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Saggio

Questioni processuali in materia di accertamento del passivo*

Pasquale Russolillo, Giudice delegato nel Tribunale di Avellino

29 Luglio 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Nel presente contributo, tratto da una relazione tenuta presso la Scuola Superiore della Magistratura, l’autore chiarisce i principali aspetti processuali del procedimento di verifica dello stato passivo, affrontando le questioni più controverse in materia, fra cui l’applicazione del principio di non contestazione, in considerazione del peculiare ruolo affidato al curatore, ed il regime delle preclusioni attenuate, prestando al riguardo particolare attenzione al delicato profilo dei limiti all’esercizio dello ius variandi al fine di cogliere le possibili differenze con gli approdi a cui è giunta la giurisprudenza nel giudizio di cognizione ordinaria. Il saggio pone, inoltre, in evidenza le principali novità introdotte dal Codice della Crisi in materia di accertamento dello stato passivo, con un occhio rivolto al terzo correttivo di prossima emanazione, dando conto delle soluzioni adottate dal legislatore al fine di assicurare la stabilità delle decisioni assunte dal giudice delegato sulle domande di rivendica e restituzione di beni ed affrontandone le possibili criticità. 
Riproduzione riservata
1 . Il progetto di stato passivo quale atto processuale
La riforma della legge fallimentare del 2006, nel riscrivere il procedimento di verifica dello stato passivo ed allo scopo di riconoscere ad esso natura propriamente giurisdizionale, ha attribuito al curatore il ruolo di parte processuale individuando nel progetto di stato passivo l’atto nel quale, previo esame delle domande proposte, quest’ultimo rassegna, in merito a ciascuna di esse, motivate conclusioni da sottoporre al contraddittorio dei partecipanti all’udienza ed alla decisione del giudice delegato. 
In realtà, nella predisposizione del progetto di stato passivo, come nella precedente comunicazione degli avvisi ai creditori e agli altri interessati, è pure evidente la peculiare funzione del curatore, il quale ha altresì il compito di facilitare lo svolgimento di un procedimento i cui partecipanti (creditori, titolari di diritti su beni del debitore, nonché, con l’entrata in vigore del Codice della crisi, titolari di ipoteca su immobili dell’imprenditore posti a garanzia di debiti altrui) non devono costituirsi formalmente in giudizio e neppure necessariamente munirsi della difesa tecnica. 
Se, infatti, l’atto introduttivo del giudizio di verifica è il ricorso che i soggetti legittimati trasmettono al domicilio digitale assegnato alla procedura, il progetto di stato passivo è il veicolo procedurale mediante il quale si realizza quello che la dottrina definisce contraddittorio plurimo ed incrociato, ponendo in condizione ciascuno dei partecipanti di avere contezza delle domande concorrenti. 
A seguito delle modifiche apportate all’art. 95 L. fall. dal D.L. n. 179/2012, conv. in L. n. 17/12/2012, n. 221, e recepite integralmente dal Codice della crisi con l’art. 203 CCII, è infatti stabilito che “il curatore deposita il progetto di stato passivo corredato dalle relative domande nella cancelleria del tribunale, almeno quindici giorni prima dell’udienza fissata per l’esame dello stato passivo e nello stesso termine lo trasmette ai creditori e ai titolari di diritti sui beni all’indirizzo indicato nella domanda di ammissione al passivo”. 
Dunque, la comunicazione del progetto di stato passivo ed il deposito dello stesso nel fascicolo informatico[1] con il corredo delle domande, oltre che della documentazione ad esse allegata, consente a tutte le parti interessate, in quanto titolari di interessi fra loro in potenziale conflitto, di avere piena ed integrale conoscenza dell’oggetto del giudizio, realizzando in tal modo una speciale modalità di instaurazione del contraddittorio. 
La norma richiamata prevede un doppio adempimento informativo, il cui oggetto coincide solo parzialmente, atteso che le domande ed i relativi allegati vanno esclusivamente depositati nel fascicolo e non anche comunicati all’indirizzo digitale delle parti, al quale esse devono invece ricevere solo il progetto di stato passivo. 
La completa conoscenza delle altrui richieste e delle prove a corredo si realizza pertanto tramite consultazione del fascicolo della procedura, essendo in piena facoltà di ciascuno “prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, degli atti, dei documenti e dei provvedimenti del procedimento di accertamento del passivo e dei diritti dei terzi sui beni compresi nella liquidazione giudiziale”, senza neppure la necessità di autorizzazione del giudice delegato come consentito dal meccanismo semplificato, di nuova introduzione, regolato dall’art. 199, comma 4, CCII[2]. 
Il debitore non è destinatario di alcuna comunicazione, in quanto non è parte, sebbene possa chiedere ai sensi dell’art. 203, comma 4, CCII di essere sentito ed a propria volta avere accesso al fascicolo fallimentare per la consultazione dei documenti relativi al procedimento di verifica (art. 199, comma 2, CCII). 
La trasmissione alle parti del progetto di stato passivo ed il suo deposito in cancelleria con le domande ed i relativi allegati sono adempimenti cumulativi. 
Non sono, tuttavia, espressamente disciplinate le conseguenze dell’omesso o tardivo adempimento di uno o di entrambi gli obblighi informativi, e pertanto spetta all’interprete darne ragione, richiamandosi alle regole processuali sull’instaurazione del contraddittorio. 
Va, al riguardo, in primis rilevato che il mancato deposito del progetto di stato passivo non è causa di decadenza, trattandosi di atto procedurale necessario ed in quanto occorre in ogni caso darsi luogo al procedimento di verifica in presenza di domande da esaminare. 
Pertanto, se il curatore non è riuscito a completare il progetto di stato passivo, ad esempio in considerazione dell’elevato numero di domande presentate, non può escludersi la concessione di un provvedimento di rinvio dell’udienza[3], che, tuttavia, lascia immutato il termine assegnato ai creditori per la presentazione di domande tempestive, in quanto espressamente dichiarato perentorio dall’art. 49, comma 3, lett. e) CCII. 
Detto termine, dunque, pure in caso di rinvio dell’udienza di verifica, continua ad essere calcolato a ritroso rispetto alla data originaria indicata in sentenza[4]. 
Venendo al diverso caso in cui il curatore, pur avendo predisposto il progetto di stato passivo, non ha osservato il termine dei quindici giorni anteriori per il suo deposito e la comunicazione, occorre osservare che da tale ritardo non può derivare un vizio della vocatio in ius o dell’editio actionis
L’atto in questione non infatti è equiparabile ad una citazione, posto che la notizia della data dell’udienza, con le informazioni relative alle facoltà processuali dei creditori e dei titolari di diritti, è anteriormente trasmessa ai sensi dell’art. 200 CCII ed il contenuto delle domande è già fissato in ciascun ricorso. 
Il vizio procedurale non è, però, privo di conseguenze. 
Il contenuto del progetto di stato passivo, come accennato, per un verso è assimilabile a quello di una comparsa di risposta riferita a tutte le domande pervenute, per altro verso contiene elementi informativi aggiuntivi necessari al pieno svolgimento del contraddittorio, essendo il veicolo procedurale attraverso il quale tutti gli interessati vengono a conoscenza delle altrui istanze e dunque dell’oggetto del procedimento. 
Ne consegue che il ritardo nella comunicazione del progetto di stato passivo o nel suo deposito con i relativi allegati va indispensabilmente trattato ai sensi dell’art. 101, commi 1 e 2, c.p.c., con il duplice effetto che: 
- il giudice delegato, pur in assenza di specifica disposizione di legge, deve adottare i provvedimenti opportuni per assicurare il diritto di difesa di tutte le parti, pena la nullità delle decisioni assunte; 
- non è possibile statuire su alcuna delle domande proposte, trattandosi di procedimento a contraddittorio necessariamente plurimo. 
La verifica del passivo va pertanto in tal caso differita, con ordine di rinnovazione degli adempimenti del curatore, in modo che sia garantito alle parti il termine a difesa di quindici giorni anteriori alla data della nuova udienza. 
Alcuna sanatoria può, d’altro canto, ipotizzarsi in caso di omesso deposito del progetto di stato passivo con il corredo delle domande nel fascicolo informatico, trattandosi di adempimento del curatore rivolto alla generalità dei partecipanti. 
Per converso, potrebbe assumersi che il mero difetto di comunicazione del solo progetto di stato passivo ad uno dei destinatari possa essere sanato dalla comparizione della parte interessata all’udienza, laddove essa dimostri con le proprie difese di aver piena conoscenza della proposta del curatore, e tanto in virtù del principio di raggiungimento dello scopo, ma ciò non può verificarsi quando sia richiesto un rinvio inteso a consentire la conoscenza completa degli atti, nel qual caso l’accertamento del passivo va integralmente differito a nuova data nel rispetto del termine a difesa. 
2 . Il coordinamento fra gli artt. 201, comma 5, CCII e 10, comma 2, CCII ai fini del perfezionamento delle comunicazioni del progetto di stato passivo
L’art. 200, comma 1, CCII prevede che il curatore invia a tutti i creditori e titolari di diritti reali e personali di godimento, compresi quelli che non sono titolari di un domicilio digitale ovvero che abbiano sede o residenza all’estero, un avviso contenente, fra l’altro, “ogni utile informazioni per agevolare la presentazione della domanda e con l’avvertimento delle conseguenze di cui all’art. 10 comma 3, nonché della sussistenza dell’onere previsto dall’art. 201 comma 3, lett. e”. 
L’art. 201, comma 3, lett. e) CCII, a sua volta, pone a carico di ciascun creditore e titolare di diritti l’onere di indicare, nella domanda di insinuazione al passivo, l’indirizzo pec a cui ricevere le comunicazioni relative alla procedura e di comunicare al curatore le successive variazioni.
Ad una prima lettura parrebbe potersi, dunque, sostenere che il progetto di stato passivo, quale atto della procedura, debba essere comunicato in via telematica ai soli soggetti che abbiano ottemperato all’onere di indicazione del proprio domicilio digitale, mentre nei confronti di tutti gli altri avrebbe effetti equipollenti il deposito nel fascicolo informatico, ai sensi dell’art. 10, comma 3, CCII. 
E tuttavia, proprio l’art. 10, comma 3, CCII limita l’ambito applicativo della “regola di equipollenza” al caso in cui il soggetto che ha omesso di indicare il proprio domicilio digitale sia obbligato a munirsene, soggiungendo che analoga forma semplificata di comunicazione opera quando non risulti funzionante la casella pec in precedenza comunicata per cause imputabili al predetto titolare. 
Questa limitazione soggettiva si spiega in quanto il comma 2 del medesimo articolo 10 CCII prevede, per contro, che, a beneficio dei soggetti non tenuti a munirsi di pec o che hanno sede o residenza all’estero (oltre che del debitore o legale rappresentante), l’organo di gestione della procedura è tenuto ad istituire un domicilio digitale da utilizzare per tutte le comunicazioni interne alla procedura di liquidazione giudiziale. In questi casi, pertanto, non è sufficiente a perfezionare la comunicazione di un atto della procedura il mero deposito nel fascicolo informatico, dovendo il curatore istituire ed utilizzare la casella pec dedicata. 
A conclusioni opposte rispetto a quelle desumibili dall’art. 10 CCII, conduce tuttavia il disposto dell’art. 201, comma 5, CCII, norma che, riferita specificamente al procedimento di verifica, impone l’onere di comunicazione dell’indirizzo pec a tutti gli interessati, senza distinzione fra soggetti obbligati e non obbligati a munirsene, così da far intendere che sia estesa anche a questi ultimi, ai soli fini dell’accertamento del passivo, l’applicazione diretta dell’art. 10, comma 3, CCII[5]. 
Una simile conclusione, oltre che per la specialità dell’art. 201, comma 5, CCII, parrebbe giustificarsi considerando che la portata dell’art. 10, comma 2, CCII è assai più ampia, essendo riferita ad ogni comunicazione interna alla procedura non solo a quelle del giudizio di verifica. 
La distinzione fra le comunicazioni interne al procedimento di verifica ed ogni altra comunicazione inerente la procedura di liquidazione giudiziale potrebbe poi essere spiegata, sul piano della ratio legis, in ragione della necessità di accelerare quanto più possibile i tempi di accertamento del passivo, oltre che allo scopo di deflazionare gli adempimenti del curatore, posto che l’istituzione obbligatoria dell’indirizzo digitale ai sensi dell’art. 10, comma 2, CCII diverrebbe superflua ogni volta che il creditore, pur non obbligato a munirsene, abbia comunque comunicato un valido indirizzo pec ai sensi dell’art. 201, comma 2, lett. e) CCII. 
A risolvere l’impasse, dovuta verosimilmente al difetto di coordinamento fra le norme sopra richiamate, dovrebbe intervenire il terzo correttivo al Codice della crisi, di prossima emanazione, nel quale, secondo le bozze attualmente diffuse, è prevista la modifica dell’art. 201, comma 5, CCII, il cui testo riformato si limita a richiamare l’art. 10, comma 3, CCII senza fornire ulteriori elementi di dettaglio. 
A sua volta, poi, l’art. 10, comma 3, CCII, estende ad ogni soggetto la regola di equipollenza, in modo da includere anche il debitore, i creditori non obbligati a munirsi di domicilio digitale e quelli residenti all’estero, essendo anch’essi onerati di comunicare un valido indirizzo pec, ed essendo dunque venuto meno in linea generale l’obbligo per il curatore di istituire il domicilio digitale per le comunicazioni inerenti la procedura. 
3 . Il contenuto del progetto di stato passivo e le facoltà processuali del curatore
L’art. 203, comma 1, CCII stabilisce che il curatore esamina le domande presentate ai sensi dell’art. 201 CCII e predispone “elenchi separati” dei creditori e dei titolari di diritti su beni mobili e immobili di proprietà o in possesso del debitore, rassegnando per ciascuno le sue “motivate conclusioni”. È previsto, inoltre, che il curatore “può” eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, nonché l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione. 
Dalla norma si evince, anzitutto, che la redazione del progetto di stato passivo spetta esclusivamente al curatore[6], trattandosi peraltro di un atto gestionale proprio e non delegabile, come si ricava dall’art. 129, comma 1, CCII, che, nel menzionare gli adempimenti suscettibili di delega a terzi, esclude espressamente quelli indicati dall’art. 203 CCII. 
Tale prescrizione si spiega non solo e non tanto in ragione del carattere essenziale della fase di verifica del passivo, ma in considerazione ed a conferma del ruolo di parte processuale attribuito al predetto organo della procedura, come tale non esercitabile da un sostituto, in quanto lo stesso sarebbe privo della capacità di rappresentare in giudizio la massa (art. 81 c.p.c.). 
Ciò non toglie che il curatore, proprio in quanto parte del processo, possa versare in concreto in una situazione di conflitto di interessi, come nel caso in cui si debba decidere sull’ammissione di un credito da lui stesso maturato in prededuzione in data anteriore all’apertura della procedura, per aver ad esempio rivestito il ruolo di commissario giudiziale o liquidatore di un concordato preventivo, ovvero quando lo stesso professionista sia incaricato di gestire altra procedura di liquidazione giudiziale ed in tale veste abbia presentato domanda di insinuazione al passivo. 
In questi casi non vi è dubbio che possa ricorrersi ad un curatore speciale ai sensi dell’art. 78, comma 2, c.p.c., la cui nomina spetta al giudice delegato, in quanto autorità che procede ai sensi del successivo art. 80, comma 2, c.p.c. 
L’art. 203 CCII detta poi precise regole su forma e contenuto del progetto di stato passivo. 
È prevista anzitutto la predisposizione di elenchi separati per le domande di insinuazione e quelle di rivendica in modo che le stesse siano trattate separatamente. 
Tale struttura binaria si giustifica in quanto l’accoglimento delle domande di restituzione e rivendica produce effetti peculiari, consistenti nella soddisfazione fuori concorso degli interessi della parte istante, ovvero mediante separazione del bene dalla massa destinata alla liquidazione. 
Il procedimento di verifica assume pertanto una duplice funzione: 
- individuare in modo certo ed irretrattabile la massa passiva della procedura, dovendo essere ivi accertato ogni diritto di credito che concorre nella distribuzione dell’attivo, secondo il principio di esclusività sancito dall’art. 151, comma 1, CCII[7], e ciò al fine di escludere dalla partecipazione al concorso tanto le pretese che risultino infondate quanto quelle, pur esistenti, delle quali non sia dimostrata l’anteriorità rispetto all’apertura della liquidazione giudiziale, essendo infatti inopponibili alla massa i diritti derivanti da atti compiuti dal debitore in epoca successiva, come desumibile dall’art. 144, comma 1, CCII; 
- determinare in modo altrettanto certo ed irretrattabile la massa attiva con esclusione dei beni che siano oggetto di fondate pretese restitutorie derivanti da diritti reali o personali[8], le quali, al pari dei diritti di credito, vanno accertate in sede di verifica, nel contraddittorio plurimo delle parti, ponendosi anch’esse, in quanto destinate a sottrarre utilità alla massa, in una posizione antagonista rispetto a coloro che intendano partecipare al riparto. 
Si è osservato che il legislatore ha omesso di menzionare, fra le domande da inserire negli elenchi separati, quelle di partecipazione al riparto presentate dal titolare di ipoteche iscritte sui beni dell’imprenditore assoggettato a liquidazione giudiziale a garanzia di debiti altrui, ma non vi è dubbio che anche su di esse il curatore debba prendere posizione nel progetto di stato passivo. 
Tenuto conto delle finalità della suddivisione prevista dalla norma sopra chiarite, il titolare della garanzia ipotecaria[9]andrà inserito nell’elenco destinato ai creditori e non in quello relativo ai titolari di diritti reali o personali di godimento, atteso che la sua soddisfazione non è automatica e non sottrae beni alla massa attiva della procedura, ma passa, come quella dei creditori, necessariamente per il riparto. 
Il progetto di stato passivo ha poi anche la funzione di individuare con esattezza le domande da esaminare nell’udienza di verifica, delimitando il thema decidendum, atteso che il curatore deve prendere posizione sulla loro tempestività, verificando che siano state presentate nei trenta giorni anteriori all’udienza, o tardività, nel quale caso andranno esaminate con lo specifico procedimento previsto dall’art. 208 CCII e dunque in una successiva e separata attività di verifica. 
Va chiarito, al riguardo, che la presentazione del ricorso di insinuazione al passivo o di restituzione/rivendica oltre il termine stabilito dall’art. 201, comma 1, CCII non ne determina l’inammissibilità, bensì la mera esclusione dall’elenco delle domande da esaminare, sicché, senza necessità di ulteriore adempimento per il creditore o titolare di diritti, spetta al curatore assumere l’iniziativa di introdurre successivamente il procedimento descritto dall’art. 208 CCII. 
Va aggiunto che non essendo più prevista, come stabiliva l’art. 101 L. fall., la fissazione automatica di un’udienza destinata alle tardive ogni quattro mesi, bensì “entro quattro mesi” dalla loro presentazione, tale ulteriore iter procedurale sarà di regola avviato solo una volta terminato l’esame delle domande tempestive. 
Il progetto di stato passivo deve essere motivato, ovvero comprendere il c.d. parere del curatore, consistente nell’esposizione delle ragioni per le quali ritiene che l’istanza dell’interessato debba essere accolta in tutto o in parte, ovvero respinta o dichiarata inammissibile. 
L’assenza di una specifica conclusione sulle ragioni di ammissione o esclusione del credito può essere stigmatizzata dagli interessati con le osservazioni, imponendo al curatore di provvedere all’integrazione entro la data dell’udienza, salvo, in tal caso, il diritto delle parti di chiedere un differimento dell’udienza per svolgere ulteriori difese. 
Per contro, in mancanza di rilievi di parte, la carenza di motivate conclusioni non è un vizio che impone il differimento dell’udienza di verifica, né determina per ciò solo l’accoglimento della domanda del creditore, come si dirà nel successivo paragrafo. 
Una simile condotta processuale non appare però, oggi, del tutto priva di conseguenze. 
Il Codice della crisi, al fine di superare un contrasto giurisprudenziale esistente al riguardo, ha riconosciuto la facoltà per il curatore di presentare la c.d. impugnazione incidentale tardiva in caso di opposizione allo stato passivo proposta dal creditore o dal titolare del diritto denegato, benché sia decorso del termine di trenta giorni previsto dall’art. 207, comma 1, CCII, e ciò al fine di impedire la formazione del giudicato interno sul capo del provvedimento reso dal giudice delegato che abbia parzialmente accolto la domanda dell’opponente. 
Tuttavia, come chiarito, tale mezzo di gravame incidentale è consentito dall’art. 206, comma 4, CCII “nei limiti delle conclusioni” rassegnate nel procedimento di accertamento del passivo, il che fa ritenere che il relativo ricorso debba essere dichiarato inammissibile se il curatore abbia del tutto omesso di formularle nel progetto di stato passivo ovvero, successivamente, entro l’udienza di verifica[10].
4 . Il principio di non contestazione nel procedimento di verifica dello stato passivo
L’assenza di conclusioni motivate del curatore non può costituire, di per sé, ragione di ammissione della domanda dell’interessato. 
La posizione processuale del curatore non modifica infatti l’oggetto del procedimento di verifica limitandolo alle sole domande incontestate, atteso che l’art. 204 CCII stabilisce che giudice delegato deve in ogni caso pronunciarsi su ciascun ricorso con decisione succintamente motivata[11]. 
Rappresenta una conferma indiretta di tale assunto il disposto dell’art. 222, comma 1, CCII, nella parte in cui esclude la necessità di accertamento in sede di verifica nel solo caso di crediti prededucibili non contestati per collocazione ed ammontare[12], facendone desumere, a contrario, che tutti i crediti concorsuali, benché non posti in discussione dal curatore, devono essere verificati[13]. 
Ciò non vuol significare, però, che il principio di non contestazione sia del tutto estraneo al giudizio di verifica. 
In senso contrario all’applicazione di tale principio, è stato spesso utilizzato l’argomento secondo cui il curatore, mentre può disporre dei diritti del debitore per effetto dello spossessamento, non può invece disporre dei diritti della massa, assumendo rispetto ad essi il ruolo di garante dell’interesse collettivo. 
L’argomento non appare però decisivo, atteso che la “non contestazione” non è atto di disposizione del diritto, ma ha rilevanza meramente processuale e probatoria, esonerando le parti dall’onere di dimostrare fatti non controversi[14], ed inoltre, trattandosi di regola di carattere generale sancita dall’art. 115, comma 1, c.p.c., è da ritenersi valida per ogni tipo di giudizio. 
La non contestazione non attiene alla disponibilità dei diritti, ma delle prove, nel senso che essa non equivale ad ammissione dei fatti dall’altra parte allegati, ma determina esclusivamente una relevatio ab onere probandi di quest’ultima ed il dovere da parte del giudice di porre quei fatti a fondamento della decisione, ove rilevanti. 
Così inteso, il principio di non contestazione, alleggerendo il thema probandum, non pare incompatibile con il giudizio di verifica, ma anzi risulta vieppiù funzionale alle esigenze di speditezza del procedimento in quanto favorisce una sollecita decisione. 
Ciò posto, devono certamente valere anche qui i comuni limiti che incontra il principio in questione. 
Anzitutto è necessario che la parte tenuta a fornire la prova di un fatto - sia esso principale, costitutivo della domanda, o secondario, cioè tale da consentire di ricavarne la prova del fatto principale - lo abbia specificamente dedotto. 
In aggiunta, la non contestazione è possibile a condizione che i fatti allegati rientrino nella sfera di conoscibilità del curatore, non potendo esigersi da quest’ultimo la negazione puntuale di circostanze che non abbia la possibilità di appurare in quanto terzo rispetto all’imprenditore - il che può accadere, ad esempio, a causa della mancata produzione delle scritture contabili - dovendo, in questi casi, ritenersi sufficiente ad integrare una sufficiente difesa la mera dichiarazione di non conoscenza dei fatti ex adverso dedotti. 
Infine, è evidente, per il principio iura novit curia, che la non contestazione non può mai riguardare questioni di diritto, come la qualificazione giuridica della fattispecie, la validità o opponibilità di un titolo, ovvero l’esistenza di una prelazione, potendo tali aspetti essere sempre indagati dal giudice, pure in assenza di qualsivoglia eccezione al riguardo[15]. 
Da ultimo occorre rammentare, per completezza argomentativa, che la non contestazione non va equivocata con l’acquiescenza, che si determina solo in caso di mancata impugnazione della pronuncia sfavorevole, con la conseguenza che è pacifica la legittimazione del curatore a proporre il mezzo di gravame pur quando non abbia in precedenza contestato le domande ammesse[16]. 
Ferma restando, entro i suddetti limiti, l’operatività del principio di non contestazione, resta il dubbio se il giudice delegato possa richiedere un approfondimento istruttorio su determinati fatti incontroversi, se non addirittura ammessi dal curatore, ove gli stessi essi risultino, invece, smentiti da contrarie risultanze istruttorie. 
Nulla quaestio, come già si è anticipato, quando si tratti di questioni di diritto, come quelle relative alla tempestività della domanda, alla sua ammissibilità, alla mancanza di forma scritta ad substantiam, alla nullità del contratto, mentre più complesso è il discorso quando si verta su questioni di fatto, il cui rilievo comporta riespansione del thema probandum prima limitato dalla condotta processuale del curatore e delle altre parti. 
Riportata la questione sul corretto piano dell’onere della prova, la risposta appare tuttavia agevole, in quanto i fatti non contestati ben possono essere contrastati dalle risultanze istruttorie, sia quando diversamente valutate dal giudice delegato rispetto al curatore, sia quando non prese affatto in considerazione da quest’ultimo benché acquisite al processo, essendo fatto solo divieto al giudice di attivare poteri inquisitori al fine di integrare il materiale istruttorio disponibile o di proporre eccezioni riservate alle parti (c.d. eccezioni in senso stretto). 
Al riguardo, è frequente anche la considerazione che il principio di disponibilità della prova dei fatti (e non dell’accertamento dei diritti, che resta demandato al giudice) incontra qualche limite maggiore nel giudizio di verifica del passivo rispetto a quanto avviene nel contenzioso ordinario e nell’esecuzione forzata individuale, atteso che la procedura sottende ragioni di pubblico interesse ineliminabili. 
In realtà deve osservarsi, e ciò appare dirimente ai fini della soluzione, che la non contestazione non è essa stessa la prova di un fatto da porre in comparazione con altre, ma è solo una regola di giudizio che impone di utilizzare un fatto come ragione fondante della decisione giudiziale, senza necessità che sia oggetto di dimostrazione; e ciò può essere validamente sostenuto solo quando possa valorizzarsi, per esigenze di economia processuale, un mero comportamento processuale, non quando si dia ad esso prevalenza rispetto ad elementi dell’istruttoria comunque emersi nel processo[17]. 
Si è ritenuto, in conclusione, che il giudice delegato possa dar corso al rilievo ufficioso di una questione anche quando rimasta incontestata dalle parti, purché: 
a) il fatto sia smentito dagli altri atti già acquisiti al processo, non potendo invece il giudice svolgere poteri ufficiosi di indagine; 
b) si tratti di fatto rilevabile d’ufficio e non solo su eccezione di parte; 
c) sia assicurato, in ogni caso, il contraddittorio delle parti ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c. 
Un esempio concreto di applicazione dei principi sopra esposti si ha in materia di data certa, requisito quest’ultimo necessario ad assicurare la partecipazione del credito al concorso e l’opponibilità del diritto alla massa. 
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite[18] ha ritenuto che la data certa, pur riguardando il diritto del creditore a partecipare al concorso in virtù dell’anteriorità del titolo giustificativo del credito o del diritto fatto valere, non va intesa come elemento costitutivo della domanda, sicché l’interessato è esonerato dal doverne fornire in ogni caso allegazione e prova; e tuttavia tale onere sussiste quando l’assenza di tale condizione, operante quale fatto impeditivo: a) sia eccepita dal curatore, il quale deve considerarsi terzo rispetto al debitore e dunque soggetto alla regola di opponibilità rafforzata sancita dall’art. 2704 c.c.; b) sia rilevata d’ufficio dal giudice ex actis
Deve arguirsi, benché la citata pronuncia non abbia espressamente trattato l’argomento, che l’assenza di contestazione del curatore (e delle altre parti) non rappresenti di per sé dimostrazione dell’anteriorità del credito, potendo emergere evidenze di segno contrario che il giudice ha il potere dovere di rilevare, nel qual caso egli, a pena di nullità ex art. 101, comma 2, c.p.c., previamente deve sottoporre la questione al contraddittorio delle parti[19]. 
Valgono, dunque, in questa peculiare fattispecie, le richiamate regole di funzionamento del principio di non contestazione in ambito concorsuale, nel senso che l’assenza di eccezione da parte del curatore sulla non anteriorità del credito consente di ritenere il fatto non contestato e dunque non necessitante di ulteriore dimostrazione, salvo che la circostanza risulti smentita dai fatti di causa, ovvero dalle evidenze documentali acquisite al giudizio di verifica. 
Una volta che la questione relativa all’assenza di data certa sia sollevata dal giudice, essa deve essere naturalmente sottoposta a pena di nullità al contraddittorio, essendo la parte interessata a doverne fornire la contraria dimostrazione - pur trattandosi, a mente della citata pronuncia, di “fatto impeditivo” e non costitutivo - e tanto in virtù del principio di vicinanza della prova che impedisce di far derivare dall’insuperabile incertezza sull’anteriorità del titolo l’ammissione del credito o il riconoscimento del diritto a svantaggio della massa[20].
5 . Il giudizio di verifica come rito a preclusioni attenuate
Le conclusioni che il curatore formula nel progetto di stato passivo si basano sugli accertamenti che egli ha compiuto, supportati dalle produzioni documentali, nonché sulle eccezioni che abbia inteso formulare, siano esse in senso lato o in senso stretto. 
L’art. 203 CCII stabilisce che “il curatore può eccepire i fatti estintivi, modificativi e impeditivi del diritto fatto valere, nonché l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione”. 
L’oggetto della presente relazione non consente di approfondire tutte le possibili eccezioni proponibili, sicché è sufficiente rilevare, alla luce del disposto normativo, che esse possono essere: 
- eccezioni in senso lato, relative a fatti costitutivi del diritto fatto valere del ricorrente, incluse, a titolo esemplificativo, quelle relative all’opponibilità del titolo alla massa (ad esempio per assenza di data certa o perché, quando relativo a beni immobili o mobili registrati, non reso opponibile nelle forme di legge prima dell’apertura del concorso ex art. 145 CCII), all’inesistenza della prelazione, al difetto di forma scritta ad substantiam, all’estinzione anteriore del credito per avvenuto pagamento; 
- eccezioni in senso stretto inerenti a rapporti inclusi nel patrimonio del debitore, quali l’eccezione di prescrizione, anche presuntiva[21], l’eccezione di risoluzione del contratto per inadempimento, di rescissione, di annullabilità del titolo per errore, violenza o dolo, di simulazione, di compensazione; 
- eccezioni di massa, fra cui l’eccezione revocatoria, di cui la norma, analoga a quella prevista dalla legge fallimentare, conferma la proponibilità in via incidentale (c.d. revocatoria in via breve o semplificata). 
Le suddette eccezioni possono essere proposte anche se l’azione corrispondente è ormai prescritta, secondo il principio “quae temporalia ad agendum perpetua ad ex cipiendum”[22]. 
Ai poteri processuali spendibili dal curatore nel progetto di stato passivo e, dunque, nei quindici giorni anteriori all’udienza di verifica, fanno da contraltare quelli riconosciuti agli altri partecipanti, tenuti a presentare le loro osservazioni, con relativi “documenti integrativi”[23] nei cinque giorni precedenti la medesima udienza, mediante comunicazione al domicilio digitale della procedura. 
Le osservazioni vengono trasmesse al curatore nello stesso modo previsto per la domanda di insinuazione e sono pertanto da quest’ultimo inserite nel fascicolo informatico unitamente alla documentazione integrativa. 
Trattandosi di vere e proprie memorie, a dispetto del nomen iuris volutamente atecnico, esse consentono alle parti di rispondere alle eccezioni sollevate dal curatore, sia mediante controeccezioni, sia con la precisazione (ius poenitendi) o modifica delle richieste originariamente formulate (ius variandi), oltre a rappresentare il primo atto mediante il quale si concretizza il contraddittorio plurimo ed incrociato tramite la possibile allegazione di fatti impeditivi, modificativi o estintivi delle pretese concorrenti. 
Secondo la giurisprudenza, alle parti è riconosciuta anche la facoltà di sollevare eccezioni volte a garantire l’interesse collettivo (eccezione revocatoria ordinaria, di simulazione, di inopponibilità ed inefficacia di un credito o di un diritto), surrogandosi in tal caso all’inerzia del curatore ed al fine di evitare un ingiustificato pregiudizio alle ragioni della massa[24], con l’aggiunta che opera, anche in tal caso, la regola che consente l’illimitata proposizione dell’eccezione dopo la prescrizione della corrispondente azione. 
L’introduzione di un termine anteriore all’udienza per l’esercizio delle facoltà difensive delle parti è conseguenza della già citata novella introdotta con il D.L. n. 179/2012, la quale ebbe a ripristinare una scansione processuale inizialmente prevista dalla riforma del 2006, ma poi abrogata dal correttivo immediatamente successivo, il quale aveva invece consentito il deposito delle osservazioni e della documentazione integrativa “fino all’udienza”. 
La soluzione della novella del 2012, confermata integralmente dal Codice della Crisi, mira, evidentemente, ad un irrigidimento della fase introduttiva del procedimento di verifica attraverso la previsione di scansioni temporali volte a favorire la formazione del thema decidendum ac probandum prima dell’udienza di discussione ed a garanzia del suo sollecito svolgimento. 
Alle richiamate scansioni temporali, tuttavia, si ritiene non corrispondano delle vere e proprie preclusioni, giusta quanto stabilito dall’art. 152, comma 2, c.p.c., ovvero che i termini previsti dalla legge devono intendersi di regola ordinatori, salvo non siano espressamente dichiarati perentori. 
La conferma letterale di tale assunto, nell’impianto della normativa concorsuale, è fornita dall’utilizzo del verbo “potere” in relazione all’esercizio delle attività difensive del curatore e delle parti, da cui si evince che il rispetto della tempistica indicata rappresenta una mera facoltà e non un onere, assumendo in definitiva valenza meramente sollecitatoria. 
Del resto, la previsione di una decadenza sarebbe eccessivamente severa se si considera che le parti non sono tenute in questa fase a munirsi di difesa tecnica. 
Questa conclusione, comunemente condivisa, è poi perfettamente coerente con l’orientamento consolidato che esclude l’applicazione del divieto di nova nel giudizio di impugnazione dello stato passivo in relazione alle eccezioni e alle produzioni documentali, sicché sostenere nella fase anteriore un sistema di preclusioni rigido finirebbe soltanto per accrescere ingiustificatamente il contenzioso[25]. 
Spetta naturalmente al giudice delegato, in presenza di eccezioni tardive che introducano nuovi temi di indagine o facciano venir meno l’originaria non contestazione di una determinata pretesa, assicurare il pieno contraddittorio delle parti, come previsto dal novellato art. 101, comma 2, c.p.c., che valorizza, quale regola di sistema operante in ogni tipologia di procedimento, il ruolo di garanzia dell’autorità giudiziaria anche quando la legge non preveda espressamente specifici presidi processuali. 
Alla luce delle superiori considerazioni, pare si possa in definitiva affermare che il legislatore della riforma, nel confermare la struttura del procedimento di verifica prevista dalla legge fallimentare, abbia lasciato inattuata la legge delega nella parte in cui prevedeva l’introduzione di preclusioni attenuate già nella fase monocratica (art. 7, comma 8, lett. b) l. 19 ottobre 2017, n. 155). 
Tanto chiarito riguardo alle attività assertive e probatorie svolte del curatore delle parti nel corso del procedimento, non può tuttavia assumersi la totale mancanza di preclusioni. 
L’art. 49, comma 3, lett. e) CCII, stabilisce infatti che il termine di trenta giorni anteriore all’udienza di verifica per la presentazione delle domande è di natura perentoria e segna, dunque, la linea di confine insuperabile fra le tempestive, non soggette ai limiti di partecipazione al riparto fissati dall’art. 224 CCII, e le tardive, le quali, oltre ad essere esaminate in una separata e successiva fase giudiziale, impongono la dimostrazione della scusabilità del ritardo per evitare le conseguenze sancite da tale norma. 
Inoltre, l’art. 208, comma 3, CCII prevede che le domande presentate oltre il termine di sei mesi dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo[26] scontano anche un sindacato preliminare sulle circostanze da cui è dipeso il ritardo e sulla relativa prova (che può essere documentale, ma anche orale nel quale caso dovrà essere opportunamente articolata), giudizio quest’ultimo che funge da filtro ed il cui esito negativo comporta l’immediata declaratoria di inammissibilità. 
Dall’esistenza di un sistema normativo che fa dipendere dal fattore tempo conseguenze sostanziali sulle condizioni di partecipazione al riparto e sulla stessa ammissione al passivo in caso di domande ultratardive, si ricava che deve essere impedita alle parti la possibilità di introdurre nel procedimento di verifica nuove allegazioni, sia nelle osservazioni che, a fortiori, in udienza, tutte le volte che esse non consistano in mere precisazioni, ma modifichino in modo sostanziale la domanda proposta (c.d. mutatio libelli), posto che viceversa le menzionate preclusioni potrebbero essere agevolmente aggirate. 
Una conferma indiretta del divieto di introduzione di nuove domande si trae, del resto, dalla previsione dell’art. 210, comma 1, CCII, che, quale eccezione alla regola generale, consente a colui che ha agito per la rivendica o restituzione di un bene di tramutare, anche nel corso dell’udienza di verifica, la domanda proposta nell’insinuazione al passivo del controvalore della res, quando risulti che la stessa non è stata acquisita all’attivo del procedimento ovvero se il curatore ne ha perduto il possesso, nel quale ultimo caso il credito va ammesso in prededuzione. 
Il tema del divieto di nova nel procedimento di verifica del passivo è assai complesso e richiede un ulteriore approfondimento. 
La giurisprudenza formatasi a proposito del giudizio di cognizione ordinaria, a fronte del divieto generale di proporre domande nuove se non per reagire alla riconvenzionale proposta dal convenuto, ha ritenuto che non sono tuttavia vietate le modificazioni ed integrazioni della causa petendi e del petitum originari, quando esse siano rese necessarie dalle difese delle altre parti processuali e sempre che le questioni proposte ex novo restino connesse alla medesima vicenda sostanziale[27]. 
Tali conclusioni, che mirano a favorire, anche per ragioni di economia processuale, una concentrazione delle questioni relative ad una medesima situazione controversa, non sono tuttavia integralmente esportabili nel procedimento qui in esame, in considerazione del fatto che la nuova domanda di insinuazione non richiede l’instaurazione di un separato giudizio e non comporta dunque una diseconomia processuale, ma è comunque proponibile nell’ambito delle attività di complessivo accertamento del passivo, salvo dover essere considerata tardiva. 
Si spiega così l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale, di cui occorre dare atto, fra pronunce che ritengono non estensibile al procedimento di verifica l’orientamento estensivo espresso dalle Sezioni Unite a proposito del giudizio di cognizione ordinario, ritenendo che le osservazioni consentono alla parte la mera specificazione dell’oggetto della domanda, o, al più, una emendatio libelli consistente nel dedurre fatti nuovi che non comportino però il mutamento del petitum e/o della causa petendi[28], ed altre che, invece, ampliano l’ambito applicativo dello ius variandi, consentendo alla parte di mutare il titolo giustificativo del credito oggetto di insinuazione, ma pur sempre nei limiti della medesima vicenda sostanziale controversa, potere peraltro spendibile persino in sede di opposizione allo stato passivo[29]. 
La problematica relativa ai limiti di esercizio dello ius variandi da parte del creditore si pone con una certa frequenza in caso di allegazione successiva di un privilegio non dedotto nel ricorso iniziale, ed analogamente in caso di mutamento del titolo di privilegio inizialmente richiesto. 
Al riguardo occorre anzitutto ricordare che l’art. 201, comma 4, CCII, norma rimasta immutata rispetto alla versione contenuta nella legge fallimentare, prevede che l’omessa indicazione o assoluta incertezza nel ricorso del titolo di prelazione che assiste il credito insinuato non determina inammissibilità della domanda, ma comporta che il credito stesso sia considerato chirografario. 
Se ne desume che non possono essere certamente incluse fra le allegazioni modificabili ed integrabili in sede di osservazioni quelle riguardanti il privilegio accordato dalla legge ove lo stesso non sia stato inizialmente richiesto, atteso che una diversa conclusione vanificherebbe l’applicazione della citata norma[30]. 
Potrebbe assumersi, del resto che il privilegio, ex art. 2745 c.c., assurge ad elemento costitutivo della domanda in quanto determina la collocazione del credito in una situazione di concorso ed è stabilito dalla legge in base agli elementi che ne identificano la causa petendi, sicché la richiesta di una causa di prelazione diversa da quella originaria o per la prima volta dopo il deposito della domanda introduce un campo di indagine nuovo ed è a tutti gli effetti qualificabile come mutatio libelli
Se è vero, però, che il thema decidendum muta in modo decisivo quando alla richiesta di ammissione in chirografo abbia fatto seguito quella di riconoscimento del privilegio, tale conclusione non può valere con altrettanta sicurezza quando, a fronte di una domanda di ammissione in privilegio proposta ab origine, sia successivamente solo modificato il titolo della prelazione. 
In questa diversa ipotesi, sempre che gli elementi fattuali costitutivi della causa di prelazione siano stati oggetto di completa allegazione già con il ricorso, l’integrazione proposta si risolverebbe nel sollecitare il potere sempre riconosciuto al giudice delegato di qualificare correttamente sul piano giuridico la domanda, secondo il principio iura novit curia[31]
In conclusione, a fronte del mancato riconoscimento della prelazione nel progetto di stato passivo, argomentato dal curatore sul presupposto della sua generica o mancata allegazione nel ricorso introduttivo, al creditore è dunque posta l’alternativa fra: 
- insistere sulla sufficiente determinatezza della domanda originaria, senza possibilità di modificarla con le osservazioni; 
- rinunciare alla domanda al fine di riproporla in via tardiva, facoltà senz’altro consentita dall’art. 306 c.p.c. e non necessitante di formale accettazione da parte dei controinteressati o del curatore, non trattandosi di soggetti formalmente costituiti, ma possibile solo fino al momento in cui interviene la formazione dello stato passivo[32]. 
6 . Il decreto di esecutività dello stato passivo ed il suo passaggio in giudicato
Terminato l’esame delle domande il giudice delegato forma lo stato passivo e lo rende esecutivo con decreto depositato in cancelleria. 
Il decreto di esecutività dello stato passivo è atto a contenuto complesso che compendia tutte le decisioni sulle domande esaminate e conclude il procedimento di verifica. 
Si tratta di decisione idonea a passare in giudicato, avendo il legislatore, con la riforma del 2006, inteso superare il dibattito sulla natura giurisdizionale o solo amministrativa delle decisioni assunte dal giudice delegato in sede di verifica, affermando che esse producono effetti irretrattabili, sia pure ai soli fini del concorso. 
La soluzione di limitare gli effetti del giudicato al solo concorso dei creditori mira evidentemente a bilanciare l’esigenza di assicurare stabilità alle decisioni assunte in sede di verifica con la confermata regola che esclude la partecipazione del debitore. 
Ne deriva l’inopponibilità dello stato passivo al debitore tornato in bonis, salva la possibilità per il creditore ammesso, rimasto in tutto o in parte insoddisfatto, di farne uso nell’ambito di un giudizio monitorio, con valore peraltro di prova scritta debole, in quanto non consente neppure di ottenere la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo (art. 236, comma 4, CCII)[33]. 
A sua volta, il creditore non può vedersi opporre la decisione sfavorevole assunta dal giudice delegato in un eventuale giudizio esterno promosso contro terzi garanti o altri coobbligati solidali estranei alla procedura. 
Fin qui l’estensione soggettiva del giudicato endoconcorsuale. 
Quanto alla sua estensione oggettiva, secondo la tesi più accreditata, il giudicato endoconcorsuale, in quanto formatosi nell’ambito di un giudizio a cognizione sommaria, nel quale non è assicurato il contraddittorio del debitore spossessato, non è idoneo ad accertare, se non in via meramente incidentale, la posizione soggettiva di diritto sostanziale sottesa alla domanda di insinuazione, essendo invece volto unicamente a verificare, nell’ambito della procedura, il diritto di partecipazione al concorso[34]. 
Tale affermazione connota senz’altro l’oggetto dell’accertamento demandato al giudice delegato, ma non qualifica tuttavia il giudicato endoconcorsuale come giudicato debole, cioè non idoneo a spiegare gli effetti comunemente attribuiti alle decisioni giurisdizionali divenute irretrattabili. 
Ed infatti, una volta formato lo stato passivo ed in assenza di impugnazione, la domanda non può essere riproposta dalla parte interessata, salvo il caso particolare in cui sia stata dichiarata inammissibile (art. 204, comma 1, CCII). 
Egualmente è escluso che la parte possa rinunciare al giudicato interno alla procedura al fine di ripresentare, come tardiva, la medesima domanda su cui il giudice si sia già pronunciato, in quanto la disponibilità del diritto non equivale a disponibilità del giudicato, il cui scopo è invece di interesse generale e coincide con la necessità di dirimere in via definitiva l’incertezza sulla composizione della massa passiva e sulle posizioni antagoniste dei potenziali concorrenti. 
Pertanto, è stato chiarito che il creditore definitivamente ammesso in chirografo a causa della mancata indicazione del titolo di prelazione, non ha facoltà di rinunciare alla decisione divenuta irretrattabile al fine di ottenere ex novo il riconoscimento del privilegio[35]. 
Infine, non vi è dubbio che al pari del giudicato ordinario, anche quello endoconcorsuale si estende a tutti i fatti costitutivi del diritto fatto valere, sicché, se deducibili anteriormente, non possono essere successivamente riproposti per reiterare la richiesta di ammissione di un credito o di un diritto già denegati o riconosciuti solo parzialmente[36]. 
Per tale ragione, il creditore definitivamente ammesso in via chirografaria, non può proporre successiva istanza di insinuazione al solo fine di vedersi riconosciuta la prelazione precedentemente non richiesta, atteso che il giudicato endoconcorsuale si estende ad ogni causa di prelazione ab origine deducibile[37]. 
Un corollario di quanto detto sin qui è che il credito assistito da prelazione su una cosa determinata (ipoteca, pegno, privilegio speciale) deve essere insinuato con il rango prelatizio pure in caso di attuale non apprensione della stessa alla massa, non potendo la prelazione essere richiesta successivamente, e va pertanto ammesso come tale, sempre che il creditore fornisca una precisa descrizione dell’oggetto della prelazione e precisi le ragioni della sua potenziale acquisibilità e fermo restando che l’effettivo dispiegarsi del privilegio in sede di riparto rimane subordinato al recupero del bene al compendio attivo della procedura[38]. 
Le questioni a cui si estende il perimetro del giudicato, una volta definite in modo irrevocabile, non possono essere inoltre ridiscusse nella sede del riparto, essendo l’oggetto di tale procedimento, anch’esso connotato da possibili incidenti di cognizione, limitato alla graduazione del credito in rapporto agli altri ed alla corretta applicazione del criterio di proporzionalità nella distribuzione dell’attivo fra creditori di pari grado. 
Sono invece sempre proponibili in via tardiva domande del tutto nuove, anche se il titolo da cui originano è il medesimo di altro credito anteriormente insinuato, come può ad esempio accadere nel caso di contratti di durata, in relazione a diversi segmenti temporali del medesimo rapporto, ovvero quando la pretesa sia fondata sui medesimi fatti già esaminati, i quali assumano però una diversa qualificazione giuridica o rilevino a diversi fini[39]. 
Un tema molto discusso, quanto alla portata del giudicato endoconcorsuale, riguarda il suo possibile effetto espansivo esterno, quando cioè la res iudicata interna alla procedura sia fatta valere in un separato giudizio ordinario non nei confronti di terzi estranei (ed esempio il debitore), ma fra le medesime parti che abbiano partecipato all’accertamento del passivo (curatore, creditori, titolari di diritti). 
La questione è stata affrontata in giurisprudenza a proposito della c.d. autocompensazione, fattispecie riferibile al caso in cui il creditore, dedotta la compensazione legale fra il proprio maggior credito e quello del debitore assoggettato alla procedura, abbia insinuato al passivo la sola eccedenza, specificando nella domanda le ragioni di tale richiesta. 
Secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la definitiva insinuazione del credito netto comporta il riconoscimento implicito della validità del titolo posto a fondamento della pretesa e dunque della causa parzialmente estintiva, con la conseguenza che il curatore non potrà rimetterla in discussione proponendo una separata azione revocatoria[40].  
Il presupposto dell’enunciato principio è che il giudicato endoconcorsuale, pur operando entro i confini della partecipazione alla distribuzione dell’attivo, si estende, per implicito, ad ogni questione relativa alla validità ed opponibilità alla massa del titolo da cui deriva il credito o il diritto oggetto di accertamento, sempre che essa ne costituisca l’antecedente logico giuridico necessario, il che comporta l’impossibilità che una siffatta questione sia rimessa in discussione dal curatore in un separato giudizio fra le medesime parti. 
Analogamente, ad esempio, il curatore non dovrebbe poter ricorrere alla cognizione ordinaria per far accertare una differente quantificazione dell’altrui credito rispetto all’importo già ammesso al passivo, ad esempio al fine di negarne in tutto o in parte la compensazione con il controcredito fatto valere in giudizio, ovvero al fine di negare una prelazione già riconosciuta[41]. 
In base allo stesso principio fin qui esposto, è stato, infatti, sostenuto che la curatela non possa contestare la validità di un mutuo ipotecario dopo la definitiva ammissione del credito da esso derivante con rango prelatizio[42]. 
Le precisazioni fornite rendono evidente come la questione della portata espansiva del giudicato endoconcorsuale viene ad essere di fatto ridimensionata. 
È del tutto conseguente, infatti, che nessun vincolo può derivarne rispetto all’accertamento di questioni giuridiche non presupposte, neppure per implicito, dal percorso logico che conduce alla decisione di ammissione di un credito o al riconoscimento di una pretesa restitutoria. 
Ad esempio, quando il credito insinuato sia determinato de residuo, ma non sul presupposto di una sua parziale estinzione per compensazione, bensì per mera decurtazione di pagamenti anteriormente eseguiti dal debitore nell’ambito di un rapporto continuativo (es. contratto di somministrazione), nessuna preclusione può subire il curatore nell’esperimento di un’azione revocatoria, poiché la validità degli atti estintivi e la loro opponibilità alla massa non è in tal caso oggetto dell’indagine demandata al giudice delegato, la cui decisione lascia impregiudicate le relative questioni[43]. 
Egualmente, non possono restare precluse le domande che il curatore può proporre in relazione al medesimo contratto da cui deriva il credito definitivamente insinuato, se esse non mettono in discussione la validità ed efficacia del titolo o la sua opponibilità alla massa, ma ineriscano ad una diversa pretesa negoziale fondata sul medesimo rapporto[44]. 
Caso del tutto peculiare è quello dell’eccezione c.d. riconvenzionale di compensazione, la quale come si è visto è proponibile dal curatore dinanzi al giudice delegato in sede di verifica, ma solo quale fatto impeditivo dell’insinuazione e non già al fine di ottenere la condanna della parte in bonis al pagamento dell’eccedenza. 
Stando al ragionamento sin qui esposto, l’eccezione di compensazione così proposta, se respinta, dovrebbe precludere al curatore di far valere in relativo credito in un separato giudizio, in quanto si porrebbe viceversa in discussione l’esistenza del credito concorsuale ormai definitivamente ammesso. 
Tuttavia, intanto il giudice delegato può pronunciarsi sull’eccezione del curatore, in quanto non occorra ulteriore indagine, essendo il credito opposto in compensazione munito dei requisiti di certezza, determinatezza ed esigibilità secondo quanto richiesto dall’art. 1243, comma 2, c.c.; viceversa il fatto impeditivo non può essere esaminato e l’eccezione di compensazione va dichiarata inammissibile, senza alcuna rilevanza in termini di giudicato, quando il controcredito sia controverso, ovvero sia già oggetto di un separato giudizio pendente fra le medesime parti.[45]
7 . L’efficacia esterna del giudicato sulle domande di rivendica e restituzione di beni
La riforma del 2006 ha attratto al procedimento di verifica, senza di distinzione a seconda che esse riguardino beni mobili o immobili[46], le domande di rivendica e di restituzione relative a beni mobili ed immobili, ed in sintesi: 
- le azioni reali, aventi ad oggetto l’accertamento del diritto di proprietà o di un diritto reale frazionario, compresa la domanda di usucapione, ove finalizzate ad ottenere la riconsegna della res; fra queste è espressamente menzionata quella prevista dall’art. 1706 c.c., relativa alla rivendica di beni mobili acquistati dal mandatario in nome proprio;
- le azioni personali, aventi ad oggetto l’accertamento del diritto personale del ricorrente ad ottenere la riconsegna della res, se detenuta dal debitore in forza di un titolo negoziale che è venuto meno per scadenza o risoluzione anteriore; 
- azioni costitutive aventi ad oggetto la caducazione del contratto traslativo che attribuisce al debitore la proprietà della res, se finalizzate ad ottenerne la restituzione, sempre che esse, come espressamente previsto per l’azione di risoluzione (art. 72, comma 5, L. fall.), siano opponibili alla procedura in quanto proposte prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente e, se relative ad immobili, siano state anche anteriormente trascritte[47]; 
- le azioni di accertamento della nullità, simulazione o inefficacia di un contratto traslativo che attribuisce al debitore la proprietà della res
Restano fuori da questo perimetro le sole azioni di esecuzione in forma specifica degli obblighi di contrarre, le quali, a condizione che siano state promosse anteriormente all’apertura del concorso e siano rese opponibili con la trascrizione della relativa domanda, ove relative ad immobili o mobili registrati, proseguono dinanzi alla giurisdizione ordinaria e precludono, se accolte, al curatore di sciogliersi dal rapporto.[48] 
La ragione dell’accorpamento in un unico procedimento di qualsivoglia azione che possa incidere sulla composizione della massa attiva della procedura è stata quella di favorire in sede di verifica “il controllo reciproco e avanti allo stesso giudice (in processo simultaneo) sulle disuguaglianze di trattamento, priorità e specialità di statuto legalmente previste”[49], dovendosi rilevare che le domande di rivendica e restitutorie risultano senz’altro antagoniste rispetto a quelle di insinuazione, in quanto finalizzate a sottrarre all’attivo della procedura un determinato bene e dunque ad impedirne la liquidazione, sicché, si afferma, esse hanno natura autosatisfattiva in caso di accoglimento della pretesa del ricorrente. 
La vis attractiva del procedimento di verifica sancita dalla legge fallimentare ha tuttavia inevitabilmente esteso alle decisioni relative alla titolarità di beni mobili ed immobili i limiti del giudicato endoconcorsuale, non essendo esse opponibili al debitore in considerazione della sua estraneità al giudizio di verifica[50]. 
Si aggiunga che, nel caso degli immobili, il sistema ordinario prevede che l’accertamento dei relativi diritti avvenga con strumenti che consentono di rendere la decisione opponibile non solo alle parti coinvolte nel giudizio, ma anche ogni soggetto terzo, finalità a cui rispondono le regole di pubblicità della domanda giudiziale e del provvedimento che conclude il giudizio, le quali risultavano tuttavia incompatibili con la disciplina del fallimento, stante la regola che sancisce la non opponibilità alla massa delle formalità compiute successivamente all’apertura del concorso[51]. 
Analoghe problematiche suscitavano le azioni costitutive relative ad immobili, la cui attrazione alla cognizione del giudice delegato, quando funzionali alla restituzione di beni trasferiti al fallito in forza del contratto impugnato, impediva al ricorrente vittorioso di rendere opponibile al decisione favorevole al debitore tornato in bonis ed ai terzi aventi causa di quest’ultimo, non essendo infatti consentita l’annotazione del provvedimento di accoglimento della domanda a margine dell’atto caducato successivamente all’apertura del fallimento.[52] 
La natura endoconcorsuale del giudicato sulle domande di rivendica e sulle quelle restitutorie conseguenti all’impugnazione di contratti traslativi della proprietà di beni comportava, dunque, nella disciplina della legge fallimentare, le seguenti rilevanti conseguenze: 
- il terzo rivendicante, pure in caso di accoglimento dell’istanza, non poteva ritenersi sottratto agli esiti di un’azione ordinaria promossa dal debitore tornato in bonis, così come da quella di eventuali terzi aventi causa di quest’ultimo; 
- nell’opposto caso di rigetto dell’istanza di rivendica o di restituzione del bene, l’istante, pur non potendo impedire la liquidazione del bene nell’ambito della procedura concorsuale, poteva però coltivare una separata azione giudiziale ordinaria volta ad accertare la non titolarità del bene in capo al debitore, ovvero agire direttamente nei confronti del terzo aggiudicatario, quale acquirente a non domino, esponendolo così a potenziale evizione, senza potersi vedere opporre il ne bis in idem[53]
Si aggiungeva poi che, pur quando fosse stata accertata in un siffatto giudizio esterno la proprietà aliena del bene, ove ne fosse nelle more intervenuta la liquidazione a causa della mancata sospensione delle vendite, l’avente diritto non avrebbe potuto neppure ottenere dai creditori la restituzione del ricavato, non operando nell’esecuzione collettiva la regola sancita dall’art. 2920 c.c. per le esecuzioni individuali, ma la diversa regola concorsuale che impedisce la ripetizione delle somme corrisposte in sede di riparto (art. 114 L. fall.)[54]. 
La legge delega per la riforma della disciplina della crisi d’impresa e dell’insolvenza, conscia di tali problematiche, ha richiesto che si assicurasse la stabilità delle decisioni sui diritti reali immobiliari, tanto di rigetto quanto di accoglimento. 
L’art. 204, comma 5, CCII ha inteso attuare la direttiva con la mera aggiunta dell’inciso che limita la natura meramente endoconcorsuale delle decisioni assunte dal giudice delegato o dal tribunale in sede di impugnazione “ai crediti accertati ed al diritto di partecipare al riparto quando il debitore ha concesso ipoteca a garanzia di debiti altrui”, lasciando dunque fuori da tale perimetro le pronunce di accoglimento o rigetto di domande di rivendica[55]. 
A rafforzare la volontà legislativa starebbe poi la previsione dell’art. 210, comma 3, CCII, dove è previsto che il decreto che accoglie la domanda di rivendica di beni o diritti il cui trasferimento è soggetto a forme di pubblicità legale deve essere reso opponibile ai terzi con le medesime forme. 
Si discute ancora, all’indomani della riforma, se il risultato di tale innovazione sia stato in effetti quello di attribuire a queste statuizioni l’idoneità al giudicato esterno, così da consentire che esse facciano stato ad ogni effetto nei confronti del debitore, di coloro che abbiano proposto domande di restituzione e rivendica, oltre che dei rispettivi aventi causa[56]. 
La regola dell’efficacia ex traconcorso delle decisioni assunte in sede di verifica, sia pure limitatamente alle sole domande di rivendica e restitutorie, evoca infatti inevitabilmente la questione della lesione del diritto di difesa del debitore, il quale subisce gli effetti di una decisione a cui non ha potuto partecipare in contraddittorio, oltre a rendere manifesta l’irragionevolezza della scelta di attribuire efficacia rafforzata ad un provvedimento giudiziale per il solo fatto che si riferisca alla rivendica o restituzione di beni immobili e mobili, benché esso sia stato reso all’esito di un procedimento con caratteristiche del tutto identiche a quello previste per le insinuazioni di crediti[57]. 
Al fine di ovviare alla problematica sopra evidenziata, che esponeva la norma al rischio di una possibile dichiarazione di incostituzionalità, il terzo correttivo al Codice della crisi, pur non esplicitando la vincolatività della decisione resa dal giudice delegato anche nei confronti del debitore, dovrebbe prevedere, all’art. 204, comma 5, CCII, la facoltà per quest’ultimo di intervenire nel procedimento di verifica oltre che di proporre l’impugnazione dello stato passivo. 
Ove si ritenesse non opponibile la decisione endoncorsuale al debitore tornato in bonis, non si vede del resto quale maggior vantaggio possa conseguire il ricorrente dalla pronuncia di accoglimento, considerato che gli effetti espansivi del giudicato endoconcorsuale rispetto alle azioni proponibili dal curatore, di cui si è parlato diffusamente nel procedente paragrafo, già sarebbero stati sufficienti ad evitare ogni iniziativa di quest’ultimo contrastante con gli esiti della decisione assunta dal giudice delegato in sede di verifica. 
Importante novità per il titolare del diritto rivendicato è la prevista trascrizione della decisione favorevole resa dal giudice concorsuale quale atto di accertamento del diritto di proprietà opponibile ai terzi, assicurando senz’altro tale innovativa forma di pubblicità la certezza dei successivi atti di disposizione del bene. 
Pur in mancanza di espressa previsione[58], si ritiene che analoga garanzia dovrebbe essere disponibile, in base alla nuova disciplina, anche coloro che abbiano promosso azioni caducatorie di un contratto traslativo di beni immobili o mobili registrati a fini restitutori, dovendo riconoscersi parimenti a questi soggetti la facoltà di annotare, a margine dell’atto reso inefficace, il provvedimento di risoluzione, rescissione, nullità, simulazione del contratto reso dal giudice delegato. 
Il nuovo impianto normativo offre, d’altro canto, una indubbia maggior protezione ai terzi aggiudicatari di beni immobili e mobili registrati, potendo essi opporre, ai sensi dell’art. 204, comma 5, CCII, il giudicato esterno formatosi sulla decisione assunta dal giudice delegato ai terzi che abbiano rivendicato o chiesto la restituzione dei beni in sede di verifica vedendosi respingere in via definitiva la relativa domanda. 
Si tratta però, anche in questo caso, di una tutela limitata, in quanto valevole solo nei confronti del soggetto che abbia effettivamente presentato l’istanza di rivendica o restitutoria, mentre nella diversa ipotesi in cui il diritto non sia stato fatto valere, ovvero la domanda sia stata dichiarata inammissibile perché proposta oltre i termini consentiti, l’esperimento dell’azione ordinaria esterna non sarebbe precluso, né l’aggiudicatario potrebbe in tal caso opporre al terzo l’ex ceptio iudicati.

Note:

[1] 
Il riferimento al deposito in cancelleria è evidentemente un refuso, atteso che ai sensi dell’art. 199 CCII è nel fascicolo informatico della procedura che devono essere contenuti tutti gli atti, compresi quelli del procedimento di accertamento del passivo (comma 4), sicché è escluso che debba provvedersi anche al deposito cartaceo. 
[2] 
Sebbene le norme omettano sovente di far esplicito riferimento, fra gli interessati, ai soggetti titolari di ipoteche iscritte contro il debitore a garanzia di debiti altrui, l’estensione a questi ultimi della legittimazione a partecipare al procedimento di verifica li pone esattamente nella medesima posizione dei creditori e dei titolari di diritti su beni del debitore, con conseguente riconoscimento dei medesimi poteri processuali. 
[3] 
Il carattere perentorio del termine di cui all’art. 49, comma 3, lett. d) CCII riferito allo svolgimento dell’udienza di esame delle domande entro e non oltre i centoventi giorni dal deposito della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, prorogabili a centocinquanta in caso di particolare complessità della procedura, non è infatti riferito al completamento, ma solo all’avvio delle attività di verifica. 
[4] 
Nel calcolo deve, peraltro, tenersi conto della prevista applicazione del periodo di sospensione feriale ex art. 201, comma 10, CCII che ha espressamente riconosciuto l’applicazione della sospensione feriale al giudizio di accertamento del passivo. 
[5] 
In senso contrario la circolare emanata dal Tribunale di Larino (27/03/2023), pubblicata su questa rivista, che esclude l’intenzione del legislatore di derogare al disposto dell’art. 10, comma 2, CCII con la previsione dell’art. 201 CCII. 
[6] 
E non più del giudice delegato, chiamato a redigerlo con la collaborazione del curatore, come invece prevedeva il testo della legge fallimentare prima della riforma del 2006. 
[7] 
L’art. 222 CCII esclude la necessità di sottoporre al giudizio in sede di verifica i crediti prededucibili incontestati per collocazione ed ammontare, anche se sorti durante l’esercizio dell’impresa del debitore, e quelli sorti a seguiti di provvedimenti di liquidazione dei compensi di professionisti nominati nell’interesse della procedura (delegati e coadiutori). Tali crediti, dunque, concorrono nella distribuzione dell’attivo, pur non essendo oggetto di accertamento in sede di verifica (esenzione dal concorso formale), ma soltanto se incontestati, mentre vanno inclusi nel progetto di stato passivo quando sia controversa la natura prededucibile ovvero la loro quantificazione. Altro vantaggio di cui godono i crediti prededucibili incontestati, ma alla sola condizione che siano sorti nel corso della procedura e che l’attivo realizzato sia presumibilmente sufficiente a soddisfare tutti i crediti prededucibili già maturati, è che possono essere soddisfatti al di fuori del procedimento di riparto (esenzione dal concorso sostanziale), dovendo, viceversa, in caso di attivo insufficiente, essere “annotati” al passivo, comunque senza necessità di verifica, per essere poi soddisfatti secondo criteri di proporzionalità e graduazione. 
[8] 
Va segnalato, a tale riguardo, l’orientamento che vuole attratte alla cognizione endoconcorsuale anche le questioni contrattuali di natura costitutiva (es. risoluzione) se relative a contratti ad effetti reali e prodromiche alla pretesa restitutoria o risarcitoria avanzata dal creditore in sede di insinuazione e sempre che la relativa domanda, laddove relativa a beni immobili, sia stata resa opponibile con la trascrizione anteriore all’apertura del concorso (Cass. 7 febbraio 2020, n. 2991). 
[9] 
Nonché, con l’entrata in vigore del terzo correttivo al Codice della crisi, anche il titolare di pegno su beni mobili posti a garanzia di debiti altrui. 
[10] 
La norma potrebbe, invero, essere diversamente interpretata, nel senso che vada riferita esclusivamente all’impugnazione incidentale promossa dal creditore, onde evitare che quest’ultimo possa, con tale mezzo, estendere l’oggetto della propria pretesa oltre i limiti della domanda originaria. Tuttavia, una simile opzione ermeneutica parrebbe priva di utilità, in quanto la giurisprudenza ha pacificamente ritenuto che il divieto di proporre domande nuove opera anche nel giudizio di impugnazione dello stato passivo. 
[11] 
Il Codice della crisi conferma, dunque, la scelta del correttivo alla riforma del 2006 (D.Lgs. n.  169/2007), il quale ebbe ad eliminare, dall’art. 96, comma 1, L. fall., l’inciso secondo cui la decisione motivata del giudice delegato era richiesta solo in presenza di contestazioni da parte del curatore sulla domanda proposta, abrogando anche, in perfetta coerenza, il discusso disposto dell’art. 99, comma 10, L. fall., che a sua volta sanciva l’ammissione da parte del Tribunale delle domande impugnate ove non fossero contestate dal curatore o dai creditori intervenuti. 
[12] 
Oltre al caso dei crediti prededucibili incontestati, va menzionata un’altra peculiare fattispecie di soddisfazione del diritto fuori concorso, vale a dire quella prevista dall’art. 196 CCII, relativa alla restituzione di beni mobili su cui i terzi vantino diritti reali o personali chiaramente e immediatamente riconoscibili, nel qual caso, però, oltre al consenso del curatore occorre anche acquisire il parere del C.d.C.
[13] 
Si tratta di una soluzione normativa evidentemente giustificata dalle necessità di assicurare la stabilità delle decisioni in vista del successivo riparto, che tuttavia non è affatto scontata, posto che nella procedura di insolvenza dedicata alle imprese minori, ovvero la liquidazione controllata, è stata scelta, di contro, una modalità semplificata, la quale prevede la sottoposizione al giudice delegato delle domande per le quali siano sorte ragioni insuperabili di contestazione, dovendo dunque escludersi fino alla decisione sulle stesse che lo stato passivo possa assumere carattere definitivo (art. 271, comma 5, CCII). Nella liquidazione coatta amministrativa, invece, lo stato passivo, formato dal commissario liquidatore in via amministrativa, diviene definitivo anche se le eventuali contestazioni restino insuperate, essendo onere del creditore escluso, ovvero del titolare di diritti la cui domanda di rivendica o restituzione è stata respinta, adìre l’autorità giudiziaria con l’opposizione allo stato passivo (art. 310, comma 2, CCII). 
[14] 
Così, di recente, Cass. ord. 9 maggio 2022, n. 14589, secondo cui in tema di opposizione allo stato passivo, il principio di non contestazione di cui all'art. 115 c.p.c. si applica anche al curatore fallimentare costituito, ancorché questi non abbia la disponibilità dei diritti della massa, in quanto la non contestazione non è equiparabile alla confessione e non implica la disposizione dei diritti, ma costituisce un fatto processuale che opera ai soli fini della delimitazione del "thema probandum" (c.d. "relevatio ab onere probandi"). Nella specie il giudice di merito aveva escluso il diritto del professionista alla prededuzione per l’attività prestata prima del fallimento in funzione della presentazione del concordato preventivo, assumendo la mancanza di prova di deposito della relativa domanda, senza tuttavia considerare che il curatore non aveva contestato la circostanza, peraltro pienamente rientrante nel suo patrimonio conoscitivo. 
[15] 
Occorre ancora considerare che il procedimento di verifica è connotato da un contraddittorio plurimo ed incrociato che consente a ciascuna delle altre parti, pure in caso di mancata contestazione da parte del curatore, di sollevare eccezioni e contestazioni in relazione all’altrui diritto. 
[16] 
Analogamente la giurisprudenza ritiene non ostativa alla successiva opposizione allo stato passivo la mancata formulazione di osservazioni da parte del creditore o titolare di diritti. Così decr. Trib. Udine 21 maggio 2010, in Il fall. 3/2011, 365 e ss. con nota adesiva di G. Trisorio Luzzi “Progetto di stato passivo, assenza di osservazioni e opposizione”, nella quale si dà conto anche di un opposto orientamento del decr. Trib. Aosta 18 novembre 2008, sul presupposto che la necessità per i creditori di presentare osservazioni già nella fase di verifica assolverebbe a scopi deflattivi del successivo contenzioso. 
[17] 
Osserva, infatti, M. Russo “Sull’applicabilità dell’onere di contestazione alle difese processuali del curatore fallimentare”, in Il Fall. 12/2022, 1550, che in questi casi sostenere la necessità per il giudice di ritenere vera una circostanza smentita dalle altre risultanze istruttorie equivarrebbe a rinunciare ad un processo giusto, ovvero dotato degli strumenti più idonei, almeno astrattamente, alla ricerca della verità materiale dei fatti di causa. 
[18] 
Cass. S.U. 20 febbraio 2013, n. 4213. 
[19] 
La questione della data certa potrebbe non essere decisiva ai fini dell’esclusione del credito, in quanto la prova dell’esistenza del rapporto anteriormente all’apertura del concorso è ricavabile aliunde, anche per testi o per presunzioni, salvo non si verta in tema di atto contratto, per il quale cioè è richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, nel qual caso l’assenza prova della data certa si riflette sulla stessa opponibilità del titolo. Si veda Cass. 16 novembre 2022, n. 33724, che, con riferimento alla prova certa del credito risultante dal saldo negativo di un conto corrente, ha ritenuto non sufficiente la produzione degli estratti conto spediti al correntista in costanza del rapporto, occorrendo, invece, necessariamente la produzione in giudizio della scrittura munita di data certa, trattandosi di contratto a forma vincolata ad substantiam; egualmente Cass. 14 dicembre 2022, n. 36602 ha ritenuto che, in mancanza di un documento avente data certa che provi l’anteriorità della fonte negoziale, il giudice non può ammettere il credito derivante da un rapporto di conto corrente neppure epurando il relativo saldo dei soli effetti derivanti dalle clausole contrattuali accessorie, precisando con estrema chiarezza quanto segue “l'inopponibilità di cui all'art. 2704 c.c. non riguarda il negozio, ma la data della scrittura e non attiene all'efficacia dell'atto, ma alla prova di esso che si intende dare a mezzo del documento; il negozio e la sua stipulazione in data anteriore al fallimento possono conseguentemente essere oggetto di prova, prescindendo dal documento, con tutti gli altri mezzi consentiti dall'ordinamento, salve, però, le limitazioni derivanti dalla natura e dall'oggetto del negozio stesso”. 
[20] 
La giurisprudenza successiva alla pronuncia delle Sezioni Unite appare, del resto, orientata nel senso che, a fronte di una specifica contestazione del curatore, sia la parte a dover fornire la prova della data certa in cui il negozio è stato concluso, la quale può essere fornita, in caso di contratto che non richieda la forma scritta ad substantiam, anche deducendo e provando circostanze diverse da quelle tipizzati dall’art. 2704 c.c., con il solo limite del “carattere obiettivo del fatto”, che non deve essere riconducibile al soggetto che lo invoca e deve essere, altresì, sottratto alla sua disponibilità (Cass. 22 marzo 2024, n. 7753 relativo ad un contratto d’appalto). 
[21] 
La giurisprudenza ha ribadito che il curatore può legittimamente sollevare l’eccezione di prescrizione presuntiva, la quale, diversamente da quella estintiva, presuppone l’affermazione dell’avvenuto pagamento e non già della sua inesigibilità. Qualche dubbio al riguardo era sorto in quanto l’unico rimedio processuale disponibile al creditore nei cui confronti è sollevata tale eccezione, ovvero il deferimento del giuramento decisorio, pareva a taluni incompatibile con la posizione del curatore, soggetto privo della disponibilità dei diritti della massa. Al riguardo è stato però, giustamente, evidenziato che la disponibilità del diritto è condizione richiesta per deferire il giuramento e non già per prestarlo, essendo invece al riguardo sufficiente che il soggetto a ciò tenuto abbia anche solo la conoscenza di un fatto altrui (c.d. giuramento de notitia o de scientia). Onde assicurare la parità delle armi processuali, si è affermato, di recente, che la dichiarazione del curatore di non avere conoscenza del pagamento deve necessariamente equivalere al rifiuto di prestarlo e dunque a soccombenza, analogamente a quanto previsto per il giuramento de veritate e diversamente da quanto avviene per il giuramento de scientia (Cass. 27 giugno 2022, n. 20602). 
[22] 
Il suddetto principio risponde all’esigenza di deflazionare il contenzioso, evitando che, a fronte di una situazione in cui il rapporto potenzialmente controvertibile sia rimasto inattuato, ovvero in presenza di una situazione compatibile con quella che si avrebbe all’esito di un giudizio vittorioso, la parte titolare del potere di azione, diretto a far valere l’invalidità di un contrato o l’inesigibilità di un titolo, sia forzata ad attivarsi comunque per non perdere la relativa potestà processuale, non potendo più farla valere ope exceptionis. Si è ritenuto che la disposizione che consente di sollevare l’eccezione pure in caso di prescrizione dell’azione, vada estesa riferita anche al termine di decadenza per l’esperimento della revocatoria previsto dall’art. 69 bis L. fall., atteso che viceversa sarebbe inapplicabile, prevedendo la citata norma (nel testo anteriore alla riforma del Codice della crisi) solo “termini di decadenza” (Cass. 15 febbraio 2023, n. 4777). Si deve osservare che l’art. 170 CCII, pur conservando la previsione di un doppio termine entro il quale la revocatoria può essere attivata dal curatore (tre anni dall’apertura della liquidazione giudiziale e cinque anni dal compimento dell’atto revocabile), ha qualificato il primo come decadenziale ed il secondo come prescrizionale, e tuttavia le medesime esigenze espresse dalla giurisprudenza anteriore porterebbero a ribadire, nell’attuale assetto normativo, che la revocatoria sollevata in via di eccezione resta insensibile ad entrambi i termini. Così M. MONTANARI “La sopravvivenza dell’eccezione revocatoria all’estinzione per decadenza del corrispondente potere di azione”, in Il fall. 5/2023, 619 e ss. 
[23] 
È pressoché pacifico che l’espressione “documenti integrativi” non pone limiti alle prove precostituite che possono esser fornite a sostegno della domanda anche in questa fase, dovendo la formula intendersi riferita ad una qualsiasi integrazione rispetto alla produzione allegata al ricorso introduttivo e non già solo alle prove contrarie rispetto alle allegazioni e prove poste dal curatore a sostegno delle proprie difese ed eccezioni. La conferma dell’assenza di ogni decadenza in relazione alla produzione di documenti si desume, inoltre, sul piano sistematico dalla disposizione dell’art. 204, comma 2, lett. b) CCII, che, nel consentire al creditore non in grado di produrre i documenti costituenti il titolo del proprio credito per causa non imputabile di richiedere l’ammissione del credito con riserva, conferma, a contrario, che, laddove la prova possa essere già prodotta in udienza, non occorra accertare le condizioni per la rimessione in termini ai sensi dell’art. 153, comma 2, c.p.c.. 
[24] 
Cass. 5 marzo 2015, n. 4524, con riferimento all’eccezione revocatoria ordinaria proposta in via breve da un creditore in sede di impugnazione dello stato passivo, finalizzata ad escludere la garanzia ipotecaria di un finanziamento bancario utilizzato per trasformare un credito chirografario in prelatizio. L’eccezione di difetto di legittimazione del creditore sollevata dalla banca resistente è stata respinta sul presupposto che “una volta dichiarato esecutivo lo stato passivo, l'inerzia del curatore, che abbia omesso di far valere in via di eccezione, nella sede di verifica a ciò deputata, l'inefficacia dell'atto dal quale deriva il credito o la garanzia ad esso connessa, o che non abbia impugnato il provvedimento di rigetto dell'eccezione assunto dal G.D., finirebbe col pregiudicare le ragioni degli altri, incolpevoli, creditori”. Da tale assunto deve trarsi conferma della tesi secondo cui l’interesse tutelato in sede di verifica non è già, o meglio non è tanto, quello al riconoscimento del diritto del singolo partecipante, ma quello alla migliore partecipazione alla distribuzione dell’attivo, potendosene, dunque ricavare anche la legittimazione di ciascuno a contrastare le domande di rivendica o restitutorie, in quanto idonee di per sé a diminuire le prospettive della liquidazione. 
[25] 
La giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni chiarito che il regime delle preclusioni relative alle eccezioni in senso stretto nel procedimento ex artt. 98 e ss. L. fall. è speciale e non parificabile a quello del giudizio d’appello, sicché deve distinguersi a seconda che l’eccezione stessa sia stata sollevata ed esaminata nel procedimento di verifica, ovvero non sia stata ivi proposta: a) nel primo caso il curatore è tenuto a reiterare l’eccezione, tempestivamente costituendosi in sede di opposizione, ma solo nell’ipotesi in cui la questione sia stata disattesa dal giudice delegato, potendo unicamente in tal caso operare il principio di acquiescenza ricavabile dall’art. 346 c.p.c., mentre, laddove l’eccezione sia stata accolta, il giudice dell’opposizione dovrà riesaminare la stessa anche in caso di contumacia del curatore, non potendo da tale condotta processuale dedursi una rinuncia alla proposta contestazione (Cass. 14 settembre 2022, n. 27113); b) nel secondo caso, non operando preclusioni di sorta, il curatore ha facoltà di proporre, ovviamente costituendosi, ogni nuova eccezione che non abbia già sollevato in sede di verifica, salva la tutela del contraddittorio processuale (cfr. in termini anche Cass. 6 ottobre 2020, n. 21490, la quale peraltro aggiunge al principio espresso, da ritenersi consolidato, l’ulteriore fondamentale considerazione, su cui si ritornerà nel testo, che laddove il giudice delegato abbia ammesso parzialmente un determinato credito il curatore che intenda contestarlo dovrà proporre a propria volta impugnazione onde non risultare acquiescente, valendo anche nei suoi confronti il giudicato endofallimentare). 
[26] 
Prorogabile fino a dodici mesi in caso di particolare complessità della procedura con la stessa sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale (art. 208, comma 1, CCII). 
[27] 
Si distingue perciò fra domande «nuove» e domande solo «modificate», che non aggiungono un nuovo petitum slegato dalla vicenda sostanziale (del tipo: «allora ti chiedo anche»), ma sostituiscono quello originario per alternatività o incompatibilità (c.d. complanari) (SSUU 12310/2015; SSUU 22404/2018). 
[28] 
Si ascrive all’indirizzo restrittivo Cass. 27 dicembre 2022, n. 37802: nella fattispecie in esame un creditore aveva insinuato al passivo il proprio credito, in parte a titolo di compenso professionale ed in parte a titolo di Iva, quindi, a seguito delle contestazioni mosse dal curatore nel progetto di stato passivo sulla non applicabilità dell’imposta, aveva modificato la richiesta escludendo quest’ultima, poiché non dovuta, ma incrementato al contempo la misura del compenso; la motivazione del giudice delegato, che aveva escluso il maggior credito in quanto cristallizzato dalla domanda di insinuazione senza possibilità di successiva modifica, è stata confermata dal giudice di legittimità, sul presupposto della immutabilità degli elementi costitutivi della domanda in sede di osservazioni, essendo esse destinate alle sole precisazioni ed integrazioni, ma sempre “all’interno del perimetro tracciato dai fatti allegati”, salva la facoltà, sempre esercitabile dal ricorrente, di ridurre la pretesa originaria. 
[29] 
Si ascrive all’indirizzo estensivo Cass. 28 gennaio 2021 n. 1826, che ha consentito al creditore che abbia presentato domanda di insinuazione fondata su un titolo di credito scaduto (azione cartolare) di modificare la domanda in sede di opposizione allo stato passivo richiedendo l’ammissione del credito in forza del rapporto causale sottostante, ponendosi, peraltro, sulla scia di un orientamento riferito al giudizio ordinario, secondo cui non si ha in tal caso una mutatio libelli, ma una mera emendatio, atteso che l’azione cartolare comporta l’implicita proposizione anche dell’azione causale, vista l’unitarietà della vicenda giuridica che coinvolge le medesime parti. Al medesimo filone interpretativo parrebbe richiamarsi Cass. 31 gennaio 2022, n. 2899, avendo la pronuncia affermato che il creditore può, per la prima volta in sede di udienza di verifica, allegare una ragione di prededucibilità del proprio credito non menzionata espressamente nella domanda di insinuazione, sempre che i fatti costitutivi della prededuzione siano stati, come nel caso esaminato, già “tempestivamente allegati nella domanda, mancando solo una loro formale traduzione giuridica”, aggiungendo pure che il potere di precisare l’oggetto di insinuazione non si consuma con le osservazioni, ma all’udienza di verifica in quanto è in quella sede che “il thema decidendum si cristallizza, secondo i principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato (fatte salve le eccezioni rilevabili d’ufficio), anche all’esito del contraddittorio incrociato con tutti gli altri creditori” . 
[30] 
Cfr. Cass. 15 luglio 2011, n. 15702, che ha evidenziato come la richiesta di un privilegio per la prima volta formulata con istanza successiva al deposito della domanda di insinuazione ed al deposito del progetto di stato passivo comporta l’allegazione di una nuova causa petendi (accertamento di un titolo diverso rispetto al semplice diritto di credito chirografario) e di un nuovo petitum (richiesta di collocazione privilegiata), inammissibile in sede di formulazione delle osservazioni ed a fortiori in sede di opposizione allo stato passivo, non solo in ragione della perentorietà del termine per il deposito delle domande tempestive, ma altresì della considerazione che, ritenere possibile l’indicazione successiva di una prelazione non richiesta, comprometterebbe il pieno contraddittorio, non consentendo alle altre parti di contestare le ragioni fatte valere e di opporsi ad insinuazioni che possono in concreto svantaggiarle nella distribuzione dell’attivo. 
[31] 
Per Cass. 4 maggio 2012, n. 6800 ai fini del riconoscimento del privilegio è sufficiente che nel ricorso originario, oltre alla richiesta di ammissione con rango privilegiato, fosse sufficientemente specificata la causa del credito, nella specie rappresentata dal pagamento di imposte erariali e delle addizionali dovute agli enti locali, essendo dunque irrilevante l’indicazione generica del tipo di privilegio spettante. Un caso del tutto peculiare particolare è poi quello dei privilegi speciali e delle altre prelazioni che si esercitano su un bene determinato (ipoteca e pegno), per i quali è richiesto, egualmente a pena di ammissione in chirografo, che la domanda contenga “la descrizione del bene”, nel qual caso la giurisprudenza propende per una soluzione piuttosto elastica che considera sufficiente ad integrare il requisito di determinatezza la possibilità di identificazione sulla base non solo del contenuto del ricorso, ma anche dei documenti ad esso allegati (v.si Cass. 13 dicembre 2019, n. 33008, che ha valorizzato la circostanza dell’identificabilità del bene oggetto del mutuo ipotecario mediante consultazione del contratto allegato alla domanda). 
[32] 
Arg. ex Cass. 14 febbraio 2023, n. 4632, che sarà più avanti richiamata nel testo della presente relazione.
[33] 
Cfr. Cass. 16 ottobre 2020, n. 22611. Dalla inidoneità del decreto di ammissione del credito al passivo a produrre effetti vincolanti per il debitore, si è tratto peraltro argomento al fine di ritenere che quest’ultimo possa viceversa subire, anche durante il concorso, le conseguenze della mancata riassunzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo anteriormente proposto ed interrottosi per effetto della dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che egli è legittimato a coltivare il giudizio di opposizione al fine di evitarne l’estinzione e dunque il prodursi dell’effetto di irrevocabilità del provvedimento monitorio (Cass. 13 ottobre 2020, n. 22047). Entrambe le pronunce sono commentate da A. Farolfi “Brevi note sull’efficacia (esclusivamente) endofallimentare delle risultanze dello stato passivo”, in Il fall. 2/2021, 175 e ss. 
[34] 
L’espressione che meglio chiarisce l’oggetto del procedimento di verifica dello stato passivo è quella che lo identifica con “il diritto soggettivo nella sua porzione concorsuale”, facendone desumere che l’accertamento del diritto soggettivo è sempre funzionale alla ripartizione dell’attivo realizzato nella procedura, senza poter spiegare effetti nei confronti di terzi estranei. 
[35] 
Così Cass. 14 febbraio 2023, n. 4632, che, nel ricordare come il giudicato sul credito chirografario si estende anche all’inesistenza della causa di prelazione, in quanto fatto deducibile e non dedotto, ha chiarito che la parte dispone della situazione sostanziale di cui è titolare, ma non dell’oggetto del processo, sicché non può rinunciare al giudicato già formatosi per chiedere al giudice una nuova e diversa decisione. A tal fine, la Corte di Cassazione distingue la rinuncia agli atti del processo intervenuta prima della decisione giudiziale, consentita ed idonea a favorire la ripresentazione del medesimo ricorso, dalla rinuncia alla domanda, ove successiva alla formazione del giudicato, la quale comporta la dismissione del diritto di partecipazione al concorso e, conseguentemente, la sopravvenuta esclusione del creditore dal riparto, salva la persistente titolarità del credito nei confronti del debitore tornato in bonis. In senso contrario si era espressa la Corte di Cassazione in un caso precedente, in cui il credito, già rinunciato dalla parte insinuatasi al passivo, era stato nuovamente fatto valere dal cessionario, avendo rilevato che la rinuncia all’ammissione non si configura come abdicazione sostanziale al credito, ma ammette la riproposizione della medesima domanda come consentito in termini generali dall’art. 310 c.p.c. che afferma il principio di autonomia dell’azione rispetto al giudizio (Cass. 19 gennaio 2016, n. 814). L’orientamento espresso nella più recente pronuncia è condiviso da L.A. Bottai “Ancora sull’efficacia (non più solo) endoconcorsuale degli accertamenti dello stato passivo e delle rivendiche, alla luce del Codice della crisi”, in Il fall. 7/2023, 922 e ss., il quale giustamente rileva che l’art. 310 c.p.c., pur affermando che l’estinzione del processo non estingue l’azione, statuisce altresì che l’effetto estintivo non travolge le decisioni di merito medio tempore assunte. 
[36] 
Tale principio riguarda i fatti giustificativi del medesimo credito per il quale l’istante ha agito, ma non fatti ulteriori benché dipendenti dal medesimo titolo, come accade nell’ipotesi in cui, con separata domanda tardiva, sia richiesta la partecipazione al concorso per gli interessi moratori sul capitale già insinuato, essendo tale domanda basata su una diversa causa petendi, vale a dire il ritardo nell’adempimento. In tal senso, Cass. S.U. 26 marzo 2015, n. 6060, che evidenzia come in materia di diritti eterodeterminati è la causa del credito ad identificare la domanda, sicché non può non evidenziarsi che la pretesa relativa agli interessi moratori è fondata su una ragione di credito diversa, il ritardo nell’adempimento, ma precisa come, per contro, il debito per interessi rientra nel perimetro del giudicato già formatosi quando esso è inscindibilmente legato alla sorte capitale, al punto da poter essere liquidato anche d’ufficio senza rischio di ultrapetizione, come nel caso di credito da lavoro subordinato o di credito risarcitorio da illecito aquiliano. 
[37] 
Cass. 21 giugno 2017, n. 25640 ha ad esempio ritenuto che il credito insinuato da SACE in via chirografaria, in conseguenza dell’avvenuta escussione della garanzia a sostegno dell’impresa fallita ed in surroga rispetto alla banca, non ammette una successiva ammissione in privilegio, non avendo fondamento l’assunto della ricorrente che quest’ultimo, ai sensi dell’art. 9 D.Lgs. n. 123/1998, spetta solo dopo l’avvenuta revoca del beneficio all’esito dei controlli sulla mancata esecuzione del programma finanziato, atteso che i presupposti della decadenza si erano anteriormente verificati e che, al più, il creditore avrebbe potuto, in attesa delle verifiche da compiere, chiedere l’ammissione con riserva relativa al privilegio. 
[38] 
Cfr., al riguardo, Cass. 22 febbraio 2019, n. 5341, che estende anche alla prelazione ipotecaria le conclusioni espresse da Cass. S.U. 16060/2001 a proposito del privilegio speciale, escludendo che un creditore ammesso in chirografo possa far valere la prelazione ipotecaria con domanda tardiva sul presupposto della successiva acquisizione dell’immobile all’attivo della procedura (ad es. all’esito di un’azione revocatoria). 
[39] 
Si pensi al caso di prestazioni ulteriori derivanti dal medesimo contratto di durata, ma inerenti ad altro segmento temporale del rapporto, come nel caso di credito per ulteriori mensilità retributive chieste dal lavoratore già insinuatosi per le altre mensilità e per il T.f.r. e benché nel calcolo di quest’ultimo si sia tenuto conto anche delle somme successivamente richieste (Cass. 7 dicembre 2011, n. 26377). 
[40] 
Cass. S.U. 14 luglio 2010, n. 16508. La fattispecie era la seguente: un istituto di credito aveva proposto domanda di insinuazione al passivo per un importo depurato degli accrediti eseguiti sul conto corrente nel c.d. periodo sospetto, e ciò sul presupposto della ritenuta opponibilità della compensazione parzialmente estintiva alla massa dei creditori. La successiva azione revocatoria del curatore, volta ad ottenere la dichiarazione di inefficacia della compensazione e la restituzione delle somme accreditate, è stata ritenuta dalla Suprema Corte preclusa, atteso che il giudicato endofallimentare deve intendersi esteso a tutte le questioni pregiudiziali inerenti alla validità, efficacia ed opponibilità del titolo fatto valere dal creditore e come tale ed opposto in compensazione. 
[41] 
Se ne ricava la diversa tenuta dello stato passivo, in quanto atto giudiziale idoneo al giudicato, rispetto all’elenco dei creditori redatto in via amministrativa dal commissario giudiziale del concordato preventivo, atteso che quest’ultimo, pur cristallizzando l’entità del passivo ai fini del calcolo delle maggioranze, è sempre modificabile in base ai diversi esiti di giudizi ordinari successivamente definiti. Al riguardo, Cass. 25 settembre 2014, n. 20298, ha chiarito che “la sentenza di omologazione del concordato preventivo, per le particolari caratteristiche della procedura che ad essa conduce, determina un vincolo definitivo sulla riduzione quantitativa dei crediti, ma non comporta la formazione di un giudicato sull'esistenza, entità e rango (privilegiato o chirografario) di questi ultimi, né sugli altri diritti implicati nella procedura stessa, presupponendone un accertamento non giurisdizionale ma meramente amministrativo, di carattere delibativo e volto al solo scopo di consentire il calcolo delle maggioranze richieste ai fini dell'approvazione della proposta, sicché non esclude la possibilità di far accertare in via ordinaria, nei confronti dell'impresa in concordato, il proprio credito ed il privilegio che lo assiste”. 
[42] 
V. sul tema Cass. 20 settembre 20416, n. 2006. A conclusioni verosimilmente analoghe dovrebbe, perciò, giungersi nell’ipotesi in cui sia stato ammesso il credito risultante quale saldo passivo di un rapporto di conto corrente e successivamente sia contestata la validità di clausole del contratto di apertura di credito regolato sul medesimo conto che abbiano concorso a determinare la formazione del saldo passivo finale. Se poi la questione di nullità del titolo negoziale su cui è fondata la pretesa insinuazione sia oggetto di un giudizio già pendente in primo grado promosso o proseguito dalla curatela, il credito non potrà essere ammesso, neppure con riserva, ma si verificherà una condizione di pregiudizialità in senso tecnico, non risolvibile in sede di insinuazione, salva la sospensione del successivo giudizio di opposizione allo stato passivo. In questa direzione sembra andare Cass. ord. 5 gennaio 2023, n. 270, che, pronunciandosi in sede di regolamento di competenza avverso l’ordinanza di sospensione di un giudizio di opposizione allo stato passivo, ha ritenuto non sussistente la condizione di pregiudizialità ma solo perché nel giudizio esterno, asseritamente pregiudicante la decisione sull’ammissione di un credito da finanziamento, il tema della nullità era stato posto dal curatore in via incidentale e non come questione principale.
[43] 
Cass. 18 maggio 2005, n. 10429. 
[44] 
Coerente con questa conclusione pare Cass. 3 dicembre 2020, n. 27709. Nella fattispecie, relativa ad un contratto di leasing anteriormente risolto, la società concedente si era vista respingere l’istanza di ammissione del credito per canoni residui insoluti, in quanto il giudice delegato, qualificato il leasing come traslativo, aveva ritenuto applicabile l’art. 1526 c.c., nonostante la prevista deroga contrattuale, e ritenuto che la ricorrente dovesse invece restituire i canoni già versati.  Nel successivo giudizio promosso dal curatore, quest’ultimo riteneva che sulla questione della natura del leasing e dell’inoperatività della clausola si fosse formato un giudicato, conclusione disattesa invece dalla Suprema Corte sul presupposto contrario che tale domanda era estranea all’oggetto della pronuncia assunta in sede di verifica, sicché se ne richiedeva un nuovo accertamento. 
[45] 
Come chiarito da Cass. 15 aprile 2019, n. 10528, richiamando sul punto le conclusioni di Cass. S.U. 15 novembre 2016, n. 23225. Nel caso di specie trattavasi di controcredito risarcitorio asseritamente nascente da una presunta attività di indebita direzione e coordinamento della fallita svolta dall’istituto di credito che aveva proposto domanda di insinuazione. 
[46] 
Il testo anteriore della legge fallimentare limitava, invece, l’oggetto della cognizione in sede concorsuale ai soli diritti relativi a beni mobili. Lo scopo perseguito dal legislatore, con la modifica apportata all’art. 103 L. fall. (e quella ad essa correlata dell’art. 24 L. fall.) consistita nell’estensione dell’accertamento ai diritti relativi ad immobili, era quello di concentrare nell’unico procedimento di verifica ogni questione che potesse incidere non solo sull’entità del passivo, ma anche sulla composizione dell’attivo da liquidare, realizzando così anche la finalità, determinata dalla maggiore speditezza del giudizio endoconcorsuale, di non esporre la procedura alle lungaggini di un accertamento demandato ad un giudizio di cognizione ordinaria esterno alla procedura 
[47] 
Secondo Cass. 3 dicembre 2020, n. 27709, sono attratte alla cognizione del giudice delegato le questioni contrattuali di natura costitutiva (es. risoluzione), ove prodromiche alla pretesa restitutoria o risarcitoria avanzata dal creditore in sede di insinuazione, sicché il relativo giudizio, in caso di intervenuto fallimento, non può proseguire dinanzi alla cognizione ordinaria. La giurisprudenza ha peraltro ribadito più volte che le domande di risoluzione di contratti traslativi della proprietà immobiliare (vendita, permuta, donazione) sono opponibili alla massa a condizione che risultino trascritte anteriormente (c.d. domande quesite), non essendo consentita la loro presentazione per la prima volta dopo l’apertura del concorso con la domanda di restituzione, anche laddove si facciano valere ragioni di inadempimento anteriore o l’intervenuta operatività di un clausola risolutiva, e ciò a cagione della prevalenza, sancita dall’art. 45 L. fall., delle ragioni di cristallizzazione della massa attiva della procedura (cfr. Cass. 15 febbraio 2011, n. 3278).  
[48] 
Cass. S.U. 16 settembre 2015, n. 18131. Se poi il contratto sia proseguito dalle parti per effetto del subentro obbligatorio del curatore nella posizione del promissario alienante, come nelle speciali ipotesi di cui all’art. 72, comma 8, L. fall., può discutersi se l’acquirente debba proporre, a fronte del mancato spontaneo adempimento all’obbligo di trasferimento, domanda di rivendica, soluzione che, oltre ad essere giustificata dall’analogo rimedio riconosciuto al mandante ai sensi dell’art. 1706, comma 2, c.c., appare confermata, nel Codice della crisi, dal disposto dell’art. 172, comma 3, CCII. 
[49] 
Cass. S.U. 23 febbraio 2023, n. 5694, relativa all’inopponibilità degli accertamenti dei crediti compiuti da arbitri se intervenuti dopo l’apertura del concorso ed in assenza di subentro da parte del commissario liquidatore nel contratto che prevede la clausola arbitrale, nella cui motivazione si riconduce al principio di esclusività e alle ragioni di concentrazione dell’accertamento in seno alla procedura di insolvenza anche l’attrazione al giudizio di verifica delle domande di accertamento che siano strettamente funzionali ad una successiva insinuazione al passivo, come nel caso della domanda di risoluzione che costituisca l’antecedente logico-giuridico di quella risarcitoria o restitutoria. 
[50] 
Diversamente da quanto avviene per l’opposizione di terzo all’esecuzione individuale, la quale prevede il litisconsorzio necessario del debitore esecutato. 
[51] 
La dottrina non aveva mancato di rilevare il sostanziale deterioramento di tutele a cui si è sottoposto il titolare di diritti reali su beni appresi alla massa fallimentare, determinato dall’efficacia meramente endofallimentare dell’accertamento compiuto dal giudice delegato e della sua inopponibilità al debitore e a terzi estranei alla procedura, tanto da spingere taluni interpreti a ritenere che la regola dell’art. 96, comma 6, L. fall. non fosse applicabile alle domande di accertamento della proprietà immobiliare, le quali richiedono pur sempre la trascrizione del provvedimento giudiziale. Si è altresì osservato che non può estendersi alle domande di rivendica e restitutorie relative ad immobili il regime probatorio limitato previsto dall’art. 621 c.p.c., in quanto espressamente riferito ai soli beni mobili. Inoltre si è evidenziato che neppure può estendersi ai diritti reali o personali relativi ad immobili la disposizione che prevede, in caso di mancata acquisizione del bene all’attivo, la modifica della domanda restitutoria in pretesa di pagamento del controvalore, con la conseguenza che la richiesta deve restare immutata anche quando il cespite non sia più nella disponibilità del curatore o sia stato alienato per effetto della mancata sospensione delle attività di liquidazione. Dà conto di questo dibattito, con i relativi riferimenti dottrinali, L. Balestra “Le restituzioni nel fallimento”, in Le azioni di restituzione da contratto, 2012, pp. 51 e ss. 
[52] 
Per questa ragione Trib. Verona, decr. 3/02/2023, in Il fall. 8-9/2023, 1100 e ss, nel dare continuità all’orientamento espresso da Cass. 7 febbraio 2020, n. 2990, ha precisato che il trasferimento dell’azione ordinaria di risoluzione del contratto di vendita immobiliare, ove pendente ante fallimento, nel procedimento di verifica fa sempre salvi gli effetti prenotativi della domanda trascritta, onde rendere il suo accoglimento opponibile ai creditori concorsuali. 
[53] 
Mentre nel caso di beni mobili non registrati la tutela dell’aggiudicatario è sufficientemente assicurata dalla regola possesso vale titolo, sancita dall’art. 1153 c.c., salvo non ne sia dimostrata la mala fede, nel caso di immobili o beni mobili registrati, l’unica garanzia è rappresentata dall’inopponibilità del titolo d’acquisto del terzo alla massa se trascritto successivamente all’apertura del concorso, secondo la regola ricavabile dagli artt. 2915 e 2919 c.c. e dall’art. 45 L. fall., non potendo invece escludersi l’opponibilità di diritti resi anteriormente opponibili o riconosciuti per effetto di una domanda giudiziale anteriormente trascritta, poiché l’aggiudicazione in sede d’asta o all’esito di altra procedura competitiva ha natura derivativa e non originaria (Cass. 2 settembre 2022, n. 25926). La regola di cui all’art. 2919 c.c., relativa alla necessaria anteriore opponibilità dell’atto d’acquisto, non è poi invocabile nel caso di acquisiti a titolo originario, atteso che l’effetto acquisitivo della proprietà si produce ex tunc (Cass. 14 novembre 2000, n. 14733). Nel caso di azioni restitutorie fondate sull’invalidità o inefficacia del titolo (es. azione di nullità, annullamento, risoluzione), infine, si ritiene che esse sono opponibili alla procedura (e dunque all’aggiudicatario) a condizione che sia stata trascritta anteriormente la relativa domanda, prevalendo altrimenti il principio di cristallizzazione della massa sancito dall’art. 45 L. fall. Il problema segnalato nel testo è tuttavia ben più ampio, in quanto non attiene ai presupposti della possibile evizione, ma alla più generale inopponibilità del giudicato endoconcorsuale ai terzi, pur quando essi abbiano proposto domanda di rivendica o restitutoria con esito a loro sfavorevole, atteso che la decisione di rigetto resa dal giudice delegato o dal tribunale in sede di opposizione allo stato passivo, diversamente dal giudicato formatosi sull’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. nell’esecuzione individuale, non esclude che la stessa possa essere reiterata nei confronti dell’aggiudicatario esponendolo al rischio di evizione. 
[54] 
Proprio per le ragioni esposte nel testo, alcuni interpreti avevano già sostenuto che il giudicato formatosi sulle domande di rivendica non avesse valore meramente endoconcorsuale, assumendo che l’aggiudicatario, in caso di rigetto dell’azione restitutoria o di rivendica del terzo, non possa essere esposto ad una nuova domanda di contenuto identico proposta extra concorso. Si è affermato, al riguardo, che se l’acquirente si è reso aggiudicatario del bene in pendenza della lite sulla titolarità del diritto proprietario o sulla caducazione del contratto traslativo conclusosi con il rigetto della domanda, dovrà considerarsi successore a titolo particolare del diritto controverso; se poi l’alienazione ha avuto luogo dopo il rigetto definitivo della domanda di rivendica o di restituzione, può opporla al terzo in quanto resa in un processo a cui quest’ultimo ha preso parte. Così S. Menchini, A. Motto, in “L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni”, in Trattato di diritto fallimentare ed altre procedure concorsuali diretto da F. Vassalli, F.P. Luiso, E. Gabrielli, 2014, 558; in senso contrario, però, G. Bozza “L’accertamento del passivo nella procedura di liquidazione giudiziale”, in il Fall., 2016, 1069. 
[55] 
Nella relazione illustrativa si legge al riguardo che lo scopo della disposizione è stato quello di attuare la delega legislativa attribuendo alle domande di rivendica o restituzione l’efficacia di giudicato esterno. 
[56] 
Dubita della conformità a Costituzione, per eccesso di delega, G. Bozza, “L’accertamento del passivo nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, in Il fall. 10/2019, 1204, ravvisando che la norma attribuisce effetti ultra fallimentari a tutte le decisioni riguardanti rivendica e restituzione di beni, comprese quelle attinenti i beni mobili e non fondate su un diritto reale, ma di carattere obbligatorio, mentre l’art. 7, comma 8, lett. d), della l. 155/2017, richiedeva solo di “assicurare stabilità alle decisioni sui diritti reali immobiliari”. 
[57] 
A sua volta alcun vantaggio potrebbe ricavare il debitore tornato in bonis dal rigetto della domanda di rivendica, nell’ipotesi in cui il bene non sia stato liquidato e ne abbia riacquistato la disponibilità, sia perché egli non è stato parte di quel giudizio e non potrebbe opporre l’eccezione di giudicato al terzo che reiteri la richiesta, sia perché la decisione endoconcorsuale potrebbe essere fondata su ragioni del tutto estranee al rapporto intercorso fra le parti contraenti, come nel caso di ritenuta inopponibilità alla procedura dell’atto traslativo in quanto non anteriormente trascritto. 

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