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Saggio

L’esercizio dell’impresa del debitore*

Salvo Leuzzi, Magistrato addetto al Massimario della Suprema Corte di Cassazione

16 Marzo 2023

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
*Lo scritto è destinato, con eventuali variazioni e implementazioni, al Trattato delle procedure concorsuali, in corso di pubblicazione per Giappichelli, a cura di M. Arato, G. D’Attorre e M. Fabiani.
L’elaborato tratta funditus il tema della prosecuzione dell’impresa del debitore nella liquidazione giudiziale, analizzandone nel dettaglio il complesso delle regole.
Riproduzione riservata
1 . Il nuovo ambito “codicistico”
In un quadro normativo volubile, l’istituto dell’esercizio provvisorio d’impresa rappresenta un singolare elemento di sicurezza. Un’invarianza di regole, pur nel crinale di passaggio fra legge fallimentare e codice della crisi, ne contrassegna lo schema. Non casuale, in tal senso, che l’art. 211 CCII, norma d’esordio del Capo IV della nuova disciplina, nel contemplare specificamente l’istituto, presenti un assetto analogo a quello dell’art. 104 L. fall. Poco cambia in tema, a testimonianza della solidità dello strumento[1]. 
L’esercizio dell’impresa risponde, pure nel riplasmato contesto, ad una funzione “terapeutica”, volto, com’è, a consentire la difesa dell’unitarietà dei complessi produttivi o della loro sezione ancora residualmente attiva o rivitalizzabile, nella prospettiva di attrarre su di essi possibili investimenti. 
L’asse rinnovato dell’ordinamento concorsuale non è, d’altronde, che lo scalo conclusivo di una rotta a suo tempo intercettata, che attiene ad una più compiuta percezione dell’azienda come centro di produzione ed entità suscettibile di autonoma circolazione; percezione, questa, che aveva in precedenza pagato lo scotto di una protratta penombra nel diritto vivente del fallimento, a vantaggio dell’impellenza data dal governare, per quanto all’estremo ribasso, i rapporti di credito-debito permeati dall’insolvenza. 
Se l’azienda vale in sé, come bene funzionale all’esercizio dell’attività economica, al di là e al di fuori della soggettività dell’imprenditore-debitore, che semplicemente ne dispone, essa deve tendenzialmente esistere al netto dell’accertata decozione e, per sua indole, alla decozione deve fin dove possibile sopravvivere, qualora ciò non nuoccia ai creditori.
2 . L’esercizio d’impresa come strumento di conservazione e riallocazione dei valori attivi
L’ordinamento concorsuale contempla essenzialmente due strumenti deputati a serbare in funzione riallocativa, ad insolvenza accertata, l’avviamento e gli intangibles dell’azienda, quali attributi non autonomamente commerciabili, eppure cedibili insieme all’azienda, che loro tramite assume un valore esponenzialmente maggiore: l'esercizio provvisorio dell'impresa e l'affitto d'azienda (disciplinati ad oggi, rispettivamente, dagli artt. 104 e 104-bis L. fall.). Detti congegni sono stati travasati senza variazioni sostanziali nel nuovo CCII, il che è la conferma che quegli istituti erano già percepiti come assolutamente moderni. 
Il minimo comune denominatore che collega presente e futuro, legge fallimentare derivata dal biennio 2005-2007 e riforma codicistica, e che nell’istituto dell’esercizio dell’impresa assurge a profilo tangibile, è l’abbandono dell’endiadi insolvenza-dissoluzione, ossia del nesso immediato fra accertamento giudiziale dell’insolvenza e disfacimento dell’impresa. Al dissesto constatato consegue solo l’apertura del concorso, declinandosi il default, sul piano liquidatorio, al modo di mera occasione di passaggio dal mercato del compendio produttivo, ai fini di una auspicabile ricollocazione[2]. 
Al fondo, il convincimento che la negoziazione dell’azienda indivisa ed attiva – che solo l’esercizio dell’impresa permette – acconsenta all’attuazione di obiettivi altrimenti inaccessibili, quali il subentro dell’aggiudicatario nella locazione dell’immobile aziendale o negli altri rapporti negoziali indispensabili rispetto all’attività economica in essere; l’utilizzo di segni distintivi dell’impresa; il mantenimento di licenze, autorizzazioni o concessioni.
In questo habitat concettuale, l’esercizio provvisorio di cui all’art. 104 L. fall., ridenominato dall’art. 211 C.C.I. “Esercizio dell’impresa del fallito”, si appaga di un collaudo durato oltre un decennio e sconta mere rettifiche di contorno[3]. 
Il primo comma della norma prevede adesso che “L’apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell’attività d’impresa quando ricorrono le condizioni di cui ai commi 2 e 3”. Due rimangono, a tenore di questi ultimi commi, le ipotesi possibili di gestione provvisoria dell'impresa fallita. 
L’anzidetto comma 2 riprende parzialmente il calco dell’odierno comma 1 dell’art. 104 L. fall., con l’immutata competenza del Tribunale concorsuale ad autorizzare, con la sentenza che apre la liquidazione giudiziale (in luogo del fallimento), la prosecuzione dell’impresa o di “specifici rami dell’azienda”, qualora “la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori”. Si palesa meramente linguistico il rimaneggiamento dell’attuale norma della legge fallimentare, stante l’aggiunta nel testo di quella nuova del lemma “prosecuzione”.
Piuttosto, ad essere significativa è la soppressione del riferimento al “grave danno” suscettibile di derivare dall’interruzione dell’attività e passibile d’essere neutralizzato proprio attraverso l’istituto dell’esercizio. Non occorre più, in altri termini, che la prosecuzione dell’impresa serva a fronteggiare le conseguenze negative che altrimenti si produrrebbero; piuttosto, è sufficiente perché l’impresa possa proseguire è sufficiente che i creditori non paghino scotto alcuno in termini di soddisfazione delle loro ragioni.
Apparentemente inalterato resta anche l’archetipo dell’esercizio provvisorio disposto nel corso della liquidazione giudiziale, su impulso del curatore, sol che si consideri che l’art. 211, comma 3, dispone che: “Successivamente, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza, con decreto motivato, l'esercizio dell'impresa, anche limitatamente a specifici rami dell'azienda, fissandone la durata”. In questo caso il riferimento alla “continuazione” proprio dell’art. 104 L. fall. è soppiantato da quello all’“eserciziotout court dell’impresa.
A ben vedere, il difficile rapporto tra salvaguardia di organismi produttivi e tutela dei creditori è risolto anche dal Codice consentendo il ricorso all’esercizio d’impresa, in funzione conservativa dei complessi organizzati, su due presupposti impliciti, ma chiari: l’utilità di esso a supporto di una più proficua e redditizia liquidazione del compendio, quindi,  per riflesso, di una migliore soddisfazione del ceto creditorio; l’operatività attuale dell’impresa, che, pertanto, accertata l’insolvenza, si presta ad essere semplicemente proseguita, non anche ex novo intrapresa. 
Nella delineata cornice, l'esercizio dell’impresa rimane strumento propedeutico alla massimizzazione dell’attivo, comunque ancillare alla tutela del credito e non finalizzato alla protezione dell’impresa in sé e per sè[4]. 
Sia nel quadro del secondo, sia in quello del terzo comma dell’art. 211, lo strumento pare, peraltro, adoperabile anche in attesa che si realizzino le condizioni di un affitto d’azienda[5]. La gestione può, poi, giovare a favorire la presentazione di una proposta di concordato fallimentare, stimolandola proprio sulla scorta di un complesso produttivo ancora in esercizio.
3 . L’esercizio d’impresa disposto in sentenza
La prima ipotesi di prosecuzione dell’impresa dissestata non si impernia più su una decisione del tribunale assunta nella sentenza di accertamento dell’insolvenza e finalizzata – senza pregiudizio per i creditori concorsuali – a evitare il “danno grave” che discenderebbe dall'interruzione drastica dell'attività d’impresa. 
In passato, il richiamo alla gravità del danno, non ulteriormente caratterizzato (esemplificativamente con l’attributo dell’irreversibilità), suggeriva il potenziale impiego dell'esercizio d’impresa anche nell’orizzonte di una gestione in perdita a tutela di interessi distinti da quelli del ceto creditorio e correlati alla particolarità del servizio o del prodotto offerto. 
Proprio la menzione testuale appartata del pregiudizio da scongiurare in capo ai creditori – i quali nulla devono soffrire in virtù della “prosecuzione” – faceva chiarezza sulla riferibilità del “danno grave” ad un contesto estraneo al recinto delle posizioni creditorie, quindi ad una somma socialmente rilevante di situazioni soggettive e/o collettive, oppure all’impresa in re ipsa, minata nella sua esistenza, lesa da una diminuzione di valore, attinta dalla privazione repentina di ambiti di mercato, in ipotesi di improvvisa chiusura. 
Nel Codice il presupposto unico diviene quello negativo dell’assenza d’ogni pregiudizio per i creditori. Esso sembra implicare un riferimento all’intangibilità, non dell’interesse del singolo, ma di quello dell’intera categoria. La norma offre, poi, il metro della subordinazione del mantenimento del going concern alla tutela dei creditori, non in quanto la continuazione debba tradursi in un vantaggio, ma nel senso che a costoro vada risparmiata ogni deminutio in termini di soddisfacimento, secondo una valutazione a largo spettro, che tenga conto dell'eventuale maggior realizzo prognosticamente ricavabile all’esito dell’attuata continuazione dell’attività.
Ora, in un quadro che vede disarticolarsi in classi plurali ed eterogenee la "comunità delle perdite", una volta rappresentata dalla massa dei creditori, vi è probabilmente spazio – nel panorama del Codice – pure per una ponderazione del pregiudizio in una prospettiva che ne apprezzi gli eventuali vantaggi compensativi. Altrimenti detto, l’esercizio sembra ormai percorribile laddove si recuperi il gap quantitativo scontato dai creditori, mediante un’analisi dei benefici qualitativi assunti da costoro. Rilevano, cioè, non soltanto le utilità stimate sulla base di una potenziale miglior soddisfazione nominale del credito monetario, ma quelli suscettibili di correlarsi, non tanto alla percentuale numerica del credito, ma alla posizione del suo titolare, nonché della singola sotto categoria nella quale costui si iscrive: per i dipendenti dell’impresa può essere di maggior pregio il mantenimento del posto di lavoro in un’azienda rivitalizzabile con iniezioni finanziarie di terzi, che non la serratura dell’opificio, con la perdita del posto di lavoro e l’acquisizione di un obolo in più alla borsa del riparto concorsuale.
Ovviamente, in tanto l’esercizio è adottabile con sentenza, in quanto sia già chiara la genesi strutturale oppure congiunturale della crisi. Ne deriva l’essenzialità di una istruttoria prefallimentare che su tale aspetto riesca a far lume. Imprescindibile, in particolare, che la situazione economica e finanziaria dell’impresa che l’imprenditore deve depositare nell’ambito di detta istruttoria, assuma un aspetto di "bilancio prefallimentare", così da mostrarsi idonea a procurare una rappresentazione quantitativa e qualitativa delle componenti positive, quindi delle attività patrimoniali, e di quelle negative, quindi delle passività, che formano il patrimonio dell’impresa in un determinato momento, in guisa da illustrare le esigenze finanziarie sottese alla continuazione. 
La situazione in parola deve, in altri termini, esprimere in dettaglio la composizione del patrimonio aziendale, il suo grado di patrimonializzazione, il livello dei mezzi propri investiti, il totale delle risorse finanziarie disponibili, le fonti di finanziamento, la relazione tra queste ultime il capitale impiegato. Devono apparire chiari, in definitiva, tanto il fabbisogno finanziario necessario per la continuazione dell’attività, quanto la sua redditività attuale. Non basta "fotografare" l’insolvenza al fine di dichiararla, essendo indispensabile comprendere se quest’ultima comprometta la continuazione dell’attività di impresa su nuove basi. 
Può ben accadere che la decozione sia generata da elementi estranei al "core business", quindi collegata ad una gestione allegra e disinvolta del rapporto mezzi propri e mezzi di terzi oppure ad una diversificazione sciagurata delle attività, che abbia condotto a perdite finanziarie insopportabili. L’opportunità di un esame accurato e riclassificativo del "bilancio prefallimentare" dovrebbe lasciar comprendere se e in che termini un ramo provvisto di autonomia finanziara possa diventare oggetto di continuazione d’attività, posto che solo quando le perdite derivano da costi e ricavi, che segnalano una incapacità strutturale di generare reddito, la continuazione diventa un esercizio velleitario[6].
4 . L’esercizio d’impresa su proposta del curatore
Ai sensi dell’art. 211, comma 3, CCII, la seconda ipotesi di utilizzazione dell’esercizio dell’impresa del debitore fa fulcro su un decreto motivato, emesso dal giudice delegato, su proposta del curatore, corroborata dal parere obbligatorio e vincolante del comitato dei creditori, che plausibilmente andrebbe espresso secondo una prassi di riunione collegiale.
Fisiologico pure nel contesto codicistico, che il curatore somministri agli altri organi concorsuali elementi minimi su cui impostare le rispettive valutazioni; tali elementi riguarderanno la migliore negoziabilità dell’azienda ed un piano rigoroso e minuzioso delle risorse finanziarie funzionali alla continuità, delle entrate attese e dei ricavi pronosticabili.
Secondo una prospettiva ermeneutica abbastanza diffusa, pure in tal caso, per essere disposto, l’esercizio provvisorio presupponeva sotto il vigore della legge fallimentare due requisiti: l’esistenza di un danno grave e l’assenza di pregiudizio ai creditori[7]. 
In realtà, la norma letteralmente esigeva il ricorso di tali elementi soltanto rispetto all’esercizio provvisorio disposto contestualmente alla sentenza dichiarativa di fallimento. Il comma 2 dell’art. 104 tralasciava, infatti, di descrivere i presupposti di adozione del provvedimento, dal che era desumibile come la fattispecie postulasse la mera opportunità-economicità della prosecuzione d’impresa. Segnatamente, se l'esercizio è strumento confacente ad una più remunerativa liquidazione – sia per i presumibili introiti connessi alla prosecuzione dell'attività, sia per il più alto importo ricavabile dalla futura cessione di una azienda non dilaniata – esso può ritenersi rispondente all'interesse dei creditori. 
Non occorreva, meno che mani occorre adesso, nessun danno grave da scongiurare, posto che le esigenze cautelari si affievoliscono e sono i creditori a valutare ciò che è più conveniente per loro. L’attribuzione di un’efficacia vincolante al parere dei titolari delle pretese disvela, del resto, una persistente voluntas legis di subordinazione dell’istituto al complesso delle valutazioni di quanti attendono soddisfazione, depurando l’impiego dell’istituto, a liquidazione giudiziale già aperta, da profili esogeni rispetto alla trama di queste.
Il sindacato del giudice – che non a caso deve esprimersi, pure nel neonato comma 3, in un “decreto motivato” – assume, tuttavia, una latitudine non angusta, rientrandovi un controllo che, se per un verso attiene alla regolarità e alla legittimità formale e sostanziale – dovendo il magistrato appurare l’osservanza delle norme di legge, l’effettività della piena informazione sulle condizioni economico-finanziarie ed industriali dell’impresa e la coerenza dell’istituto prescelto con i dati che contrassegnano l’attualità dell’azienda –, per altro verso, postula una stima di conformità della gestione provvisoria agli obiettivi strategici delineati nel programma di liquidazione. 
L’obiettivo della conservazione dei valori vitali e organizzativi dell'impresa è un modo di salvaguardare ciò che rimane delle strutture aziendali, nella persistente ottica di procurare ai creditori una più ricca garanzia patrimoniale, attraverso il trasferimento a terzi del compendio. 
Ma il mantenimento del complesso aziendale, in quanto strumento inevitabilmente conservativo, è pur sempre orientato allo scopo liquidatorio e l'impresa in essere, ossia l’attività economica del fallito, viene proseguita solo per mantenere in vita l’organizzazione di persone e cose che ne costituisce il mezzo di esercizio, in guisa da scongiurare la disgregazione dei fattori della produzione, nel tentativo di assicurare una migliore soddisfazione dei creditori. 
La convenienza economica per il ceto creditorio, cui fa da specchio il miglior realizzo ricavabile dalla liquidazione di un’azienda attiva in luogo di quella di un insieme scomposto di beni e merci, rimane la bussola di orientamento del curatore e ridonda sull’alveo dei suoi compiti, cui appare avulsa la nozione stessa di risanamento (quindi di eliminazione delle anomalie interne all’impresa che ne hanno comportato la crisi) e di ripristino di redditività mediante il riassetto del rapporto costi-ricavi[8]. Pertanto, i “rimbalzi” virtuosi sul sistema economico, che siano altri e diversi rispetto al vantaggio per i creditori, sono una probabilità o un’evenienza che si palesano estranee al ventaglio delle finalità proprie delle norme sugli strumenti di gestione riallocativa dell’azienda nell’ambito dell’insolvenza.
La circostanza che il giudice delegato esprima un sindacato tanto ampio e sfaccettato, calandolo nel contesto del provvedimento che dispone l’esercizio, implica che quest’ultimo sia suscettibile d’impugnazione con reclamo ex art. 124 CCII. Segnatamente, i creditori e chiunque vi abbia interesse potranno formulare contestazioni anche di merito in ordine alla sussistenza dei presupposti.
5 . Il parametro dell’opportunità-economicità dell’esercizio d’impresa
Sebbene il Codice lo confini, al pari della l.fall., al rango di parametro implicito, il criterio dell’opportunità-economicità presiede certamente all’avvio come alla prosecuzione dell’esercizio, risolvendosi in una complessa analisi comparativa costi-benefici: il giudice è tenuto a prevedere il ricavo potenziale, ritraibile dalla vendita dell'azienda cui venga associato l’esercizio, al netto delle variazioni finanziarie originate dalla continuazione, nonché a confrontare questo dato all’introito conseguibile, alternativamente, dalla monetizzazione dell'azienda non in esercizio e/o dalla dismissione parcellizzata dei singoli beni che la compongono[9].
Proprio la complessità della valutazione in parola continuerà a spiegare, in larga parte, la frequenza – che si prevede modesta – del ricorso all’esercizio già contestualmente alla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, allorché il giudice raramente disporrà di elementi adeguati a porterla sorreggere, salvo i casi rari in cui il procedimento sia stato contraddistinto dalla adozione di misure conservative o cautelari o, comunque, investito da un’istruttoria penetrante, oppure costituisca l’approdo di tentativi alternativi di composizione della crisi, nell’ambito dei quali sia avvenuta una progressiva e complessiva discosure.
La difficoltà di giudizio è aggravata da ciò, che il baricentro sullo sfondo, ossia l’interesse dei creditori, implica un tragitto ricostruttivo assai sdrucciolevole, per la sostanziale complessità di rintracciare, nelle congerie dei titolari di pretese, una omogeneità di intenti o comunanza di obiettivi.  
Tutt’altro che ristretta, ciononostante, si mostra la casistica connessa all’esercizio provvisorio nel contesto della legge fallimmentare e non v’è ragione di dubitare che il Codice finisca per rieditarla. 
All’istituto si è fatto ricorso nel caso di un ramo d’azienda costituito da un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati e organizzati e dotati di un particolare know how[10]; se ne sono registrati impieghi volti a consentire l’adempimento di ordinativi in corso anche a salvaguardia dell’avviamento[11]. 
Un’ipotesi diffusa ha riguardato i fallimenti di società calcistiche che scontavano il rischio di revoca dell’affiliazione[12]. L'art. 16, comma 6, delle Norme Organizzative Interne della FIGC (NOIF) prevede l'immediata revoca dell'affiliazione dalla FIGC della società fallita, salvo che l'esercizio dell'impresa prosegua senza soluzione di continuità: in questo caso, la revoca sopravviene solo alla scadenza del termine per la presentazione della domanda di iscrizione al campionato di competenza successivo salvo che attraverso l’esercizio provvisorio l'azienda sportiva sia alienata prima di allora[13].
In linea di principio, l’istituto copre le eventualità in cui l’attività attenga all’erogazione di servizi di pubblica necessità o di pubblico interesse: si pensi alla somministrazione idrica[14], allo smaltimento di rifiuti, all’esercizio dell’attività sanitaria[15], caso, quest’ultimo, in cui soltanto l’esercizio provvisorio vale a salvaguardare il rapporto di convenzionamento.
Non del tutto disallineati rispetto alla funzione ontologica dell’istituto – coincidente con la salvaguardia del complesso attivo e dei suoi valori intangibili – si mostrano anche impieghi un po’ più dilatati: così il ricorso all’esercizio provvisorio in funzione del completamento di un ciclo produttivo iniziato, con materie prime già acquistate, che altrimenti andrebbero disperse o deprezzate; il suo utilizzo per vendere merce deperibile o di rapida obsolescenza (si pensi a materiale tecnologico); il ricorso ad esso per ultimare la costruzione di un immobile e poterlo rivendere a condizioni migliori.
Si è di recente ritenuto praticabile l’esercizio provvisorio su istanza del curatore in un’ipotesi in cui, ad onta dell’intervenuta declaratoria fallimentare, l’impresa mostrava di conservare uno standing di percepita affidabilità tra gli operatori del settore e un pacchetto salvaguardabile di “clienti storici” che avevano continuato a far pervenire ordinativi di prodotti, rivelandosi in tal modo una penetrazione del ramo aziendale e una presenza sul mercato del marchio di riferimento della realtà produttiva, testimoniate proprio dalla persistenza delle commesse in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento[16].
6 . Il ruolo proattivo della curatela
I commi da 4 a 7 dell’art. 211 del CCII riprendono l’architettura dei commi da 3 a 6 dell’art. 104 l.fall. salva qualche rettifica essenzialmente letterale.
Al pari di quanto accade ex art. 104, comma 3, L. fall., il curatore convocherà, perlomeno trimestralmente il comitato dei creditori, al fine di informarlo sull’andamento della gestione e di consentirgli di pronunciarsi sull’opportunità della continuazione ulteriore dell’impresa. Analogamente a quanto avviene, in forza dell’attuale comma 4 della norma di riferimento della legge fallimentare, il comitato dei creditori potrà, ai sensi del comma 5 dell’art. 211 CCII, discrezionalmente far finire l’esercizio provvisorio, posto che, ogni qualvolta il comitato lo ritenga opportuno, il giudice delegato dovrà ordinarne la cessazione. 
Sempre in linea con i dettami della legge fallimentare, il comma 6 della norma di nuovo conio, prevede che il curatore rendiconti ogni semestre in merito all’attività prestata, nondimeno informando il giudice delegato e il comitato di tutte le circostanze sopravvenute che possano influire sulla prosecuzione dell’esercizio. 
La gestione conservativa del patrimonio produttivo seguita ad incentrarsi – come appare evidente – su di un ruolo proattivo del curatore, chiamato ad assumere sulla procedura il rischio di impresa e a dar corso all’attività economica dell’imprenditore fallito, non a fini di risanamento, ma di tutela dell’organizzazione di beni e persone che di quell’attività rappresenta lo strumento. 
La conduzione dell’impresa in capo al curatore implica l’espletamento di un onere di vigilanza sull’attività degli ausiliari da lui stesso designati[17].
Certamente la prospettiva d’esercizio non può volgere alla ristrutturazione dell’impresa, essendo detta categoria scollegata da una procedura mirata a governare la situazione di irrecuperabilità finanziaria in cui si risolve l’insolvenza[18]. Tuttavia, sebbene il silenzio del Codice al riguardo faccia il paio con la reticenza in proposito della legge fallimentare, nulla esclude che la gestione provvisoria possa contemplare anche un ventaglio, più o meno esteso, di interventi di tipo innovativo, qualora strettamente funzionali a rinvigorire l’impresa, a implementarne la vitalità strutturale, a farle riguadagnare quote, in quel mercato in cui, in ultima analisi, essa ambisce a conseguire una ricollocazione.
7 . Le modalità della gestione "vicaria"
Sullo stampo dell’art. 104 L. fall., l’art. 211 CCII ha inteso sorvolare sulle modalità di svolgimento dell’attività d’impresa, ad opera della curatela.
Nell’assenza di prescrizioni, sembra plausibile ritenere che l’organo concorsuale non necessiti di autorizzazioni del comitato al fine di compiere gli atti di gestione: non vi è nulla di straordinario nell’esercizio degli atti in cui si compendia la conduzione necessarimente dinamica dell’impresa, sicchè, nel quadro del Codice, sono sufficienti a legittimarne il compimento, per un verso l’approvazione che il comitato abbia accordato al programma di liquidazione che preveda l’impiego dell’istituto (art. 213, comma 7, CCII), per altro e concomitante  verso, l’autorizzazione generale e preventiva in cui si risolve il provvedimento che dispone l’esercizio.  
Solo per gli atti che esulino da quanto pianificato e che si connotino, proprio per ciò, come straordinari, occorrerà l’autorizzazione di cui all’art. 132 CCII ("Integrazione dei poteri del curatore"); sarà, invece, necessaria l’autorizzazione del giudice delegato per le costituzioni in giudizio ai sensi dell’art. 123, comma 1, lett. f, CCII.
Sul piano pratico, prevedibili incombenze assorbiranno l’attività del curatore, che dovrà senz’altro adempiere agli obblighi connessi alla tenuta delle scritture contabili e alle scadenze fiscali e sarà tenuto a guadagnarsi la fiducia degli stakeholders attraverso un credibile piano industriale, che muova da un’approfondimento di cause e circostanze del dissesto e dalla fissazione coerente di strategie future del business, anche in guisa da offrire ai potenziali acquirenti elementi di trasparenza e certezza. Indubbiamente, in virtù della supervisione del Tribunale, l’esercizio dell’impresa risulterà piuttosto rassicurante per gli interlocutori di quest’ultima: le banche saranno meglio disposte a concedere finanza necessaria per il rilancio dell'impresa; i fornitori, garantiti dal soddisfacimento dei loro crediti in prededuzione, saranno meno refrattari a riprendere le forniture delle materie prime; i clienti, confortati dal fatto che il loro nuovo referente è organo riconducibile al tribunale, torneranno a confidare in qualche misura nella governance; infine, le maestranze, informate da un soggetto super partes sulla reale condizione della società, potranno profondere energie per concorrere al rilancio aziendale[19].
In funzione del riassetto, i costi amministrativi e le spese generali funzionali al ciclo produttivo andranno calibrati al minimo, mentre la rete vendite dovrà essere riarticolata attraverso una gestione del "portafoglio clienti" tale da assicurare un fatturato con una apprezzabile marginalità.
Il curatore si occuperà, poi, di selezionare i contratti compiutamente funzionali alla continuità, sospendendo o sciogliendo unilateralmente quelli che tali non siano, a tenore di quanto consentitogli dal comma 8 dell’art. 211 CCII.
Detto comma accoglie la regola per quale i contratti pendenti alla data di apertura della liquidazione proseguono in costanza di esercizio dell’impresa del debitore, ferma e impregiudicata la facoltà del curatore di chiederne la sospensione oppure lo scioglimento, alla stregua delle disposizioni dettate in materia di effetti della liquidazione medesima sui rapporti giuridici pendenti. La valutazione ad opera della curatela, oltre che imperniarsi sul parametro di economicità, dovrà ponderare la reale utilità dei contratti in vista di una redditizia conservazione dei beni in funzione liquidatoria, tenuto conto anche della prededucibilità dei crediti sorti durante l’esercizio[20]. Al momento della cessazione dell’esercizio si applicheranno, ad ogni buon conto, le norme di cui alla Sezione V del Capo I del Titolo V[21].
La disposizione, in esame, va, peraltro, raccordata con gli artt. 172 e ss. CCII. Il coordinamento sta in ciò, che le norme generali vedono riespandere la propria incidenza applicativa una volta concluso l’esercizio della curatela e in relazione ai contratti che, nelle more, non siano stati sciolti. In ogni caso, deve ritenersi applicabile analogicamente, in costanza di esercizio, la prerogativa di cui al comma 2 dell’art. 172 richiamato, che consente al privato contraente di mettere in mora il curatore, facendogli assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a sessanta giorni, decorso il quale, ove l’organo concorsuale non comunichi di voler subentrare nel rapporto negoziale, quest’ultimo si intende risolto.
La struttura della disciplina dei contratti pendenti nel contesto dell’esercizio provvisorio è coerente con la finalità conservativa del patrimonio produttivo delle imprese in crisi, perseguita dal legislatore, proprio in quanto permette al curatore di proseguire con profitto l'attività imprenditoriale anche e soprattutto attraverso l'esercizio di un’ampia prerogativa di slegarsi dai contratti che appaiano incompatibili con gli scopi della procedura[22]. 
Il medesimo comma 8 in parola è chiaro nel riconoscere l’inerenza alla massa, quindi la prededucibilità, ai crediti sorti nel corso dell'esercizio provvisorio[23].
La dichiarazione di fallimento dell'imprenditore non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto di lavoro, in quanto l'azienda, nella sua universalità, sopravvive e l'impresa non cessa, passando soltanto da una gestione per fini di produzione, suscettibile peraltro di essere continuata o ripresa, ad una gestione per fini di liquidazione, sicché, nel caso in cui la prestazione lavorativa sia proseguita dopo la dichiarazione di fallimento e, di fatto, anche oltre il periodo di esercizio provvisorio dell'impresa autorizzato dal tribunale, i crediti maturati dal lavoratore devono essere ammessi al passivo in prededuzione[24].
Nell'ipotesi di trasferimento di imprese o parti di esse il cui cedente sia oggetto di una procedura fallimentare, può valere l'operatività degli effetti previsti dall'art. 47, comma 5, della L. n. 428 del 1990, ossia l’esclusione dei lavoratori eccedentari dal passaggio presso il cessionario. Il requisito della cessazione dell'attività di impresa è da riferire esclusivamente alla procedura di amministrazione straordinaria, mentre in ipotesi di esercizio provvisorio il criterio dirimente si rinviene nella natura "liquidatoria" o meno delle procedure concorsuali coinvolte[25].
8 . Informazione e controllo sull’attività
Proprio in quanto a condizionarlo vi è l’allineamento alla stella polare dell’interesse creditorio, l'esercizio d’impresa – tanto disposto coevamente alla sentenza d’apertura della liquidazione, quanto statuito in costanza di quest’ultima – anche nell’ambito incipiente del CCII esige come persistenti i presupposti che lo hanno giustificato, di talché la convenienza (in negativo, l’assenza di pregiudizio) per i creditori, oggetto di apprezzamento nella fase genetica, è tema di riprova incessante, in una assidua attività di osservazione e verifica. 
All’uopo, in forza dell’art. 211, comma 4, CCII (che tiene pedissequamente la scia dell’attuale art. 104, comma 3, L. fall.), il comitato dei creditori sarà convocato dal curatore almeno ogni tre mesi ed informato sull'andamento della gestione, così da potersi pronunciare sull'opportunità di continuare l'esercizio.
Sempre in funzione del monitoraggio sul corso (e sui costi) dell’esercizio, il comma 6 della norma codicistica in parola richiede al curatore la presentazione di un rendiconto semestrale, sotto forma di bilancio intermedio[26], e di uno finale, diretti entrambi a fare ostensione dei risultati complessivi della continuazione aziendale. 
Ancora in una cornice informativa, deve leggersi la previsione, di cui al medesimo comma, in base alla quale il curatore è tenuto ad informare "senza indugio il giudice delegato ed il comitato dei creditori di circostanze sopravvenute che possano influire sulla prosecuzione dell'esercizio provvisorio". 
Giova considerare che il ruolo del comitato, tanto in fase d’avvio, che di controllo, che – infine e come si vedrà (Par. 9.) – di cessazione dell’esercizio, si giustifica per ciò, che detto istituto serba una intrinseca rischiosità per il ceto creditorio, in quanto fa subentrare il curatore nella gestione di una impresa la cui titolarità rimane in capo al fallito, con il conseguente cimento, da parte dell’organo motore della liquidazione, in un’attività imprenditoriale suscettibile di innescare, sul piano dei rapporti obbligatori che si correlano alla gestione, una responsabilità diretta del fallimento.
9 . La cessazione dell’esercizio
La chiusura dell’esecizio continua a scontare, anche nel Codice, le sue tradizionali criticità: l’ancoraggio al criterio asettico e inespressivo dell’opportunità della chiusura e una evidente asimmetria di governo della fase di epilogo rispetto a quella di avvio. 
In effetti, il giudice dovrà disporre la cessazione, con provvedimento reclamabile, sol che il comitato reputi opportuno non proseguire oltre (art. 211, comma 5). Il tribunale, dal canto suo, potrà far cessare motu proprio l’esercizio, con provvedimento non assoggettabile ad impugnazione, sentiti curatore e comitato dei creditori (comma 7). 
Se ne ricava che il giudice delegato, quand’anche autorizzi l’esercizio, non avrà potere di impedirne la fine; il tribunale, di contro, potrà scandire sia l’inizio (con sentenza) che la cessazione dell’esercizio; il comitato disporrà di un potere di veto sia sull’avvio (in costanza di liquidazione giudiziale), su impulso del curatore, che sulla prosecuzione dell’esercizio in ogni caso, mentre non potrà, comunque, opporsi alla valutazione autonoma che il tribunale dovesse decidere di compiere, decretando autoritativamente la conclusione della gestione provvisoria. 
Su questo spartito concettuale così dissonante fa premio l’opportunità di una virtuosa condivisione di scelte strategiche tra gli organi concorsuali coinvolti.
In ogni caso, un problema continuerà ad afferire alla spettanza del potere di disporre l’esercizio d’impresa nel lasso intercorrente tra la sentenza dichiarativa di apertura della liquidazione giudiziale e l’approvazione del programma di liquidazione. L’istituto sembrerebbe attivabile per decreto del giudice delegato, su istanza del curatore che gli dovesse rappresentare le ragioni di urgenza, previo parere del comitato dei creditori qualora già costituito. Il tribunale, d’altronde, nell’alveo del comma 2 dell’art. 211 CCII, vede esaurirsi il potere di unilaterale statuizione della gestione provvisoria in coincidenza con il deposito della sentenza che apre la liquidazione.
10 . Esercizio d’impresa e appalti pubblici
I commi 8 e 10 dell’art. 211 del CCII espongono opportune le precisazioni in punto di rapporti fra l’impresa in esercizio e gli enti pubblici appaltanti. 
Il comma 8 della nuova norma, nel conservare, in linea di continuità con il comma 7 dell’art. 104 L. fall.[27] la prerogativa di sciogliere o sospendere i contratti pendenti in essere e la prededucibilità dei crediti generati in corso di esercizio, soggiunge che “è fatto salvo il disposto dell’articolo 110, comma 3, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50”. Tale ultima disposizione, acclusa nel c.d. “Contratto degli appalti pubblici”, prevede che il curatore del fallimento in esercizio provvisorio, possa, dietro autorizzazione del giudice delegato “a) partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto; b) eseguire i contratti già stipulati dall'impresa fallita o ammessa al concordato con continuità aziendale”. 
Ove si consideri che, il successivo comma 10 dell’art. 211 CCII dispone che “Il curatore autorizzato all’esercizio dell’impresa non può partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto”, complessivamente se ne ricava come l’organo concorsuale in menzione necessiterà sempre di un titolo autorizzatorio, resogli dal giudice delegato, al fine di instaurare rapporti negoziali con stazioni appaltanti pubbliche, accedendo previamente alle procedure di gara da queste indette.
11 . Rilievi sistematici
La circostanza che la norma sull’esercizio d’impresa sia quella che apre il novero delle disposizioni dedicate alla liquidazione dell’attivo rende plastica l’idea di incentivare, rispetto alle soluzioni liquidatorie, quelle che mantengono il going concern, non senza condizionarle, tuttavia, al limite della corrispondenza della continuazione dell’azienda al miglior interesse dei creditori coinvolti. Non è un caso che a costoro non possa essere arrecato pregiudizio dall’esercizio disposto in sentenza (comma 2, art. 211 CCII); né è accidentale che essi possano ottenere la cessazione dell’esercizio ogni qualvolta lo sentano “opportuno” (comma 5, art. 211 CCII). La tutela dell’impresa rimane, in altri termini, sotto ordinata rispetto a quella dei creditori, posto che il delicato rapporto tra conservazione dell’impresa e modalità di soddisfacimento dei creditori, è bilanciato a favore di questi ultimi, se non stabilito da essi stessi, in virtù della prerogativa di far cessare ad libitum la continuazione dell’impresa sul presupposto, a dir poco evanescente, di una avvertita “opportunità” (comma 5, art. 211). 
La questione cruciale rimane netta ed attiene al se oggi questa regola giuridica corrisponda o meno all’esigenza economica. Se si osserva la struttura della impresa e la complessità delle sue articolazioni, se si considerano i rapporti economici che si organizzano in funzione di essa o in cui essa si trova coinvolta, viene naturale dubitare che i soggetti su cui la crisi maggiormente impatta siano solo quelli o essenzialmente quelli che, hic et nunc, si palesano titolari di un credito liquido ed esigibile. Altri soggetti, portatori di istanze ulteriori, rivelano una posizione non meno esposta ai contraccolpi della crisi dell’impresa: sono i lavoratori che aspirano a conservare il posto, i partners commerciali, gli utenti dei beni e dei servizi forniti dall’impresa, le realtà dell’indotto. Tutti questi soggetti, non potendo vantare una obbligazione inadempiuta dal debitore, si collocano ai margini del contesto dell’insolvenza, rimanendo condannati a subire le decisioni dei creditori sul destino dell'impresa in esercizio.
Questa fisionomia complessiva si proietta sullo strumento cardine di conservazione del going concern in funzione liquidatoria: l’esercizio d’impresa non viene, nel contesto della Riforma, inciso nelle sue sembianze. Ed allora è agevole individuare alcuni profili certi: identica rimane la prospettiva della salvaguardia ad appannaggio dei creditori degli organismi produttivi, in vista di una loro riallocazione imprenditoriale, mediante forme e moduli rimessi alla selezione del curatore; le prerogative gestorie seguitano a far capo a quest’ultimo; invariato resta il rapporto tra gli organi; un compito sostanzialmente decisorio viene conservato in capo al comitato dei creditori; il giudice mantiene una terzietà di ruolo e d’approccio.
In quest’ottica, il Codice costituisce un’implicita risposta affermativa sulla ritenuta sufficienza dello strumento in parola, secondo la foggia che lo contrassegna da tredici anni. All’altro corno del dilemma, quindi alla domanda sul se i protagonisti della gestione dell’insolvenza abbiano saputo adoperarlo, il responso è sempre sottinteso, ma stavolta di tenore negativo. E si afferra nell’esigenza di rimeditare – che il Codice disvela – non tanto lo schema della conservazione prodromica alla liquidazione dell’azienda insolvente, ma il luogo e il tempo della negoziazione della crisi, che secondo il Riformatore non può non avvenire prima e non può non compiersi sotto l’egida di organi neutrali di composizione dei problemi connessi al ciclo economico. Il che sembrerebbe un segnale di immaturità del sistema, se non fosse, come in effetti verosimilmente è, il sintomo di un sistema che cerca nel confronto consapevole in un contesto imparziale e degiurisdizionalizzato il suo nuovo punto di equilibrio: da qui l’approdo ai meccanismi di allerta, con le copiose incoglite sulla loro funzionalità e prima ancora su mezzi e connotati di una loro ragionevole messa a regime.

Note:

[1] 
In tema per un inquadramento organico anche in rapporto allo strumento “parallelo” dell’affitto d’azienda v. funditus M. Spiotta, Esercizio provvisorio e affitto d’azienda, in Fallimento e concordato fallimentare, a cura di A. Jorio, Torino, 2016, 2160, ss.
[2] 
S. Leuzzi, L’evoluzione del valore della continuità aziendale nelle procedure concorsuali, in Nuove Leggi Civ. Comm., 2022, 2, 479.
[3] 
In tema di esercizio provvisorio e di liquidazione dell’azienda attiva v. tra gli altri G. Bozza, Liquidazione dell'attivo in funzione di recupero dei valori aziendali, in Il Fall., 2014, 858; F. Fimmanò, Liquidazione programmata, salvaguardia dei valori aziendali e gestione riallocativa dell'impresa fallita, in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di A. Jorio e M. Fabiani, Bologna, 2010, 447; B. Meoli, L'esercizio provvisorio dell'impresa del fallito, in Fallimento e altre procedure concorsuali, dir. Da G. Fauceglia - L. Panzani, Torino, 2009, 1165; G.B. Nardecchia, Esercizio provvisorio, in M. Ferro (a cura di), Le insinuazioni al passivo, I, Padova, 2010, 905; S. Pacchi, La liquidazione dell'attivo con particolare riferimento all'azienda, in Dir. fall., 2016, 8 ss.; E. Sabatelli, L'esercizio provvisorio dell'impresa nel fallimento fra interessi concorsuali, interessi particolari dei creditori e interessi c.d. "sociali", in Dir. fall., 2011, 128 ss.
[4] 
Pare questa una prospettiva costante nella letteratura che investe o lambisce il tema dell’esercizio provvisorio. V. ex multis F. Pasquariello, Gestione e riorganizzazione dell'impresa nel fallimento, Milano, 2010, 27; E. Stasi, L'esercizio provvisorio, in Il Fall., 2007, 854; G. Trisorio Liuzzi, L'esercizio provvisorio e la liquidazione dell'attivo, in Foroit., 2006, V, 197; L. Abete, Il novello "esercizio provvisorio": brevi notazioni, in Dir. fall., 2006, I, 665; L. Mandrioli, La liquidazione dell'attivo e l'esercizio provvisorio dell'impresa, in La riforma organica delle procedure concorsuali, a cura di Bonfatti e Panzani, Milano, 2008, 429; S. Ambrosini, L'amministrazione dei beni, l'esercizio provvisorio e l'affitto d'azienda, in Ambrosini-Cavalli-Jorio, Il Fall., in Trattato Cottino, XI, 2, Padova, 2009, 526.
[5] 
L’affitto è suscettibile di integrarsi reciprocamente con l’esercizio, allo scopo del conseguimento di una vendita unitaria del compendio.
[6] 
In ultima analisi, occorrerebbe che, già in sede istruttoria prefallimentare, l’Ufficio fosse messo nelle condizioni di verificare la natura delle immobilizzazioni immateriali, la consistenza effettiva del magazzino, lo stato dei crediti, quindi di sondare il margine di tesoreria, il capitale circolante netto e, in definitiva, la capacità dell’impresa di produrre reddito sostenendo il debito.
[7] 
Trib. Terni, 28 ottobre 2010, in Osservatorio-oci.org; Trib. Benevento, 28 ottobre 2014, inedito contra Trib. Bologna, 14 agosto 2009, in giur. comm., 2010, ii, 1174, secondo cui l’esercizio provvisorio disposto ai sensi dell’art. 104, comma 2, L. fall. mira soltanto alla miglior valorizzazione dell’attivo fallimentare, senza considerare le altre finalità previste dal primo comma della norma; per la necessaria esistenza di ambedue i requisiti v. A. Pezzano e M. Ratti, Il downgrade del Codice della Crisi e il “nuovo” codice dell’emergenza: “vecchi” strumenti a supporto del concordato con riserva “di massa”, in Dirittodellacrisi.it, 18 marzo 2021.
A. Rossi, l’esercizio provvisorio nella mission della procedura fallimentare, in giur. comm., 2010, 1196-1197; parzialmente contra F. Fimmanò, la gestione dell’impresa nell’ambito del fallimento, in trattato delle procedure concorsuali - iii il fallimento, A. Jorio-B. Sassani, Milano, 2016, 165, che ritiene non necessario che il Giudice Delegato verifichi la sussistenza di un danno grave, ma unicamente l’insussistenza di un pregiudizio per i creditori.
[8] 
Di contrario avviso sembra, tuttavia, A. Pezzano, Esercizio provvisorio e concordato fallimentare: un propizio connubio per il futuro concorsuale, in Ilcaso.it, il quale sembra ammettere che il curatore sia abilitato a perseguire anche finalità di risanamento, sempre che ciò non comporti pregiudizio per i creditori, sia pure nell'ottica comunque di una successiva alienazione dell'azienda o di un più favorevole concordato fallimentare.
[9] 
Sulla valutazione della vantaggiosità del ricorso all’esercizio provvisorio v. A. Danovi, L'esercizio provvisorio: vincoli giuridici e tematiche valutative, in Esercizio provvisorio e strumenti alternativi per la continuità aziendale, Milano, 2013, 191.
[10] 
Cass. 7 marzo 2013, n. 5678; Trib. Piacenza, 10 agosto 2012 in Ilcaso.it; Trib. Udine, 12 dicembre 2011, in Ilcaso.it; Trib. Bologna, 14 agosto 2009, in Ilcaso.it.
[11] 
Trib. Lecco, 9 luglio 2013, in Ilcaso.it.
[12] 
Trib. Vicenza, 18 gennaio 2018, e Trib. Latina, 9 marzo 2017, commentate da A. Guiotto, L’esercizio provvisorio della società calcistica fallita, in Il Fall., 2018, 6, 756. V. anche Trib. Parma, 19 marzo 2015, in Ilcaso.it.
[13] 
Così A. Guiotto, L’esercizio provvisorio della società calcistica fallita cit., 758. F. Fimmanò, Fallimento della società di calcio, nomina cautelare del "pre-curatore" ed effetti sull'ordinamento sportivo, in corso di pubblicazione in Giur comm., II, 2018.
[14] 
Trib. Siracusa, 26 novembre 2013, in Il Fall., con nota di Angeli.
[15] 
Trib. Siracusa, 13 novembre 2013, in Il Fall., con nota di Amatore.
[16] 
Trib. Bergamo, 2 aprile 2022, in Dirittodellacrisi.it. 
[17] 
Ha chiarito Cass., Sez. 3 Pen., 30 agosto 2022, n. 31921, che in tema di esercizio provvisorio, il fallito nominato coadiutore del curatore, che si appropri di somme derivanti dal predetto esercizio commette il reato di bancarotta fraudolenta, non quello di appropriazione indebita. Dal momento che gli accrescimenti patrimoniali si riversano nel patrimonio dell’ente fallito, è ammissibile in astratto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per reati tributari sulle somme prodotte dall’esercizio.
[18] 
Cass. 9 gennaio 1987, n. 71.
[19] 
Sulla conduzione dell’impresa in esercizio v. A. Barachini, La nuova disciplina dell’esercizio provvisorio: continuità dell’impresa in crisi nel e fuori dal) fallimento, in società banche e crisi di impresa, a cura di M. Campobasso-V. Vichiariello-V. Di Cataldo-F. Guerrera-A. Sciarrone Alibrandi, Torino, 2014, 2874; F. Fimmanò, Sub art. 104 L. fall., in il nuovo diritto fallimentare. commentario, diretto da A. Jorio, bologna, 2007, 1612; A. Patti, Rapporti pendenti ed esercizio provvisorio tra prededuzione e concorsualità, alla ricerca della regola da applicare, in Il Fall., 2012, 10, 1230.
[20] 
Cass. 25 settembre 2017, n. 22274.
E Cass. 19 marzo 2012, n. 4303, entrambe in Italgiure osservano che in caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica (nella specie somministrazione) pendenti al momento della dichiarazione di fallimento ed in presenza di esercizio provvisorio dell'impresa fallita, disposto ex art. 104 L. fall., i relativi crediti maturati "ante" fallimento, sono o meno prededucibili, a seconda che, al termine dell'esercizio provvisorio, il curatore abbia scelto di subentrare o sciogliersi dal contratto, mentre solo quelli maturati in pendenza di esercizio provvisorio sono sempre prededucibili, al pari di quelli, successivi al termine dell'esercizio provvisorio, in caso di subentro nel contratto da parte del curatore; infatti, l'eccezionalità delle disposizioni dettate dalla legge fallimentare per i contratti di durata, ex artt. 74 e 82 L. fall., in ragione dell'indivisibilità delle prestazioni, con il diritto alla prededuzione dei crediti anche preesistenti va contemperata con la "ratio" della disciplina dell'esercizio provvisorio, che limita la stessa prededucibilità quando la prosecuzione del rapporto è l'effetto diretto del provvedimento giudiziale, non della scelta del curatore.
[21] 
Sull’assetto delle regole sotto l’egida della legge fallimentare, ma con argomentazioni in buona parta mutuabili v. G.B. Nardecchia, I rapporti pendenti nelle procedure concorsuali: il procedimento, in Il Fall., 2018, 10, 1095.
[22] 
Così con riferimento al comma 7 dell’art. 104 L. fall., ma con argomentazioni mutuabili in parte qua nel nuovo scenario codicistico, A. Dimundo, Struttura e funzione dei contratti pendenti nelle procedure concorsuali, in Il Fall., 2018, 6, 756.
[23] 
Nel quadro dell’attuale art. 104, comma 8, L. fall., omologo sul punto alla norma del CCII, Cass. 25 settembre 2017, n. 22274 e Cass. 19 marzo 2012, n. 4303, ambedue relative a contratti di somministrazione, hanno evidenziato che in caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica pendenti al momento della dichiarazione di fallimento ed in presenza di esercizio provvisorio dell'impresa fallita, i relativi crediti maturati ante fallimento, sono o meno prededucibili, a seconda che, al termine dell'esercizio provvisorio, il curatore abbia scelto di subentrare o sciogliersi dal contratto, mentre solo quelli maturati in pendenza di esercizio provvisorio sono sempre prededucibili, al pari di quelli, successivi al termine dell'esercizio provvisorio, in caso di subentro nel contratto da parte del curatore; infatti, l'eccezionalità delle disposizioni dettate dalla legge fallimentare per i contratti di durata, ex artt. 74 e 82 L. fall., in ragione dell'indivisibilità delle prestazioni, con il diritto alla prededuzione dei crediti anche preesistenti va contemperata con la ratio della disciplina dell'esercizio provvisorio, che limita la stessa prededucibilità quando la prosecuzione del rapporto è l'effetto diretto del provvedimento giudiziale, non della scelta del curatore.
[24] 
Cass. 12 giugno 2019, n. 18779.
[25] 
Così Cass. 14 settembre 2021, n. 24691, in Il Fall., 2022, 1, 21, con nota di R. Bellè, Trasferimento di azienda in esercizio provvisorio fallimentare e derogabilità delle tutele eurounitarie: la suprema corte ancora sulla natura "liquidatoria" quale criterio dirimente.
[26] 
Occorreranno, segnatamente, stato patrimoniale, conto economico, nota integrativa di accompagnamento.
[27] 
Su questo tema nel soppresso regime della legge fallimentare v. L. D'Orazio, Continuità aziendale e gare per l'affidamento di contratti pubblici, in Il Fall., 2017, 755.