L’impatto della direttiva sulla gestione della crisi nella sua attuale formulazione appare dirompente non solo perché imporrà l’ideazione e lo studio di una nuova procedura di insolvenza che finirà col soppiantare -nella stragrande maggioranza dei casi- le attuali procedure note agli operatori, ma anche perché si tratta di una procedura ideata su un pilastro esattamente opposto a quello su cui si fondano le procedure liquidatorie interne, ossia lo spossessamento dell’imprenditore insolvente.
La proposta di direttiva assume infatti una semplicità dell’attività commerciale tale da rendere sufficiente la vigilanza sulla liquidazione semplificata da parte di una “autorità competente” lasciando al debitore il controllo dei beni e la gestione dell’impresa (cons. 40). La nomina di un amministratore della procedura è non solo subordinata alla duplice condizione della richiesta e della presenza di fondi (nella massa o messi a disposizione dal creditore) per far fronte al suo pagamento (art.39), ma anche alla ricorrenza di una situazione eccezionale con una: “valutazione caso per caso alla luce di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti” (art.43 §3).
Nella logica della liquidazione semplificata, peraltro, il debitore non solo mantiene la gestione dei beni e dell’impresa (art.43), ma è anche -nell’ipotesi di mancata nomina di un amministratore della procedura- l’unica fonte di informazioni per la ricostruzione dell’attivo da liquidare (art.41 §4 lett.c e 48).
Questa impostazione rischia di creare importanti problemi di gestione pratica delle procedure italiane sotto molteplici aspetti.
- In primo luogo, è esperienza abbastanza diffusa sul territorio nazionale quella dell’imprenditore irreperibile.
La direttiva non prevede l’eventualità che il debitore si disinteressi della gestione sua insolvenza, ma -tant’è- trattasi di realtà molto frequente nel nostro Paese e non è ben chiaro quale dovrebbe essere la sorte della liquidazione di una microimpresa che non abbia fondi al momento della sua apertura (come non lo sono quasi mai le procedure liquidatorie) e in cui l’imprenditore sia irreperibile.
Allo stato, la proposta sembra inderogabile nella parte in cui consente la nomina di un amministratore “solo se sono soddisfatte entrambe le condizioni” (art.39) innanzi descritte, di tal che non sembrerebbe possibile prevedere per gli Stati membro che la procedura si apra e l’amministratore possa essere comunque nominato con costo a carico dell’erario, come attualmente avviene per il nostrano curatore.
Potrebbe sempre immaginarsi che in simili situazioni si apra una procedura di insolvenza ordinaria, ma appare distonico rispetto allo scopo che si prefigge il legislatore europeo -quello di garantire certezza nella tempistica della liquidazione del patrimonio del debitore insolvente nell’ottica di un migliore funzionamento del mercato interno (cons.1 e 3)- immaginare che in circa la metà delle procedure debba avviarsi una procedura maggiormente dispendiosa in termini di costi e di durata e ciò per la mera determinazione dell’imprenditore non collaborante.
- Esperienza parimenti diffusa è quella per cui l’imprenditore insolvente, lungi dal fornire: “informazioni affidabili e complete sulla sua situazione finanziaria e commerciale” (cons. 40) perché la liquidazione possa essere espletata in modo efficace ed efficiente, tiene invece un atteggiamento reticente o, comunque, scarsamente collaborativo, come dimostra la risibile percentuale di casi in cui l’imprenditore consegna al curatore una documentazione contabile completa ed esaustiva.
Innanzi a questa situazione nostra nazionale, c’è da chiedersi quale reale efficacia potrà aversi nell’attività di ricostruzione dell’attivo, segnatamente con riferimento all’apprensione di valore tramite azioni posto che queste necessitano non solo (o non soltanto) della documentazione, ma anche di una comprensione completa delle vicende societarie, raramente ottenibile grazie alle informazioni fornite dall’imprenditore.
Sempre in tema di collaborazione alla procedura da parte dell’imprenditore, deve poi osservarsi come non si sia previsto un puntuale obbligo in capo al debitore di gestire l’impresa e i beni oggetto di liquidazione nell’interesse del ceto creditorio (come per esempio imposto all’imprenditore durante la composizione negoziata, art.21 CCII) né -a maggior ragione una sanzione- di tal che appare ancor più difficile pensare che una procedura così strutturata possa portare utilità economica ai creditori essendo -ancora una volta l’esperienza a insegnare- assai ricorrente l’evenienza di “furti particolarmente strani” nei capannoni delle imprese fallite, piuttosto che quella delle autovetture apprese formalmente, ma mai rinvenute materialmente perché inspiegabilmente “sparite” senza lasciare traccia.
- Ulteriore fronte di criticità è quello legato alla vigilanza da parte di un’autorità amministrativa o giudiziaria, con una scelta rimessa agli Stati membro nell’ottica di garantire l’efficienza in termini di costo e di rapidità delle procedure (cons.36).
Il nostro Paese ha tradizionalmente affidato alla supervisione dell’autorità giudiziaria il monitoraggio e il controllo sulle procedure di insolvenza, ma tale controllo era sempre legato alla circostanza che vi era un soggetto nominato dall’ufficio che apprendeva i beni dell’imprenditore e offriva gli elementi per effettuare le valutazioni e compiere le scelte necessarie.
In un contesto in cui il Giudice non ha se non quello che gli viene prospettato dal debitore appare ben arduo immaginare la consapevolezza delle scelte, anche fosse solo la determinazione delle modalità vendita di un bene che -magari- non è nelle “ottime condizioni” prospettate.