4, CCII ribadisce il limite di ammissibilità per il concordato liquidatorio – necessità di pagamento ai creditori chirografari non inferiore al venti per cento – e lo rafforza con l’ulteriore necessità di un “apporto di risorse esterne” che deve incrementare almeno del dieci per cento il pagamento per quei creditori rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale.
[23] 
Si veda, ad es., Trib. Vicenza, 1° luglio 2018, in Unijuris.it.
[24] 
Art. 6, comma 1, lett. i), n. 2, legge n. 155 del 2017: “a condizione che … i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale”.
[25] 
Dalla lettura congiunta dei commi 2 e 3 dell’art. 84 CCII emerge, peraltro, un’inattesa penalizzazione della continuità indiretta rispetto alla continuità diretta. Quest’ultima, infatti, si ha quanto le risorse disponibili per il concordato derivano in misura prevalente dalla continuità oppure “quando i ricavi attesi per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un’attività d’impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso” (comma 3). Quindi, se viene rispettato tale secondo requisito, il concordato è da qualificare in continuità aziendale, anche se le risorse complessive derivano, in misura prevalente, dalla liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa. Viceversa, per avere un concordato in continuità indiretta è sempre necessario che il contratto o il titolo in forza del quale il nuovo imprenditore subentra nella gestione dell’azienda gli imponga “il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall’omologazione” (comma 2). Pertanto, anche se il concordato prevede che tutte le risorse derivino dalla cessione dell’azienda (e, quindi, dalla continuità indiretta), il concordato non potrà essere considerato in continuità, se i posti di lavoro conservati saranno meno della metà.
[26] 
Cass. ord. 15.1.2020, n. 734, la cui massima ufficiale è la seguente: “Il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso dello strumento, dalla disciplina speciale prevista dall'art. 186-bis l.fall., che al comma 1 espressamente contempla anche detta ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; la norma in parola non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnata una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una siffatta organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori.”. Permane, tuttavia, una consapevole e motivata resistenza di parte della giurisprudenza di merito sulla tesi del requisito di una prevalenza, quanto meno qualitativa, che giustifichi l’applicazione della disciplina della continuità, con particolare riferimento alla deroga al limite minimo del venti per cento di soddisfazione per i crediti chirografari: Trib. Ravenna, 8 marzo 2021 e Trib. Bergamo, 14 luglio 2021, entrambe in Diritto della Crisi.
[27] 
Sulla quale tendenza v. le considerazioni svolte in Cass., S.U., 25 marzo 2021, n. 8504.
[28] 
Trib. Padova, 22 luglio 2019, in Unijuris.it e ilCaso.it. La difficoltà da risolvere, non banale, era naturalmente quella di imporre una competizione – non alla società debitrice, ma – ad un soggetto terzo, ovverosia al socio della debitrice, di cui il Tribunale di Padova dà atto di avere acquisito l’impegno a trasferire la quota a chiunque fosse risultato il miglior offerente all’esito della competizione.
[29] 
Trib. Bergamo, 30 settembre 2020, in Unijuris.it e ilCaso.it. Nello stesso senso, Trib. Brescia, 27 maggio 2021, in Diritto della Crisi.
[30] 
Cui corrisponde l’art. 114 CCII. Nel senso indicato nel testo, v. Trib. Treviso, 30 maggio 2016, pubblicato sulla rivista on line fallimentiesocietà.it, e Trib. Perugia, 1° aprile 2021, in ilCaso.it.
[31] 
Cui corrisponde l’art. 212, comma 5, CCII.
[32] 
Sulla compatibilità tra procedura competitiva in sede fallimentare e diritto di prelazione, v. Cass. 11 febbraio 2004, n. 2576.
[33] 
Per la necessità della gara, che deve riguardare non solo la cessione dell’azienda, ma anche l’affitto, v. Trib. Bergamo, 9 marzo 2021, in Diritto della Crisi.
[34] 
Cui corrisponde l’art. 212, comma 6, CCII.
[35] 
V. Cass. 9 ottobre 2017, n. 23581, che individua nell’art. 104-bis, comma 6, legge fall. “una espressa deroga alla disciplina ordinaria”. L’estensione analogica di tale deroga dalla disciplina del fallimento all’affitto autorizzato nel corso del concordato preventivo sarebbe evidentemente problematica, dovendo superare lo scoglio dell’apparente natura eccezionale della deroga. La sentenza della Corte di Cassazione è pubblicata in varie riviste, tra cui Fallimento, 2018, 26, con nota di F. Fimmanò, Retrocessione dell'azienda affittata e responsabilità del concedente per i debiti dell'affittuario.
[36] 
Da notare, nella legge fallimentare, il diverso rigore in merito all’accettazione del rischio della continuità che governa l’ammissione al concordato preventivo con continuità (necessaria l’attestazione della convenienza), rispetto alla regola da osservare per la revoca del concordato dopo l’ammissione, la quale richiede il positivo accertamento che l’esercizio dell’attività d’impresa risulti “manifestamente dannoso per i creditori” (art. 186-bis, comma 7). Tale incongruenza sembra invece superata dall’art. 106, comma 2, CCII, il quale, per la revoca dell’ammissione al concordato, richiede semplicemente che risulti, “in qualunque momento”, “che mancano le condizioni prescritte per l’apertura”.
[37] 
Ma con la residua possibilità, per una minoranza qualificata dei creditori, di chiedere al giudice la verifica della convenienza nei suoi confronti e di imporre alla maggioranza il diniego di omologazione, qualora la convenienza non sussista (cram down).
[38] 
Alcuni sintomi di un cambiamento di rotta si ravvisano: nell’art. 4, comma 5, ove si afferma che l’imprenditore, durante le trattative per giungere alla composizione negoziata della crisi d’impresa, “deve gestire il patrimonio e l’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori” (l’aggiunta dell’avverbio significa che può pregiudicarli, purché lo faccia giustamente, ovverosia nella prospettiva di un risanamento ragionevolmente perseguibile?); nell’art. 10, comma 1, ove si legge che il tribunale rilascerà le autorizzazioni ivi previste “verificata la funzionalità degli atti rispetto alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori” (la congiunzione “e” significa che i due “valori” sono posti sullo stesso livello?); nell’art. 18, che introduce il nuovo “concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio”, per l’omologazione del quale – pur essendo ribadito che non deve arrecare “pregiudizio ai creditori rispetto all’alternativa della liquidazione” – non è prevista alcuna approvazione da parte dei medesimi creditori, ai quali è data soltanto la possibilità di opporsi costituendosi in giudizio, secondo lo schema del c.d. “concordato coattivo” (espressione nella quale l’aggettivo contraddice il sostantivo) previsto nella liquidazione coatta amministrativa (art. 214 legge fall.) e nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (art. 78 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270.
[39] 
Cui corrisponde l’art. 87, comma 1, lett. g), CCII. L’art. 13 del decreto legislativo correttivo n. 147 del 2020 ha altresì aggiunto, nella prima parte del comma 1, le necessità che il piano di concordato in continuità contenga “il piano industriale e l’evidenziazione dei suoi effetti sul piano finanziario”.
[40] 
“L’Attestatore deve verificare che la strategia di risanamento presenti una significativa discontinuità rispetto ai fattori che hanno determinato la situazione di crisi e che sia rivolta a superarli”, si legge al paragrafo 6.2.1. dei “Principi di attestazione dei piani di risanamento” emanati dal CNDCEC e aggiornati con delibera del 16 dicembre 2020.
[41] 
Più severo Trib. Rimini, 6 febbraio 2020, in ilCaso.it, che ha indicato il limite di tre anni, “oltre i quali ogni valutazione prognostica diviene fondata su mere ipotesi”.
[42] 
Al tema della durata è dedicato il paragrafo 6.5.11. della versione aggiornata il 16 dicembre 2020.
[43] 
Cass. 25 ottobre 2010, n. 21860, in Fallimento 2011, 167, con nota di M. Fabiani, Per la chiarezza delle idee su proposta, piano e domanda di concordato preventivo e riflessi sulla fattibilità, la cui massima ufficiale è la seguente: “In tema di concordato preventivo, nel regime conseguente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 169 del 2007 che è caratterizzato da una prevalente natura contrattuale, e dal decisivo rilievo della volontà dei creditori e del loro consenso informato, il controllo del tribunale nella fase di ammissibilità della proposta, ai sensi degli artt. 162 e 163 legge fall., ha per oggetto solo la completezza e la regolarità della documentazione allegata alla domanda, senza che possa essere svolta una valutazione relativa all'adeguatezza sotto il profilo del merito; ne consegue che, quanto all’attestazione del professionista circa la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, il giudice si deve limitare al riscontro di quegli elementi necessari a far sì che detta relazione – inquadrabile nel tipo effettivo richiesto dal legislatore, dunque aggiornata e con la motivazione delle verifiche effettuate, della metodologia e dei criteri seguiti – possa corrispondere alla funzione, che le è propria, di fornire elementi di valutazione per i creditori, dovendo il giudice astenersi da un’indagine di merito, in quanto riservata, da un lato, alla fase successiva ed ai compiti del commissario giudiziale e, dall’altro, ai poteri di cui è investito lo stesso tribunale, nella fase dell'omologazione, in presenza di un’opposizione, alle condizioni di cui all’art. 180 legge fall.” (Principio affermato dalla S.C. in sede di cassazione, con rinvio, del decreto con cui il tribunale aveva ‘rigettato’ la domanda di ammissione alla procedura di concordato, in realtà pronunciandone l’inammissibilità, con valutazioni sul merito della fattibilità del piano concordatario e con modalità decisorie, dalle quali è conseguita l’ammissibilità del ricorso ex art. 111 Cost.)”. Concetto e tenore di questa sentenza sono rimasti pressoché inalterati anche nella celeberrima Cass., S.U., 23 gennaio 2013, n. 1521.
[44] 
Cass. 6 novembre 2013, n. 24970. Sulla stessa linea, ma più sbrigativa nell’affermazione del principio, Cass. ord. 9 marzo 2018, n. 5825, di cui pure vale la pena di riportare la massima: “In tema di concordato preventivo, nel valutare l’ammissibilità della domanda, il giudice ha il compito di controllare la corretta predisposizione dell’attestazione del professionista, in termini di completezza dei dati e di comprensibilità dei criteri di giudizio, rientrando tale attività nella verifica della regolarità della procedura, indispensabile a garantire la corretta formazione del consenso dei creditori. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso il decreto che aveva dichiarato l’inammissibilità della proposta di concordato per un vizio di attestazione del professionista, il quale non aveva indicato i criteri di valutazione seguiti nel condividere i valori immobiliari riportati in una perizia di parte, allegata alla domanda, ma aveva recepito acriticamente le risultanze di tale perizia).”. Significativo il titolo della nota di commento a tale ordinanza di M. Spiotta su Giur. comm. 2018, II, 824: I giudici si riappropriano della loro basilare funzione.
[45] 
In attuazione del principio contenuto nell’art. 6, comma 1, lett. e), della legge delega n. 155 del 2017, che diede al governo il compito di “determinare i poteri del tribunale, con particolare riguardo alla valutazione della fattibilità del piano, attribuendo anche poteri di verifica in ordine alla fattibilità anche economica dello stesso, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale”.
[46] 
Alla base di questa considerazioni c’è la constatazione che la fattibilità è un concetto elastico e opinabile e che non è facile rispondere alla seguente domanda: quanta probabilità che un piano si realizzi ci vuole perché possa dirsi “fattibile”? Sicuramente non è necessaria la certezza o la quasi certezza, perché il futuro è sempre inevitabilmente incerto. Si dice che è fattibile un piano di cui è ragionevole ritenere che si realizzi o che è probabile che si realizzi. Ma ci si appoggia così ad altri concetti con un ampio margine di opinabilità. Può valere, per le previsioni future, il concetto di “più probabile che non” che la Corte di Cassazione, proiettandolo sulla ricostruzione del passato, ha indicato quale presupposto sufficiente per la prova del nesso causale nelle azioni di risarcimento danni? Ma come si misura il grado di probabilità, in modo da poter dire che il futuro avversarsi di un fatto è più probabile del suo non avversarsi? Non ci sono risposte precise a queste domande. Non è un caso che i “Principi di attestazione dei piani di risanamento” del CNDCEC contengano un paragrafo rubricato “concetto di veridicità” (4.2.) e non una definizione del “concetto di fattibilità” (al paragrafo 6. si indicano molte cose che in un’attestazione di fattibilità che si rispetti ci devono essere, ma in nessun luogo si dice cosa sia la fattibilità). Alla fin fine, restando nell’ambito del ragionevole, il giudizio finale sulla fattibilità del piano dipende inevitabilmente anche da fattori irrazionali, quale l’atteggiamento – ottimista o pessimista – di chi esprime quel giudizio. Anche questi dubbi dovrebbero deporre nel senso di non auspicare un allargamento del controllo del giudice sulla fattibilità del piano e di tenere fermo il limite della evidente non fattibilità, riservando alla valutazione del ceto creditorio i casi incerti in cui la decisione può essere influenzata da caratteristiche meramente soggettive. Infatti, se è inevitabile che le scelte economiche siano influenzate anche da aspetti irrazionali ed emotivi, è giusto che le scelte che rientrano in questo ambito spettino ai titolari degli interessi coinvolti e non ad un’autorità esterna.
[47] 
Nel CCII tale disposizione è ripetuta all’art. 84, comma 3, e, quindi, proprio con specifico riferimento al “concordato in continuità aziendale”. La disposizione è inoltre completata dall’indicazione che “Tale utilità può anche essere rappresentata dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa”. Per un caso in cui una cooperativa di pescatori ha offerto ai creditori soci soltanto l’utilità di poter continuare a godere in futuro dei servizi loro offerti dalla ente mutualistico, senza alcun pagamento in denaro, v. Trib. Udine, 27 gennaio 2020, in Unijuris.it e in Diritto della Crisi.
[48] 
Fatta salva, per il concordato liquidatorio vero e proprio (quindi non per la continuità indiretta), la necessità di “assicurare” ai creditori chirografari, originari e degradati, il pagamento almeno del 20% del loro credito.
[49] 
In senso contrario, tuttavia App. Firenze, 4 aprile 2019, in Unijuris.it.
[50] 
Sul tema, anche per altri riferimenti di dottrina e giurisprudenza, v. D. Galletti, I proventi della continuità, come qualsiasi surplus concordatario, non sono liberamente distribuibili, Focus del 16 marzo 2020, sul portale il Fallimentarista; A. Guiotto, Destinazione dei flussi di cassa e gestione dei conflitti d’interessi nel concordato preventivo con continuità aziendale, in Fallimento, 2019, 1095, a commento di Trib. Milano, 5 dicembre 2018.
[51] 
Cui corrisponde l’art. 85, comma 6, CCII.
[52] 
In senso contrario, v. App. Torino, 31 agosto 2018; App. Milano, 14 gennaio 2021; App. Venezia, 21 luglio 2021; tutte in ilCaso.it e in Unijuris.it. Tra i provvedimenti favorevoli alla considerazione dei flussi della continuità come “finanza esterna”, v., invece Trib. Verona, 22 gennaio 2021, in Fallimentiesocietà.it e in Unijuris.it, nonché Trib. Milano 5 dicembre 2018, citata alla nota 50, ma quest’ultima soltanto con riferimento al caso in cui la prosecuzione dell’attività d’impresa sia stata resa possibile da un apporto finanziario di terzi soggetti, non obbligati nei confronti dei creditori.
[53] 
Cass. ord. 8 giugno 2020, n. 10884, sulla quale v. infra.
[54] 
Si tratta naturalmente di vedere se i creditori – opportunamente divisi in classi – saranno disposti ad accettare, con le dovute maggioranze, una proposta di concordato basata su previsioni troppo prudenziali degli esiti della continuità, fatte nel tentativo di lusingare qualcuno (qualche creditore o categoria di creditori arbitrariamente scelti dal debitore) con la prospettiva di un possibile bonus finale attinto dai flussi eccedenti rispetto a quanto necessario per adempiere il concordato.
[55] 
La corrispondente disposizione nel CCII è contenuta nell’art. 85, comma 7, che aggiunge la precisazione “al netto del presumibile ammontare delle spese di procedura inerenti al bene o diritto e della quota parte delle spese generali”.
[56] 
Cui corrisponde, in questo caso, l’art. 85, comma 7, CCII.
[57] 
Cui corrispondono l’art. 2, lett. r), e l’art. 85, comma 2, lett. d), CCII.
[58] 
Art. 85, comma 6, CCII.
[59] 
Cui corrisponde l’art. 88 CCII.
[60] 
Nonché, forse, dei privilegiati mobiliari generali con collocazione sussidiaria immobiliare; ma su questo aspetto l’ordinanza non si pronuncia.
[61] 
Ribadisce l’assimilazione degli utili derivanti dalla continuità aziendale alla finanza esterna, peraltro senza confrontarsi con il precedente contrario della Corte di Cassazione, Trib. Verona, 22 gennaio 2021, citata alla nota 52 e pubblicata anche in ilFallimentarista, con nota di R. TAROLLI e L. RIONDATO, Concordato con continuità aziendale: utili d'impresa e rispetto delle cause legittime di prelazione.

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