La scelta operata dai codificatori con la riscrittura, all’altezza dell’ult. comma dell’art. 204, della disciplina degli effetti delle decisioni rese in sede di verifica del passivo e delle domande di restituzione e rivendica non esaurisce il proprio significato: a) nell’assicurare la stabilità degli acquisti immobiliari perfezionatisi nel corso della procedura; b) e nell’escludere la reiterabilità a procedura conclusa delle liti vertenti sull’appartenenza dei beni che la procedura aveva ai propri fini acquisito.
Si può anzi dire che il principale profilo di rilevanza di questa innovata disciplina vada colto altrove e, precisamente, sul versante, di cui molti riscontri sono offerti nella realtà applicativa, delle pretese restitutorie, tanto mobiliari che immobiliari, che traggono fondamento dall’accertamento ovvero dall’attuazione in via di giurisdizione costitutiva di un diverso diritto – rispetto ad esse, per ciò stesso, pregiudiziale - esorbitante dal novero delle situazioni soggettive integranti l’oggetto tipico delle verificazione endoconcorsuale dei diritti vantati contro il debitore soggetto alla procedura. Pensiamo ai casi in cui la pretesa restitutoria che si voglia far valere contro la procedura si ricolleghi al positivo esperimento dell’azione ex art. 2932 c.c. di c.d. esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre. Oppure a quelli in cui la pretesa abbia a scaturire dall’accoglimento di taluna o talaltra delle molteplici figure, previste dalla legge, di impugnativa dei contratti traslativi della proprietà o attributivi del possesso di un bene determinato: dove il discorso parimenti interessa, anche se non con identici riflessi problematici, tanto le impugnative di natura meramente dichiarativa, come le azioni di nullità, simulazione, accertamento della risoluzione intervenuta in via stragiudiziale, quanto quelle di carattere propriamente costitutivo, tipo risoluzione giudiziale, annullamento, rescissione, revocatoria.
I rapporti tra queste iniziative giudiziarie e il fallimento davano luogo, come noto, a un duplice ordine di problemi: l’uno, d’indole sostanziale, attinente al se ed a quali condizioni tali iniziative giudiziarie, e le conseguenti pretese restitutorie, potessero essere esercitate contro la procedura[31]; il secondo, d’indole processuale, attinente all’individuazione della sede giudiziale in cui la parte interessata avrebbe dovuto a quel fine attivarsi e delle modalità, per l’appunto procedurali, che avrebbe dovuto all’uopo seguire.
Dallo specifico angolo visuale dell’azione di risoluzione, ma con disposizioni, almeno sul coté processuale, di valenza generale[32], il legislatore si è preoccupato, in occasione della c.d. riforma organica di cui al D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, di dare risposta a questi interrogativi, mediante l’inserimento, nel corpo dell’art. 72 L. fall., di un nuovo 5° comma:
I) dove, con riguardo al risvolto sostanziale della problematica appena illustrata, si è, in definitiva, recepita la soluzione che già era correntemente professata in nome del principio di intangibilità dell’attivo fallimentare[33] e, dunque, si è stabilito che l’azione di risoluzione potesse farsi valere contro il fallimento ma soltanto se esercitata con domanda proposta e, del caso, trascritta prima della relativa sentenza di apertura[34];
II) mentre, trascorrendo alle conseguenti questioni d’ordine processuale, si è previsto che, “se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al capo V”, ovverosia, davanti al giudice fallimentare e nelle forme, a seconda dei casi, della domanda d’insinuazione al passivo o di restituzione dei beni appresi alla procedura.
Questa disposizione, di valenza, ribadisco, trascendente la mera figura della risoluzione giudiziale, è stata oggetto di un vivace dissidio interpretativo: assumendosi da taluno che l’azione pendente alla data del fallimento sarebbe dovuta proseguire, previa riassunzione nei confronti del curatore, davanti al giudice originariamente adito, con traslazione innanzi al giudice fallimentare delle sole domande accessorie di restituzione di somme o beni; da altri, viceversa, sostenendosi che l’intera causa sarebbe dovuta trasmigrare al cospetto del giudice fallimentare, così che ad essere trattata e definita nelle forme della verifica del passivo fosse anche l’istanza pregiudiziale (di risoluzione del contratto o di altro contenuto, ammettendone l’operatività extratestuale di cui appena s’è detto) e non soltanto le consequenziali pretese d’ordine risarcitorio/restitutorio[35].
Se mi è consentito un peccato di autoreferenzialità, posso dire di essere stato uno dei primi e più ferventi fautori di questa seconda opzione[36], alfine abbracciata dalla stessa Suprema Corte con le pronunce della I Sezione n. 2990 e 2991 del 7 febbraio 2020[37]. Ma a dispetto dell’espresso pronunciamento al riguardo del giudice di legittimità, i dubbi persistevano. E non per nulla, nel procedere a una globale ricognizione dei profili processuali del Codice all’indomani della sua apparizione, avevo sentito di dover lamentare il fatto che non si fosse colta l’opportunità data dalla riforma per intervenire in maniera veramente risolutiva sul punto[38], visto che l’ambiguo dettato dell’art. 72, comma 5, L. fall. è stato integralmente riprodotto a livello dell’art. 172, comma 5, del Codice; e che altra norma pure attinente al fenomeno, come il successivo art. 173, comma 1, relativo all’azione ex art. 2932 c.c. promossa, prima dell’apertura della liquidazione giudiziale, dal promissario acquirente, risulta completamente muta sulla questione, nulla disponendo in ordine al dove e in qual modo, una volta aperta la liquidazione, l’azione dovrebbe proseguire.
Nel riflettere sui temi cui è dedicata la presente conversazione, ho avuto modo, però, di rivedere quel giudizio, avendo rilevato come l’innovativa disciplina del predetto art. 204, ult. comma, CCII, in combinazione con quella, strettamente correlata, di cui al successivo art. 210, sia in grado di offrire elementi atti a fortemente avvalorare, almeno nell’ottica delle domande che quivi interessano, la tesi che sotto il vigore della legge fallimentare era parsa a me preferibile, con l’avallo, ripeto, della Cassazione.
Quali erano, infatti gli argomenti forti spendibili contro questa tesi?
Uno era quello fondato sulla considerazione per cui chi agisce in giudizio facendo valere un diritto che afferma dipendente dalla produzione in via giurisdizionale di una certa modificazione giuridica,
è tenuto ad esercitare il correlato potere di azione costitutiva, in vista, dunque, di una pronuncia che quella modificazione valga a realizzare a ogni effetto. Ma come è possibile – questa era l’obiezione – come è possibile ottenere una siffatta pronuncia all’esito di un procedimento, come quella di verificazione dello stato passivo, le cui decisioni non hanno valore a ogni effetto ma soltanto ai fini del concorso [39]?
Obiezione non priva di fondamento, certo[40]. Ma non è chi non veda che, almeno con riguardo alle domande di restituzione e rivendica, essa non abbia più, oggi, ragione di essere, nel momento in cui dobbiamo prendere atto che, a séguito della riforma, sulle pretese azionabili a mezzo di quella tipologia di domande il giudice concorsuale statuisce ad ogni effetto e non più ai soli fini del concorso.
L’altro argomento forte era quello per cui, non potendo essere adottata che in forma di decreto, la pronuncia con cui il giudice fallimentare sarebbe venuto a disporre in merito alla domanda di risoluzione, piuttosto che di nullità o di esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre, non avrebbe potuto costituire, allorché avente ad oggetto immobili o mobili registrati, titolo idoneo per la trascrizione, stante il principio di tipicità degli atti trascrivibili, nel cui novero la legge non contemplava espressamente il decreto in discorso[41].
Ma neppure questa preoccupazione ha più motivo per essere espressa. Al riguardo, infatti, sovviene l’art. 210 CCI, il quale, nel replicare i contenuti del corrispondente art. 103 L. fall., vi ha aggiunto, però, un inedito terzo comma, a tenore del quale “il decreto che accoglie la domanda di rivendica di beni o diritti il cui trasferimento è soggetto a forme di pubblicità legale deve essere reso opponibile ai terzi con le medesime forme”.
Con tutto questo non voglio escludere il fatto che, almeno in casi determinati, alla divaricazione tra domanda pregiudiziale, destinata a proseguire nella sede ordinaria, e domanda accessoria di restituzione, da riassumere in sede concorsuale, si debba comunque, a questa divaricazione, addivenire. Così, nell’ipotesi di azione revocatoria promossa dal curatore contro soggetto che nelle more del giudizio sia a sua volta sottoposto a liquidazione giudiziale[42]; oppure in quella in cui il soggetto posto in liquidazione giudiziale fosse stato convenuto in giudizio assieme ad altri in una situazione di litisconsorzio necessario o, comunque, di cumulo inscindibile[43].
Ma sulla base degli elementi di novità introdotti per questa parte dal Codice, possiamo affermare con ben maggiore sicurezza rispetto al passato che la regola generale sia un’altra e cioè, appunto, quella del trasferimento en bloc della causa innanzi al giudice “fallimentare”, in questo modo investito anche della cognizione sull’istanza pregiudiziale al riconoscimento della pretesa restitutoria che sia stata nella fattispecie accampata.
E che così debba essere, ossia che la verifica endoconcorsuale dei diritti vantati dai terzi sui beni acquisiti ai fini della procedura costituisca sede acconcia ad ospitare, in quanto ammissibili, anche la trattazione delle domande pregiudiziali al riconoscimento di quegli stessi diritti, parrebbe attestarlo anche un altro dei momenti di novità recati, per questa parte, dal Codice, reperibile, per l’esattezza, in corrispondenza del relativo art. 173, comma 3: dove, confermata la regola, di cui al pregresso art. 72, comma 8, L. fall., a tenore della quale il curatore non è abilitato a sciogliersi dal contratto preliminare avente ad oggetto immobile destinato a costituire l’abitazione principale del promissario acquirente o di suoi stretti congiunti ovvero la sede principale dell’attività d’impresa di quello stesso soggetto, si è poi previsto che esso promissario acquirente sia tenuto a chiedere l’esecuzione del preliminare “nel termine e secondo le modalità stabilite per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi sui beni compresi nella procedura”.
Presa in se stessa, la disposizione viene indiscutibilmente a dar corpo a una figura speciale di azione ex art. 2932 c.c. di attuazione in forma specifica del contratto preliminare, in tal modo consacrando l’ammissibilità dell’esercizio in sede endoconcorsuale di un siffatto tipo di azione, logicamente in quanto finalizzata al recupero di beni a danno della procedura[44]. Il punto è, però, che l’imminente decreto correttivo vorrebbe completata la suesposta disciplina con la previsione per cui, “con l’accoglimento della domanda, il curatore subentra nel contratto [evidentemente preliminare]”. Il che introduce un non trascurabile elemento d’incertezza nel sistema, perché se, così dicendo, si intende ricollegare all’accoglimento della domanda il perfezionamento della vendita promessa, non è certo parlando di subingresso nel contratto che quel concetto verrebbe adeguatamente espresso: onde il dubbio che all’accoglimento della domanda non si correli detto perfezionamento e, dunque, che non si tratti, in realtà, di domanda proposta ai sensi dell’art. 2932 c.c. Ma sul punto non è il caso di intrattenersi oltre.