Ciò posto, con la circolare n. 16/E del 23 luglio 2018 l’Agenzia delle entrate aveva precisato che, ai fini della comparazione, l’attestatore deve “tenere conto anche del maggiore apporto patrimoniale, rappresentato dai flussi o dagli investimenti generati dalla eventuale continuità aziendale oppure ottenuto all’esito dell’attività liquidatoria gestita in sede concordataria, che non costituisce una risorsa economica nuova, ma deve essere considerato finanza endogena, in quanto, ai sensi dell’art. 2740 c.c., l’imprenditore è chiamato a rispondere dei debiti assunti con tutti i propri beni, presenti e futuri”[7]. L’Agenzia aveva così mostrato di aderire all’orientamento restrittivo, secondo cui i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività, da parte dell’impresa debitrice nell’ambito di un concordato preventivo in continuità, avrebbero avuto natura “endogena” (in quanto non derivanti da un apporto esterno) e sarebbero quindi da considerare parte del patrimonio di tale impresa a un duplice fine:
a) per determinare il valore del patrimonio realizzabile in caso di liquidazione che, ai sensi del comma 1 dell’art. 182-ter, un professionista indipendente deve comparare con l’offerta formulata al Fisco dall’impresa debitrice mediante la proposta di transazione fiscale, allo scopo di attestarne la necessaria convenienza per l’Erario rispetto all’alternativa costituita dalla liquidazione dell’impresa stessa;
b) per stabilire se i suddetti flussi possono essere destinati liberamente dall’impresa debitrice al soddisfacimento di alcuni crediti piuttosto che di altri, posto che il patrimonio “endogeno”, a differenza di quello “esogeno” (almeno secondo l’orientamento più “rigoroso”), dovrebbe essere utilizzato per il pagamento dei creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione previste dalla legge e non liberamente (art. 160, comma 2, l.f.).
Tale tesi non appariva però conforme alla ratio dell’art. 182-ter, comma 1, che - come detto - richiede all’attestatore di confrontare il trattamento dei crediti tributari contemplato dalla proposta di transazione fiscale con quello discendente dalla liquidazione fallimentare dell’impresa debitrice e, ai fini della determinazione del parametro di raffronto, non può rilevare il “patrimonio futuro” di quest’ultima. Infatti, per quantificare il soddisfacimento derivante dallo scenario alternativo indicato dall’art. 160, comma 2, l’attestatore deve valutare la situazione che si verificherebbe in caso di fallimento del debitore, senza dunque tenere conto della prosecuzione dell’attività attraverso modalità e interventi che sono attuabili nel concordato preventivo (ma non nel fallimento), giacché tra la continuazione dell’attività economica ivi prevista e i flussi finanziari che ne discenderebbero sussiste un evidente rapporto di causa-effetto, nel senso che questi non possono manifestarsi senza l’attuazione del risanamento indicato nel relativo piano: quest’ultimo non è che il frutto della ristrutturazione dell’azienda, delle azioni strategiche volte alla riduzione dei costi e al conseguimento di maggiori ricavi, della conversione di debiti in equity nonché dell’acquisizione di nuovi investimenti - da parte dei soci o di nuovi finanziatori - destinati a sostenere la continuazione dell’attività (che costituisce quindi l’indefettibile presupposto di tutte le suddette misure).
Che i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività economica siano classificabili come “finanza esterna” lo si desume altresì dalle disposizioni contenute negli artt. 104 e 104-bis l.f., che ammettono la prosecuzione dell’attività economica (nella forma dell’esercizio provvisorio o dell’affitto d’azienda) soltanto a titolo temporaneo, qualora ciò sia considerato (nel primo caso) strettamente necessario per non recare maggiore pregiudizio ai creditori oppure (nel secondo) conveniente per rendere più proficua la vendita del complesso aziendale. In entrambi i casi, la continuazione dell’attività è ammessa soltanto nella prospettiva di conseguire una migliore liquidazione, ma mai in un’ottica di risanamento, che rimane del tutto estranea rispetto alla procedura fallimentare[8]. Ne consegue che le stime effettuate dal curatore (e, prospetticamente, dall’attestatore) non possono riguardare un’azienda in normale esercizio, essendo l’eventuale prosecuzione in via temporanea dell’attività diretta unicamente alla conservazione dell’azienda in uno stato di efficienza, al fine di preservare il valore residuo che ancora c’è (e non per generare nuovo valore)[9]. La situazione cui deve far riferimento è infatti quella prevista dall’art. 105 l.f., il quale disciplina, appunto, la vendita (mediante procedure competitive) dell’azienda nello stato in cui si trova, in maniera unitaria oppure attraverso singoli rami oppure ancora atomisticamente[10], senza potere considerare gli effetti derivanti dagli atti previsti nella proposta concordataria per riportare l’azienda in una condizione di equilibrio economico. Del resto, se l’attivo discendente dall’ipotesi della liquidazione fallimentare dovesse essere valutato anche assumendo l’avvenuta attuazione delle misure previste nella proposta concordataria, non si vede come essa potrebbe essere definita quale ipotesi alternativa.
Pertanto, poiché i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività economica post risanamento non potrebbero entrare nel patrimonio del debitore in caso di fallimento, essi non possono essere considerati nel computo dell’attivo di liquidazione da destinare al soddisfacimento dei creditori privilegiati e, quindi, nemmeno nella valutazione del trattamento che sarebbe riservato ai crediti tributari in tale ipotesi.
Un indirizzo per così dire “intermedio” è stato affermato dal Tribunale di Milano con l’articolata e approfondita sentenza del 5 dicembre 2018, il quale ha affermato che “i flussi della continuità, allorquando siano generati da una prosecuzione aziendale resa possibile unicamente per effetto dell’apporto di un soggetto terzo, non possono ritenersi assoggettati al rispetto dell’ordine delle cause di prelazione, per la semplice ragione che detti flussi, nella prospettiva fallimentare, semplicemente non esisterebbero. Un conto è che i flussi della continuità siano comunque generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore, giacché in tal caso appare assai complesso condurre i suddetti flussi al di fuori della regola dell’art. 2741 c.c.; un altro - ben diverso - conto è che tali flussi siano resi possibili da una prosecuzione aziendale resa a propria volta possibile unicamente dall’apporto di risorse esterne da parte di un terzo. In tal caso ben può affermarsi che tali flussi, in quanto generati da una finanza esterna, ne ereditino i caratteri, e risultino, quindi, liberamente distribuibili, sol che si consideri che, in assenza dell’apporto del terzo, detti flussi non esisterebbero, e conseguentemente le cause di prelazione - in primis il privilegio generale mobiliare - non avrebbero oggetto alcuno su cui esercitarsi”. In sostanza, i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività economica, la quale a propria volta è stata resa possibile unicamente per effetto dell’apporto di un soggetto terzo, sono anch’essi classificabili come “finanza esterna”, per il semplice fatto che non esisterebbero in assenza di tale apporto.
In proposito è stato peraltro evidenziato[11] che, a differenza del caso concreto cui si riferiva la sentenza da ultimo citata, “è spesso tutt’altro che immediato determinare se la prosecuzione dell’attività aziendale sia resa possibile esclusivamente da apporti esterni, o se invece gli apporti esterni la facilitino e la supportino, senza che una qualche prosecuzione possa essere tassativamente esclusa in loro assenza. In altri termini, può spesso rivelarsi assai complicato ricondurre la continuità aziendale al solo apporto da parte di terzi, tanto più che in numerosi casi l’apporto di terzi è funzionale (anche) a una migliore proposta ai creditori e, quindi, ad aumentare la probabilità della sua approvazione”. Tuttavia, quando la continuazione dell’attività d’impresa è impedita dall’assenza di disponibilità finanziarie, è difficile negare che il presupposto imprescindibile per la sua ripresa è rappresentato dal reperimento delle relative risorse finanziarie di ammontare necessariamente significativo.