La liquidazione controllata può (e deve) incamerare i beni (leggi: gli stipendi) che pervengono al sovraindebitato nei tre anni successivi all'apertura della procedura. L'ha stabilito, con una pronuncia depositata il 19 gennaio, la Corte Costituzionale, rigettando l'articolata questione di legittimità costituzionale dell'art. 142, comma 2, CCII sollevata dal Tribunale di Arezzo la primavera scorsa.
La disposizione sotto esame, com'è noto, traduce nell'ambito concorsuale il principio generale per cui il debitore risponde dell'adempimento con tutti i suoi beni, «presenti e futuri». Nella liquidazione giudiziale, i beni futuri sono, essenzialmente, quelli che fanno eventualmente ingresso nel patrimonio dell'imprenditore nel tempo che il curatore impiega per accertare il passivo e liquidare l'attivo. Nella liquidazione controllata, invece, è assai frequente (e in ogni caso ben più che nella liquidazione giudiziale) che il liquidatore, nel momento in cui la procedura ha inizio, non abbia liquidità da distribuire, né beni da liquidare, e che i creditori possano perciò rifarsi esclusivamente sui redditi che il sovraindebitato percepirà cammin facendo, dedotto, va da sé, quanto gli sia necessario per mantenersi. Questo però comporta, teoricamente, che il debitore possa rimanere assoggettato a una liquidazione controllata (e costretto a condurre un'esistenza appena dignitosa) per molto tempo: tutto il tempo necessario a ripagare i debiti con quel poco del suo reddito di cui la procedura può appropriarsi. Di qui, nella previgente legge sul sovraindebitamento, la previsione, tranchant, per cui «i beni sopravvenuti nei quattro anni successivi al deposito della domanda di liquidazione ... costituiscono oggetto della stessa, dedotte le passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi» (art. 14 undecies). Nella sua perentorietà, la norma individuava un chiaro punto d'equilibrio tra l'esigenza, da un lato, del debitore di poter tornare, in un tempo ragionevole, a disporre liberamente del suo reddito, e quella, dall'altro, dei creditori di potersi soddisfare su una porzione non trascurabile dello stesso.
Estendendo l'art. 142, comma 2, CCII alla liquidazione controllata[1], il legislatore - lamenta il giudice aretino nell'ordinanza di rimessione -, avrebbe rinunciato a determinare questo punto d'equilibrio, affidando all'interprete il compito di trovarlo in altre disposizioni di legge, o di ricavarlo dai principi generali. Onde l'auspicio di un intervento additivo della Corte Costituzionale teso, in buona sostanza, a ripristinare la previgente disposizione della L. n. 3/2012.
Ad adempiere la funzione assolta da quest'ultima non si presterebbe, secondo il giudice rimettente, l'art. 282, comma 1, CCII, che fissa in tre anni dall'apertura della liquidazione il termine entro il quale, ricorrendone i presupposti, il sovraindebitato ottiene, di diritto, l'esdebitazione. Tale norma, osserva infatti il Tribunale di Arezzo, fisserebbe sì un orizzonte temporale massimo entro il quale i beni futuri rispondono dei crediti concorsuali, ma non impedirebbe al liquidatore di presentare piani in cui sia prevista l'acquisizione degli stipendi futuri del sovraindebitato per un periodo inferiore ai tre anni.
Né migliori soluzioni deriverebbero dal principio generale per cui la liquidazione controllata (come tutte le procedure concorsuali) deve tendere alla massima soddisfazione dei creditori. Tale principio, infatti, potrebbe condurre a protrarre la durata delle procedure (in uno con la soggezione del sovraindebitato alle limitazioni che ne derivano) per tutto il tempo che occorra a procurare la liquidità necessaria per pagare integralmente i creditori, anche quando con ciò si travalichi il limite della durata ragionevole imposto dalla Costituzione (art. 111, comma 2); con il risultato paradossale, per giunta, di consentire ai creditori di soddisfare appieno le proprie ragioni appropriandosi per molti anni del disposable income del debitore... e al contempo di riscuotere dallo Stato l'indennizzo per l'irragionevole durata del processo.
Sarebbe, infine, inconciliabile con la Costituzione la soluzione, prospettata dal Tribunale di Arezzo, per cui il giudice concorsuale potrebbe approvare piani di liquidazione in cui si contempli l'acquisizione dei beni sopravvenuti del sovraindebitato soltanto nella misura necessaria a coprire i costi della procedura[2]: soluzione che consegnerebbe ai sovraindebitati incapienti un facile espediente con cui sottrarsi alle espropriazioni presso terzi pendenti (in spregio al diritto d'azione, anche esecutiva, tutelato dall'art. 24 Cost.), e che penalizzerebbe irragionevolmente i creditori dei “nuovi” sovraindebitati (quelli assoggettati a procedura dopo il 15 luglio 2022) rispetto a quelli dei “vecchi” sovraindebitati (che potevano almeno far conto, mercé la L. n. 3/2012, su quanto, degli stipendi maturati in costanza di procedura, non fosse servito a coprire i costi della medesima).
La Corte Costituzionale non ha assecondato la riscrittura “a rime obbligate” dell'art. 142, comma 2, CCII auspicata dal giudice rimettente, reputando che un giusto contemperamento delle ragioni dei creditori e del sovraindebitato possa ben ricavarsi dalle disposizioni vigenti.
Nella motivazione (estesa dalla Professoressa Navarretta), la Corte ha anzitutto giudicato implausibile la soluzione proposta dal giudice aretino, e da ultimo riportata, osservando che l'acquisizione di beni futuri nella sola misura sufficiente a coprire i costi della procedura frustrerebbe inopinatamente la ragion d'essere della procedura stessa, ossia la soddisfazione dei creditori (...di tutti i creditori, non solo dello Stato che offre il servizio giustizia).
Inoltre, e soprattutto, ha messo in luce come l'art. 282 CCII sul termine per l'esdebitazione di diritto, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, non fissi soltanto il limite temporale massimo nel quale i beni futuri possono essere utilmente acquisiti all'attivo, ma indichi anche il lasso di tempo nel quale i creditori possono confidare che il liquidatore farà quanto necessario per soddisfare le loro ragioni, inclusa l'acquisizione dei beni sopravvenuti. Così ragiona la Corte: «Ove, infatti, per adempiere ai debiti relativi ai crediti concorsuali e a quelli concernenti le spese della procedura sia necessario acquisire i beni sopravvenuti del debitore (compresi i crediti futuri o non ancora esigibili), i liquidatori - salvo che riescano a soddisfare integralmente i citati crediti tramite la vendita di beni futuri o la cessione di crediti futuri o non ancora esigibili - sono tenuti a prevedere un programma di liquidazione che sfrutti tutto il tempo antecedente alla esdebitazione e che, dunque, si di durata non inferiore al triennio». Detto altrimenti: la norma impedirebbe al tribunale concorsuale di approvare un piano di liquidazione che preveda l'acquisizione dei beni futuri per un tempo inferiore ai tre anni[3].
E che la liquidazione non possa, d'altra parte, attardarsi oltre il triennio, discende, infine, secondo la Corte, dall'art. 272, comma 3, CCII, per cui il programma di liquidazione «deve assicurare la ragionevole durata della procedura». Ed è appunto nel termine di tre anni che l'art. 2, comma 2 bis della “Legge Pinto”, fissa, in via generale, il termine ragionevole di durata della liquidazione controllata.