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Saggio

Le questioni fiscali che minano il concordato semplificato*

Giulio Andreani e Angelo Tubelli, Dottori commercialisti e consulenti fiscali in Milano

10 Luglio 2025

*Saggio sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il concordato semplificato liquidatorio di cui all’art. 25 sexies del codice della Crisi rischia di essere di fatto cancellato dall’interpretazione che l’Agenzia delle Entrate ha espresso con la risposta a interpello n. 179 pubblicata il 7 luglio 2025, in base alla quale le sopravvenienze da esdebitazione conseguite dall’impresa debitrice in tale procedura sarebbero tassabili, e alla coeva risposta n. 178, con cui è stata affermata l’imponibilità delle plusvalenze realizzate in una composizione negoziata della crisi ove era prevista la cessione dell’unica azienda e l’estinzione dell’impresa debitrice, in base a un principio destinato a trovare, a fortiori, applicazione nel concordato semplificato. Ciò anche in considerazione del fatto che, utilizzando il medesimo canone interpretativo, si dovrebbe ritenere sussistente nell’ambito di quest’ultima procedura l’obbligo per il debitore di rilevare a debito, in sede di liquidazione periodica, l’imposta oggetto delle note di variazione emesse nei suoi confronti dai creditori ai sensi dell’art. 26, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972, a partire dalla data di omologazione, per recuperare il tributo non riscosso. In base a queste regole il concordato semplificato risulterebbe generalmente meno conveniente per i creditori rispetto alla liquidazione giudiziale: i) sia perché comporterebbe per il debitore il sostenimento di oneri fiscali relativi a sopravvenienze e plusvalenze, che non dovrebbero essere sostenuti in caso di liquidazione giudiziale e che quindi nel concordato semplificato ridurrebbero per un importo corrispondente l’attivo utilizzabile per il soddisfacimento dei creditori; ii) sia perché, inoltre, il debitore dovrebbe pagare l’Iva oggetto delle suddette note di variazione, al contrario di quanto potrebbe fare in caso di liquidazione giudiziale, e ciò, con riferimento all’aliquota ordinaria del 22%, comporterebbe un onere quantificabile per il debitore in circa il 18%, che si tradurrebbe in un’ulteriore minore capacità di soddisfacimento dei creditori. Per questi motivi, in base all’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate, il concordato semplificato, coeteris paribus, arrecherebbe matematicamente pregiudizio ai creditori rispetto alla liquidazione giudiziale e non potrebbe essere quindi omologato ai sensi del comma 5 del citato art. 25 sexies. Nell’articolo gli autori pervengono tuttavia a conclusioni diverse da quelle affermate dall’Agenzia delle Entrate, grazie alle quali può essere evitata l’anticipata estinzione, per asfissia fiscale, del concordato semplificato.
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1 . Premessa
L’art. 88, comma 4 ter, del TUIR stabilisce la detassazione delle sopravvenienze attive derivanti dalle riduzioni dei debiti intervenute in sede di concordato nella liquidazione giudiziale (già “concordato fallimentare”), di concordato preventivo liquidatorio e di procedure estere equivalenti (primo periodo) e (ii) in caso di “concordato di risanamento”, di accordo di ristrutturazione dei debiti soggetto a omologazione, di piano attestato pubblicato nel registro delle imprese e di procedure estere equivalenti (secondo periodo). Menziona, però, solo alcuni degli istituti previsti dal Codice della crisi, per cui, in attesa che venga data finalmente attuazione ai criteri direttivi previsti per la revisione del sistema tributario dall’art. 9, comma 1, lett. a), della legge 9 agosto 2023, n. 111 (di seguito “legge delega”), occorre chiedersi se essa trovi o meno applicazione anche in relazione alle sopravvenienze attive conseguite nell’ambito del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio disciplinato dall’art. 25 sexies del Codice della crisi. 
Analoghe domande devono essere poste in merito all’irrilevanza fiscale delle plusvalenze originate dalla “cessione dei beni ai creditori”, che la vigente formulazione dell’art. 86, comma 5, del TUIR riferisce unicamente a quelle originate in sede di concordato preventivo con cessione dei beni, nonché alla possibilità, per il creditore, di emettere la nota di variazione di cui all’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 relativamente all’Iva non riscossa e, per il debitore, di non tenere conto di tale nota in sede di liquidazione periodica dell’imposta dovuta all’Erario, rilevando a debito un importo corrispondente. 
A seconda delle risposte che vengono date a queste domande, il concordato è “fiscalmente indifferente” rispetto alla liquidazione giudiziale, nel qual caso la non deteriorità di tale istituto rispetto a quest’ultima procedura dipende solo da altri fattori (patrimoniali e finanziari) o diventa, al contrario, il fattore decisivo che determina tale convenienza. Da qui la necessità di un approfondito esame delle tematiche sopra indicate.
2 . La detassazione delle “sopravvenienze attive da esdebitazione”
Le sopravvenienze attive da esdebitazione maturate per effetto del concordato attuato nella liquidazione giudiziale (cosiddetto “concordato fallimentare”) o del concordato preventivo liquidatorio sono regolate dal primo periodo del comma 4 ter dell’art. 88, che ne dispone l’incondizionata esclusione da imposizione; le sopravvenienze attive da esdebitazione maturate nell’ambito degli altri strumenti di regolazione della crisi dapprima citati (le cosiddette “procedure di risanamento”) sono invece disciplinate dai periodi successivi del comma 4 ter, i quali stabiliscono che “la riduzione dei debiti dell’impresa non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite, pre­gresse e di periodo, di cui all’art. 84, senza considerare il limite dell’ottanta per cento”, nonché per la parte che eccede gli interessi passivi temporaneamente non deducibili ai sensi dell’art. 96, comma 2, del TUIR e le cosiddette “eccedenze ACE”. 
La distinzione tra le sopravvenienze attive originate da procedure liquidatorie e quelle generate da procedure di risanamento si è resa necessaria proprio in ragione delle diverse regole a cui soggiacciono le due fattispecie, mentre fino all’entrata in vigore del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, disponendo la norma indifferentemente con riguardo al concordato fallimentare, al concordato preventivo liquidatorio e al concordato preventivo in continuità, erano regolate da un’unica disposizione, quella contenuta nel comma 4 dell’art. 88 previgente. Le modifiche recate dal D.L. n. 83/2012 e dal decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147, tuttavia, hanno riguardato solo le procedure di risanamento, mentre è rimasta del tutto immutata la regola attualmente contenuta nel primo periodo del comma 4 ter, che dispone (come disponeva) la totale irrilevanza fiscale delle riduzioni dei debiti dell’impresa in sede di concordato fallimentare o preventivo. 
Proprio per questa ragione appare opportuno soffermarsi sull’origine di tale disposizione, la cui introduzione nell’ordinamento tributario risale all’emanazione del TUIR.
2.1 . Origine della norma
Al momento di elaborare il Testo Unico delle Imposte sui Redditi il legislatore aveva previsto l’irrilevanza fiscale delle “sopravvenienze attive da esdebitazione” unicamente con riguardo alle sopravvenienze attive derivanti dal concordato fallimentare o dal concordato preventivo con cessione dei beni, mostrando di condividere la tesi secondo cui la riduzione dei debiti in sede diconcordato con cessione dei beni, pur integrando sul piano oggettivo una insussistenza del passivo (matematicamente determinata dalla differenza fra il debito originario e quello risultante dal concordato), non avrebbe potuto costituire - per sua natura - un indice di capacità contributiva (ovverosia una manifestazione di reddito assoggettabile a imposizione), poiché in tale situazione (quella della cessio bonorum) l’imprenditore per effetto di tale tipo di concordato perde il possesso di tutti i suoi beni (senza proseguire l’attività economica) e la procedura si chiude senza alcun suo (del debitore) arricchimento patrimoniale, tranne che in caso di realizzo delle attività per un importo maggiore di quello integrale dei debiti. In altri termini, alla luce dell’assenza del presupposto impositivo costituito dal possesso del reddito testé richiamata e allo scopo di fornire una soluzione normativa alla querelle che era sorta in dottrina e in giurisprudenza, con l’emanazione del TUIR fu deciso di sancire espressamente l’irrilevanza reddituale del provento usualmente denominato “bonus da concordato”. 
In proposito la relazione di accompagnamento allo schema di Testo Unico recitava testualmente, con riferimento al quarto comma dell’art. 55 del TUIR (corrispondente all’art. 88 attualmente vigente), quanto segue: “non rientrano tra le sopravvenienze attive le riduzioni dei debiti in sede di concordato fallimentare […] o di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori (contro il consolidato orientamento ministeriale), e cioè ogni qual volta dopo la chiusura del fallimento o dopo il concordato non vi sia più esercizio di impresa […]; il concetto di sopravvenienza, infatti, presuppone la continuazione dell’impresa e la determinazione del reddito in base al bilancio, che nelle ipotesi in esame non si verificano”. 
Tuttavia, con dichiarata finalità agevolativa/esentativa, il legislatore ritenne di estendere tale detassazione anche alla riduzione dei debiti che si origina nel concordato preventivo senza cessione dei beni, in cui non si verifica un vero e proprio spossessamento in capo all’impresa debitrice, e l’attività prosegue. Anche al riguardo è utile riportare le parole utilizzate nella relazione di accompagnamento al TUIR, in cui si riconosceva testualmente che nel caso del concordato preventivo senza cessione dei beni “la riduzione dei debiti chirografari costituisce certamente sopravvenienza in base al primo bilancio successivo; tuttavia si è ritenuto di escluderne la tassabilità inserendo una norma espressa, allo scopo di non rendere più difficoltoso il concordato stesso”. 
Dalle precisazioni fornite in sede di redazione della norma di cui si discute è dunque facile arguire che l’irrilevanza fiscale della sopravvenienza attiva rappresentata dalla riduzione dei debiti occorsa in sede di concordato liquidatorio con cessione dei beni non avrebbe in realtà necessitato di essere sancita da una norma espressa, poiché essa consiste in una fattispecie di esclusione, che costituisce applicazione della (e non deroga rispetto alla) regola generale, secondo cui il reddito può essere tassato solo in quanto posseduto dal soggetto passivo d’imposta e non può esservi imposizione senza effettivo arricchimento di quest’ultimo; una norma espressa si è invece resa necessaria per prevedere la detassazione delle sopravvenienze attive da esdebitazione occorse nelle altre forme di concordato, mediante l’introduzione quindi di un’esenzione, che, in quanto tale, rappresenta un’eccezione rispetto alla regola generale, in base alla quale tali sopravvenienze sarebbero invece regolarmente imponibili.
2.2 . Il lento adeguamento dell’art. 88 del TUIR ai nuovi istituti di soluzione della crisi d’impresa introdotti nella legge fallimentare
Fino all’entrata in vigore del citato D.L. n. 83/2012 la disposizione contenuta nel comma 4 dell’art. 55 (poi 88) del TUIR rimase del tutto immutata. Pertanto, per molti anni risultò (ancorché ingiustificatamente) incerto il trattamento fiscale da riservare alle riduzioni dei debiti occorse nell’ambito dei due nuovi istituti di regolazione della crisi d’impresa introdotti medio tempore nella legge fallimentare, rappresentati dagli accordi di ristrutturazione dei debiti e dei piani attestati di risanamento, disciplinati rispettivamente dagli artt. 182 bis e 67, comma 3, lett. d), della legge fallimentare. 
Al fine di evitare che il diverso trattamento fiscale riservato alle sopravvenienze attive da esdebitazione potesse indirizzare le scelte del contribuente sull’istituto da utilizzare per la soluzione della crisi d’impresa e così penalizzare il ricorso all’istituto degli accordi di ristrutturazione dei debiti e ai piani attestati di risanamento, con il D.L. n. 83/2012 fu quindi inserito un secondo periodo nel comma 4 dell’art. 88 del TUIR, a norma del quale la riduzione dei debiti dell’impresa non costituiva sopravvenienza attiva imponibile neanche in caso di accordo di ristrutturazione dei debiti oppure nel caso del piano attestato pubblicato nel registro delle imprese, ma soltanto “per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all’art. 84”. 
La ratio della suddetta limitazione, poi estesa dal D.Lgs. n. 147/2015 anche al “concordato di risanamento” mediante la riformulazione del comma 4 e l’aggiunta del comma 4 ter all’art. 88 del TUIR, era e rimane quella di concedere la detassazione della riduzione dei debiti solo nella misura strettamente necessaria per evitare che essa, nonostante l’utilizzo delle perdite fiscali pregresse e di periodo, determini il sorgere di quelle imposte che, in assenza di tale detassazione, non si renderebbero invece dovute.
Con le modifiche recate all’art. 88 del TUIR il legislatore tributario ha quindi preso atto delle due diverse ratio che prima convivevano in un’unica disposizione contenuta nel previgente comma 4, sicché - come dianzi riferito - nel comma 4 ter si distingue ora tra (i) riduzioni dei debiti originate da procedure concorsuali liquidatorie, disciplinate dal primo periodo, e (ii) riduzioni dei debiti derivanti da istituti di risanamento,cioè degli istituti che prevedono la prosecuzione diretta dell’attività aziendale e non la liquidazione dell’impresa. In merito alla distinzione fra concordati di risanamento e gli altri concordati giova infatti ricordare la risposta del 21 settembre 2018 fornita dal Ministro dell’Economia e delle Finanze all’interrogazione parlamentare n. 5/00047, con cui è stato condivisibilmente precisato che la disciplina di cui al primo periodo del comma 4 ter trova applicazione solo per i concordati dalla cui esecuzione discende l’estinzione dell’impresa debitrice e la perdita dello status di imprenditore; alla medesima conclusione è pervenuta l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 120 del 19 dicembre 2018. 
La disciplina delle sopravvenienze attive da esdebitazione è quindi differente a seconda che esse vengano conseguite da un’impresa che ha avuto accesso a un concordato da cui discende la liquidazione e l’estinzione dell’impresa stessaovvero a un concordato che prevede il risanamento dell’impresa e quindi la prosecuzione dell’attivitàda parte di quest’ultima. Questa distinzione trae origine dal fatto che, come si è rilevato, nel primo tipo di concordato la detassazione costituisce un’esclusione e nel secondo tipo un’esenzione.
2.3 . Il concordato semplificato liquidatorio e la risposta a interpello n. 179 del 2025
Con il decreto-legge 24 agosto 2021, n. 118 (con effetto dal 15 novembre 2021) e con il Codice della crisi d’impresa (con effetto dal 15 luglio 2022), il novero degli istituti di regolazione della crisi d’impresa si è notevolmente arricchito grazie all’inserimento della composizione negoziata della crisi d’impresa, del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio e del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione. La formulazione del comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR è tuttavia rimasta del tutto invariata rispetto alle modifiche apportatevi con il D.Lgs. n. 147/2015, poiché essa continua a far riferimento testualmente al “concordato fallimentare” e al concordato preventivo liquidatorio, nel primo periodo, e al concordato di risanamento, agli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati di cui all’art. 182 bis L. fall. e ai piani attestati di risanamento di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), L. fall., nel secondo periodo. 
Solo con riferimento alla composizione negoziata il legislatore ha finora ritenuto di intervenire in maniera esplicita, prevedendo prima nel comma 5 dell’art. 14 del citato D.L. n. 118/2021, e poi nel comma 5 dell’art. 25 bis del Codice della crisi l’estensione delle previsioni contenute nel comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR alle sopravvenienze attive da esdebitazione discendenti dal contratto e dall’accordo di cui all’art. 23, comma 1, lett. a) e c), o dagli accordi di cui all’art. 23, comma 2, lett. b), del Codice della crisi, pubblicati nel registro delle imprese. 
Poiché l’art. 88, comma 4 ter, del TUIR menziona le sopravvenienze attive da esdebitazione discendenti dall’omologazione del concordato semplificato liquidatorio, occorre chiedersi se esse debbano concorrere alla formazione del reddito d’impresa oppure siano ugualmente detassate, in base alla ratio che le accomuna a quelle conseguite mediante gli istituti già richiamati dalla suddetta disposizione. 
Orbene, se il concordato semplificato liquidatorio potesse essere considerato come una tipologia di concordato preventivo, in un rapporto da genus a species, le sopravvenienze attive derivanti da tale istituto risulterebbero automaticamente comprese in quelle contemplate dall’art. 88, comma 4 ter nonostante il mancato adeguamento della sua formulazione testuale. E in effetti deve essere stata proprio questa la convinzione (e la volontà) del legislatore del D.L. n. 118/2021 con cui fu introdotto nell’ordinamento giuridico l’istituto della composizione negoziata della crisi d’impresa. Infatti, nella relazione illustrativa alle disposizioni del D.L. n. 118/2021 (visibile insieme con il relativo decreto su Dirittodellacrisi.it, 25 agosto 2021) alla pagina 22 si legge testualmente quanto segue: “Si affiancano alle soluzioni di tipo negoziale tutti gli strumenti disciplinati dalla legge fallimentare, compresi quelli, di cui si dirà di seguito, introdotti dalle disposizioni contenute nell’articolo 20 che, intervenendo sulla stessa legge fallimentare, anticipano alcuni istituti disciplinati dal Codice della crisi d’impresa con alcune modifiche mirate ad agevolare e incentivare l’utilizzo dello strumento di composizione negoziata. Allo stesso scopo viene introdotta una nuova tipologia di concordato preventivo, denominato ‘concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio’”. 
Poiché questa era – così come emerge dalla citata relazione accompagnatoria - l’assunzione del redattore delle norme disciplinanti la composizione negoziata della crisi d’impresa e il concordato semplificato, non vi era alcun motivo per menzionare (anche) il concordato semplificato liquidatorio nell’art.14, comma 5, del D.L. n. 118/2021 che ha previsto la detassazione delle sopravvenienze originate dalle esdebitazioni conseguite nella composizione negoziata; né vi era motivo di menzionarlo nel primo periodo del comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR, perché la detassazione integrale ivi contemplata era da intendersi già applicabile ex se al “concordato per cessione dei beni” da proporre “unitamente al piano di liquidazione e ai documenti indicati nell’articolo 161, secondo comma, lettere a), b), c), d)” della legge fallimentare[1], cioè al concordato semplificato. Del pari in alcuni commenti sulla natura giuridica del nuovo istituto, soprattutto ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione delle norme che disciplinano l’istituto in esame, è stata prospettata la teorica possibilità che esso si sarebbe potuto considerare una sub specie del concordato preventivo liquidatorio[2], alla luce dei numerosi richiami alla disciplina del concordato preventivo quali (1) la presentazione della proposta concordataria unitamente al piano di liquidazione e ai documenti indicati nell’art. 39 del Codice della crisi, (2) la possibilità di prevedere la suddivisione dei creditori in classi ai sensi dell’art. 84, comma 5, del Codice della crisi, (3) l’applicazione - in quanto compatibili - delle disposizioni di cui agli artt. 106, 117, 118, 119, 324 e 341, con sostituzione della figura del commissario giudiziale con quella dell’ausiliario. 
Per questi motivi, se si considera il concordato semplificato come una sub specie di concordato, è del tutto agevole pervenire alla conclusione che le sopravvenienze da esdebitazione generate dalla omologazione di tale concordato sono integralmente detassate a norma del primo periodo del comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR. 
Tuttavia, in base all’orientamento emerso in dottrina e giurisprudenza il concordato semplificato si configura come una procedura concorsuale autonoma rispetto al concordato preventivo, in considerazione delle differenze esistenti fra i due procedimenti. La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 9730 del 12 aprile 2023, ha infatti in proposito rilevato che il concordato semplificato liquidatorio possiede evidenti peculiarità che lo distinguono rispetto al concordato preventivo, ovverosia: (i) l’accesso non consentito in via diretta ma solo al termine del percorso di composizione negoziata; (ii) la previa acquisizione da parte del tribunale della relazione finale dell’esperto e la richiesta di un parere con riferimento ai presumibili risultati della liquidazione e alle garanzie offerte; (iii) la individuazione di un ausiliario in luogo della figura del commissario giudiziale; (iv) la funzionalizzazione al contesto solo liquidatorio; (v) la previsione di forme agevolative della definizione del procedimento, come la mancanza della fase di ammissione vera e propria, l’assenza di soglie minime di soddisfacimento dei creditori chirografari, la mancata previsione del voto dei creditori, la mancanza dell’attestatore. Ad ogni modo, hanno rilevato i giudici di legittimità, il concordato semplificato liquidatorio “resta annoverabile nell’alveo delle procedure concorsuali” ed “è stato concepito fin dalla legislazione dell’emergenza per evitare la liquidazione giudiziale dopo l’esperimento negativo delle trattative e la verifica che non vi sono altre soluzioni possibili per il superamento dello stato di crisi e per la prosecuzione dell’attività”, a condizione che le trattative si siano svolte secondo correttezza e buona fede secondo il giudizio dell’esperto. 
Proprio facendo leva sul suo distinto e autonomo inquadramento civilistico, l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 179 pubblicata il 7 luglio 2025 ha affermato che il primo periodo del comma 4 ter dell’art. 88 non concerne la procedura di concordato semplificato liquidatorio, non essendo sufficiente per applicare detta norma “in via estensiva” il fatto che il legislatore nella relazione illustrativa l’abbia qualificato come “nuova tipologia di concordato preventivo”. Secondo l’Agenzia questa conclusione sarebbe avvalorata dalle previsioni contenute nell’art. 9, lett. a), n. 1), della legge delega, con cui le Camere hanno espressamente attribuito al Governo il mandato di emanare una disciplina che preveda un regime di detassazione del reddito delle imprese, comprese quelle minori e le grandi imprese, omogenea per tutti gli istituti regolati dal Codice della crisi (compreso dunque il concordato semplificato liquidatorio) a seconda che siano “istituti liquidatori” o “istituti di risanamento”. 
Tuttavia, anche assumendo la natura distinta e autonoma del concordato semplificato, la suddetta risposta (che peraltro ricalca le altre finora fornite circa l’inoperatività delle norme fiscali in tema di crisi d’impresa con riguardo ai nuovi istituti introdotti dal Codice della crisi) non è per nulla condivisibile, al di là del fatto che - a diretto discapito della convenienza di tale tipo di concordato rispetto alla liquidazione giudiziale per l’aggravio impositivo che ne discenderebbe - essa finisce per introdurre nell’ordinamento delle imposte sui redditi (diversamente da quanto finora accaduto) una sorta ditertium genus rappresentato dall’esdebitazione derivante da un concordato giudiziale fiscalmente non qualificabile né come liquidatorio né di risanamento.
2.4 . Le ragioni della non imponibilità delle sopravvenienze attive da esdebitazione derivanti dall’omologazione del concordato semplificato liquidatorio, assumendo una natura autonoma di questo istituto
In considerazione della ricostruzione (riportata nel precedente paragrafo 2.1) sulla “natura duale” che caratterizzava l’originario comma 4 dell’art. 55 del TUIR previgente e che ora caratterizza il comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR, nel prevedere un trattamento fiscale delle riduzioni dei debiti derivanti da procedure liquidatorie distinto rispetto a quello inerente alle sopravvenienze derivanti da istituti di risanamento, si deve ritenere che l’esclusione da tassazione indicata dal primo periodo del comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR concerne anche quelle discendenti dall’omologazione del concordato semplificato liquidatorio, seppur in assenza di una espressa menzione di tale procedura. 
Si tratta, infatti, di una procedura concorsuale che, indipendentemente dalla sua natura autonoma o meno, presenta sotto il profilo sostanziale le medesime caratteristiche del concordato preventivo con cessione dei beni, in relazione al quale il legislatore del TUIR ha escluso in radice la rilevanza fiscale della sopravvenienza derivante dall’esdebitazione generata da tali procedure. 
Tra le disposizioni disciplinanti il concordato preventivo che si applicano al concordato semplificato, infatti, l’art. 25 sexies richiama espressamente l’art. 117 del Codice della crisi, che stabilisce testualmente quanto segue: “Il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di accesso”. È da detta norma che discende l’effetto esdebitatorio che contraddistingue i “concordati giudiziali”, tanto nella liquidazione giudiziale quanto nella fase preventiva rispetto a essa. Ed è a questa accezione che il comma 4 dell’art. 55 del TUIR previgente intendeva riferirsi al momento della sua introduzione nell’ordinamento delle imposte sui redditi, allorché le uniche forme di concordato contemplate dall’ordinamento giuridico erano rappresentate dal concordato fallimentare, dal concordato con cessione dei beni e dal concordato con garanzia. Ed è sempre ai “concordati liquidatori” che continua a riferirsi tuttora il comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR, che nel secondo periodo, con una locuzione analogamente atecnica, si riferisce ai “concordati di risanamento”; viceversa nel primo periodo dispone in merito ai “concordati giudiziali liquidatori”, ovverosia ai concordati da cui deriva la liquidazione del patrimonio del debitore, i cui effetti a seguito della omologazione si producono coattivamente nei confronti di tutti i creditori (anche su quelli che non vi hanno aderito), ivi compresi - come peraltro rammentato dalla stessa Agenzia – i concordati regolati da “procedure estere equivalenti” che, giocoforza hanno un nomen iuris (e probabilmente non solo la denominazione) differente da “concordato fallimentare o preventivo liquidatorio”. 
Infatti, in questi casi l’effetto esdebitatorio conseguente all’omologazione del concordato non può – di regola – generare alcun reddito per l’impresa debitrice, perché è diretto unicamente a riassorbire il deficit patrimoniale gravante sulle stessa. Tale deficit corrisponde, infatti, alla differenza negativa tra il valore di liquidazione attribuibile alle attività dell’impresa debitrice e i debiti maturati dalla stessa al momento di accesso alla procedura concordataria con esclusiva finalità liquidatoria, per cui (fatta eccezione per il raro caso di emersione di un “residuo attivo” che in quanto tale dovrebbe concorrere a formare il reddito, quanto meno secondo l’orientamento preferibile) nemmeno si pone il problema di dover determinare il reddito maturato nel corso di una procedura concorsuale destinata a terminare con un patrimonio netto esattamente pari a zero o, a seconda dell’esito della liquidazione, addirittura con la permanenza di un patrimonio netto negativo. 
Dalle considerazioni che precedono discende quindi che: 
i) i termini “concordato fallimentare”, “concordato preventivo” e “concordato di risanamento” utilizzati nel comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR vanno intesi nel senso di “concordato giudiziale” ovverosia di “concordato soggetto a omologazione da parte dell’autorità giudiziaria”, in cui rientra certamente anche il “concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio” di cui all’art. 25 sexies del Codice della crisi; 
ii) la detassazione integrale e incondizionata delle sopravvenienze attive da esdebitazione prevista dal primo periodo del citato comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR è una conseguenza diretta della - ed è indissolubilmente connessa alla - natura liquidatoria del concordato giudiziale che prevede l’integrale liquidazione del patrimonio dell’impresa debitrice e, in quanto tale, è insuscettibile di esprimere capacità contributiva (salvo che in presenza di un residuo attivo all’esito della liquidazione); natura liquidatoria che certamente ricorre nel caso del “concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio” di cui all’art. 25 sexies del Codice della crisi, che può infatti essere solo liquidatorio. 
Alla medesima conclusione sopra esposta si giungerebbe, peraltro, anche nel caso in cui non si condividesse la ricostruzione sulla distinta ratio sottostante il primo e il secondo periodo del comma 4 ter dell’art. 88, e dunque laddove si considerasse anche il primo periodo come una norma di esenzione/agevolazione tributaria, diretta a favorire la soluzione di accertate crisi d’impresa sollevando il debitore dall’onere impositivo gravante in generale sull’esdebitazione[3]. 
Infatti, anche in base a questa diversa opinione (che comunque è da rigettare alla luce delle risultanze degli atti parlamentari dapprima descritte e delle considerazioni ivi espresse) varrebbe in toto quanto dapprima rappresentato in ordine all’espressione atecnica di “concordato fallimentare o preventivo liquidatorio” presente dall’art. 88, comma 4 ter, primo periodo, del TUIR, con cui il legislatore tributario ha inteso riferirsi in generale ai concordati giudiziali liquidatori. Pertanto, in tale disposizione rientrano naturaliter, e dunque senza dover ricorrere in alcun modo a un’interpretazione estensiva o analogica della stessa ma anche solo in base alla sua interpretazione semplicemente letterale, le riduzioni dei debiti conseguenti all’omologa del “concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio”. 
Tant’è che la stessa Agenzia delle Entrate, nell’ambito della circolare n. 26/E del 22 marzo 2002, ha mostrato di condividere questa interpretazione con riferimento al concordato proposto ai sensi del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, cioè all’interno della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d’insolvenza. In tale occasione l’Agenzia, infatti, senza entrare nel merito della natura attribuibile alla disposizione allora contenuta nel comma 4 dell’art. 55 del TUIR, corrispondente all’attuale comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR (ovverosia se si trattasse di una disposizione costituente diretta espressione di un principio generale insito nell’ordinamento delle imposte sui redditi oppure se costituente norma di esenzione o agevolazione tributaria), evidenziò che nell’allora vigente legge fallimentare il termine “concordato” era sempre utilizzato senza ulteriore specificazione con riferimento al concordato fallimentare (artt. 124 e seguenti), al concordato preventivo (artt. 160 e seguenti), all’amministrazione controllata (art. 192) e alla liquidazione coatta amministrativa (artt. 214 e 215), per indicare quelle fattispecie che attraverso l’accordo tra debitore e creditori determinano la cessazione della procedura concorsuale. Tutte le suddette tipologie di concordato, osservò l’Agenzia, “sono ispirate alla medesima ratio. Esse, infatti, favoriscono un accordo tra il debitore ed i creditori finalizzato ad eliminare l’insolvenza, rispettando la par condicio creditorum, ed evitare l’avvio o la prosecuzione di procedure concorsuali complesse, dispendiose e finalizzate prevalentemente alla liquidazione della struttura produttiva. In ogni caso, inoltre, nel concordato viene garantito il soddisfacimento integrale dei crediti privilegiati e parziale di quelli chirografari, attraverso un particolare accordo raggiunto tra debitore e creditori chirografari ed assoggettato ad un controllo di legalità e convenienza da parte dell’autorità giudiziaria, o di vigilanza, a tutela degli interessi di tutti i creditori” (l’affermazione concernente il pagamento integrale dei creditori privilegiati era ovviamente riferita all’obbligo all’epoca stabilito dalla legge fallimentare). In ragione di ciò, l’Agenzia concluse per la piena simmetria tra il concordato disciplinato dall’art. 124 e seguenti della legge fallimentare e le altre procedure concordatarie contenute nella stessa legge fallimentare, da un lato, e la particolare forma di concordato disciplinata dal D.Lgs. n. 270/99,nell’ambito della quale l’imprenditore può essere autorizzato dall’autorità di vigilanza a proporre il concordato, ritenendo applicabile l’art. 55, comma 4, del TUIR all’epoca vigente alle riduzioni dei debiti discendenti dall’omologazione di detto tipo di concordato, seppur non trattandosi letteralmente né di un concordato fallimentare né di un concordato preventivo. 
Ne discende quindi, secondo i principi espressi - seppur con riguardo a una diversa fattispecie - dalla stessa Agenzia delle Entrate, che anche in base alla semplice lettera dell’art. 88, comma 4 ter, TUIR, le sopravvenienze conseguite nel concordato semplificato sono da considerare detassate. 
Tale detassazione risulta del tutto naturale anche sotto il profilo teleologico, in ragione dell’identità funzionale e dell’affinità strutturale esistenti tra tale tipo concordato e il concordato preventivo liquidatorio. 
Infatti, il concordato semplificato liquidatorio condivide con il concordato preventivo liquidatorio la medesima funzione, ovverosia quella di consentire la ristrutturazione dei debiti anche mediante la liquidazione del patrimonio dell’impresa debitrice, purché essa sia per i creditori più conveniente della liquidazione giudiziale disciplinata dagli artt. 121 e seguenti. In considerazione della comune funzione e della comune finalità delle procedure di cui trattasi, non sussiste pertanto alcuna ragione per escludere dalla detassazione prevista dal citato comma 4 ter le riduzioni dei debiti derivanti dal concordato semplificato, non assolvendo esso una funzione diversa né perseguendo esso finalità diversa rispetto al concordato preventivo liquidatorio, al concordato preventivo in continuità, agli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 57 del Codice Crisi e finanche al piano attestato di risanamento: in tutti questi casi, infatti, la riduzione dei debiti è la misura necessaria per consentire all’impresa debitrice di uscire dalle crisi in cui si trova o di ristrutturare i propri debiti, nell’interesse proprio, dei suoi creditori e, a seconda dei casi, anche della collettività. 
L’inapplicabilità delle disposizioni del comma 4 ter dell’art. 88 al concordato semplificato liquidatorio si rivelerebbe perciò illegittima anche sotto il profilo costituzionale, visto che il concordato semplificato e gli istituti attualmente menzionati dal comma 4 ter appaiono effettivamente rispondere a una medesima ratio e presentano l’elemento oggettivo comune costituito dalla risoluzione della crisi, sebbene disciplinati da regole parzialmente diverse. Inoltre, essa si potrebbe rivelare foriera di effetti distorsivi della libera concorrenza, con conseguente violazione dell’art. 41 Cost., attribuendo un regime fiscale più favorevole alle imprese che fanno ricorso agli istituti al momento espressamente elencati dall’art. 88, comma 4 ter, del TUIR. 
L’esclusione della detassazione delle riduzioni dei debiti derivanti dal concordato semplificato, dunque, integrerebbe una irragionevole e ingiustificata discriminazione rispetto al regime fiscale accordato a quelle derivanti dagli altri istituti contemplati dal comma 4 ter, che il giudice delle leggi sarebbe chiamato a rimuovere dichiarandone l’illegittimità o, meglio, salvo non censurarne la legittimità sotto il profilo costituzionale solo in virtù di un’interpretazione adeguatrice - che la eliminerebbe in radice – in base alla quale la detassazione di cui trattasi sia da considerare applicabile anche alle sopravvenienze da esdebitazione conseguite a seguito della omologazione del “concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio” di cui all’art. 25 sexies del Codice della crisi. 
Del resto, sono pacificamente ritenuti applicabili anche al concordato semplificato liquidatorio i reati fallimentari punibili in caso di concordato preventivo. Pertanto, se l’equiparazione tra i due istituti è operata persino in questo ambito, in cui le norme sono necessariamente di stretta interpretazione, a maggior ragione tale equiparazione deve essere accolta anche nel diritto tributario. 
Si deve perciò concludere che, trovando causa nell’effetto esdebitatorio discendente da un provvedimento dell’Autorità Giudiziaria, le sopravvenienze attive da esdebitazione conseguenti all’omologazione del concordato semplificato liquidatorio non concorrono a formare il reddito dell’impresa debitrice ai sensi dell’art. 88, comma 4 ter, primo periodo, del TUIR, indipendentemente dalla natura attribuibile a detta norma, cioè sia che si tratti della diretta espressione di un principio generale insito nell’ordinamento delle imposte sui redditi, come a nostro avviso è corretto ritenere, sia che si tratti di un’esenzione o agevolazione tributaria, rientrando comunque il concordato semplificato tra le procedure oggetto della norma, in quanto “concordato giudiziale”. 
Dalla mancata menzione del concordato semplificato liquidatorio nell’art. 88, comma 4 ter, del TUIR ovvero nell’art. 14, comma 5, del D.L. n. 118/2021 (poi trasfuso nel comma 5 dell’art. 25 bis del Codice della crisi) non si può quindi in alcun modo dedurre l’imponibilità delle riduzioni dei debiti discendenti dall’omologazione di tale procedura, che invece sono da considerare anch’esse non imponibili. 
La mancata menzione della stessa è infatti dovuta al fatto che, per i motivi esposti, di essa, in base alle già vigenti disposizioni dell’art. 88, non vi è bisogno per escludere dall’imposizione le sopravvenienze attive di cui trattasi; tant’è che l’esigenza di un’integrazione di tali disposizioni è stata esclusa dallo stesso legislatore quando ha introdotto nell’ordinamento il concordato semplificato, sul presupposto della riconducibilità di questo istituto al concordato preventivo. Una conferma di quanto testé affermato deriva dall’art. 9, comma 1, lett. a), n. 3), della legge delega, che - con finalità ricognitiva e non innovativa - prevede l’applicazione espressa delle disposizioni contenute nel comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR a tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi e, quindi, anche al concordato semplificato liquidatorio. Poiché lo schema del relativo decreto legislativo è pronto da tempo, si tratta solo di consentire al legislatore delegato di trovare il modo di adeguare il testo del comma 4 ter dell’art. 88 del TUIR alle diverse novità introdotte con il Codice della crisi (come del resto già accaduto in occasione della riforma organica delle procedure concorsuali risalente agli anni 2005 e 2007), precisando a scanso di equivoci – a beneficio soprattutto di istituti diversi dal concordato semplificato - quanto è in realtà già chiaro, in particolare relativamente a quest’ultima procedura. 
È circostanza da escludere in radice che la previsione destinata a essere introdotta in attuazione dell’art. 9 della legge delega possa essere erroneamente considerata innovativa, escludendone conseguentemente, mediante un semplicistico e decontestualizzato ragionamento “a contrario”, la possibilità di applicazione anche anteriormente alla sua entrata in vigore. Infatti, la circostanza che il citato comma 4 ter non menzioni, o non menzioni ancora espressamente, il concordato semplificato liquidatorio non esclude in alcun modo che le sopravvenienze di cui trattasi non siano già detassate, per i motivi esposti nei precedenti paragrafi, e in particolare in considerazione della natura liquidatoria del concordato semplificato, che prevede l’integrale liquidazione del patrimonio dell’impresa debitrice e, in quanto tale, è insuscettibile di esprimere capacità contributiva (salvo che in presenza di un residuo attivo all’esito della liquidazione).
3 . L’irrilevanza fiscale delle plusvalenze
Nel novero delle disposizioni speciali riferite alla fiscalità della crisi d’impresa rientra anche quella contenuta nel comma 5 dell’art. 86 del TUIR, per cui “la cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo non costituisce realizzo delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento”. 
Dottrina e giurisprudenza, in linea di principio, sono concordi nel ritenere che la finalità della norma testé citata può essere astrattamente individuata nella volontà del legislatore: 
· di favorire l’adesione alla procedura concordataria, evitando la nascita di un debito d’imposta che, sebbene successivo alla procedura stessa, secondo l’Amministrazione finanziaria[4] avrebbe dovuto gravare sulla medesima; 
· di impedire altresì che, in capo ad un soggetto che subisce lo “spossessamento” dell’intero patrimonio, possa sorgere un’obbligazione relativa alle imposte reddituali, al cui pagamento quel soggetto non potrebbe adempiere, non disponendo di alcun mezzo per effetto del predetto spossessamento. 
A differenza di quanto sancito per le riduzioni dei debiti, il comma 5 dell’art. 86 fa riferimento unicamente al concordato preventivo con cessione dei beni senza fare menzione del “concordato fallimentare” e in generale dei “concordati giudiziali liquidatori”. La suddetta omissione viene tipicamente ricondotta al fatto che non sarebbe stato necessario precisare in maniera espressa l’irrilevanza fiscale delle plusvalenze conseguite nel “concordato fallimentare” perché di per sé assorbite dallo speciale meccanismo di determinazione del reddito d’impresa sancito dall’art. 183 del TUIR, in base al quale nel fallimento il risultato reddituale maturato nel maxi-periodo concorsuale si determina quale differenza tra l’eventuale “residuo attivo” e il patrimonio netto iniziale[5]. 
La ratio del comma 5 dell’art. 86 è tuttavia coincidente con quella che sorregge la previsione contenuta nell’art. 88, comma 4 ter, del TUIR con riguardo alle sopravvenienze attive da esdebitazione nel concordato liquidatorio, sussistendo la comune esigenza che il reddito d’impresa venga determinato, nell’ambito di questo strumento di regolazione della crisi, in modo da considerare la sostanziale “incapacità contributiva” che caratterizza l’impresa in stato di dissesto che destina tutto il suo patrimonio al soddisfacimento dei suoi creditori senza realizzare alcun incremento patrimoniale per sé stessa (se non in presenza di un residuo attivo, una volta che siano stati soddisfatti integralmente tutti i creditori). Alla luce di questo principio si comprende come, per espressa previsione normativa, l’esclusione dalla tassazione di cui al comma 5 del citato art. 86 si applichi non solo ai beni strumentali, ma anche alle rimanenze di magazzino e all’avviamento, presupponendo - il trasferimento di quest’ultimo - la cessione in blocco dell’intero complesso aziendale (che dà luogo all’emersione di un’unica plusvalenza o minusvalenza, a prescindere dalla presenza nel complesso aziendale di beni da cui originano ricavi) 
L’esclusione della rilevanza delle plusvalenze da realizzo ai fini delle imposte sui redditi è prevista dal citato art. 86, comma 5, solo con riguardo al concordato preventivo con cessione dei beni, non essendo ancora stata tale disposizione adeguata ai nuovi istituti introdotti con il Codice della crisi e, anche in questo caso, ciò potrebbe indurre l’interprete ad escluderne l’estensione a strumenti diversi da tale tipo di concordato. 
Questo è appunto quanto sostenuto dall’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 178 pubblicata il 7 luglio 2025, secondo cui non sarebbe applicabile l’art. 86, comma 5, del TUIR alla plusvalenza discendente dalla cessione dell’unica azienda in esecuzione dell’accordo sottoscritto ai sensi dell’art. 23, lett. a), del Codice della crisi all’esito della composizione negoziata, cui peraltro farebbero seguito la liquidazione integrale del restante patrimonio, l’attribuzione del ricavato complessivo ai creditori e l’estinzione della società debitrice. 
Tuttavia, come si è precisato, la detassazione sancita dal comma 5 dell’art. 86 consiste in un’esclusione, cioè in un trattamento discendente dall’applicazione delle norme ordinarie che disciplinano l’insorgenza del presupposto impositivo, e non di un’esenzione, derivante da una norma che fa eccezione alla regola generale; pertanto, attesa la comune ratio, è da ritenersi che tale esclusione trovi applicazione anche nel concordato semplificato liquidatorio quale tipologia di concordato giudiziale liquidatorio, indipendentemente dall’attuazione del criterio direttivo previsto dalla legge delega, per effetto del quale il principio affermato dal comma 5 dell’art. 86 del TUIR è destinato a informare il regime tributario di tutte le procedure aventi natura liquidatoria.
4 . Il recupero dell’IVA, da parte del creditore, nel concordato semplificato liquidatorio e le sue conseguenze per il debitore
Il comma 2 dell’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 consente al soggetto che ha posto in essere un’operazione soggetta a Iva (avendo ceduto beni o reso servizi imponibili) di recuperare l’imposta applicata e non riscossa, in caso di riduzione in tutto in parte dell’operazione per la quale abbia precedentemente emesso fattura, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente. 
Il medesimo diritto è previsto, dal comma 3 bis del medesimo art. 26 in caso di mancata riscossione - da parte del soggetto che ha ceduto beni o reso servizi - del proprio credito: 
a) a partire dalla data in cui quest’ultimo è assoggettato a una procedura concorsuale o dalla data del decreto che omologa un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 57 del Codice della crisi ovvero dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese di un piano attestato di cui all’art. 56 del Codice della crisi; 
b) a causa di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose. 
Il comma 10 bis dell’art. 26 inoltre indica con precisione il momento a partire dal quale il debitore si considera assoggettato a una delle procedure concorsuali di cui alla lett. a) del comma 3 bis, che è quello della data: a) dell’assoggettamento del debitore a liquidazione giudiziale, liquidazione coatta amministrativa o amministrazione straordinaria; b) dell’ammissione del debitore alla procedura di concordato preventivo; c) all’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti proposto dal debitore; d) della pubblicazione nel registro delle imprese del piano attestato di risanamento del debitore. 
Per contro, mentre da un lato - come si è esposto - il creditore che non riscuote integralmente il proprio credito può recuperare l’Iva fatturata al proprio cliente/debitore e da questi non corrispostagli, dall’altro lato, in base alle regole generali e in applicazione del principio di neutralità dell’Iva, l’impresa debitrice (cioè il cessionario dei beni o il committente dei servizi fornitigli dal creditore) deve specularmente registrare a debito l’Iva recuperata dal creditore, facendola concorrere alla liquidazione dell’imposta che periodicamente deve versare all’Erario, per il quale, quindi, l’operazione è nella sostanza “a saldo zero”. 
In merito a quest’obbligo dell’impresa debitrice di registrare a debito l’Iva recuperata dal creditore, facendola concorrere alla propria liquidazione periodica dell’imposta da versare all’Erario, l’art. 18 del D.L. n. 73/2021 ha tuttavia aggiunto al comma 5 dell’art. 26 un secondo periodo, in forza del quale l’obbligo di rettifica dell’Iva originariamente detratta dal cessionario/committente “non si applica nel caso di procedure concorsuali di cui al comma 3 bis, lettera a)”. Grazie a questa disposizione, quindi, in caso di procedure concorsuale l’operazione di emissione e ricevimento della nota di variazione, pur originando un credito Iva a favore del creditore, non genera in capo al debitore alcun speculare onere tributario. 
Invero, ancor prima della introduzione di tale secondo periodo del comma 5 del citato art. 26, all’evidente fine di semplificarne la gestione e le operazioni di chiusura delle procedure concorsuali, l’Amministrazione finanziaria aveva già sostenuto la sussistenza di un vero e proprio esonero - a favore del debitore assoggettato a procedura concorsuale - dall’obbligo di registrare “a debito” la nota di variazione in diminuzione emessa dal creditore (seppur in assenza di una espressa disposizione in tal senso, derogatoria dell’obbligo di registrazione della nota di variazione sancito in via generale); con il periodo aggiunto al comma 5 dell’art. 26 è stata quindi avvalorata in via normativa la soluzione precedentemente proposta in via interpretativa dall’Agenzia delle Entrate. 
4.1 . La mancata menzione del concordato semplificato liquidatorio nei commi 3 bis, 5 e 10 bis del D.P.R. n. 633/1972 e i suoi effetti per il creditore
Né il comma 3 bis né il comma 10 bis dell’art. 26 citano il concordato semplificato liquidatorio e ciò è evidentemente dovuto al fatto che anche il testo di detta norma (al pari di quanto accaduto per l’art. 88, comma 4 ter, del TUIR) è stato scritto anteriormente all’introduzione nell’ordinamento di tale procedura e non è stato ancora organicamente adeguato ai nuovi istituti introdotti dal Codice della crisi. Tant’è che, con l’art. 9 della già menzionata legge delega, il legislatore ha disposto che, analogamente a quanto si è visto in ordine al trattamento delle sopravvenienze da esdebitazione, il Governo deve provvedere a estendere a tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi l’applicazione delle disposizioni dell’art. 26, commi 3 bis, 5, 5 bis e 10 bis, del DP.R. n. 633/1972. Tuttavia, come già riferito, al momento la suddetta delega è ancora in attesa di attuazione e l’applicazione del comma 3 bis dell’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 è già stata espressamente prevista solo con riguardo alla composizione negoziata della crisi d’impresa per effetto del decreto-legge 24 febbraio 2023, n. 13, che si è specificamente occupato, sotto diversi profili (e non esclusivamente con riguardo a quelli fiscali), di tale istituto.
Ciononostante non può minimamente revocarsi in dubbio che anche il concordato semplificato liquidatorio (anche per gli ulteriori motivi che verranno più dettagliatamente esposti nel successivo paragrafo) sia una procedura concorsuale (e in particolare che si tratti di una procedura equiparabile, relativamente agli effetti che produce, al concordato preventivo liquidatorio): ne discende quindi che è a esso direttamente applicabile il disposto del già citato comma 3 bis, a norma del quale il creditore può emettere una nota di variazione IVA a seguito dell’ammissione del debitore a una procedura concorsuale. 
È del resto del tutto naturale che, con il D.L. n. 13/2023, il legislatore si sia preoccupato di estendere, mediante un’apposita norma, la possibilità di emissione della nota di variazione di cui al citato comma 3 bis alla composizione negoziata della crisi e non anche al concordato semplificato: la composizione negoziata della crisi non è certamente una procedura concorsuale e pertanto la diposizione recata dal citato comma 3 bis, in quanto riferita alle “procedure concorsuali”, non sarebbe stata a essa di per sé applicabile in assenza di un’apposita norma, qual è quella introdotta con il menzionato decreto-legge, che ne prevedesse espressamente l’estensione anche a tale “percorso” (così è infatti definita la composizione negoziata nella stessa relazione illustrativa del provvedimento con cui è stata introdotta nell’ordinamento della crisi); invece, come si è già detto e si vedrà ancora, il concordato semplificato costituisce una procedura concorsuale e pertanto il disposto del citato comma 3 bis è a esso direttamente applicabile, in quanto “procedura concorsuale”, senza necessità di una ulteriore norma che lo preveda mediante un’integrazione di cui non vi è bisogno.
Sotto altro profilo occorre inoltre considerare che l’Agenzia delle Entrate, dopo aver negato, con le risposte a interpello n. 324 del 9 maggio 2023 e n. 88 dell’8 aprile 2024, la possibilità di applicare il comma 3 bis alla (a dire il vero, alle diverse) procedure di liquidazione del patrimonio di cui all’art. 14 ter della legge 27 gennaio 2012, n. 2 e di liquidazione generale dei beni di cui all’art. 14 e seguenti delle disposizioni di attuazione del codice civile, con la risposta a interpello n. 79 del 21 marzo 2025 ha espresso analogo diniego con riferimento al (a dire il vero, anch’esso diverso) istituto del “piano di ristrutturazione soggetto a omologazione” disciplinato dall’art. 64 bis del Codice della crisi, precisando però che, in attesa dell’attuazione della legge delega, trovano comunque applicazione i principi affermati dalla Corte di Giustizia UE, con la sentenza 23 novembre 2017, causa C-246/16, la quale, nel “censurare” la precedente formulazione dell’art. 26, ha: 
· in ogni caso escluso – nell’osservanza del principio di neutralità dell’IVA - che l’imprenditore, in caso di mancato pagamento del corrispettivo, possa rimanere inciso dell’imposta versata all’Erario; 
· previsto che una riduzione possa essere accordata “allorché il soggetto passivo segnali l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato, anche a rischio che la base imponibile sia rivalutata al rialzo nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque”. 
Pertanto, in ottemperanza a tali indicazioni, l’Agenzia delle Entrate ha convenuto che, nell’ipotesi di un “piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione”, il diritto all'emissione della nota di variazione in diminuzione resta subordinato all’adesione dei creditori e, per l’effetto, che il termine per l’emissione della nota di credito, limitatamente all’importo falcidiato, decorre dal decreto di omologazione del piano. 
In altri termini il comma 3 bis dell’art. 26 è stato interpretato dall’Agenzia delle Entrate quale disposizione che consente di “anticipare” l’emissione della nota di variazione in diminuzione al momento di apertura della procedura concorsuale, con la conseguenza che, con riguardo a tutti gli altri istituti disciplinati dal Codice della crisi non menzionati da tale norma, opera la regola generale sancita dal comma 2 dell’art. 26, per cui il diritto di recuperare l’Iva non riscossa decorre dal momento dell’omologazione della procedura che determina il venir meno parziale o totale dell’obbligazione giuridica in capo all’impresa debitrice. 
Deve pertanto ritenersi che il diritto del creditore di emettere la nota di variazione di cui trattasi sussiste anche nel caso del concordato semplificato liquidatorio sulla scorta dei seguenti presupposti: 
i) ove si ritenga, com’è certamente da ritenersi, che il concordato semplificato liquidatorio sia una procedura concorsuale (in particolare da assimilare, ai fini di cui trattasi, al concordato preventivo liquidatorio), il suddetto diritto sussiste in virtù della diretta applicazione del comma 3 bis dell’art. 26, che appunto alle procedure concorsuali fa riferimento, nel qual caso il suddetto diritto spetterebbe a decorrere già dalla data di ammissione del debitore alla procedura di concordato semplificato; 
ii) ove si ritenga invece di dover escludere, anche se non si vede come, che il concordato semplificato liquidatorio sia una procedura concorsuale, il suddetto diritto sussiste in base alla regola generale discendente dalla citata sentenza della Corte di Giustizia UE e di quanto affermato dalla stessa Agenzia delle Entrate con la citata risposta a interpello, con decorrenza dalla omologazione del concordato semplificato.
4.2 . La mancata menzione del concordato semplificato liquidatorio nel comma 5 del D.P.R. n. 633/1972 e i suoi effetti sul debitore
Per i motivi esposti nel precedente paragrafo è quindi da ritenersi sussistente il diritto del creditore ad emettere - nei confronti del suo cessionario/debitore - una nota di variazione Iva in diminuzione corrispondente all’importo dei suoi crediti non recuperabile a seguito dell’ammissione del debitore al concordato semplificato liquidatorio, ovvero a seguito della omologazione di tale procedura. 
Ciò posto, resta da stabilire se il debitore abbia l’obbligo, in sede di liquidazione periodica dell’imposta, di registrare a debito le note di variazione in base alla regola generale posta dal primo periodo del comma 5 del citato art. 26, rilevando un debito Iva di ammontare pari all’imposta rettificata nei suoi confronti mediante le stesse, ovvero se possa beneficiare dell’esonero da tale obbligo stabilito dal secondo periodo del medesimo comma 5. 
Al riguardo si è già osservato che, anteriormente alle modifiche recate all’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 dal D.L. n. 73/2021, l’Agenzia delle Entrate - con la risoluzione n. 155/E del 12 ottobre 2001 - aveva affermato in via interpretativa che l’emissione di una nota di variazione in diminuzione da parte del creditore di un’impresa fallita non potesse determinare l’inclusione del corrispondente credito erariale nel riparto finale dell’attivo, da considerare ormai definitivo. Del pari, con la risoluzione n. 161/E del 17 ottobre 2001 l’Agenzia aveva precisato che l’emissione di detto documento, successivamente alla chiusura del concordato preventivo con garanzia o con cessione dei beni, non potesse comportare per il debitore concordatario l’obbligo di rispondere verso l’Erario del relativo debito per Iva, in quanto l’effetto esdebitatorio di cui all’art. 184 L. fall. interessava anche la quota del credito rappresentata dall’Iva dovuta a titolo di rivalsa.
Il medesimo indirizzo è stato ribadito anche a seguito dell’abrogazione della previsione (peraltro mai entrata in vigore) inserita nell’art. 26 dall’art. 1, comma 126, della Legge 28 dicembre 2015, n. 208, che esonerava espressamente dall’obbligo di registrazione a debito il debitore assoggettato a una procedura concorsuale. Ci si riferisce in particolare alle risposte a interpello n. 113 del 18 dicembre 2018 e n. 54 del 30 ottobre 2018, con cui è stato affermato che, nonostante l’assenza di una norma che espressamente escluda le imprese assoggettate a procedure concorsuali dall’obbligo di registrare “in aumento” la nota di variazione in diminuzione eventualmente emessa dal fornitore, non sussiste comunque “l’obbligo di rispondere verso l’Erario di un debito sul quale si sono già prodotti gli effetti estintivi del concordato preventivo. Diversamente, [...] si avrebbe una deroga all’efficacia liberatoria della procedura, da ritenersi ingiustificata in relazione alle norme che dispongono l’estinzione di ogni debito sorto anteriormente all’inizio della procedura medesima”. 
Ebbene, in virtù dell’applicazione dell’art. 117 del Codice della crisi, richiamato dal comma 8 del successivo art. 25 sexies, le medesime considerazioni sono parimenti riferibili al concordato semplificato liquidatorio, con la cui omologazione si produce il suddetto effetto liberatorio e la cristallizzazione dei debiti da soddisfare. Ne discende che anche in quest’ultima procedura non sussiste, in capo al debitore, l’obbligo di rispondere verso l’Erario del debito che in via ordinaria, cioè in assenza di una procedura concorsuale, l’emissione della nota di variazione IVA da parte del creditore produce nei confronti del debitore. 
Indipendentemente da questo motivo, come si è anticipato nel precedente paragrafo, sussistono ulteriori ragioni per ritenere che relativamente al concordato semplificato liquidatorio, trovano comunque applicazione le disposizioni contenute nei commi 3 bis, 5 e 10 bis, sebbene tale procedura non sia (ancora) menzionata in tali norme. 
Giova al riguardo far riferimento alla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 20 del 29 dicembre 2021, secondo cui l’esonero dalla registrazione a debito della nota di variazione in diminuzione emessa dal creditore ricorre unicamente nel caso di assoggettamento del debitore a fallimento (ora liquidazione giudiziale), liquidazione coatta amministrativa, concordato preventivo (liquidatorio o con continuità aziendale) e amministrazione straordinaria. Secondo l’Agenzia delle Entrate, il medesimo esonero non riguarderebbe, invece, gli accordi di ristrutturazione dei debiti e i piani attestati, poiché si tratterebbe di istituti non “qualificabili come procedure concorsuali in senso stretto, in quanto mancano sia del carattere della ‘concorsualità’, sia di quello dell’‘ufficialità’”. 
Sono quindi questi i caratteri - la concorsualità e l’ufficialità - che secondo la stessa Agenzia differenziano gli istituti con riguardo ai quali l’esonero di cui al secondo periodo del comma 5 dell’art. 26 sussiste e quelli in cui deve essere escluso. 
Secondo la dottrina e la giurisprudenza – e secondo la stessa Agenzia delle Entrate - il carattere della concorsualitàsussiste quando un istituto: i) ha rilevanza nei confronti della totalità dei creditori; ii) prevede l’assoggettamento alla procedura di tutto l’attivo dell’impresa debitrice; iii) prevede l’applicazione, ai fini dell’attribuzione dell’attivo del debitore ai creditori, delle regole del concorso e di quelle dell’ordine delle cause di prelazione; iv) prevede la possibilità del debitore di usufruire di misure protettive e cautelari; v) attribuisce al tribunale il potere di dirigere le operazioni e di omologare la procedura. Il concordato semplificato possiede tutti questi caratteri ed è quindi certamente da considerare una procedura connotata da “concorsualità”. 
Occorre inoltre tener conto del fatto che, come si è già rappresentato in merito al trattamento delle sopravvenienze attive da esdebitazione, in relazione a esso trovano pacificamente applicazione i “reati fallimentari” e quest’ultimo aspetto è particolarmente significativo, perché, se è pacifico che tali norme sono applicabili anche con riguardo al concordato semplificato liquidatorio nonostante in esse questo istituto non sia mai menzionato, trattandosi comunque di un concordato, a maggior ragione devono essere applicate quelle fiscali riferite al concordato preventivo. 
Quest’ultima procedura è inoltre munita del carattere della “ufficialità”, atteso che ai sensi dell’art. 25 sexies del Codice della crisi: i) l’imprenditore deve chiederne l’omologazione al tribunale competente mediante la presentazione di un apposito ricorso, che deve essere comunicato al pubblico ministero e pubblicato nel registro delle imprese (comma 2); ii) il tribunale nomina un ausiliario, che deve esprimere sulla proposta di concordato il proprio parere (comma 3); iii) il tribunale dispone con decreto che la proposta e il parere dell’ausiliario siano comunicati ai creditori (comma 4); iv) i creditori e qualsiasi interessato possono opporsi all’omologazione del concordato entro il termine disposto dal tribunale (comma 4); v) il tribunale omologa il concordato se ricorrono i presupposti stabiliti dal comma 5 e il decreto omologativo è comunicato alle parti, che possono proporre reclamo alla corte di appello (comma 6). 
Occorre considerare inoltre la ratio dell’ultimo periodo del citato comma 5, la quale è costituita dall’esigenza di evitare l’insorgenza, in capo alle imprese che hanno avviato un percorso di risanamento, di un onere aggiuntivo che potrebbe ostacolare la ristrutturazione avviata dal debitore e/o il soddisfacimento dei suoi creditori. Poiché si tratta di una misura di sostegno, è comprensibile che essa sia consentita solo in presenza di atti che attestino sia lo stato di crisi in cui l’impresa che ne beneficia deve trovarsi, sia l’efficacia degli interventi adottati per il superamento di tale stato. Da qui la necessità di documenti ufficiali che certifichino la ricorrenza di dette circostanze; documenti che, come si è esposto, nel concordato semplificato trovano la propria fonte proprio nell’Autorità Giudiziaria. 
Per queste ragioni è di tutta evidenza che i caratteri della concorsualità e della ufficialità sussistono anche nel caso del concordato semplificato liquidatorio e che quindi esso costituisca una procedura concorsuale, né più né meno come il concordato preventivo liquidatorio: ne discende - in base a quanto affermato dalla stessa Agenzia delle Entrate con la circolare n. 20/2021 e con la risposta a interpello n. 79/2025 – che non sussiste alcun motivo per non applicare in caso di concordato semplificato l’esonero disposto dal secondo periodo del comma 5; così come non sussiste alcun motivo per non applicare al concordato semplificato una disciplina differente da quella stabilita per il concordato preventivo e viceversa. 
Questa conclusione non è ostacolata dal disposto del comma 10 bis del citato art. 26, il quale specifica, ai fini del comma 3 bis, quando il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale e, nel fornire tale precisazione, menziona il fallimento (ora liquidazione giudiziale), (ii) la liquidazione coatta amministrativa, (iii) la procedura di concordato preventivo, (iv) la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ma non indica il concordato semplificato, dal che si potrebbe essere erroneamente indotti a ritenere che quest’ultimo istituto non sia da considerare una procedura concorsuale e che quindi ai fini l’esonero dall’obbligo di registrazione della nota di variazione disposto dall’ultimo periodo del comma 5 non rilevi con riferimento a detto istituto. Infatti, scopo di tale norma è solo quello di individuare puntualmente la data a partire dalla quale la nota di variazione Iva può essere emessa, che con riguardo al concordato semplificato può essere agevolmente mutuata dalla disciplina del concordato preventivo, rilevando perciò la data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese, da cui decorrono, a norma dell’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 25 sexies, gli effetti di cui agli artt. 6, 46, 94 e 96 del Codice della crisi. 
Dalle considerazioni che precedono discende quindi che l’esonero dall’obbligo di annotazione della nota di variazione previsto dall’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 trova applicazione anche per effetto della omologazione del concordato semplificato liquidatorio di cui all’art. 25 sexies del Codice della crisi.

Note:

[1] 
Così recitava il comma 1 dell’art. 18 del D.L. n. 118/2021.
[2] 
Cfr. ex multis G. D’Attorre, “Il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 12/2021, pag. 1603; G. Bozza, “Il concordato semplificato introdotto dal D.L. n. 118 del 2021, convertito con modifiche dalla L. n. 147 del 2021”, in Dirittodellacrisi.it, 9 novembre 2021; M. Spiotta, Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, in M. Irrera - S.A. Cerrato (a cura di), La crisi di impresa e le nuove misure di risanamento, Bologna, 2022, pagg. 411 - 413; A. Rossi, L’apertura del concordato semplificato, in Composizione negoziata della crisi di impresa e concordato semplificato, Quaderno n. 23 del Consiglio Superiore della Magistratura a cura di L. Calcagno - F. Di Marzio - A. Farolfi, Roma, 2023, pag. 221. 
[3] 
Cfr. A. Contrino, “Procedure concordatarie (vecchie e nuove), riduzioni di debiti e sopravvenienze attive”, in Rassegna tributaria n. 1/2011, pag. 39.
[4] 
Cfr. ex multis R.M. 22 maggio 1980, n. 9/916. 
[5] 
Cfr. G. Zizzo, Le vicende straordinarie nel reddito d’impresa, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario-Parte Speciale, Padova, 2016, pagg. 741 e 742; M. Miccinesi, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, pagg. 255 e segg. Il riferimento al “concordato fallimentare” nell’art. 88, comma 4 ter, invece, viene tipicamente ricondotto a motivi prudenziali, potendosi l’effetto esdebitatorio derivante dall’omologazione riferire solo al momento dell’avvenuta esecuzione del concordato, e quindi al di fuori del maxi-periodo concorsuale indicato dall’art. 183 del TUIR. 

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