Sia per il concordato ordinario (art. 161, comma 1, L. fall.), sia per il semplificato (art. 18, comma 2, D.L. n. 118/2021), il ricorso va presentato al tribunale del luogo in cui l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa. Si è evidenziato che l’omesso richiamo della seconda parte dell’art. 161, comma 1, implichi l’irrilevanza del trasferimento della sede dell’impresa nell’anno precedente[18]. Sarei portato a pensare che il principio di cui all’art. 9, comma 2, L. fall., la cui sagoma è mutuata dal predetto art. 161, sia di carattere generale e indisponibile, in quanto teso a neutralizzare nel quadro convulso della crisi-insolvenza il fenomeno del forum shopping.
Differente, nell’istituto di nuovo conio, è il contenuto della domanda, che qui comprende in via immediata la richiesta di omologazione del concordato.
Sia negli artt. 160 e ss. L. fall., sia nell’art. 18 D.L. n. 118/2021, nulla si dice in tema di assistenza legale del debitore. In dottrina si valorizza l’assenza di specificazioni per escludere la necessità della difesa tecnica, tanto nell’ordinario, quanto nel semplificato, laddove in tal senso deporrebbe anche la struttura elementare del procedimento[19].
L’opinione di chi scrive è diversa: l’art. 161 e l’art. 18 sono precetti silenziosi, come tali inidonei ad atteggiarsi a norme d’indole speciale rispetto all’art. 82, comma 3, c.p.c. A tenore delle regole generali del codice di rito civile, davanti al tribunale, le parti devono stare in giudizio col ministero di un difensore, salve le eccezioni espresse, tra le quali non è catalogata quella del ricorso alle procedure di concordato. La proposta concordataria è il pendant di una domanda giudiziale di regolazione della crisi nel cui ambito convergono interessi tendenzialmente antagonisti. L'iniziativa del debitore è suscettibile di instaurare un procedimento giurisdizionale nel cui quadro viene in rilievo un impianto intimamente contenzioso, che per l’idoneità ad incidere su diritti soggettivi presuppone come indispensabile la difesa tecnica.
Un punto di diversità fra ordinario e semplificato si coglie nel mancato richiamo, nel corpo del D.L. n. 118/2021, dell’art. 152 L. fall., che condiziona l’ammissibilità della proposta alla sottoscrizione a cura dei suoi rappresentati legali e all’approvazione dei soci (nelle società di persone) o degli amministratori (in quelle di capitali) e che prevede, al terzo comma, che decisioni e deliberazioni delle società di capitali finalizzate all’avviso dell’iniziativa concordataria constino per atto notarile e siano depositate nel registro delle imprese. L’omesso richiamo parrebbe intenzionale: occorre fare in fretta per salvare l’azienda attiva, ma esausta, nel suo ultimo metro; si eliminano i passaggi formali e di controllo legalitario che potrebbero rallentare il tentativo. L’art. 2475-bis c.c. conferisce agli amministratori delle società a responsabilità limitata il potere di rappresentanza generale dell’ente e tanto dovrebbe bastare a consentire all’impresa di instradarsi nella procedura semplificata. Qualora il contratto di cessione concerna la sola attività in esercizio, a derivarne è una sostanziale modifica dell’oggetto sociale. La competenza in parte qua è riservata ai soci ex art. 2479, comma 2, n. 5 c.c., ma costoro potranno esprimerla anche a posteriori (e in ratifica) rispetto all’avvio dell’iter concordatario.
Altra difformità saliente fra ordinario e semplificato attiene alla mancanza in quest’ultimo dell’attestazione del piano concordatario di liquidazione dell’azienda. La cessione di questa, d’altronde, nella cornice dell’art. 18 non avviene ex abrupto, ponendosi in fondo ad un percorso di negoziazione nel cui ambito la trasparenza dell’informazione è un pilastro portante. L’ultimo step di quel tragitto è nella relazione finale dell’esperto (art. 5, ult. comma), che fa luce sulle dinamiche della negoziazione, ma anche sull’attualità dell’impresa. A quel punto ciascun creditore gli atti dovrebbe averli già letti e decifrati per proprio conto con l’ausilio dei suoi consulenti sicché un’attestazione suonerebbe pleonastica.
Nessuna carenza di presidio degli interessi pubblicistici si rinviene nel tragitto semplificato, posto che al pari di quanto accade nell’ordinario, il ricorso è sempre comunicato al PM e pubblicato nel Registro Imprese (comma 2, art. 18). L’organo requirente, in particolare, non registra variazioni di sorta sui propri poteri d’iniziativa, né sui presupposti sottesi al relativo esercizio.
Due, in realtà, sono le divergenze di maggior rilievo tra il concordato ordinario e quello semplificato, individuate sin da subito nella soppressione in quest’ultimo del vaglio giudiziale di ammissibilità preventiva che contrassegna l’ordinario e nella eliminazione del meccanismo del voto dei creditori[20].
Non è del tutto vero – come pure a taluni è parso di primo acchito[21] – che manchi una fase di ammissione. Questa assume, piuttosto, una dimensione camerale e non partecipata, senza tuttavia risolversi in un passaggio formale.
Il terzo comma dell’art. 18 dispone che il tribunale valuti innanzitutto la “ritualità della proposta”. Risuona l’eco dell’art. 125 L. fall. in tema di concordato fallimentare. Le verifiche saranno mutatis mutandis analoghe. Riguarderanno allora la regolarità della documentazione depositata e quella della procedura svolta, ma anche la legittimazione alla proposta e la sua tempestività. Il controllo non assumerà, peraltro, ad avviso di chi scrive una dimensione meramente esteriore. Pur in assenza (e in attesa) di contraddittorio, nulla esclude che il giudice debba guardare a grandi linee alla legittimità sostanziale della proposta, che deve rispondere ad uno schema minimo e imprescindibile, che è dato dal rispetto dell’ordine delle prelazioni, dalla suddivisione eventuale in classi per posizioni giuridiche ed interessi economici omogenei, dall’assicurazione a ciascuno della guarentigia di un’utilità.
Il vaglio sulla completezza della relazione dell’esperto sarà un aspetto basilare e potrà implicare la richiesta a quest’ultimo di un supplemento di riflessione. Il giudice dovrà appurare che il debitore sia approdato dinanzi a lui per il sentiero di una composizione non farlocca. Andrà quindi a rileggere, attraverso la relazione finale, l’evoluzione del circuito negoziale e constaterà se il debitore si sia mosso o meno in buona fede all’interno di esso, se l’esperto si sia mostrato professionalmente avveduto e neutrale, se la strategia di risanamento dell’azienda apparisse compatibile con la situazione primigenia dell’impresa e la congiuntura del mercato in cui operava, ancorché le contingenze successive, l’imprevedibilità delle dinamiche concorrenziali e l’indisponibilità (legittima) di taluni creditori ad accettare rivisitazioni dei rapporti l’abbiano alla fine frustrata.
È significativo che l’art. 18 imponga all’esperto di “dichiarare” che le trattative si sono svolte “secondo correttezza e buona fede”. È un modo efficace per consentire al giudice di sanzionare fin da principio gli abusi dello strumento, qualora le condotte o le omissioni dovessero apparirgli disallineate da quel paradigma.
Il D.L. n. 118/2021 fonda il dovere, anzitutto dei creditori professionali – quindi degli istituti bancari su tutti – di prendere parte al governo negoziale della crisi in modo da consentire soluzioni collettivamente efficienti, oltre che individualmente appaganti, assumendo condotte sollecite ed informate, pur se ovviamente libere nel merito delle valutazioni. La relazione conclusiva dell’esperto dovrà testimoniare expressis verbis l’avvenuto svolgimento in buona fede e correttezza delle trattative. Il che equivale a dire che la composizione non solo dev’essere stata attivata, ma dev’essere stata lealmente condotta dalle parti, finendo per inciampare – per “certificazione” dell’esperto – su elementi ultra vires, evidentemente trascendenti il rispettivo impegno delle parti a concluderla proficuamente. Si crea una diga rilevantissima in capo all’autorità giudiziaria, chiamata a compiere una valutazione di merito sul contenuto della relazione, esigendone l’eventuale completamento a cura dell’esperto in ordine agli eventuali contenuti apodittici o reticenti.
Il tribunale che dalla narrazione dell’esperto rilevasse l’assenza del presupposto della buona fede nello svolgimento delle trattative non fisserebbe, per economia del processo e logica del giudizio, nemmeno l’udienza di omologazione, adottando piuttosto, immantinente, un provvedendo d’inammissibilità della domanda.
È rilevante pure che il tribunale acquisisca, in aggiunta alla relazione finale, il parere dell’esperto facilitatore sui presumibili risultati della liquidazione e sulle garanzie offerte[22]. Si tratta di una acquisizione che non si spiegherebbe nell’economia di un controllo solo “notarile”, mentre trova ragione nell’esigenza di un vaglio penetrante e di merito già a questo punto. Se al giudice spettasse d’apprezzare il solo ossequio delle forme per rimandare all’omologa il rispetto della sostanza, di quel parere supplementare avrebbe ben poco bisogno.
Certo, la conseguenza connessa al giudizio negativo del tribunale qui immaginata non è esplicitamente prevista. Eppure, sembra coerente con il ruolo preminente dell’autorità giudiziaria nel contesto di riferimento e con il principio di economicità dei mezzi processuali, che il collegio dichiari l’inammissibilità senza doversi riservare di farlo in esito ad un’udienza di omologa, che si risolverebbe in un esercizio di stile, in un simulacro privo di funzione.
A tenore dei commi 3 e 4 dell’art. 18, il tribunale emette un decreto con cui “nomina” un ausiliario, sorta di succedaneo del commissario giudiziale del concordato ordinario, impegnandolo ad accettare entro tre giorni e a rendere un parere ad ampio spettro sulla proposta concordataria; “ordina” la comunicazione ai creditori della relazione dell’esperto e dei pareri di quest’ultimo e dell’ausiliario; “fissa” l’udienza per l’omologazione.
Benché la norma adoperi l’indicativo presente – quasi a tratteggiare l’emissione del provvedimento di default – è fisiologico che qualora la fattibilità economica e giuridica dell’ipotesi concordataria dovesse apparire prima facie insussistente, al lume del vasto corredo di informazioni e valutazioni di cui il tribunale fin dal debutto dispone, la procedura concordataria possa chiudersi hic et nunc, con la pronuncia di una declaratoria di inammissibilità, in luogo di un’inutile appendice omologatoria.
In tal senso, sembra deporre anche il contenuto del secondo inciso dell’ultimo comma dell’art. 18, che equipara il decreto che dispone la comunicazione della proposta all’ammissione al concordato ai fini di cui all’art. 173 L. fall. È il concordato ad essere revocabile ai sensi della norma, non certo (e non solo) l’udienza che del concordato scandisce il momento processuale.
La discrasia più importante fra procedura concordataria ordinaria e procedura semplificata attiene, piuttosto, alla mancanza in quest’ultima del voto dei creditori[23].
L’elemento è per certi versi inedito e di sicuro vale a conferire una più spiccata forza contrattuale all’imprenditore in fase di trattative, posto che i creditori mal disposti a rimodulare le pretese entro i limiti esterni dell’apprezzabile sacrificio saranno ben consapevoli che il mancato accordo non li premierà, perché non saranno ulteriormente chiamati a pronunciarsi, né riceveranno di più nel plesso della liquidazione fallimentare.
In realtà, il fallimento non aggiunge e non toglie nulla ai creditori. Esso costituirà l’ultimo approdo solo per quegli imprenditori che non avranno inteso cogliere, in modo razionale e solerte, la possibilità, prima di trovare un accordo con i propri creditori per la continuazione dell’impresa, poi, in caso d’insuccesso, di esdebitarsi cedendo loro il proprio patrimonio, senza infliggere un danno.
La verità è che la procedura semplificata si orienta più di quella ordinaria verso il mercato, facendo venire alla luce la primazia di uno specifico interesse pubblico: la salvaguardia delle porzioni ancora attive dell’azienda in affanno, ogni qualvolta il rallentamento processuale non assicurerebbe ai creditori un beneficio monetario maggiore, né un virtuale vantaggio compensativo.
Ciò giustifica a pieno l’esclusione dei creditori dal procedimento di formazione ed approvazione della proposta di concordato, perché per costoro la soppressione del voto non è un guaio.
Nel concordato ordinario la scelta tra la liquidazione concordataria e quella fallimentare è rimessa, in concreto, al consenso strutturato dei creditori, che ne apprezzano la convenienza in punto di tempi, misure e probabilità di soddisfazione delle rispettive ragioni; nel semplificato la valutazione di detta convenienza è operata individualmente da ciascun creditore. Se nell’ordinario l'apprezzamento rimane espressione di aggregazioni creditizie maturate, spontaneamente o meno, sul presupposto di interessi omogenei; nel concordato semplificato il merito di quell’apprezzamento è, perlomeno, custodito in capo a ciascun creditore, il quale, a prescindere dall’importo del dovutum, è legittimato a far valere il proprio diritto e a far pesare l’interesse peculiare che vi è sotteso, interpellando il giudice con l’opposizione all’omologa.
L’urna del voto che rimane chiusa non comporta alcuna radicale compromissione del diritto di difesa (e di parola). Quel diritto è addirittura potenzialmente accresciuto e rafforzato. I creditori lo recuperano in virtù del riconoscimento della legittimazione a proporre a titolo individuale l’opposizione anzidetta. Al contrario di quanto accadrebbe in un concordato ordinario, dove il dissenziente verrebbe agevolmente zittito dal voto maggioritario, tanto che per insorgere nel concordato senza classi dovrebbe fare gruppo con gli altri delusi fino a sommare in condominio il 20% dei crediti complessivi, nel concordato semplificato egli si rivolge liberamente al tribunale, opponendosi all’omologa e deducendo suo tramite tutta la gamma delle contestazioni possibili.
In luogo del commissario giudiziale del concordato ordinario, nel semplificato viene alla ribalta un mero ausiliario ex art. 68 c.p.c. È naturale sia così. Il baricentro della procedura concordataria del D.L. n. 118/2021 è il giudice, che assorbe a sé ogni compito, senza delegarne alcuno. La sola figura compatibile con quest’impostazione è un professionista di complemento, destinato a fornire un supporto tecnico-specialistico per le valutazioni e determinazioni del tribunale, eppure priva di quella profondità indagatoria dell’ufficio commissariale.