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Saggio

Le spese della liquidazione giudiziale revocata e la “terza via” erariale*

Luigi Nannipieri, Consigliere della Corte d’Appello di Firenze

7 Aprile 2025

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Lo scritto tratta del compenso del curatore e delle spese della liquidazione giudiziale poi revocata, con particolare riferimento all’ipotesi, non disciplinata dall’art. 366 CCII, nella quale l’errata apertura della procedura non è imputabile né al debitore né al creditore istante, con possibile responsabilità dell’Erario. 
Riproduzione riservata
1 . Introduzione. Un bivio o un trivio?
In caso di revoca della liquidazione giudiziale l’art. 366 CCII, sostituendo l’art. 147 del T.u spese di giustizia, ha attribuito alla Corte di Appello, nell’ambito del giudizio di reclamo, il compito di accertare la responsabilità della erronea dichiarazione di apertura, individuando il soggetto tenuto al pagamento del compenso al curatore e delle altre spese della procedura (ad esempio i compensi per altri professionisti nominati: avvocato, estimatore). Stando al testo normativo la Corte di Appello avrebbe di fronte a sé una alternativa secca, un bivio: “accerta se l’apertura della procedura è imputabile al creditore o al debitore”[1]. La liquidazione è poi demandata dall’art. 53 CCII al tribunale, che provvede “con decreto reclamabile ai sensi dell’articolo 124”. 
All’apparenza tutto chiaro e lineare, “tutto molto bello”, come direbbe il compianto Bruno Pizzul. 
In realtà, come vedremo, il legislatore ha consapevolmente cercato di nascondere, tra le frasche normative, una terza via, magari più stretta, meno trafficata, ma reale: l’apertura della liquidazione giudiziale non imputabile né al creditore né al debitore, con possibile pagamento a carico dell’Erario. 
In questa sede si tenterà di ricostruire questo ulteriore percorso, che il legislatore ha in qualche modo occultato, comunque non disciplinato e quindi reso più difficile da individuare ed intraprendere.
2 . Le ipotesi di responsabilità dell’Erario
Varie sono le ipotesi nelle quali l’apparente bivio normativo risulta insufficiente per la decisione della corte in sede di reclamo, con fattispecie già esaminate dalla giurisprudenza anche con riferimento alla previgente legge fallimentare: liquidazione giudiziale richiesta dal Pubblico Ministero[2]; notifica introduttiva nulla[3]; liquidazione dichiarata d’ufficio[4]; revoca della liquidazione conseguente ad erronea dichiarazione del tribunale di inammissibilità o mancata omologa di uno strumento alternativo di regolazione della crisi e dell’insolvenza[5]; estrema difficoltà ed incertezza nell’accertamento del superamento o meno delle soglie ex art. 2 CCII oppure della prevalenza o meno dell’attività agricola (difficoltà risolta in ipotesi dalla corte solo tramite CTU, con obbiettiva inesigibilità di una sicura valutazione preliminare da parte del creditore istante), etc[6]. 
In simili, residuali ma variegate, ipotesi, il pagamento del compenso e delle spese non può che far carico all’Erario, come da tempo chiarito in giurisprudenza[7].
3 . Scusi, la strada per l’Erario? Boh, non so …
Quando si tratta di responsabilità dell’Erario il legislatore (che, in fondo, è anche il debitore) a volte sceglie di “fare l’indiano”: far finta di non capire, di non sapere, cercare di non farsi trovare. 
È un po’ quello che è accaduto con l’art. 366 CCII, almeno stando ad alcune indicazioni ricavabili dai lavori preparatori. 
Il testo della disposizione, nella formulazione iniziale, disciplinava espressamente le ipotesi in cui la dichiarazione di apertura della liquidazione non “è imputabile né al creditore istante né al debitore”, chiarendo, in adesione alla risalente e pacifica giurisprudenza, che le spese in tal caso restavano “a carico dell’Erario che provvede al pagamento sulla base del decreto di liquidazione emesso dal tribunale fallimentare”[8]. L’intervento era presentato come diretto a colmare un “vuoto normativo”, con possibile risparmio di spesa rispetto ai giudizi altrimenti attivabili nei confronti del Ministero della giustizia[9]. 
Forse per timore di rilievi della Ragioneria sul rispetto della clausola di invarianza finanziaria (non a caso nella relazione tecnica al testo definitivo si specifica espressamente che l’art. 366 “non comporta nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”[10]) alla fine si è preferito il contegno dell’indiano: fare, consapevolmente, finta che il problema non esista, non disciplinarlo. Il lodevole intento di “stabilire un criterio chiaro di individuazione del soggetto tenuto a farsi carico” delle spese al fine di “agevolare il curatore” è quindi rimasto, ma esclusivamente quando gli obbligati finali sono il debitore o il creditore; quando invece obbligato finale è l’Erario meglio lasciare il “vuoto normativo”, la nebbia: chi proprio vuol percorrere la “terza via” se la trovi e la esplori da solo, a suo rischio e pericolo.
4 . Niente arabeschi: un solo giudizio, per la quantificazione ma, se necessario, pure per l’accertamento della responsabilità
Veniamo, infine, allo scopo di questo breve scritto: cercare di aiutare il curatore e gli altri potenziali creditori a percorrere questa “terza via”, pur nel buio normativo. 
Anche nella previgente disciplina era previsto, in caso di fallimento revocato, che il compenso del curatore e le spese fossero liquidati dal tribunale con decreto.[11] 
In varie pronunzie, anche di legittimità, si era tuttavia sostenuto che il curatore (o altro creditore) non potesse far valere la responsabilità dell’Erario nell’ambito del procedimento camerale relativo alla liquidazione dinanzi al tribunale fallimentare, ma che vi fosse la necessità e l’obbligo di instaurare un distinto ed apposito giudizio contenzioso, nelle forme ordinarie, in ipotesi dopo aver ottenuto la liquidazione[12]. Questo pur essendosi da tempo precisato che il provvedimento di liquidazione del compenso al curatore, anche nell’ipotesi ordinaria ex art. 39 L.fall., ha comunque contenuto decisorio, incide su diritti soggettivi ed è suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.[13]; si tratta quindi di procedimento camerale su diritti, con idoneità al giudicato. 
Uno dei formidabili aforismi di Ennio Flaiano recita: “in questo nostro paese la linea più breve tra due punti è l’arabesco”. Cerchiamo, se possibile, di tracciare una linea retta, muovendo dalle previsioni del CCII, non del tutto collimanti con la previgente legge fallimentare. 
L’art. 53, comma 1, terzo periodo, dispone: “Salvo quanto previsto dall'articolo 147 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, le spese della procedura e il compenso al curatore sono liquidati dal tribunale, su relazione del giudice delegato e tenuto conto delle ragioni dell'apertura della procedura e della sua revoca, con decreto reclamabile ai sensi dell'articolo 124”. Lo stesso art. 53 CCII, al periodo immediatamente precedente, precisa “gli organi della procedura restano in carica, con i compiti previsti .. fino al momento in cui la sentenza che pronuncia sulla revoca passa in giudicato”[14]. 
Nei due casi disciplinati dall’art. 147 T.u. spese di giustizia (responsabilità del debitore o del creditore istante) nel momento in cui è promosso il procedimento per la liquidazione ex art. 53 CCII vi sarà quindi un giudicato, non solo sulla revoca, ma anche sul responsabile, posto che nel reclamo ex art. 51 CCII già conclusosi entrambi quei soggetti erano litisconsorti necessari. In tali ipotesi il procedimento camerale ex art. 53 CCII avrà nella sostanza ad oggetto unicamente la quantificazione; il ricorrente creditore nel proporre la domanda non avrà difficoltà nell’indicare l’obbligato. In tal senso deve intendersi la clausola iniziale che fa “salvo” l’art. 147: il tribunale deve tener conto di quanto statuito nella pronunzia definitiva della Corte di Appello o della Cassazione. 
Anche in tale ipotesi, comunque, il procedimento camerale è un giudizio su diritti, con un controinteressato nei cui confronti deve essere previamente attivato il contradditorio, per consentire allo stesso di potersi difendere ed interloquire, anche se solo sul quantum, in presenza di un giudicato soggettivamente opponibile sull’an
E la “terza via” erariale? Cosa fare nel caso in cui la Corte di Appello abbia revocato la liquidazione, ma escluso una responsabilità tanto del debitore che del creditore? 
Il Ministero della giustizia non è parte del giudizio di reclamo ex art. 51 CCII. Anche se la Corte di Appello, in motivazione od addirittura in dispositivo, scrive che il compenso e le spese della procedura revocata dovranno far carico all’Erario[15], tale statuizione non avrà alcun effetto e valore vincolante, in assenza di una specifica disposizione. 
L’accertamento della responsabilità in capo all’Erario in questi casi potrà e dovrà essere svolto, nel contraddittorio con il Ministero (e, se opportuno, anche nei confronti degli altri obbligati potenzialmente alternativi[16]), dal tribunale nell’ambito del procedimento ex art. 53 CCII, il cui oggetto sarà quindi esteso in tale evenienza anche alla preliminare individuazione del soggetto responsabile[17], in difetto di un precedente giudicato. 
Del resto la disposizione in precedenza trascritta attribuisce al tribunale concorsuale una specifica competenza per materia ed include espressamente nell’ambito della cognizione del giudice così designato “le ragioni dell'apertura della procedura e della sua revoca”, ovvero elementi che, obbiettivamente, sono maggiormente attinenti all’accertamento della responsabilità piuttosto che alla quantificazione. 
Il precedente orientamento della giurisprudenza, anche di legittimità, che riteneva necessario un distinto ed apposito giudizio nelle forme ordinarie e quindi anche secondo le regole generali di competenza[18], condivisibile o meno, potrebbe comunque essere superato muovendo dalle novità del testo normativo rispetto alla precedente legge fallimentare. 
Né è di ostacolo a tale conclusione la natura camerale del procedimento, che ben può essere utilizzato dal legislatore anche per la tutela dei diritti soggettivi, eventualmente previe le necessarie integrazioni anche in tema di contraddittorio, a seguito di interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata[19]. 
In relazione anche al concreto atteggiamento processuale assunto dal Ministero potrà in ipotesi aversi un “ulteriore aggravio di interessi e spese”: quello che si voleva evitare con il testo preliminare dell’art. 366 CCII. Ma si sa, “fare l’indiano” non sempre conviene.
5 . Conclusioni
A fronte di una “dolosa” lacuna normativa il compito dell’interprete è quello di individuare, sulla base dei principi generali, la soluzione più semplice e razionale. 
In questo caso, a mio avviso, il modo più corretto di ricostruire il percorso della “terza via” erariale è quello di attribuire al tribunale concorsuale, nell’ambito del procedimento camerale speciale appositamente previsto dall’art. 53 CCII, il compito non solo di liquidare ma, se necessario, anche di previamente accertare, nel contraddittorio tra le parti, il soggetto obbligato. 

Note:

[1] 
Nella relazione illustrativa si legge: “La disposizione mira dunque a stabilire un criterio chiaro di individuazione del soggetto tenuto a farsi carico di tali spese e ad agevolare il curatore, il quale non ha titolo per partecipare personalmente al giudizio di reclamo, nel recupero del compenso liquidatogli dal tribunale”. Cass. 16 aprile 2024, n. 10175 ha precisato che la verifica in ordine alla responsabilità di apertura della procedura prevista dal nuovo art. 147 “può essere parimenti svolta, unitamente alla conseguente declaratoria di revoca della sentenza di fallimento, anche dalla Corte di cassazione (allorquando accolga il ricorso avverso la sentenza del giudice del reclamo che abbia erroneamente, sul punto, confermato la sentenza di fallimento), purché, tuttavia, non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”.
[2] 
Per tale ipotesi vedi App. Firenze 25 luglio 2024, Dirittodellacrisi.it, App. Milano 23 aprile 2024, n. 1177, inedita a quanto consta, reperibile nella Banca Dati di Merito. Con riferimento alla previgente legge fallimentare vedi Trib. Monza, 12 novembre 2013, Il Fall., 2014, 690 con nota di L. Andretto, Il compenso al curatore e le spese del fallimento revocato - La responsabilità erariale in caso di revoca del fallimento; Trib. Milano, 19 luglio 2012, Il Fall. 2013, 223 con nota di C. Bellomi, Il pagamento del compenso al curatore del fallimento revocato
[3] 
Vedi, con riferimento alla legge fallimentare App. Bologna 2 novembre 2021, in DeJure, 2024 con nota di D. Fico, Il compenso del curatore fallimentare in presenza di revoca del fallimento; Trib. Milano, 19 luglio 2012 n. 8835 in DeJure.
[4] 
Sempre in relazione alla legge fallimentare: Trib. Milano 13 febbraio 2018, Il Fall., 2018, 880, con nota di C. Bellomi, Sul compenso al difensore della curatela del fallimento revocato e in DeJure con nota di L. Jeantet, M. Romani, La liquidazione del compenso del difensore nominato dal curatore del fallimento revocato, Trib. Sulmona, 12 maggio 2011, Il Fall., 2011, 1437, con nota di F. Ghignone, Revoca della sentenza dichiarativa di fallimento ed effetti sostanziali e processuali, relativa ad una ipotesi nella quale la corte di appello aveva revocato il fallimento qualificando la mancata comparizione del creditore in sede prefallimentare come rinunzia implicita all’istanza. 
[5] 
Vedi per tale ipotesi App. Milano 24 luglio 2024, n. 2186, in DeJure
[6] 
L’art. 147 T.u. spese di giustizia come modificato dall’art. 366 CCII nel primo periodo fa riferimento al “debitore persona fisica” In alcune decisioni in base a tale dato testuale si è ritenuto che la responsabilità dell’apertura della procedura non possa essere imputata al debitore imprenditore societario. In tal senso vedi, ad esempio. App. Milano, 22 novembre 2021, n. 3402, in DeJure: “Nella specie, per un verso, l’apertura della procedura non può dirsi imputabile ai ricorrenti creditori (che non potevano essere a conoscenza della insussistenza dei requisiti di cui all’art.1 l.fall.), e per altro verso, la norma non può trovare applicazione nei confronti della società reclamante, riferendosi la stessa alla sole persone fisiche”; App. Roma, 6 maggio 2024, n. 3079, inedita a quanto consta, reperibile nella Banca Dati di Merito: “Non ricorrono i presupposti per l’operatività dell’art. 147 dpr n. 115 del 2002, nella nuova formulazione introdotta dall’art. 366 dlgs n. 14/2019, in quanto, da un lato, non si ravvisa colpa ascrivibile al creditore, che aveva presentato ricorso per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale dato che nulla poteva sapere dei requisiti dimensionali del debitore in assenza della pubblicazione dei bilanci ad opera di quest’ultimo (una società); dall’altro lato il debitore non è una “persona fisica”, l’unico altro soggetto al quale, ai sensi dell’art. 147 del t.u. sulle spese di giustizia, potrebbe imputarsi la “colpa” dell’apertura della liquidazione giudiziale (in termini v. Cass. N. 12349/1999)”. Appare a mio avviso tuttavia preferibile l’orientamento prevalente, che supera l’incongruenza del dato testuale: vedi App. Torino 14 dicembre 2021, n. 1374, in DeJure: “in assenza di alcun ragionevole criterio distintivo, il regime di responsabilità di cui all'art. 147 D.P.R. n. 11 del 2002 va esteso analogicamente anche al debitore persona giuridica e ciò anche in base ad una lettura della norma in senso costituzionalmente orientato, ben potendo in caso contrario prospettarsi una disparità di trattamento giuridico in situazioni tra loro del tutto analoghe (cfr., in senso conforme, anche ai sensi dell'art. 118  disp. att. cpc, Corte d'Appello di Venezia, sez. 1, 31 gennaio 2020)”; App. Napoli 29 maggio 2024 n. 50, inedita a quanto consta, reperibile nella Banca Dati di Merito: “si impone un’interpretazione della norma costituzionalmente orientata che estenda la relativa previsione anche alle società. Va infatti osservato che (come già evidenziato in altre pronunce di merito) la predetta norma, se applicata alla lettera e dunque solo agli imprenditori individuali, violerebbe l’art. 3 della Costituzione, non trovando alcuna giustificazione la disparità di trattamento tra imprenditori persone fisiche e società, nonché l’art. 81 Cost., giacché comporterebbe un inutile aggravio di spese per lo Stato”. 
[7] 
Vedi, tra le altre, Cass. 6 novembre 1999, n. 12349: “nelle ipotesi di revoca della sentenza dichiarativa di fallimento, in assenza di estremi di responsabilità a carico del creditore istante per aver chiesto la dichiarazione di fallimento con colpa, il compenso dovuto al curatore - dato il carattere di ufficiosità della procedura fallimentare - deve essere posto a carico dell'Amministrazione dello Stato”; Cass 20 marzo 2014, n. 6553; Cass. 28/09/2023, n. 27523, Il Fall, 2024 con nota di L.A. Bottai, La Cassazione torna su vari profili attinenti al compenso da liquidare ai curatori, con rilevanti effetti extra-processuali; App. Bologna 2 novembre 2021, cit; Trib. Milano 13 febbraio 2018, cit.; Trib. Monza, 12 novembre 2013, cit.; Tribunale Milano, 19 luglio 2012, cit. Da ultimo Cass. 13 gennaio 2025, n. 830: “la regola generale che disciplina la materia in esame è che, in caso di revoca della dichiarazione di fallimento, l'Erario è tenuto al pagamento se non sussiste responsabilità del creditore istante o del debitore”. 
[8] 
Questo era il testo iniziale dell’art. 366, tuttora reperibile in rete, ad esempio sul sito Osservatorio-oci.org, datato 4 ottobre 2018, molto probabilmente oggetto dell’esame preliminare nel Consiglio dei ministri dell’8 novembre 2018 (l’esame definitivo è poi avvenuto il successivo 10 gennaio 2019): “In caso di revoca della dichiarazione di fallimento, le spese della procedura fallimentare e il compenso del curatore sono a carico del creditore istante quando ha chiesto la dichiarazione di fallimento con colpa; sono a carico del fallito persona fisica, se con il suo comportamento ha dato causa alla dichiarazione di fallimento; quando la dichiarazione di fallimento non è imputabile né al creditore istante né al debitore, sono a carico dell’Erario che provvede al pagamento sulla base del decreto di liquidazione emesso dal tribunale fallimentare». 
[9] 
Nella relazione illustrativa a tale testo iniziale (datata 2 ottobre 2018 e pure reperibile su Osservatorio-oci.org) si leggeva: “La disposizione, inoltre, si fa carico di colmare un vuoto normativo, che genera un rilevante contenzioso con il Ministero della giustizia. Infatti, il D.P.R. n. 115 del 30.05.2002, con riferimento alle spese delle procedure revocate ed all’individuazione del soggetto onerato del pagamento del compenso al curatore, disciplina unicamente le ipotesi di responsabilità del creditore istante o del fallito. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, fuori da queste ipotesi, le spese sono poste a carico dell’Erario e sopportate esclusivamente dall'Amministrazione dello Stato (Cass. 18541/2012; Cass. 10099/2008). Tuttavia, in assenza di una norma espressa per le ipotesi di revoca del fallimento diverse da quelle espressamente contemplate dal Testo Unico sulle spese di giustizia, gli uffici giudiziari non possono provvedere al pagamento dei professionisti che, per ottenere le somme di loro spettanza, sono costretti ad instaurare una procedura contenziosa destinata inevitabilmente a concludersi sfavorevolmente per l’Amministrazione, con ulteriore aggravio di interessi e spese. La norma in esame prevede perciò in modo espresso che, nelle ipotesi di revoca del fallimento per causa non imputabile né a colpa del creditore ricorrente né a responsabilità del fallito, il compenso del curatore fallimentare è posto direttamente a carico dell’Erario, con pagamento diretto da parte dell’ufficio sulla base del decreto di liquidazione emesso dal tribunale che ha aperto la procedura” Traccia di questa precedente versione della disposizione e della relativa relazione illustrativa è rimasta anche in successivi atti ufficiali, come il Dossier n. 84 del 26 novembre 2018 redatto dell’Ufficio Studi di Camera e Senato in occasione del parere delle commissioni parlamentari (scaricabile dai rispettivi siti istituzionali, nelle sezioni dedicati agli “atti del Governo sottoposti a parere parlamentare”: atto n. 53 della  XVIII Legislatura ), dove, a pagina 123 si legge : “in relazione alle spese della procedura e all’onorario del curatore in caso di revoca dell’apertura della liquidazione giudiziale, è la corte d’appello a decidere tra debitore e creditore su chi ricade l’addebito (art. 366). Colmando un vuoto normativo, in particolare, si precisa che ove non sia possibile imputare l’apertura della procedura né a debitore né al creditore, le indicate spese sono a carico dell’Erario”.
[10] 
La relazione tecnica è pure reperibile nell’ambito della documentazione trasmessa alle commissioni parlamentari per il parere. 
[11] 
Vedi art. 21 del testo originario della legge fallimentare, dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza 6 marzo 1975 n. 46 “nella parte in cui, nel caso di sentenza di revoca della dichiarazione di fallimento, pone a carico di chi l'abbia subita senza che ne ricorressero i presupposti e senza che vi avesse dato causa col suo comportamento le spese della procedura ed il compenso al curatore”. L’art. 21 è stato poi abrogato dal D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che aveva inserito la disciplina negli ultimi due commi dell’art. 18. 
[12] 
Vedi Cass 25/05/2006, n. 12411: “in caso di revoca della dichiarazione di fallimento, mentre la liquidazione del compenso dovuto al curatore spetta al tribunale già preposto alla procedura, il quale, ai sensi dell'art. 21 l. fall., vi provvede con decreto non soggetto a reclamo, l'istanza con cui il curatore chiede porsi il predetto compenso a carico dell'Erario non può essere proposta al medesimo giudice mediante l'instaurazione di un procedimento camerale non contenzioso, ma, essendo stato indicato un soggetto controinteressato perché individuato come soggetto tenuto definitivamente al pagamento di tale compenso, dev'essere proposta instaurando un giudizio contenzioso, nel rispetto del principio del contraddittorio, trattandosi di procedura fallimentare non più in corso e non essendovi alcuna possibilità di recuperare le spese anticipate dall'Erario, ai sensi dell'art. 146, comma 4, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, sulle somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo”; tra le più recenti vedi, in motivazione Cass. 28/09/2023, n. 27523: “mentre la liquidazione del compenso dovuto al curatore spetta al tribunale già preposto alla procedura, l'istanza con cui il curatore chiede porsi il menzionato compenso a carico dell'erario non può essere proposta al medesimo giudice mediante l'instaurazione di un procedimento camerale non contenzioso. Ove sia così indicato il soggetto controinteressato perché tenuto definitivamente al pagamento di tale compenso, la domanda dev'essere proposta instaurando un giudizio contenzioso, nel rispetto del principio del contraddittorio, trattandosi di procedura fallimentare non più in corso (v. già Cass. Sez. 1 n. 12411-06), esattamente come accade per l'avvocato che abbia svolto prestazioni professionali a favore della procedura (v. Cass. Sez. 1 n. 10099-08)”; Cass. 2 ottobre 2023, n. 27741, relativa a compensi del difensore della procedura revocata, nel quale era stato pure previamente attivato il contraddittorio nell’ambito del procedimento camerale ex art. 18 legge fallimentare: “il tribunale già preposto al fallimento revocato si doveva limitare a liquidare il compenso del curatore, non certo a stabilire su quale soggetto gravasse l'onere relativo, posto che la relativa determinazione, implicando un giudizio di responsabilità, va svolta in contraddittorio e nelle forme del procedimento contenzioso (in termini, sia pure in relazione al regime previgente alla novella dell'art. 18  l.fall. , Cass. n. 12411/06 ).  Si tratta, difatti, di una controversia di natura civile incidente su situazione soggettiva dotata della consistenza di diritto soggettivo patrimoniale; e parte necessaria di tale tipologia di procedimento deve considerarsi ogni titolare passivo del rapporto di debito che ne sia oggetto, anche quando il titolare passivo sia l'erario […] A comprova della necessaria natura contenziosa del procedimento v'è la novella del D.P.R. n. 115 del 2002 , art. 147  dovuta al D.Lgs. n. 14 del 2019 , art. 366 , comma 1 peraltro applicabile anche in caso di revoca di fallimenti ex art. 18  l.fall. , in base alla quale "la corte di appello, quando revoca la liquidazione giudiziale, accerta se l'apertura della procedura è imputabile al creditore o al debitore".- 3.- Il Tribunale di Roma, quindi, non avrebbe dovuto esaminare la domanda dell'avv. A.A., nè, a maggior ragione, avrebbe dovuto deciderla nel merito, poichè la domanda doveva essere proposta instaurando un processo contenzioso. La corte d'appello ha perciò correttamente emendato il decreto nella parte concernente l'individuazione del soggetto tenuto al pagamento del compenso, affermando (ancorchè implicitamente) l'improcedibilità di tale domanda in sede di richiesta di liquidazione del compenso, dovendo essa necessariamente essere avanzata attraverso l'instaurazione un giudizio a cognizione piena”. Tra le pronunzie rese da sezioni civili, all’esito di giudizi ordinari di cognizione vedi ad esempio App. Milano 23 aprile 2024, n. 1177, cit, App. Bologna 2 novembre 2021. 
[13] 
Vedi tra le altre Cass 21 dicembre 1988, n. 6973, Cass. 21 febbraio 2004, n. 3488, Cass. 25 ottobre 2018, n. 27123. 
[14] 
Dalla sentenza di revoca sino al passaggio in giudicato il debitore riacquista l’amministrazione dei beni e l’esercizio dell’impresa, ma sotto la vigilanza del curatore, con necessità dell’autorizzazione per il compimento di certi atti ed obblighi informativi periodici: una sorta di “zona grigia” (così J. V. D’Amico, Sulla nuova disciplina del reclamo avverso il provvedimento di apertura della procedura di liquidazione giudiziale, Riv. Dir. Proc., 2023, 1, 52). Vedi anche F. De Santis, Il sistema dei rimedi nel cosiddetto procedimento "unitario", Il Fall., 2023, 310, che parla di una “coraggiosa scelta di campo di rimettere l'azienda nelle mani del debitore” ma “circondata da alcune importanti "cautele", a tutela della massa dei creditori”, “con l'occhiuta "vigilanza" del curatore e sotto l'usbergo della giurisdizione concorsuale”, in sostanza una condizione “assimilabile a quella del debitore che abbia presentato domanda di concordato preventivo fino all’omologazione della stessa”. 
[15] 
Vedi App. Napoli 27 dicembre 2024, n. 105, inedita a quanto consta, reperibile nella Banca Dati di Merito, che ha revocato la liquidazione giudiziale di un socio illimitatamente responsabile al quale non era stato notificato il ricorso. In tale pronunzia la corte in motivazione ha osservato che la disciplina dell’art. 147 T.u. spese di giustizia “va integrata con le disposizioni di cui all’art. 146, comma 3, d.P.R. 115/2002, così come modificate dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 174/2006, che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevedeva che sono spese anticipate dall'Erario "le spese ed onorari" al curatore. Dal combinato disposto di tali norme deriva che la Corte d’Appello, quando revoca la sentenza dichiarativa di apertura della Liquidazione giudiziale, deve accertare a quale delle parti sia imputabile l’apertura della procedura e, ove ritenga che essa non è ascrivibile né al creditore, né al debitore, dispone che le spese anticipate restano a carico dell’Erario”; in dispositivo ha poi scritto : “dichiara che eventuali spese anticipate per la procedura di liquidazione giudiziale di OMISSIS restano a carico dell’Erario”. 
[16] 
Il Ministero, proprio perché non parte del giudizio di reclamo, potrà in ipotesi anche contestare le ragioni addotte dalla corte di appello per non imputare la responsabilità a creditore o debitore, ad esempio sostenendo (a mio avviso fondatamente) che la responsabilità, contrariamente a quanto ritenuto in sede di reclamo, ben può essere attribuita anche al debitore non persona fisica; in simili ipotesi il contraddittorio dovrà necessariamente essere previamente esteso all’obbligato alternativo. 
[17] 
Vedi in tal senso, con chiarezza, con riferimento alla previgente legge fallimentare, L. Andretto, Il compenso al curatore e le spese del fallimento revocato, op. cit. : “La sede appropriata deve, piuttosto, essere individuata nel procedimento di liquidazione delle spese e del compenso, che si apre con un’istanza del curatore, si svolge davanti al tribunale riunito in camera di consiglio - ove il giudice delegato ricopre il ruolo di relatore - e si conclude con l’adozione di un decreto reclamabile davanti alla corte d’appello ai sensi dell’art. 26  l.fall. […] mentre ordinariamente il compenso al curatore grava in prededuzione sul ricavato dell’attività liquidatoria, in caso di revoca del fallimento esso va potenzialmente posto a carico di altri soggetti (il creditore istante, l’ex fallito e il Ministero della Giustizia) che, assumendo la veste di controinteressati, giustificano l’introduzione di alcuni caratteri propri dei giudizi contenziosi in un procedimento che pur mantiene la forma camerale. Tra questi, trova certamente applicazione il principio del contraddittorio. Poiché l’istanza di liquidazione assume la funzione di editio actionis, in essa il curatore ha l’onere d’individuare le parti che ritiene onerate del pagamento del proprio compenso e delle spese di procedura: nei loro confronti dovrà, quindi, instaurare il contraddittorio mediante notificazione dell’istanza e del decreto di fissazione dell’udienza camerale. È in questa sede che il tribunale, anche demandando al giudice delegato (relatore) lo svolgimento dell’eventuale attività istruttoria, deve pronunciarsi sulla responsabilità del creditore istante, dell’ex fallito o in via residuale dell’Erario, secondo le domande del curatore”. 
[18] 
Con attribuzione della controversia non solo alle sezioni civili, ma anche al foro erariale ex art. 25 c.p.c. e quindi in ipotesi a tribunale anche territorialmente diverso da quello concorsuale. 
[19] 
Vedi in motivazione Corte Cost. 26 febbraio 2002, n. 35 : “secondo la costante giurisprudenza di questa Corte la procedura camerale, quando sia prevista senza l'imposizione di specifiche limitazioni del contraddittorio, non viola di per sé il diritto di difesa, e l'adottarla in vista della esigenza di speditezza e semplificazione delle forme processuali è una scelta che solo il legislatore, avuto riguardo agli interessi coinvolti, può compiere e che sfugge al sindacato di questa Corte salvo che non si risolva nella violazione di specifici precetti costituzionali e non sia viziata da irragionevolezza (sentenze n. 573 e 543 del 1989; ordinanza n. 121 del 1994)”. Sulla possibilità e necessità, in ipotesi, di interpretazioni adeguatici “alla luce del principio generale per cui anche il procedimento camerale è ispirato al rispetto del contraddittorio (sentenza n. 103 del 1985)” vedi Corte Cost. 30 gennaio 2002 n. 1. 

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