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Saggio

Codice della crisi e domande di rivendica e restituzione dei beni acquisiti ai fini dell’esecuzione concorsuale*

Massimo Montanari, Ordinario di Diritto processuale civile nell’Università di Parma

26 Agosto 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il presente lavoro, sviluppo di una relazione tenuta presso la Scuola Superiore della Magistratura, intende offrire una rassegna delle novità intervenute con il Codice della crisi sul terreno di quella verificazione in sede endoconcorsuale delle pretese, di natura tanto reale che personale, vantate dai terzi sui beni compresi nella procedura che il sistema della liquidazione giudiziale tuttora contempla come appendice ineliminabile del più ampio procedimento di accertamento dello stato passivo. Precipua attenzione è stata dedicata alla scelta, effettuata in netta controtendenza rispetto a quelle operate con la riforma della legge fallimentare del 2006, di conferire efficacia oltre lo stretto perimetro della procedura concorsuale in atto alle decisioni rese dal giudice all’esito di quella verificazione.
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1 . Introduzione
La transizione dalla procedura di fallimento a quella di liquidazione giudiziale, seguita al varo e all’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), non ha certo segnato il ripudio del principio del concorso formale dei creditori e neppure della dimensione dallo stesso principio assunta sotto il vigore della precedente legislazione, quale involgente la necessità della verifica in sede endoconcorsuale, all’interno del procedimento di accertamento dello stato passivo e nel contraddittorio con i creditori, di tutte le pretese, di natura reale e personale e a oggetto mobiliare e immobiliare, del caso accampate dai terzi sui beni acquisiti all’attivo dalla procedura[1].  Se in ragione di ciò, il tema della cognizione endoconcorsuale sulle domande, a seconda dei casi, di rivendica o restituzione proposte al fine del recupero di quei beni (e, correlativamente, della loro sottrazione alla procedura)[2] non ha perduto di attualità, importanti  novità sono state, però, recate sul punto dal Codice: ed è proprio sul filo di tali novità e di quelle che ne dovrebbero rappresentare le non trascurabili ricadute d’ordine sistematico e applicativo che si dipaneranno le riflessioni che intendo svolgere nella presente occasione. 
2 . La nuova valenza extraconcorsuale della decisione sulle domande de quibus e la sua (pretesa) inadeguatezza rispetto agli obiettivi per suo tramite perseguiti
Il riferimento di cui alle battute conclusive del precedente paragrafo è, chiaramente, da intendere come operato a quanto vediamo disposto dall’art. 204, ult. comma, CCII, dove, nel rimettere mano alla disciplina di cui all’art. 96, ult. comma, L. fall. in punto di effetti delle decisioni rese, a seconda dei casi, dal giudice delegato o dal tribunale in sede di verifica del passivo o, appunto, di verifica delle domande di restituzione e rivendica, si è ancora previsto che tali decisioni “producano effetti soltanto ai fini del concorso”: ma questo, si è espressamente aggiunto, “limitatamente ai crediti accertati ed al diritto di partecipare al riparto quando il debitore ha concesso ipoteca a garanzia di debiti altrui”, così da potersi ritenere, sulla scorta di un’agevole interpretazione a contrariis verbis, che, con riguardo ai diritti che siano stati oggetto delle domande ora in discorso di rivendica e restituzione, la decisione del giudice concorsuale sia in grado di produrre effetti anche a fini extraconcorsuali[3], ergo con forza di vero e proprio giudicato su quei diritti medesimi[4]. 
La disposizione risponde a un preciso input della legge delega (l. 19 ottobre 2017, n. 155 - Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza), a tenore del quale necessario sarebbe stato “assicurare stabilità alle decisioni sui diritti reali immobiliari” (così l’art. 7, comma 8, lett. d, della menzionata l. n. 155/2017), in funzione di presidio a sua volta – questo, nella legge delega, non è scritto, ma assolutamente chiaro ne è l’intento – in funzione di presidio, dicevo, della stabilità delle successive vendite immobiliari[5]. Ed invero, nel momento in cui si escludeva l’attitudine di tali decisioni, rectius, dell’accertamento in esse racchiuso, a fare stato oltre il perimetro del concorso, inevitabile era trarne la conclusione che nulla potesse impedire, a colui che aveva percorso senza successo le vie della rivendica fallimentare, di proporre una nuova domanda di rivendica nei confronti, non più del curatore, bensì dell’aggiudicatario[6], con evidente nocumento per l’attrattività delle vendite attuate in sede concorsuale. 
La soluzione adottata, al riguardo, dal Codice non copre integralmente l’aggiudicatario dal rischio di una successiva evizione. Lo copre, certo, da questo rischio nell’eventualità che chi vanti diritti sul bene, a) tali diritti abbia fatto valere in sede concorsuale, allo scopo di impedire la vendita, b) e la domanda a quel fine esperita sia stata respinta: giacché, in forza di quanto dispone il predetto art. 204, ult. comma, CCII, l’accertamento dell’insussistenza di quei diritti può dirsi oggi assistito dall’autorità di cosa giudicata[7]. Ma la stessa soluzione non copre l’aggiudicatario da quel rischio laddove il terzo pretendente scelga di non opporsi all’espropriazione del bene, attivandosi solamente una volta avvenuta l’aggiudicazione e direttamente contro l’aggiudicatario medesimo. 
Questa strategia alternativa, la legge, indubbiamente, non la vieta. Ma addurre tutto ciò a motivo di critica nei confronti della scelta così attuata dal legislatore[8], mi sembra francamente ingeneroso, dal momento che neppure nel sistema dell’esecuzione individuale l’acquirente nelle vendite immobiliari può reputarsi interamente al sicuro dal rischio di una successiva evizione: perché, se è vero che il rimedio corrispondente alle nostre rivendiche fallimentari e, cioè, l’opposizione di terzo all’esecuzione ex art. 619 c.p.c., può dirsi idoneo a mettere capo a decisioni con forza di giudicato sulle ragioni di diritto sostanziale del terzo opponente[9], niente e nessuno obbliga esso terzo ad utilizzare tale rimedio preventivo ed endoesecutivo e nulla, correlativamente, gli proibisce di far valere le proprie ragioni a esecuzione conclusa e direttamente contro l’aggiudicatario[10]. 
Fermo restando, poi, quanto prescrive, con riferimento formalmente limitato all’esecuzione individuale ma senza che possa mettersene in dubbio l’applicabilità anche a livello di esecuzione collettiva[11], l’art. 2919, secondo periodo, c.c. e, cioè, che “non sono…opponibili all’acquirente diritti acquistati da terzi sulla cosa, se i diritti stessi non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori intervenuti nell’esecuzione”. Il che è quanto dire, traslando il precetto sul piano concorsuale, che le eventuali ragioni di inopponibilità di un certo diritto alla procedura si convertono automaticamente, una volta intervenuta la vendita del bene che ne sia oggetto, in ragioni di inopponibilità dello stesso diritto all’aggiudicatario: ad intenderci, se il terzo pretendente ha acquistato il suo diritto dal debitore quando questi già risultava sottoposto a liquidazione giudiziale, egli non può pensare di aggirare il problema semplicemente astenendosi dal proporre la domanda di rivendica in sede concorsuale per dispiegarla soltanto, e logicamente al di fuori della procedura, ad aggiudicazione avvenuta[12]. 
Il tutto, insomma, a dimostrazione di come questo margine di rischio che tuttora residua, di un’evizione dell’aggiudicatario di beni immobili nell’àmbito delle vendite “fallimentari”, finisca per rientrare nell’ordine naturale delle cose e non possa essere ragione di censura per i riformatori il fatto di averlo ridotto ma non essere riusciti ad eliminarlo completamente[13]. 
3 . L’opponibilità al debitore tornato in bonis della vittoria conseguita in sede concorsuale dal terzo pretendente
Di un differente e, per certi versi, speculare rischio dobbiamo, piuttosto, ora parlare e, precisamente, che, se per quanto appena si è detto, la possibilità di un ribaltamento, all’esterno della procedura concorsuale, della sconfitta accusata all’interno della medesima da parte di chi abbia proposto domanda di restituzione o rivendica ex art. 210 CCII, deve intendersi,  tale possibilità, come definitivamente fugata, non altrettanto può dirsi o, meglio, altrettanto non sembrava potersi dire, con riguardo al ribaltamento di un’eventuale vittoria di quello stesso soggetto.
Che cosa s’intenda osservare con ciò, è presto spiegato. A venire in gioco è quella lettura di segno “minimalista” che ha importanti riscontri tra i commentatori del presente segmento della riforma concorsuale, in particolare tra coloro che maggiormente ne hanno approfondito l’analisi: una lettura, per l’esattezza, tesa a ridimensionare la portata, ovvero l’àmbito di operatività, dell’efficacia extraconcorsuale che la decisione sulle predette domande sarebbe idonea a produrre, confinando tale efficacia nell’orbita dei rapporti tra chi accampa diritti sulla cosa e i terzi – leggi: in primis, i creditori e poi l’aggiudicatario –, senza estensioni, viceversa, sul terreno dei rapporti tra il pretendente medesimo e il debitore, rapporti che, almeno nel caso di accoglimento delle menzionate  domande di rei vindicatio o restituzione, resterebbero impregiudicati. Così, per riprendere una delle più autorevoli e, al contempo, incisive enunciazioni di questo modo di vedere le cose: “l’accoglimento della domanda del terzo non impedisce all’imprenditore, chiusa la procedura e tornato in bonis, di rivendicare a sua volta il bene nei confronti del primo”[14]. 
La prossima e ormai imminente evoluzione del dato normativo dovrebbe fare giustizia di questa impostazione riduttiva. Nella bozza approvata dal Consiglio dei Ministri lo scorso 10 giugno 2024, quello che dovrebbe risultare come il terzo decreto correttivo della riforma prevede l’inserimento, in coda al suddetto art. 204, ult. comma, CCII, di un ulteriore periodo a mente del quale, “quando il procedimento ha ad oggetto domande di restituzione o di rivendicazione il debitore può intervenire e proporre impugnazione ai sensi dell’articolo 206”: disposizione che può intendersi e giustificarsi soltanto sul presupposto della capacità della decisione resa su quelle domande di far stato a ogni effetto anche sui rapporti tra terzo pretendente e debitore[15], smontando alla radice l’argomento cardine mosso in senso avverso a quella postulata capacità. Ed invero, se a questa si oppone l’esigenza di veder rispettato il diritto di difesa e il principio del contraddittorio, sì che la pronuncia di cui si discute “non [possa] esplicare effetti a danno dell’imprenditore, che non ha assunto (né avrebbe potuto assumere) la qualità di parte nel procedimento di verifica (neppure in grado di impugnazione)”[16], difficile è ribadire quest’ordine di concetti nel momento in cui la legge venga concedere ad esso imprenditore la facoltà di interloquire direttamente sulle domande in questione e di promuovere le appendici impugnatorie del relativo giudizio[17]. 
Il discorso si potrebbe chiudere già a questo punto. Ma mi si lasci dire che quell’impostazione “minimalista” non mi convince appieno neppure allo stato della formulazione ancora vigente del Codice della crisi e, dunque, anche al netto di quella interpolazione del testo normativo cui ho or ora accennato. 
Lasciamo perdere l’evidente distonia di quel modo di concepire le cose rispetto alla lettera della legge, la quale, nell’affermare o, almeno, adombrare l’efficacia extraconcorsuale della decisione sulle domande di restituzione e rivendica, non opera distinzioni di sorta in relazione a quello che possa essere il contenuto della decisione medesima. Laddove, stando all’impostazione “minimalista di cui si sta discorrendo, tale efficacia extraconcorsuale sarebbe predicabile, a ben vedere, nei confronti della sola decisione di rigetto, giacché, con riguardo alla decisione di accoglimento, parlare di un’efficacia extraconcorsuale che sia al tempo stesso confinata nell’orbita dei rapporti con i terzi – si ripete: i creditori, prima, e l’aggiudicatario, poi -  non avrebbe, obiettivamente, senso alcuno: se è vero come è vero, da un lato, che il conflitto tra terzo pretendente e creditori si può manifestare solamente nell’àmbito del concorso e, dall’altro, che un aggiudicatario, se la decisione sia stata favorevole al pretendente, non vi può essere per definizione. 
Il punto cruciale è, però, un altro e, precisamente, quello dell’incoerenza sistematica dell’impostazione in esame. Perché, se in nome delle ragioni del contraddittorio e del diritto di difesa, dobbiamo reputare che la verifica endoconcorsuale dei diritti mobiliari e immobiliari dei terzi sia destinata a lasciare come del tutto impregiudicati i rapporti tra quei soggetti medesimi e il debitore tornato in bonis, lo stesso dovrebbe valere, visto che identica è la disciplina del procedimento, quanto ai rapporti tra debitore tornato in bonis e creditori ammessi al passivo: il che, assolutamente, non è, nella misura in cui si ritenga opponibile non solo al curatore e, per questo tramite, ai creditori concorrenti ma anche allo stesso debitore tornato in bonis quel principio di irripetibilità del distribuito che vediamo scolpito a livello dell’art. 229 CCII, in perfetta continuità con quanto già proclamava l’art. 114 L. fall. 
Si potrà, al riguardo, obiettare che questa irripetibilità non è l’estrinsecazione di un vero e proprio giudicato quanto di un fenomeno di mera preclusione[18]. Ma si vorrà pur concedere, sul versante opposto, che, almeno nei casi di integrale soddisfazione del credito ammesso o di esdebitazione per il residuo, la differenza sia praticamente impercettibile; e che, al di là di ciò, si tratta comunque di un’ipotesi di soggezione del debitore tornato in bonis alle conseguenze pregiudizievoli di un accertamento cui esso è rimasto estraneo. E se una siffatta soggezione, la ammettiamo con riguardo all’accoglimento delle domande di insinuazione al passivo, non vedo perché non la si debba ammettere con riguardo all’accoglimento delle parallele domande di restituzione o rivendica. 
Anche perché, poi, dobbiamo bene intenderci sulla reale portata del vulnus che sarebbe – o sarebbe stato - in tal modo inferto ai valori della difesa in giudizio e del contraddittorio. 
Ora, è indubbio che la controparte sostanziale di colui che abbia agito in via di restituzione o rivendica, e cioè, appunto, l’imprenditore sottoposto a liquidazione giudiziale, è – o, se si preferisce, era – destinata a rimanere esclusa dal susseguente giudizio endoconcorsuale, così da aversi a che fare con una pronuncia non soltanto resa inaudita altera parte ma, altresì, sottratta a qualsivoglia potestà impugnatoria di detta altera pars. Ma non può dimenticarsi come all’assenza di quest’ultima faccia da pendant la doverosa partecipazione al giudizio di un soggetto, quale il curatore, dotato dei medesimi poteri difensivi che sarebbero spettati all’imprenditore “fallito” in quanto abilitato a comparirvi, anzi, a rigore, di qualche potere ulteriore, quale riflesso delle diverse limitazioni di prova poste a carico della parte istante segnatamente nei casi di rivendica mobiliare. 
Certo, il curatore non agisce nell’interesse del debitore e non può pertanto, essere riguardato come suo rappresentante[19]. Altrettanto indiscutibile è, però, che, a fronte delle domande di cui ora è discorso, gli interessi della massa dei creditori a vedere assicurata l’integrità del patrimonio della procedura e ad evitarne una deminutio finiscano obbiettivamente per convergere con quelli del debitore, sì che l’impegno che il curatore è tenuto a spiegare, nell’occasione, a tutela dei primi, in quanto portatore istituzionale degli stessi, non possa che giovare anche ai secondi e rappresentarne un adeguato presidio. 
Sulla scorta di tutte queste considerazioni, lecito è allora ritrarre la conclusione che già ora (e dunque a monte del prefigurato intervento del terzo correttivo), nel sistema della liquidazione giudiziale, colui che abbia sottratto un bene all’esecuzione collettiva in forza del positivo esperimento di una domanda di rivendica o restituzione, non possa successivamente vedersi sfilare questo bene da parte del debitore tornato in bonis[20], salva, naturalmente, l’eventualità di accadimenti sopravvenuti.
4 . La possibilità, per il debitore tornato in bonis, di trarre giovamento dalla sconfitta accusata in sede concorsuale dal terzo pretendente
Specularmente a quanto si è appena visto per l’ipotesi di accoglimento, da parte del giudice della liquidazione giudiziale, della domanda di rivendica o restituzione proposta al suo cospetto a norma dell’art. 210 CCII; e sull’identico fondamento della preordinazione di tale domanda a una pronuncia i cui effetti siano in grado non soltanto di travalicare i confini della procedura concorsuale in atto ma, altresì, di vincolare lo stesso debitore che alla procedura sia stato assoggettato: è da escludere che, nell’ipotesi eguale e contraria di rigetto di quella domanda, il debitore che si sia visto restituire il bene che ne era stato oggetto per essersi la procedura conclusa – eccezionalmente, se vogliamo – quando ancora quel bene non era stato liquidato, possa vedersi, esso debitore, sfilare quel bene all’esito di nuova domanda di restituzione o rivendica, questa volta, s’intende, direttamente esercitata nei suoi confronti[21]. Quantunque si debba poi osservare che, su questo punto specifico, non è mancato il consenso neppure da parte di chi si è mostrato fautore della tesi “minimalista” testé criticata, adducendosi che, se il debitore non può subire pregiudizio dal giudicato formatosi inter alios sulla domanda di rivendica, ne potrebbe ricavare, però, giovamento[22], secondo quanto comunemente s’insegna, nei termini, per l’appunto, dell’estensione del giudicato ai terzi in utilibus e non anche in damnosis, per i casi di deduzione in giudizio di una situazione soggettivamente complessa da parte o nei confronti di uno o taluno soltanto dei legittimati[23]. 
Resta poi inteso che ciò varrà solamente per i casi di accertata insussistenza del diritto azionato, non per quelli in cui il rigetto della domanda sia dipeso dall’accertata inopponibilità di quel diritto alla procedura[24]: dove, a procedura conclusa, le ragioni di diritto sostanziale del pretendente potranno essere tranquillamente rispolverate, senza limiti o condizionamenti di sorta[25]. 
5 . Limiti probatòri del giudizio di rivendica e possibili ricadute sull’efficacia della relativa pronuncia
Secondo alcuni commentatori, un giudicato negativo sulle ragioni sostanziali del terzo pretendente non si formerebbe neppure nei casi in cui esso si sia trovato nell’impossibilità di dimostrare quelle ragioni a cagione dei divieti di prova testimoniale e presuntiva operanti nel giudizio in forza del rinvio olim compiuto dall’art. 103 L. fall. ed oggi dall’art. 210 CCII alla disciplina dell’art. 621 c.p.c. in tema di opposizione di terzo all’esecuzione[26]. 
In ordine a questa posizione, non mancherebbero, in verità, motivi per dissentire[27] o, quantomeno, per aprire una discussione[28]. Ma anche ammesso che così stiano effettivamente le cose, resta inteso che assai modeste ne sarebbero le ricadute pratiche. E’, infatti, tassativamente da escludere che l’assenza di un giudicato sull’insussistenza delle ragioni sostanziali del terzo pretendente valga a consentire a quest’ultimo di intraprendere una successiva e autonoma azione di rivendica contro l’aggiudicatario[29]. Sicché, al di là di quello che possa essere il recupero del bene che sia rimasto nelle mani del debitore per non esserne ancora intervenuta la liquidazione alla data della cessazione della procedura concorsuale, non vi sarebbe spazio che per un’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti del debitore, per ottenere il pagamento dei debiti soddisfatti a séguito della vendita della cosa mobile del terzo[30]: iniziativa che potrebbe essere promossa non soltanto a procedura conclusa e, dunque, contro il debitore tornato in bonis ma anche e direttamente in sede concorsuale, nelle forme, logicamente, dell’insinuazione al passivo, per la tutela di un credito che, rinvenendo le proprie radici in vicende consumatesi a monte della procedura stessa, sarebbe da soddisfare in moneta fallimentare e non certo in prededuzione.
6 . Le ripercussioni della riforma sulle pretese fatte valere in via pregiudiziale alle domande di restituzione o rivendica
La scelta operata dai codificatori con la riscrittura, all’altezza dell’ult. comma dell’art. 204, della disciplina degli effetti delle decisioni rese in sede di verifica del passivo e delle domande di restituzione e rivendica non esaurisce il proprio significato: a) nell’assicurare la stabilità degli acquisti immobiliari perfezionatisi nel corso della procedura; b) e nell’escludere la reiterabilità a procedura conclusa delle liti vertenti sull’appartenenza dei beni che la procedura aveva ai propri fini acquisito. 
Si può anzi dire che il principale profilo di rilevanza di questa innovata disciplina vada colto altrove e, precisamente, sul versante, di cui molti riscontri sono offerti nella realtà applicativa, delle pretese restitutorie, tanto mobiliari che immobiliari, che traggono fondamento dall’accertamento ovvero dall’attuazione in via di giurisdizione costitutiva di un diverso diritto – rispetto ad esse, per ciò stesso, pregiudiziale - esorbitante dal novero delle situazioni soggettive integranti l’oggetto tipico delle verificazione endoconcorsuale dei diritti vantati contro il debitore soggetto alla procedura. Pensiamo ai casi in cui la pretesa restitutoria che si voglia far valere contro la procedura si ricolleghi al positivo esperimento dell’azione ex art. 2932 c.c. di c.d. esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre. Oppure a quelli in cui la pretesa abbia a scaturire dall’accoglimento di taluna o talaltra delle molteplici figure, previste dalla legge, di impugnativa dei contratti traslativi della proprietà o attributivi del possesso di un bene determinato: dove il discorso parimenti interessa, anche se non con identici riflessi problematici, tanto le impugnative di natura meramente dichiarativa, come le azioni di nullità, simulazione, accertamento della risoluzione intervenuta in via stragiudiziale, quanto quelle di carattere  propriamente costitutivo, tipo risoluzione giudiziale, annullamento, rescissione, revocatoria. 
I rapporti tra queste iniziative giudiziarie e il fallimento davano luogo, come noto, a un duplice ordine di problemi: l’uno, d’indole sostanziale, attinente al se ed a quali condizioni tali iniziative giudiziarie, e le conseguenti pretese restitutorie, potessero essere esercitate contro la procedura[31]; il secondo, d’indole processuale, attinente all’individuazione della sede giudiziale in cui la parte interessata avrebbe dovuto a quel fine attivarsi e delle modalità, per l’appunto procedurali, che avrebbe dovuto all’uopo seguire. 
Dallo specifico angolo visuale dell’azione di risoluzione, ma con disposizioni, almeno sul coté processuale, di valenza generale[32], il legislatore si è preoccupato, in occasione della c.d. riforma organica di cui al D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, di dare risposta a questi interrogativi, mediante l’inserimento, nel corpo dell’art. 72 L. fall., di un nuovo 5° comma: 
I) dove, con riguardo al risvolto sostanziale della problematica appena illustrata, si è, in definitiva, recepita la soluzione che già era correntemente professata in nome del principio di intangibilità dell’attivo fallimentare[33] e, dunque, si è stabilito che l’azione di risoluzione potesse farsi valere contro il fallimento ma soltanto se esercitata con domanda proposta e, del caso, trascritta prima della relativa sentenza di apertura[34]; 
II) mentre, trascorrendo alle conseguenti questioni d’ordine processuale, si è previsto che, “se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al capo V”, ovverosia, davanti al giudice fallimentare e nelle forme, a seconda dei casi, della domanda d’insinuazione al passivo o di restituzione dei beni appresi alla procedura. 
 Questa disposizione, di valenza, ribadisco, trascendente la mera figura della risoluzione giudiziale, è stata oggetto di un vivace dissidio interpretativo: assumendosi da taluno che l’azione pendente alla data del fallimento sarebbe dovuta proseguire, previa riassunzione nei confronti del curatore, davanti al giudice originariamente adito, con traslazione innanzi al giudice fallimentare delle sole domande accessorie di restituzione di somme o beni; da altri, viceversa, sostenendosi che l’intera causa sarebbe dovuta trasmigrare al cospetto del giudice fallimentare, così che ad essere trattata e definita nelle forme della verifica del passivo fosse anche l’istanza pregiudiziale (di risoluzione del contratto o di altro contenuto, ammettendone l’operatività extratestuale di cui appena s’è detto) e non soltanto le consequenziali pretese d’ordine risarcitorio/restitutorio[35]. 
Se mi è consentito un peccato di autoreferenzialità, posso dire di essere stato uno dei primi e più ferventi fautori di questa seconda opzione[36], alfine abbracciata dalla stessa Suprema Corte con le pronunce della I Sezione n. 2990 e 2991 del 7 febbraio 2020[37]. Ma a dispetto dell’espresso pronunciamento al riguardo del giudice di legittimità, i dubbi persistevano. E non per nulla, nel procedere a una globale ricognizione dei profili processuali del Codice all’indomani della sua apparizione, avevo sentito di dover lamentare il fatto che non si fosse colta l’opportunità data dalla riforma per intervenire in maniera veramente risolutiva sul punto[38], visto che l’ambiguo dettato dell’art. 72, comma 5, L. fall. è stato integralmente riprodotto a livello dell’art. 172, comma 5, del Codice; e che altra norma pure attinente al fenomeno, come il successivo art. 173, comma 1, relativo all’azione ex art. 2932 c.c. promossa, prima dell’apertura della liquidazione giudiziale, dal promissario acquirente, risulta completamente muta sulla questione, nulla disponendo in ordine al dove e in qual modo, una volta aperta la liquidazione, l’azione dovrebbe proseguire. 
Nel riflettere sui temi cui è dedicata la presente conversazione, ho avuto modo, però, di rivedere quel giudizio, avendo rilevato come l’innovativa disciplina del predetto art. 204, ult. comma, CCII, in combinazione con quella, strettamente correlata, di cui al successivo art. 210, sia in grado di offrire elementi atti a fortemente avvalorare, almeno nell’ottica delle domande che quivi interessano, la tesi che sotto il vigore della legge fallimentare era parsa a me preferibile, con l’avallo, ripeto, della Cassazione. 
Quali erano, infatti gli argomenti forti spendibili contro questa tesi? 
Uno era quello fondato sulla considerazione per cui chi agisce in giudizio facendo valere un diritto che afferma dipendente dalla produzione in via giurisdizionale di una certa modificazione giuridica, 
 è tenuto ad esercitare il correlato potere di azione costitutiva, in vista, dunque, di una pronuncia che quella modificazione valga a realizzare a ogni effetto. Ma come è possibile – questa era l’obiezione – come è possibile ottenere una siffatta pronuncia all’esito di un procedimento, come quella di verificazione dello stato passivo, le cui decisioni non hanno valore a ogni effetto ma soltanto ai fini del concorso [39]?  
Obiezione non priva di fondamento, certo[40]. Ma non è chi non veda che, almeno con riguardo alle domande di restituzione e rivendica, essa non abbia più, oggi, ragione di essere, nel momento in cui dobbiamo prendere atto che, a séguito della riforma, sulle pretese azionabili a mezzo di quella tipologia di domande il giudice concorsuale statuisce ad ogni effetto e non più ai soli fini del concorso. 
L’altro argomento forte era quello per cui, non potendo essere adottata che in forma di decreto, la pronuncia con cui il giudice fallimentare sarebbe venuto a disporre in merito alla domanda di risoluzione, piuttosto che di nullità o di esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre, non avrebbe potuto costituire, allorché avente ad oggetto immobili o mobili registrati, titolo idoneo per la trascrizione, stante il principio di tipicità degli atti trascrivibili, nel cui novero la legge non contemplava espressamente il decreto in discorso[41]. 
Ma neppure questa preoccupazione ha più motivo per essere espressa. Al riguardo, infatti, sovviene l’art. 210 CCI, il quale, nel replicare i contenuti del corrispondente art. 103 L. fall., vi ha aggiunto, però, un inedito terzo comma, a tenore del quale “il decreto che accoglie la domanda di rivendica di beni o diritti il cui trasferimento è soggetto a forme di pubblicità legale deve essere reso opponibile ai terzi con le medesime forme”. 
   Con tutto questo non voglio escludere il fatto che, almeno in casi determinati, alla divaricazione tra domanda pregiudiziale, destinata a proseguire nella sede ordinaria, e domanda accessoria di restituzione, da riassumere in sede concorsuale, si debba comunque, a questa divaricazione, addivenire.   Così, nell’ipotesi di azione revocatoria promossa dal curatore contro soggetto che nelle more del giudizio sia a sua volta sottoposto a liquidazione giudiziale[42]; oppure in quella in cui il soggetto posto in liquidazione giudiziale fosse stato convenuto in giudizio assieme ad altri in una situazione di litisconsorzio necessario o, comunque, di cumulo inscindibile[43]. 
Ma sulla base degli elementi di novità introdotti per questa parte dal Codice, possiamo affermare con ben maggiore sicurezza rispetto al passato che la regola generale sia un’altra e cioè, appunto, quella del trasferimento en bloc della causa innanzi al giudice “fallimentare”, in questo modo investito anche della cognizione sull’istanza pregiudiziale al riconoscimento della pretesa restitutoria che sia stata nella fattispecie accampata.  
E che così debba essere, ossia che la verifica endoconcorsuale dei diritti vantati dai terzi sui beni acquisiti ai fini della procedura costituisca sede acconcia ad ospitare, in quanto ammissibili, anche la trattazione delle domande pregiudiziali al riconoscimento di quegli stessi diritti, parrebbe attestarlo anche un altro dei momenti di novità recati, per questa parte, dal Codice, reperibile, per l’esattezza, in corrispondenza del relativo art. 173, comma 3: dove, confermata la regola, di cui al pregresso art. 72, comma 8, L. fall., a tenore della quale il curatore non è abilitato a sciogliersi dal contratto preliminare avente ad oggetto immobile destinato a costituire l’abitazione principale del promissario acquirente o di suoi stretti congiunti ovvero la sede principale dell’attività d’impresa di quello stesso soggetto, si è poi previsto che esso promissario acquirente sia tenuto a chiedere l’esecuzione del preliminare “nel termine e secondo le modalità stabilite per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi sui beni compresi nella procedura”. 
Presa in se stessa, la disposizione viene indiscutibilmente a dar corpo a una figura speciale di azione ex art. 2932 c.c. di attuazione in forma specifica del contratto preliminare, in tal modo consacrando l’ammissibilità dell’esercizio in sede endoconcorsuale di un siffatto tipo di azione, logicamente in quanto finalizzata al recupero di beni a danno della procedura[44]. Il punto è, però, che l’imminente decreto correttivo vorrebbe completata la suesposta disciplina con la previsione per cui, “con l’accoglimento della domanda, il curatore subentra nel contratto [evidentemente preliminare]”. Il che introduce un non trascurabile elemento d’incertezza nel sistema, perché se, così dicendo, si intende ricollegare all’accoglimento della domanda il perfezionamento della vendita promessa, non è certo parlando di subingresso nel contratto che quel concetto verrebbe adeguatamente espresso: onde il dubbio che all’accoglimento della domanda non si correli detto perfezionamento e, dunque, che non si tratti, in realtà, di domanda proposta ai sensi dell’art. 2932 c.c. Ma sul punto non è il caso di intrattenersi oltre.
7 . I riflessi della riforma sulla c.d. restituzione in via breve di beni mobili
Di un’ulteriore implicazione dell’innovativa disciplina di cui all’art. 204, ult. comma, CCII, merita qui rapidamente accennare. 
Si tratta, per l’esattezza, di ciò, che, se idonea a statuire con forza di giudicato sulle ragioni sostanziali di chi abbia agito in restituzione o rivendica contro la procedura, alla pronuncia che sia scaturita all’esito di queste domande è da escludere una qualsivoglia possibilità di assimilazione del decreto – reso a cognizione sommarissima e drasticamente inidoneo al giudicato – con cui il giudice delegato, ai sensi, ieri, dell’art. 87 bis L. fall. e, oggi, dell’art. 196 CCII, abbia disposto oppure negato la c.d. restituzione “in via abbreviata” di beni mobili. 
Ammesso che qualcuno l’abbia mai coltivata, la suggestione che si abbia qui a che fare con una sorta di appendice della verifica del passivo, tanto da essere suscettibile di gravame nelle forme di cui agli artt. 206 e 207 CCII, rimane così definitivamente fugata. Mentre nulla, onestamente, può inferirsene quanto alla bontà dell’orientamento della Suprema Corte, maturato sullo sfondo della normativa previgente, secondo cui il suddetto provvedimento non sarebbe stato reclamabile ai sensi dell’art. 26 L. fall. né, tantomeno, direttamente ricorribile in cassazione a norma dell’art. 111 Cost., residuando quale unico rimedio, nei casi, ovviamente, di rigetto dell’istanza all’uopo rivolta, quello della proposizione dell’ordinaria domanda ex art. 103 L. fall. (oggi 210 CCII)[45].
8 . L’immutato regime della conversione della domanda di restituzione/rivendica in istanza di insinuazione al passivo per il controvalore del bene richiesto
Per chiudere sul tema quivi affrontato, prenderei le mosse da una recente pronuncia della Cassazione, la n. 34449 dell’11 dicembre 2023, relativa ai limiti entro i quali la richiesta di rivendica o restituzione di beni può essere convertita in domanda di insinuazione al passivo per il controvalore monetario di quei beni medesimi, nell’ipotesi di mancata acquisizione degli stessi all’attivo della procedura. 
Al riguardo la Corte ha stabilito che tale facoltà processuale vada tassativamente esercitata entro l’udienza di cui all’art. 95 L. fall., vale a dire, per riprendere testualmente il dettato della pronuncia or menzionata, “nella fase di primo esame dello stato passivo rispetto alle domande depositate tempestivamente ”, senza possibilità, viceversa, di attendere, a quello stesso fine, la successiva fase dell’opposizione allo stato passivo davanti al tribunale: e ciò in quanto, osserva testualmente la Corte, “lo svolgimento successivo di tale oggettiva mutazione del petitum contrasta con il divieto di introduzione di domande nuove, così come di emende alla originaria richiesta, incompatibili con la semplificazione e la celerità perseguite dal procedimento speciale”. 
Se perfettamente conforme a quanto dispone sul punto la norma ratione temporis applicabile nel caso di specie, vale a dire l’art. 103 L. fall., la posizione testé riferita del giudice di legittimità non sembra, viceversa, in linea con le nuove previsioni in materia dell’art. 210, comma 1,  CCII, a mente del quale, alla modifica dell’originaria domanda di restituzione o rivendica in domanda di ammissione al passivo per il controvalore del bene preteso, si può addivenire “anche nel corso dell’udienza di cui all’art. 207”, che non è l’udienza deputata al primo esame dello stato passivo al cospetto del giudice delegato, come recitava la predetta ordinanza della Cassazione, bensì l’udienza fissata a séguito del deposito del ricorso in opposizione allo stato passivo e deputata alla trattazione di tale gravame. 
Dobbiamo perciò ritenere che l’orientamento espresso sul punto dalla Suprema Corte sia irrimediabilmente superato ? Non direi proprio. E’ vero che rispetto al 2006, ovverosia all’anno cui risale quella riforma della legge fallimentare che ha portato all’inserimento, nel testo del relativo 103, della previsione su ricordata in tema di conversione della domanda di rivendica, il mondo è cambiato, e cambiato, precisamente, nel senso che, a) se rispetto alla domanda di rivendica di un certo bene, quella di ammissione al passivo per il relativo controvalore si atteggia indiscutibilmente come domanda nuova;     b) se, dunque, la conversione dell’una domanda nell’altra si lascia tranquillamente inquadrare come fattispecie di mutatio libelli; c) e se, dunque, occorreva una disposizione apposita per consentire una mutatio libelli, altrimenti vietata, nel corso del giudizio: di questa apposita disposizione derogatoria non vi sarebbe, oggi, più bisogno, dopo che le Sez. unite, con le sentenze n. 12310 del 15 giugno 2015[46] e n. 22404 del 13 settembre 2018[47], hanno completamente ridefinito i confini tra emendatio e mutatio libelli e ammesso, nelle vesti della modificazione della domanda ex art. 183 c.p.c., la proposizione, nel corso del giudizio di primo grado, di autentiche domande nuove – per intervenuta immutazione dei relativi elementi identificativi di causa petendi e/o petitum -, sia pure in rapporto di alternatività/succedaneità rispetto a quella originariamente formulata, come è, indubbiamente, nel caso in esame[48]. 
Sicché, per tornare a noi, se di quella specifica ipotesi di conversione della domanda nel corso dell’udienza di verificazione delle domande tempestive il Codice, benché non ve ne fosse più bisogno, è tornato a parlare, si potrebbe pensare che il legislatore abbia qui inteso dare spazio alla facoltà di mutatio libelli oltre la soglia ordinariamente fissata del giudizio di prime cure. 
Per quanto astrattamente concepibile, non sembra, però che ad una siffatta illazione si possa dar credito. Essa, infatti, appare perfettamente reversibile, nel senso che nulla permette di escludere, ed anzi è più ragionevole pensare, che di quella peculiare ipotesi di mutatio libelli il Codice abbia fatto nuovamente menzione proprio perché ve ne sarebbe stato bisogno, sul presupposto – e, se vogliamo, nell’intento di evidenziare - che  la verifica del passivo avrebbe mantenuto la conformazione assunta con la riforma del 2006, di giudizio in cui, una volta decorso il termine assegnato per la presentazione delle domande tempestive, la parte che intende modificare la propria originaria domanda vi possa provvedere solamente nelle forme dell’istanza tardiva di cui agli artt. 101 L. fall. e 208 CCII[49]. 
D’altro canto, che allo scopo di giustificare una previsione di legge che altrimenti risulterebbe scontata o superflua, si possa recare uno strappo ai princìpi come quello denunciato dalla predetta Cass. n. 34449/2023, questo non sarebbe obiettivamente accettabile, tenuto contro altresì che non si tratta di princìpi specifici al giudizio di opposizione al passivo, in quanto legati alle sue peculiari esigenze di celerità, bensì di princìpi generali del sistema delle impugnazioni, invocabili anche se l’opposizione fosse regolata, come una volta, alla stregua di vero e proprio giudizio ordinario. 
 Per tutto ciò, è da ritenersi che sarà ancora all’udienza dei creditori davanti al giudice delegato nella “fase di primo esame dello stato passivo”, chiamata oggi, nella rubrica dell’art. 203 CCII, “udienza di discussione dello stato passivo”, che dovremo far capo come limite estremo per la conversione delle domande in rassegna. 
Certo, rimane il dato letterale del riferimento all’art. 207 anziché, appunto, 203. Ma si tratta di dato agevolmente riconducibile a un difetto di coordinamento intervenuto nella redazione del testo definitivo del Codice, cui sarebbe auspicabile che il correttivo ponesse rimedio[50]. 
Non dimentichiamo, in proposito, che nella prima bozza di Codice, ossia quella apparsa agli inizi del 2018, la numerazione era diversa e l’udienza di discussione davanti al giudice delegato era regolata dall’art. 208, cui, non a caso, rinviava il successivo art. 215 sulle domande di rivendica. Dopo di che, nell’àmbito dei vari rimaneggiamenti di cui quel testo è stato oggetto, è presumibile che quell’udienza sia stata spostata all’art. 207 e che il rinvio a tale articolo si sia perpetuato nella norma sulle rivendiche anche se la norma di riferimento per quell’udienza era nel frattempo divenuta l’art. 203. D’altro canto, che il legislatore, sul punto, volesse lasciare le cose come stavano, è comprovato dal testo della Relazione illustrativa del Codice, sub art. 210, dove si legge che l’articolo “disciplina in modo sostanzialmente analogo al testo previgente i procedimenti relativi alle domande di rivendica e restituzione” e che “si ribadisce” – non si innova – la previsione relativa alla conversione in udienza di quelle domande. 

Note:

[1] 
 Così l’art. 151, comma 2, CCII, in termini perfettamente corrispondenti a quelli dell’art. 52, comma 2, L. fall. 
[2] 
È probabilmente inutile rammentare come l’opposta qualificazione della domanda come di rivendica oppure di restituzione attenga all’alternativa che, a fondamento della domanda medesima, sia dedotto un diritto di natura reale oppure di natura personale o relativa: per tutti, A. Nigro – D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, 5a ed., Bologna, 2021, 279. 
[3] 
La generale condivisione di questa interpretazione a contrariis verbis rende inutili specifici riferimenti di conforme dottrina: ad ogni buon conto, per tutti, A. Carratta, Impugnazioni e stabilità dell’accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale, in Dir. fall., 2021, 513 s. Per un’isolata presa di posizione in senso contrario e, dunque, nel segno della perpetuazione dell’antevigente regime, v. poi A. Monteverde, Le fasi della liquidazione giudiziale - Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (a cura di G. Bonfante), in Giur. it., 2019, 2000. 
[4] 
Sulla necessità di correlare detta efficacia extraconcorsuale all’identificazione dell’oggetto decisorio delle domande de quibus in corrispondenza al diritto sostanziale volta a volta fatto valere dal terzo, cfr. M. Zulberti, Novità in tema di accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale: riflessioni a prima lettura, in Dir. fall., 2020, 685: al qual proposito appare, tuttavia, miglior partito ritenere che tale diritto sostanziale integra ma non esaurisce il thema decidendum della domanda, secondo quanto meglio si vedrà infra, alla nt. 24. 
[5] 
Ergo, della loro appetibilità: cfr. A. Saletti, La tutela giurisdizionale nella liquidazione giudiziale, in Dir. fall., 2018, 643; G. Impagnatiello, L’accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale, in G. Trisorio Liuzzi (a cura di), Diritto della crisi d’impresa, Bari, 2023, 521. 
[6] 
Cfr. G. Bozza, L’accertamento del passivo nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Il Fall., 2019, 1204; G. Impagnatiello, op. loc. cit.; S. Conforti, Le impugnazioni dello stato passivo, Torino, 2021, 219; P. Russolillo, Questioni processuali in materia di accertamento del passivo, in Dirittodellacrisi.it, 5 agosto 2024, 25; G. Iappelli, Accertamento del passivo e dei diritti dei terzi compresi nella liquidazione giudiziale, in M. Giorgetti – A. Bonafine (a cura di), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, 2a ed., Pisa, 2022, 237; D. Burroni – A. Porcari, La liquidazione giudiziale e il concordato successivo, in S. Sanzo (a cura di), Il Codice della crisi dopo il d. lgs. 17 giugno 2022, n. 83, Bologna, 2022, 456 s. Contra, in nome di una lettura riduttiva dell’art. 96, ult. comma, L. fall. – quale norma non applicabile, a dispetto del suo tenore letterale, alla decisione sulle istanze di restituzione o rivendica -, fondata, tale lettura, sull’esigenza di tutelare l’aggiudicatario, che in caso di evizione non avrebbe potuto contare sul rimedio della restituzione del prezzo versato, ostandovi il principio di irripetibilità del distribuito in sede fallimentare di cui all’art. 114 L. fall. in allora vigente, S. De Matteis, sub art. 96 l. fall., in G. Lo Cascio (diretto da), Codice commentato del fallimento, 4a ed., Milanofiori Assago, 2017, 1338, in via di sostanziale riproposizione della tesi avanzata da I Pagni nel commento all’art. 96 L. fall. apparso nella prima edizione dello stesso Commentario, Milano, 2008, 890 s.: tesi alla quale si era poi allineato L. D’Orazio, sub art. 103, in C. Cavallini (diretto da), Commentario della legge fallimentare, Artt. 64 – 123, Milano, 2010, 912. Nel senso dell’inattaccabilità dell’acquisto dell’aggiudicatario di bene immobile anche sullo sfondo dell’ordinamento anteriore alla più recente riforma, si è altresì espresso M. Farina, sub art. 204, in P. Valensise – G. Di Cecco – D. Spagnuolo (a cura di), Il Codice della crisi. Commentario, Torino, 2024, 1133, nt. 15, per ragioni di cui sarà detto infra, sub nt. 12. 
[7] 
Sull’inoppugnabilità, nella fattispecie, del diritto dell’aggiudicatario, cfr. A. Motto (- S. Menchini), L’accertamento del passivo e dei diritti dei terzi compresi nella liquidazione giudiziale nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Giust. civ., 2022, 483; G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, 2a ed., Torino, 2022, 290; M. Zulberti, op. cit., 687; F. Dimundo, Verifica dei crediti e dei diritti sui beni nella liquidazione giudiziale, Milano, 2023, 429; nonché, leggendone a contrariis l’affermazione secondo cui quel rischio sarebbe stato viceversa connaturato agli effetti di detta decisione di rigetto come disciplinati dalla legge fallimentare, gli Aa. citati in apertura della prec. nota 6. 
[8] 
G. Bozza, op. loc. cit.; e sulla sua scia G.A.M. Trimarchi, Manuale del diritto della crisi e dell’insolvenza, Napoli, 2023, 414 s.; P. Russolillo, op. cit., 27. 
[9] 
Così, almeno, secondo un ampio e forse prevalente schieramento dottrinale: per esaustivi riferimenti, cfr. L. Durello, Contributo allo studio della tutela del terzo nel processo esecutivo, Napoli, 2016, 272, ntt. 153 e 154.   
[10] 
Sulla configurabilità dell’opposizione esecutiva ex art. 619 c.p.c. come “rimedio alternativo rispetto all’esercizio di un’autonoma azione nei confronti dell’aggiudicatario”, v., per ogni altro, L. Durello, op. cit., 272 (da cui è tratto il brano appena riportato tra virgolette); R. Metafora, L’opposizione di terzo all’esecuzione, 2a ed., Napoli, 2012, 54 e 92. 
[11] 
Ed invero, dovendosi guardare alla norma di cui immediatamente sarà detto nel testo come a tassello essenziale del regime di diritto sostanziale delle vendite forzate, la sua trasponibilità sul terreno della liquidazione giudiziale potrebbe essere messa in discussione soltanto riuscendo a scalfire la communis opinio dottrinale e giurisprudenziale che la natura coattiva delle vendite concorsuali vuole tuttora predicabile (v., tra le più recenti testimonianze, Cass., Sez. Un., 19 marzo 2024, n. 7337), ad onta degli interventi riformatori che ne hanno completamente mutato il volto nel segno della degiurisdizionalizzazione e di una marcata deformalizzazione. 
[12] 
Ad avviso di M. Farina, op. cit., 1133, nt. 15, la disciplina dell’appena richiamato art. 2919, secondo periodo, c.c. sarebbe valsa di per se stessa a presidiare l’acquisto dell’aggiudicatario, indipendentemente e a monte di quanto oggi stabilisce l’art. 204, ult. comma, CCII: e questo perché, in forza di quella disciplina, il rigetto della domanda di rivendica “implica riconoscimento della impossibilità di opporre validamente ai creditori il titolo su cui era venuta a fondarsi la domanda al fine di escludere dall’attivo quel bene e, dunque, esclude che questo medesimo titolo possa essere posto alla base di una domanda nei confronti dell’aggiudicatario (che beneficia, in virtù di quanto previsto dall’art. 2919, dell’effetto preclusivo formatosi nella procedura in favore dei creditori)”. Al che può bastare il rilievo che l’assunto si fonda su un presupposto, come quello della valenza processuale e non solo sostanziale della citata disposizione del codice civile – come tale da estendere all’aggiudicatario non soltanto le regole di soluzione del conflitto tra pretendente e creditori ma, altresì, la soluzione offerta a quel conflitto dal giudice, in applicazione di dette regole, all’esito della controversia che, tra pretendente e creditori, sia concretamente insorta –, che appare piuttosto enunciato che non, effettivamente, dimostrato. 
[13] 
Più fondate appaiono semmai le riserve sollevate da Bozza sul piano della legittimità costituzionale della soluzione escogitata dal Codice: vuoi sotto il profilo dell’eccesso di delega, per non essersi operata alcuna distinzione a seconda dell’oggetto della domanda proposta (diritto reale o personale, petitum mobiliare o immobiliare), quando la legge delega, viceversa, specificamente richiedeva di “assicurare stabilità alle decisioni sui diritti reali immobiliari”; vuoi sotto quello della violazione del canone di eguaglianza e ragionevolezza, perché “è difficile pensare che due decisioni [quella sulla domanda di insinuazione al passivo e quella sulla domanda di restituzione o rivendica] emesse dallo stesso giudice, all’esito del medesimo procedimento retto da identiche regole possano poi avere effetti così diversi” (G. Bozza, op. loc. cit.; conff. S. Conforti, op. cit., 219 s.; M. Farina, op. cit., 1133 s.; D. Burroni – A. Porcari, op. cit., 457; e in termini più generali G. D’Attorre, op. loc. cit.). Ma non avendo fatto breccia, queste riserve, nel cuore e nella mente del legislatore, visto che il prossimo decreto correttivo del Codice, nel testo attualmente in circolazione (v. al successivo § 3) ha lasciato assolutamente intatta la disposizione che ne è all’origine, ritengo non valga la pena trattenersi oltre al riguardo (per la non ravvisabilità, nella circostanza, degli estremi dell’eccesso di delega, v., ad ogni modo, F. Dimundo, op. cit., 429, facendo propri i rilievi di A. Saletti, op. cit., 643 s., secondo cui la predetta esigenza, posta dalla legge delega, di “assicurare stabilità alle decisioni sui diritti reali immobiliari” identicamente si poneva, stante l’identità delle relative regole di circolazione, sul terreno dei diritti inerenti a beni mobili registrati). Così come esorbita dai fini di questo lavoro la valutazione se, allo scopo di superare i dubbi sulla ragionevolezza della disposizione di cui s’è appena riferito, sia necessario estendere alla decisione sulle domande d’insinuazione al passivo l’efficacia extraconcorsuale propria della decisione sulle rivendiche, secondo la prospettiva ricostruttiva sviluppata da A. Carratta, op. cit., 514 ss. 
[14] 
A. Motto (- S. Menchini), op. cit., 483; analogamente A. Villa, La nuova liquidazione giudiziale: effetti per i creditori e accertamento del passivo, in Dir. affari, 2019, 205 s.; F. Dimundo, op. cit., 430 s. 
[15] 
Cfr. in proposito l’inequivocabile dettato della Relazione illustrativa della suddetta bozza di decreto correttivo, sub art. 34 della medesima, dove si legge che, se le previsioni dell’ult. comma dell’art. 204 CCII sottintendono “che i provvedimenti assunti sulle rivendiche o restituzioni possono acquisire effetto di giudicato anche al di fuori della procedura di liquidazione giudiziale”, è stato allora “necessario chiarire che rispetto a tali domande il debitore può non solo svolgere pienamente le sue difese intervenendo nel corso della verifica dei crediti ma anche impugnare la decisione assunta dal giudice delegato”. 
[16] 
A. Motto (- S. Menchini), op. loc. cit. Sensibile a questo argomento si mostrava anche M. Zulberti, op. cit.., 684 s., ma non in funzione di un ridimensionamento degli effetti della pronuncia, bensì di un’obiezione di incostituzionalità nei confronti della nuova disciplina dei medesimi; così pure M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, LaTribuna, 2023, 414; C. Cecchella, Il diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2020, 322 s.; S. Di Amato, Diritto della crisi d’impresa, 2a ed., Milano, 2022, 206. 
[17] 
Ad avviso di F. De Santis, Ammissione al passivo dei crediti di conferimento e limiti del c.d. giudicato endoconcorsuale, in corso di pubblicazione per la rivista Il Fall., p. 9 s., nt. 24, del testo provvisorio, tali innovazioni non sarebbero sufficienti a colmare del tutto il deficit di tutela a danno del debitore, salva l’operatività nella fattispecie – per il che si richiederebbe, però, un’apposita previsione normativa – di una regola di litisconsorzio necessario. Ma tal proposito, ben può replicarsi, con M. Fabiani, I principi di vertice dell’accertamento dello stato passivo all’esito del processo di riforma e le correlazioni con la liquidazione dell’attivo, in Dirittodellacrisi.it, 29 maggio 2024, 23, che quella affacciata nel prossimo correttivo costituirebbe una soluzione di “mediazione tra l’esigenza di evitare che il debitore divenga, in ogni caso, protagonista del procedimento di formazione dello stato passivo e l’esigenza di impedire effetti di giudicato su una parte non coinvolta nel processo”; sulla piena adeguatezza del previsto intervento riformatore in funzione di garanzia del debitore tornato in bonis rispetto all’espansione nei suoi confronti dell’efficacia vincolante dei provvedimenti de quibus, v. pure P. Russolillo, op. cit., 26. 
[18] 
Sulla differenza meramente quantitativa tra i due fenomeni, v. peraltro, e proprio nella prospettiva della distribuzione del ricavato, v. M.P. Fuiano, La stabilità del riparto esecutivo. Contributo allo studio della distribuzione del ricavato nella espropriazione singolare e concorsuale, Bari, 2020, 369. 
[19] 
Così F. Dimundo, op. cit., 430, che esclude altresì alternative qualifiche del curatore come quelle di sostituto o surrogante del debitore: il che già si palesa più controvertibile, visto che tali soggetti non agiscono nell’interesse del sostituito o del surrogato. 
[20] 
Così anche M. Farina, op. cit., 1133. 
[21] 
Analogamente M. Farina, op. cit., 1133, nt. 15. 
[22] 
A. Motto (- S. Menchini), op. cit., 484. 
[23] 
Si è richiamato, in proposito, il caso dell’azione promossa dal creditore contro uno dei suoi condebitori in solido (A. Motto [- S. Menchini], op. loc. cit.). Ma il discorso ben può allargarsi ad altre fattispecie, come, ad es., quella della deduzione in giudizio di un diritto reale in comunione da parte di taluno soltanto dei suoi contitolari (v., per ogni altro, S. Menchini, Il processo litisconsortile. Struttura e poteri delle parti, Milano, 1993, 533 ss. 
[24] 
Il fatto che il sindacato giudiziale sulle domande di restituzione o rivendica possa arrestarsi alla diagnosi di inopponibilità alla procedura del diritto azionato sta a dimostrare, secondo quanto anticipato alla prec. nota 4, che l’oggetto decisorio di tali domande comprende (ed anzi identifica il proprio nucleo minimo e indefettibile in) una situazione soggettiva diversa e ulteriore rispetto alla pretesa di diritto sostanziale accampata sul bene rivendicato e, precisamente, in una situazione soggettiva d’indole processuale, raffigurabile, se si crede, nei termini del diritto contro il curatore e, per suo tramite, contro la massa alla sottrazione del bene predetto all’esecuzione collettiva: sulla nuova fisionomia di quelle in esame come domande a doppio oggetto, rispettivamente processuale e sostanziale, v. M. Zulberti, op. cit., 685, nt. 30. 
[25] 
A. Motto (- S. Menchini), op. cit., 484 s.; M. Zulberti, op. cit., 687; M. Farina, op. cit., 1133, nt. 15. 
[26] 
A. Motto (- S. Menchini), op. loc. cit.; F. Dimundo, op. cit., 429 s.; sui limiti probatòri in questione come ragione fondamentale per escludere – già prima che lo escludesse espressamente l’art. 96, ult. comma, L. fall., così come riscritto nel 2006 – che la decisione di rigetto delle rivendiche mobiliari potesse far stato sulle ragioni sostanziali dedotte, v., in particolare, A. Castagnola, Le rivendiche mobiliari nel fallimento, Milano, 1996, 124 ss.  
[27] 
Cfr., seppure con toni assai prudenti, M. Zulberti, op. loc. cit.
[28] 
Riprendendo, nei limiti della compatibilità, le ragioni addotte avverso quella posizione nell’ottica dell’opposizione di terzo all’esecuzione: cfr. R. Metafora, op. cit., 78 ss. 
[29] 
Salva la possibilità, secondo quanto richiesto per le vendite mobiliari dall’art. 2920 c.c., di dimostrarne la mala fede. L’avvertenza può suonare superflua, ma non si dimentichi che i divieti di prova posti dall’art. 621 c.p.c. riguardano soltanto l’esecuzione mobiliare e, pertanto, possono venire in gioco, sul versante concorsuale, soltanto nel caso di rivendica o restituzione mobiliare: per l’insuperabilità di questa limitazione a dispetto del fatto che l’art. 210 CCII (e già l’art. 103 L. fall.) non distingua (non distinguesse) tra beni mobili e immobili, v., per ogni altro, G. Impagnatiello, op. cit., 522. 
[30] 
Così, con riguardo all’esecuzione individuale e sul generale presupposto che il rigetto dell’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. non sia in grado di fare stato sull’insussistenza del diritto sostanziale accampato a quel fine (secondo una linea di pensiero certo minoritaria in dottrina ma prevalente a livello giurisprudenziale: cfr. ancora R. Metafora, op. cit., 43 ss.), C. Punzi, La tutela del terzo nel processo esecutivo, Milano, 389 ss., ad avviso del quale (388 s.) l’assenza di un giudicato negativo sulle ragioni dell’opponente che abbia visto respinta la propria domanda permetterebbe altresì a quest’ultimo di far valere le proprie  pretese sulla somma ricavata che sia residuata dopo la soddisfazione dei creditori concorrenti. 
[31] 
Sulla preminente attinenza di tale ordine di questioni alle azioni, d’impugnativa contrattuale e non, di natura costitutiva, v. alla prossima nt. 34. 
[32] 
V., per ogni altro e con estesi riferimenti, L. Baccaglini, Fallimento e arbitrato rituale. Profili di interrelazione e autonomia tra i due procedimenti, Napoli, 2018, 23 ss. 
[33] 
Per un ampio e minuzioso excursus sullo stato dell’elaborazione in materia a monte dell’intervento normativo di cui s’è appena fatta menzione nel testo, si rinvia a M. Rendina, Accertamento del passivo, crediti di lavoro e pregiudizialità, Milano, 2021, 36 ss. 
[34] 
È bene, a questo riguardo, precisare che l’asserita valenza generale della soluzione adottata per la domanda di risoluzione dovesse, e debba, restare circoscritta entro il raggio delle sole azioni costitutive, senza toccare, salva l’interferenza con le regole di conflitto imperniate sulla trascrizione della domanda, il distinto settore delle azioni meramente dichiarative. E’ chiaro, infatti, che, se il principio di intangibilità dell’attivo fallimentare si risolve nella (almeno tendenziale) impossibilità di sottrarre a quel compendio patrimoniale beni che all’avvio della procedura ne facessero effettivamente parte, esso non possa fungere da impedimento alla proponibilità di azioni non tendenti a ridurre l’originaria consistenza di quel compendio, bensì a definirla esattamente, attraverso il mero accertamento che determinati beni mai siano entrati a farne parte. 
[35] 
Per un’esaustiva ricostruzione di questo dibattito, si rinvia nuovamente a M. Rendina, op. cit., 57 ss. 
[36] 
Mi limito a richiamare la prima occasione in cui ho avuto modo di esprimere tale opzione, vale a dire la nota di commento, redatta in calce alla diversamente orientata Trib. Salerno, 1° febbraio 2013, intitolata Sulla translatio in sede di verifica del passivo dell’azione di risoluzione contrattuale pendente alla data del fallimento, in Il Fall., 2013, 1394 ss. 
[37] 
V. la seconda di queste pronunce in Il Fall., 2020, 772, annotata da M. Montanari, I rapporti tra fallimento e risoluzione giudiziale pendente nella nuova prospettiva della Suprema Corte. L’adesione del giudice di legittimità a questo indirizzo è stata poi confermata da Cass., Sez. II, 29 agosto 2023, n. 25393 
[38] 
M. Montanari, Profili processuali del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 896. 
[39] 
A. Motto (- S. Menchini), L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, in F. Vassalli – F.P. Luiso – E. Gabrielli (diretto da), Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, II. Il processo di fallimento, Torino, 2014, 441.
[40] 
Ancorché non insuperabile: cfr. M. Montanari, Verificazione del passivo fallimentare e cause connesse, in Giur. comm., 2017, I,, cit., 157. 
[41] 
A. Motto (- S. Menchini), op. cit., 443. 
[42] 
Sulle ragioni che depongono in tal senso, cfr. M. Montanari, Verificazione del passivo fallimentare, cit., 158 s. 
[43] 
L. Baccaglini, op. cit., 46 ss. 
[44] 
Cfr. in proposito M. Fabiani, I principi di vertice, cit., 14, ove l’esatta osservazione per cui “la soluzione sembra allinearsi a quel filone giurisprudenziale più recente che vuole attrarre al concorso formale anche le azioni di risoluzione quesite prima del fallimento (ora liquidazione giudiziale), da intendersi comprensive sia della vicenda demolitiva-negoziale sia della vicenda restitutoria”. 
[45] 
Cass., Sez. I, 23 aprile 2021, n. 10833, in Il Fall., 2021, 902, annotata adesivamente da F. Grieco, La restituzione anticipata dei beni mobili ex art. 87 bis L. fall., ove ulteriori riferimenti. 
[46] 
Vedila in Foro.it., 2015, I, 3174, con nota di A. Motto, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale; in Corr. giur., 2015, 961, con nota di C. Consolo, Le S.U. aprono alle domande “complanari”: ammissibili in primo grado (ancorché chiaramente e irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno; in Riv. dir. proc., 2016, 807, annotata da E. Merlin, Ammissibilità della mutatio libelli da «alternatività sostanziale» nel giudizio di primo grado
[47] 
Reperibile in Corr. giur., 2019, 263, annotata da C. Consolo – F. Godio, Le Sezioni Unite di nuovo sulle domande cc.dd. complanari, ammissibili anche se introdotte in via di cumulo (purché non incondizionato) rispetto alla domanda originaria, e in Riv. dir. proc., 2019, 1300, con nota di L. Dittrich, Sulla successiva proposizione della domanda di arricchimento senza causa nel processo avente coma domanda principale la condanna all’adempimento contrattuale
[48] 
Sulle successive incertezze e oscillazioni registratesi sul punto nella successiva e più recente giurisprudenza di legittimità, si veda l’attenta ricognizione di A. Scarpa, Il nuovo confine tra emendatio e mutatio libelli, in Judicium, 2022, 516 ss. 
[49] 
Per una lettura in tal senso della disposizione in discorso dell’art. 210 CCII, v. P. Russolillo, op. cit., 17. 
[50] 
Ma di una siffatta emenda, invero, non è traccia nel testo del correttivo approvato in CdM. 

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