Il beneficio è riservato al sovraindebitato incapiente.
Il concetto di incapienza è contenuto nella dizione normativa per cui il debitore “non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura”.
Occorre quindi in primo luogo interrogarsi sul concetto di utilità.
Intanto, è bene osservare che la norma (art. 283, comma 1, CCII) utilizza in due occasioni il termine “utilità”[1]:
- quelle prese ora in considerazione;
- quelle definite “rilevanti” e “sopravvenute”;
a parere di chi scrive, i concetti devono essere tenuti ben distinti, come si dirà infra (dandosi atto, sempre nel prosieguo, di interpretazioni diametralmente opposte sul punto).
Le utilità di cui si tratta adesso, sono quelle da prendersi in considerazione nel momento della apertura della procedura: in altre parole, sono le uniche su cui debba incentrarsi la valutazione del Giudice all’atto della decisione.
Innanzitutto, occorre chiedersi come mai il Legislatore parli di utilità dirette e di utilità indirette.
Le utilità indirette potrebbero, in ipotesi, coincidere con i vantaggi diversi dal denaro (si veda, nel concordato preventivo, art. 84, comma 3 e art. 85, comma 2); ipotesi classiche sono “l’impegno” alla prosecuzione dei rapporti commerciali, ovvero la “promessa” del mancato esperimento delle azioni revocatorie di massa proponibili in caso di liquidazione.
Ora, tali scenari – pur astrattamente immaginabili – sono difficili da ipotizzare nel caso del soggetto che si affacci alla ESI.
Il primo (la prosecuzione dei rapporti commerciali), oltre che ovviamente improponibile nei casi di debitore consumatore o comunque non commerciale, ha un suo senso e significato nelle ipotesi – quale il concordato preventivo – in cui il debitore formalizzi una vera e propria proposta (di ristrutturazione e risanamento), che nella ESI, per struttura sua propria, non c’è: ben difficilmente, infatti, il Giudice, potrebbe affermare che il debitore non possa accedere allo strumento, esistendo la possibilità di garantire alle controparti commerciali la continuazione dei rapporti in essere. Da un lato, perché il vaglio sarebbe quasi diabolico, e comunque del tutto discrezionale; dall’altro lato, perché probabilmente sarebbe assorbito dal riscontro della esistenza di possibili margini operativi della continuità, ciò che, traducendosi in flussi di cassa, renderebbe ragione della esistenza di utilità, sì, ma dirette.
Il secondo (l’omesso esercizio di azioni revocatorie), oltre a scontare le medesime difficoltà in termini di casistica (acuìte dal fatto che tali azioni sono di perlomeno dubbia configurabilità nell’ambito della liquidazione controllata: cfr. art. 274 CCII), impongono in realtà un ribaltamento della prospettiva.
Se infatti degli atti revocabili siano stati compiuti, essi dovranno essere denunciati dal ricorrente (art. 283, comma 3, lett. b CCII) e dall’OCC (art. 283, comma 4, lett. c CCII), ed il loro riscontro condurrà immancabilmente al diniego della EDI, talora per la immeritevolezza del ricorrente, talora per la possibilità di ritrarre attivo (in via diretta) dall’esercizio dell’azione di massa (ove ritenuta esperibile): con il che non è dato immaginare che il debitore “proponga” una (comunque inammissibile) ESI con cui rinunciare a tali azioni.
Merita un cenno, poi, il tema della finanza terza: essa, a parere di chi scrive, non potrà giammai costituire “utilità indiretta” idonea a paralizzare la domanda di ESI, considerato che il Giudice non potrà accertare la esistenza di essa, ove essa non venga riferita, oltre che dal terzo, dal ricorrente stesso (che non si vede perché dovrebbe farlo, se intende accedere ad una ESI “a costo zero”).
A riprova di quanto appena detto può richiamarsi un provvedimento (Trib. Bergamo 07.6.2023 in
Dirittodellacrisi.it) secondo cui “
la domanda di apertura della liquidazione controllata fondata solo su finanza esterna si appalesa inammissibile, in quanto se il debitore non ha alcun bene immobile o mobile, reddito o pensione da liquidare per accedere al beneficio dell’esdebitazione è previsto l’istituto dell’esdebitazione del debitore incapiente”.
Ora, seppur chi scrive ritenga sommessamente che in tali casi la domanda di liquidazione controllata sia in realtà ammissibile e fondata, anche e soprattutto nella ottica del vantaggio dei creditori (e perlomeno allorquando l’apporto del terzo “transiti” formalmente nel patrimonio del debitore, ad esempio attraverso una donazione[2]), è chiaro che, anche se si volesse scegliere la tesi del Giudice orobico, non potrebbe negarsi a quello stesso debitore (financo) l’accesso alla ESI, considerato che una qualche forma di fresh start, al meritevole, deve essere garantita.
Quanto alle utilità, in generale, occorre chiedersi in cosa consistano da un punto di vista quantitativo: si è infatti detto che incapiente è chi non abbia utilità da offrire ai creditori.
Il tema è il vero nodo centrale, e intercetta una serie di questioni focali.
Tra esse, meritano menzione, tra le tante:
- il tema del rapporto tra ESI e liquidazione controllata, anche con riferimento alle iniziative familiari;
- il tema del rapporto tra comma 1 e comma 2 dell’art. 283 CCII;
- il tema del giudizio prospettico circa la incapienza.
Procedendo con ordine, occorre prendere le mosse dalla actio finium regundorum tra ESI e LC.
Il centro del problema è intendersi su un aspetto dirimente.
Dato il sovraindebitamento di un soggetto, occorre chiedersi se costui:
1) possa per sua iniziativa decidere a quale delle procedure, tra loro alternative, fare accesso;
2) ovvero, possa e debba necessariamente intraprendere quella (la sola) che lo riguarda.
La seconda opzione ermeneutica ha un pregio sicuro, coincidente con la maggiore certezza interpretativa: chi sia incapiente potrà (e dovrà) accedere unicamente alla ESI; chi abbia utilità, anche solo prospettiche, da offrire ai creditori, non potrà accedere alla ESI, e dovrà accedere alla LC (salva la futura esdebitazione, ma ex art. 282 CCII).
Tale seconda interpretazione, nel vigore della L. n. 3/2012, era pressoché unanime.
Oggi, nella cornice del nuovo CCII, ha ripreso linfa, invece, la tesi di chi sostiene la prima delle due opzioni summenzionate: Tribunale di Perugia 31.7.2023 (in Ilcaso.it)[3], afferma infatti l’ammissibilità di una procedura di LC, a istanza del debitore, pur in carenza di beni[4].
Ciò fa argomentando sulla base di molteplici e pertinenti rilievi processuali (quivi condensati in estrema sintesi):
- la LC è oggi azionabile a istanza creditoria (art. 268 c. 2);
- in tal caso, la eccezione di incapienza (art. 268 c. 3), o la domanda di switch a procedura di composizione (art. 271), è rimessa all’impulso del debitore convenuto;
- in assenza di tali eccezioni/domande, può quindi ben darsi che si apra una LC in danno di chi non abbia alcun bene;
- non vi è ragione per negare analoga possibilità anche nella ipotesi in cui sia il debitore in proprio a chiederlo;
- con riferimento ai soggetti sottoponibili a LG non si pone il limite della incapienza, dunque non si vede perché trattare diversamente i soggetti sovraindebitati.
L’interpretazione fornita dal Giudice umbro è senza dubbio suggestiva, e poggia su argomenti normativi di sicuro pregio: in una ottica di sistema, peraltro, solleva alcune perplessità che potrebbero, forse, indurre a mantenere preferibile la tesi opposta.
Da un lato, non può non venire in rilievo la “inefficienza” di una LC che si apra e si mantenga in essere unicamente per soddisfare i costi della prededuzione.
Il Tribunale di Perugia prende in considerazione tale argomento[5], immaginando la possibilità di immediata chiusura della procedura di LC (arg. ex artt. 276 e 233 lett. d, CCII).
Ciò non toglie, però, che una qualche diseconomicità – in termini di inutile aggravio dell’attività giudiziaria – permanga, se sol si pone mente al fatto che uno strumento alternativo esiste nel panorama normativo, ed è proprio l’ESI.
Con il che, perde di rilevanza anche l’argomento che pretende di mutuare la propria ragion d’essere dalla esistenza, nell’ordinamento, di una “LG dell’incapiente”, fattispecie ove, da un lato, l’alternativa non esiste (dato che una esdebitazione a zero in via diretta non è accessibile ai soggetti liquidabili giudizialmente), e, dall’altro lato, si aggiungono ragioni pubblicistiche ben più rilevanti, che hanno a che fare con il buon andamento della economia e del mercato, e con l’eliminazione dei soggetti insolventi da tali ambiti.
Tornando al caso del sovraindebitato, se le risorse attive siano inesistenti, vi sarebbe il rischio che, in una ipotetica disponenda LC, debba farsi carico di alcune di esse l’Erario.
Se le risorse attive, invece, fossero minime, esse verrebbero di certo assorbite dai costi della procedura, laddove, nell’ambito della ESI, esse verrebbero lasciate nella disponibilità del debitore (che, dunque, potrebbe goderne), o addirittura, laddove integrate dalle sopravvenienze rilevanti, destinate ai creditori.
Sotto un diverso profilo, e traendo spunto da quanto appena accennato, l’opzione interpretativa che propugna la doverosa alternatività tra ESI e LC è preferibile anche in quanto idonea a scongiurare eventuali abusi: se infatti il debitore (in casi analoghi a quello perugino) preferisca rinunciare (alla ESI, e, di conseguenza) a trattenere il pur modesto attivo, occorre domandarsi perché mai voglia farlo; e probabilmente, “a pensar male”, la risposta riposerebbe su un duplice rilievo:
- egli preferisce soggiacere alla procedura di LC, attesa la sua minore durata (quale che sia[6]: di certo non superiore ai tre anni, quanto alla possibilità di chiedere l’esdebitazione, che peraltro in caso di immediata chiusura, nel senso proposto dai provvedimenti di Perugia e Milano, potrebbe essere chiesta molto prima; cfr. art. 282, comma 1 CCII), rispetto alla sorveglianza quadriennale dell’OCC nella ESI, che determina, nei fatti, una esdebitazione condizionata;
- egli non intende “sprecare il bonus” della ESI, notoriamente concedibile once in a lifetime, come prevede l’art. 283, comma 1 CCII.
Allo stesso modo, la possibilità di elezione che propugna il provvedimento umbro potrebbe favorire il debitore che faccia la scelta esattamente opposta: egli, infatti, immaginando di poter ritrarre nei mesi successivi all’accesso alla LC importanti voci di attivo (che, però, non siano tali da superare il limite del dieci per cento di cui all’art. 283), sarà indotto a preferire l’accesso alla ESI, a tutto detrimento dei creditori.
Insomma, principi di certezza e di economicità, conducono a ritenere preferibile la tesi della perfetta alternatività (“doverosa”) tra ESI e LC.
Tale interpretazione, peraltro, potrà essere messa ulteriormente in crisi da un diverso genere di evenienze: considerata la possibilità di accesso alla LC cd. familiare (art. 65, comma 1, CCII), vi sarà da chiedersi come trattare tutte le ipotesi in cui uno dei due familiari superi (magari ampiamente) i parametri di capienza, laddove l’altro familiare versi in situazione di incapienza.
Ciò, è appena il caso di sottolinearlo, soprattutto in quei casi in cui il familiare incapiente sia tale non per avventura, ma proprio per aver dedicato i propri sforzi al menage del nucleo, a tutto vantaggio della famiglia, ed in adempimento a doveri sociali, di rango costituzionale, rispetto ai quali la rigida impostazione della “separazione delle masse attive” (cfr. art. 66 c. 3 CCII) nel frangente della crisi pare, in fondo, recessiva.
Venendo al tema del rapporto tra comma 1 e comma 2 dell’art. 283 CCII, mette conto osservare come secondo alcuni precedenti giurisprudenziali[7] il criterio di calcolo delle utilità rilevanti sopravvenute (comma 2 della norma) rappresenti, anche ed allo stesso tempo, spartiacque idoneo a chiarire, sin dal momento della presentazione della domanda, chi possa dirsi incapiente, e chi no.
Può essere utile utilizzare uno “specchietto” proposto dalla Circolare dell’OCC Roma del 12.7.2023, in
Dirittodellacrisi.it.In tale esempio, la Circolare conclude per la ammissione del debitore alla ESI, atteso che, sin dall’inizio, il reddito percipiendo conduce ad un importo più basso rispetto alla soglia “di rilevanza” siccome calcolata.
Tale impostazione, però, si presta ad alcune critiche, puntualmente denunciate dalla Dottrina[8].
In primo luogo, il dato testuale appare chiaro nello slegare i due concetti di “utilità” (termine che, come si è detto, compare due volte nella norma): da un lato, vi sono le utilità, attuali e prospettiche, idonee alla valutazione originaria della incapienza; dall’altro lato, vi sono le utilità sopravvenute e rilevanti (il secondo comma si limita a chiarire quando le stesse possano dirsi tali) da destinarsi ai creditori in una prospettiva dinamica, laddove superino la somma del dieci per cento del passivo complessivo.
Attribuire alla seconda categoria portata discretiva della condizione di incapienza, quindi, pare – anche solo da un punto di vista letterale – un fuor d’opera[9].
In secondo luogo, e soprattutto, opinare in tal senso condurrebbe, in taluni casi, ad un vero e proprio cortocircuito.
Si prenda il caso di cui allo “specchietto” romano: se in tale situazione il debitore, invece di percepire un reddito annuo di € 23.400,00 (sotto soglia comma 2), ne percepisse appena un migliaio in più su base annua (€ 24.400,00: sopra soglia), ragionando secondo la tesi qui criticata, non sarebbe ammissibile alla ESI, e dovrebbe seguire la strada della LC.
E, però, quel medesimo debitore potrebbe offrire alla procedura (si badi: non ai creditori) sostanze davvero risicate, ossia €. 24.400,00 - €. 24.141,86 = €. 258,14 su base annua, i quali, moltiplicati per il triennio, condurrebbero ad un totale di €. 775,00 circa complessivi (da destinarsi, di fatto, al Liquidatore).
E le iniquità non sarebbero finite: è infatti chiaro che, in caso di sopravvenienze, colui che per poche centinaia di euro annue sia stato ammesso alla ESI in quanto sottosoglia secondo lo “specchietto”, potrebbe trattenere le stesse, sino al limite del 10%; il soggetto che invece sia stato costretto (in quanto sopra soglia per le stesse poche centinaia di euro su base annua) alla LC, non potrebbe trattenere nulla di quanto percetto nel triennio, eccettuato naturalmente quanto necessario al mantenimento (e sempre che, sia chiaro, si convenga sulla operatività dell’art. 142 CCII nella LC, come opina chi scrive).
Ecco quindi che le utilità cd. originarie, di cui al primo lemma, devono verosimilmente essere apprezzate in modo indipendente da quelle sopravvenute, e probabilmente in una ottica case by case.
La questione, invero, è complicata da altri rilievi, e il rischio di iniquità è pur sempre “dietro l’angolo”.
Innanzitutto, sia le utilità originarie, che quelle sopravvenute, possono essere rappresentate da redditi, ma anche da beni e diritti.
Ora, seguendo sempre il caso dello “specchietto” di cui sopra, è possibile immaginare la posizione di taluno che percepisca redditi correnti certamente insufficienti (o a malapena sufficienti) a garantire il mantenimento dignitoso proprio e dei familiari, il quale però, al contempo, sia proprietario di beni di modesto valore (il caso classico, è quello della autovettura).
Orbene, ad una valutazione superficiale potrebbe ritenersi che costui sia in grado di offrire una utilità concreta ai creditori (poniamo infatti che il ricavato della vendita della autovettura sia sufficiente a pagare, oltre alle spese prededucibili, anche in parte i creditori del concorso): di qui, la ammissione alla LC, e la inammissibilità del ricorso alla ESI.
Rimarrebbe però pur sempre il tema delle sopravvenienze, ove potrebbero verificarsi le stesse iniquità sopra descritte.
E allora, forse, potrebbe davvero avere un senso seguire la tesi dottrinale[10] che suggerisce di svolgere sin dal momento della ammissione una prognosi circa la disponibilità, attuale o prospettica, di attivo che consenta il superamento, o meno, nel successivo triennio (della LC), della soglia del 10% del monte debitorio.
In caso di valutazione positiva, il debitore dovrà optare per la LC.
In caso negativo, sarà incapiente, e potrà accedere alla ESI.
Con il che, il concetto di utilità (primo lemma) sarebbe riempito di contenuto.
Ma i problemi non sono finiti: le utilità (prospettiche, nella tesi sopra riportata; sopravvenute, in ogni caso;) devono essere tali da consentire il pagamento del 10% complessivo dei creditori.
L’avverbio “complessivamente” è stato introdotto dal Correttivo di giugno 2022 al CCII, e ha il pregio di chiarire quale sia il denominatore della frazione: l’intero passivo.
Sennonché, ciò determina ictu oculi una grave contraddizione: se, infatti, si ritenga (come pare opinione unanime) che l’attivo sopravvenuto inferiore al 10% del passivo possa essere trattenuto dal debitore – in forza di una chiara e in fondo condivisibile scelta legislativa di utilitas creditoria e di tutela dei soggetti economicamente deboli – è giocoforza ritenere favoriti i debitori che abbiano un monte debiti più alto.
Se un debitore ha 1 milione di euro di passivo, potrà trattenere le sopravvenienze sino ad un importo di € 99.999,99; se un debitore ha € 100.000,00 di passivo, potrà trattenere somme sino all’importo di € 9.999,99; il tutto, con buona pace del principio di eguaglianza, e di quello di solidarietà sociale (integrato, nella materia de qua, dal dovere di contenere per quanto possibile il passivo, in disparte peraltro il criterio della meritevolezza di cui si dirà).
Altre asperità di apprezzamento e/o calcolo delle utilità (prospettiche e/o sopravvenute) possono essere risolte attraverso una interpretazione “di buon senso” del dettato normativo, oggettivamente non brillante: pare infatti potersi sostenere decisamente che l’attivo – da parametrarsi al passivo al fine di verificare il raggiungimento della soglia del 10% - debba essere calcolato all’esito del quadriennio, e dunque sommando “l’utile” percepito, su base annua ed al netto dei “costi”, in ognuno dei quattro anni.
Diversamente opinando, infatti, sarebbe molto arduo ipotizzare (al di là di casi di scuola quali la vincita alla lotteria, o la eredità ingente[11]) che il sovraindebitato possa raggiungere tale somma nel singolo anno.
Naturalmente, ammesso che questa appena proposta sia l’interpretazione corretta, rimangono i seri problemi inerenti la sorte concreta delle utilità rilevanti, di cui si dirà.
Da ultimo, e tornando a focalizzare la attenzione al tema del vaglio delle utilità prospettiche, bisognerà capire quale sia il concreto contenuto di esso: la norma infatti non spiega quale grado di verosimiglianza debba avere questa prognosi, se deve cioè essere espressa in termini “ottimistici” e di probabilità, tenendo conto dell’età, formazione culturale e professionale del debitore, della sua pregressa esperienza lavorativa, del contesto sociale, etc., ovvero in termini più generosi (e al contempo più prudenti), così considerare incapiente anche il debitore che è allo stato privo di un reddito e di una prossima e concreta possibilità di occupazione o rioccupazione.
Chi scrive propende per la seconda interpretazione, vuoi in ossequio a principi di certezza e prevedibilità delle decisioni giudiziarie, vuoi avuto riguardo alla intima ratio dell’istituto.
È infatti chiaro che l’atteggiamento “ottimistico” (ma, si badi, più rigoroso) condurrebbe spesso a ritenere “capiente in prospettiva” chi ad oggi capiente non sia assolutamente; ciò magari sulla base di mere congetture – la giovane età, la qualifica di professionista, etc. – che non tengano conto delle specificità e del background personali e sociali, e che magari assumano addirittura come base del giudizio elementi del tutto aleatori, quali le semplici aspettative.
Una impostazione più prudente (ed al contempo più “aperta”), invece, avrebbe il pregio di fondare la decisione su dati economici certi, o quantomeno seriamente ipotizzabili, che affidino il giudizio di capienza prospettica ad opportuni stress test.
Ciò, inoltre, permetterebbe il raggiungimento immediato dell’obiettivo codicistico (ma anche unionale), che è quello della pronta ripartenza economica del soggetto interessato, attraverso la sua esdebitazione, con ogni intuibile beneficio per il sistema, fermo comunque il contrappeso della sorveglianza quadriennale.