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Saggio

Le note di variazione IVA nella crisi d’impresa*

Giulio Andreani e Angelo Tubelli, Dottori commercialisti e consulenti fiscali in Milano

4 Agosto 2025

*Saggio sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
A norma dell’art. 26 del “Decreto IVA”, da un lato, il creditore che non riscuote integralmente il proprio credito a causa dello stato di crisi o insolvenza del suo debitore può recuperare l’IVA addebitata a quest’ultimo ( a cui ha ceduto beni o reso servizi) e da questi non corrispostagli; dall’altro lato, il debitore deve specularmente registrare a debito l’IVA recuperata dal creditore, facendola concorrere alla liquidazione dell’imposta che periodicamente deve versare all’Erario, per il quale, quindi, l’operazione è neutra. 
Tuttavia, per effetto della disposizione recata dall’ultimo periodo del comma 5 del medesimo art. 26, l’obbligo dell’impresa debitrice di rilevare l’IVA a debito (specularmente al recupero della stessa da parte del creditore) non sussiste a seguito dell’assoggettamento del debitore a talune “procedure concorsuali”, ma non se quest’ultimo ha fatto ricorso ad altri istituti disciplinati dal Codice della crisi. 
Le disposizioni sopra menzionate hanno generato nel corso del tempo numerosi contrasti interpretativi, riguardanti l’individuazione della data dalla quale la nota di variazione può essere emessa e quella sino alla quale il diritto di recupero dell’IVA può essere esercitato, il criterio di determinazione dell’importo stesso per il quale la nota di variazione può essere emessa, la ripartizione dell’importo non recuperato dal creditore fra imponibile e tributo, la necessità o meno dell’insinuazione allo stato passivo ai fini della emissione della nota di variazione e l’ampiezza dell’esonero dell’obbligo da parte del debitore di annotare la nota di variazione e di rilevare a debito l’imposta in essa esposta. Il Codice della crisi ha inoltre originato ulteriori incertezze interpretative concernenti l’applicazione delle disposizioni di cui trattasi ai nuovi istituti da esso introdotti, che sono tuttora del tutto privi di alcuna menzione da parte del citato art. 26. 
Ne discende un quadro normativo per un verso incerto e in parte contrastante con alcuni dei principi unionali che disciplinano l’IVA e, per altro verso, assai disomogeneo, che espone le imprese al reale rischio di contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria e genera effetti differenti, relativamente al soddisfacimento dei creditori e al fabbisogno finanziario del debitore, a seconda dell’istituto di risanamento utilizzato. 
Scopo dell’articolo è quello di ricostruire la disciplina applicabile nei vari istituti, fornendo una lettura sistematica delle disposizioni previste dall’art. 26 del Decreto IVA, superando i dubbi interpretativi da queste originati nel corso degli anni e colmando le lacune dovute al mancato adeguamento della legislazione tributaria alle innovazioni introdotte dal Codice della crisi.
Riproduzione riservata

Sommario:

1 . Le note di variazione in diminuzione nella disciplina dell’IVA: inquadramento generale

2 . La disciplina delle variazioni in diminuzione IVA nell’ambito della crisi d’impresa

2.1 . I temi rilevanti per il creditore: presupposto oggettivo, dies a quo, dies ad quem, importo della variazione in diminuzione

2.2 . Il tema rilevante per il debitore: l’esonero dall’obbligo di registrazione della nota di variazione

3 . Esame dei temi rilevanti posti dall’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972

3.1 . Dies a quo

3.1.1 . La normativa vigente per le procedure aperte prima del 26 maggio 2021

3.1.2 . Il contrasto con la Direttiva IVA e la L. n. 208/215

3.1.3 . La normativa vigente per le procedure aperte dal 26 maggio 2021

3.2 . Dies ad quem

3.3 . Importo della variazione in diminuzione

3.4 . Variazione in diminuzione in caso di trattamento differente, in sede di riparto, della somma dovuta a titolo di rivalsa IVA e di quella dovuta a titolo di corrispettivo

3.4.1 . Il caso della somma incassata solo a titolo di corrispettivo

3.4.2 . Il caso della somma incassata solo a titolo di IVA

3.5 . Rettifica in aumento della variazione in diminuzione

3.6 . Insinuazione del creditore al passivo

3.7 . Esonero del debitore dalla registrazione della variazione in diminuzione

3.7.1 . La normativa vigente per le procedure aperte prima del 26 maggio 2021

3.7.2 . La normativa vigente per le procedure aperte dal 26 maggio 2021

3.7.2.1 . L’ambito oggettivo dell’esonero: la tesi restrittiva dell’Agenzia

3.7.2.2 . La ratio dell’esonero

3.7.2.3 . L’interpretazione letterale della norma

3.7.2.4 . La discutibile scelta di discriminare gli accordi di ristrutturazione rispetto al concordato in continuità

3.8 . Successione tra le procedure

4 . Le variazioni in diminuzione negli istituti del Codice della crisi non menzionati dall’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972

4.1 . La composizione negoziata

4.2 . Il concordato semplificato

4.3 . Il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione

4.4 . Il concordato minore

4.5 . La liquidazione controllata del sovraindebitato

4.6 . La liquidazione del patrimonio degli enti non societari

1 . Le note di variazione in diminuzione nella disciplina dell’IVA: inquadramento generale
Successivamente all’emissione della fattura o alla registrazione del corrispettivo, da parte del soggetto passivo d’imposta che ha effettuato un’operazione (cessione di beni o prestazione di servizi) rilevante ai fini dell’IVA, possono sopravvenire modificazioni della base imponibile o dell’imposta relative a tale operazione, conseguenti a nuovi accordi intercorsi tra le parti, al realizzarsi di clausole già previste originariamente, a modifiche legislative, all’ordinaria patologia del contratto prevista dal diritto civile (risoluzione, annullamento, rescissione, ecc.) ovvero alla rilevazione di errori commessi al momento della fatturazione. 
Poiché l’emissione della fattura comporta l’obbligo di corrispondere il relativo tributo, la disciplina dell’IVA prevede un meccanismo di rettifica della base imponibile e/o della relativa imposta, affinché quest’ultima corrisponda al valore dell’operazione economica effettivamente e complessivamente posta in essere. Questo meccanismo è rappresentato dalle variazioni in aumento e in diminuzione: le variazioni in aumento sono generalmente legate all’ipotesi di fatturazione errata per difetto oppure a clausole contrattuali che prevedono l’incremento del corrispettivo al verificarsi di una condizione predeterminata; le variazioni in diminuzione sono invece collegate al verificarsi di eventi che riducono del tutto o anche solo in parte la base imponibile e di conseguenza l’imposta originariamente applicata, che dunque si rende (in tutto o in parte) non più dovuta. 
Infatti, l’applicazione di un’imposta non dovuta rischia di minare il principio di neutralità, cioè di uno dei cardini dell’intera disciplina dell’IVA, in forza del quale la base imponibile di questo tributo è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto dal soggetto passivo e l’Amministrazione finanziaria non può dunque riscuotere a titolo di IVA un importo superiore a quello percepito al medesimo titolo dal soggetto passivo[1]. Al fine di consentire il recupero della maggiore imposta dovuta dal soggetto passivo rispetto a quella a questi corrisposta dal cliente, l’art. 90 della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 (di seguito: “Direttiva IVA”) stabilisce perciò testualmente quanto segue:
 “1. In caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri. 
2. In caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare al paragrafo 1”. 
Sulla base del medesimo principio di neutralità, al diritto del cedente/prestatore (cioè del soggetto che ha effettuato la cessione dei beni o la prestazione di servizi) di recuperare l’IVA addebitata a titolo di rivalsa corrisponde tuttavia l’obbligo del cessionario/committente (che ha acquistato i beni o i servizi) di rettificare l’imposta che quest’ultimo ha detratto sulla base della fattura d’acquisto originariamente ricevuta, previsto dall’art. 184 della Direttiva IVA, che impone agli Stati membri di pretendere dal cessionario/committente la rettifica della detrazione operata inizialmente (“quando è superiore o inferiore a quella cui il soggetto passivo ha diritto”). Il successivo art. 185 stabilisce inoltre, in maniera speculare rispetto al già citato art. 90, quanto segue: 
1. La rettifica ha luogo, in particolare, quando, successivamente alla dichiarazione dell’IVA, sono mutati gli elementi presi in considerazione per determinare l’importo delle detrazioni, in particolare, in caso di annullamento di acquisti o qualora si siano ottenute riduzioni di prezzo. 
2. In deroga al paragrafo 1, la rettifica non è richiesta in caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate, in caso di distruzione, perdita o furto debitamente provati o giustificati, nonché in caso di prelievi effettuati per dare regali di scarso valore e campioni di cui all’art. 16. In caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate e in caso di furto gli Stati membri possono tuttavia esigere la rettifica”. 
Nel nostro ordinamento il diritto del soggetto cedente/prestatore di rettificare in diminuzione l’imposta applicata è disciplinato dall’art. 26 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (di seguito: “Decreto IVA”), il cui comma 1 dispone che le norme relative alla fatturazione delle operazioni economiche imponibili devono essere obbligatoriamente applicate quando, successivamente all’emissione della fattura, “l’ammontare imponibile di un’operazione o quello della relativa imposta viene ad aumentare per qualsiasi motivo, comprese la rettifica di inesattezze della fatturazione o della registrazione”, tramite l’emissione di un apposito documento denominato “nota di variazione in aumento” da registrare alla stregua della fattura oggetto di rettifica e che dà del pari al soggetto ricevente il diritto di detrarre la maggiore imposta così applicata[2]. 
Per contro, il comma 2 del medesimo art. 26 prevede che, se un’operazione per la quale sia stata emessa fattura successivamente alla sua registrazione viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’imponibile, “il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ….. l’imposta corrispondente alla variazione”. 
Come da subito chiarito nella relazione di accompagnamento allo schema originario del Decreto IVA, la rettifica in diminuzione disciplinata dal citato comma 2 e dai successivi commi dell’art. 26, invece, “è facoltativa ed è ammessa soltanto in casi ben determinati”; tuttavia, se tale rettifica è effettuata dal cedente/prestatore, “ad essa deve corrispondere una rettifica in aumento dell’imposta dovuta dall’acquirente o committente per effetto della corrispondente riduzione della detrazione”. 
Emergono così due aspetti fondamentali che caratterizzano la disciplina interna, ovverosia: 
1) Il carattere non obbligatorio della rettifica in diminuzione, dovuto alla considerazione che la mancata esecuzione della variazione non è di per sé idonea a generare conseguenze pregiudizievoli per l’Erario, giacché, in caso di mancata attivazione di tale diritto da parte del cedente/prestatore, l’imposta resta da questi dovuta e il cessionario/committente continua a fruire della detrazione della stessa, con un effetto neutrale per l’Erario; 
2) La dipendenza dell’obbligo del cessionario/prestatore di rettificare la detrazione inizialmente operata dall’effettivo esercizio di tale facoltà da parte del cedente/committente, a cui fa da contraltare il diritto del primo di ottenere la restituzione della maggiore imposta eventualmente già versata al secondo, con un effetto del pari neutrale per l’Erario. 
In altri termini, le variazioni in diminuzione costituiscono un diritto del soggetto passivo, che avendo già corrisposto il tributo in misura superiore rispetto a quella dovuta ha la facoltà (e non l’obbligo) di recuperare la differenza mediante una variazione in diminuzione. Il meccanismo di rettifica in diminuzione elaborato dal legislatore italiano è dunque imperniato sull’iniziativa del soggetto passivo, che ha applicato un’imposta resasi successivamente (per effetto di un mutamento delle condizioni originarie) in tutto o in parte non dovuta. Tale diritto viene esercitato tramite l’emissione della “nota di variazione in diminuzione” e, ai sensi del comma 5 dell’art. 26, sorge l’obbligo del destinatario di rettificare, a seguito della ricezione e della registrazione di detto documento, la detrazione a suo tempo operata; di norma, il soggetto emittente contabilizza le note di variazione in diminuzione delle operazioni attive mediante registrazioni con il segno “meno” nel registro delle vendite (dal quale emerge l’IVA a debito verso l’Erario), riducendo così il proprio debito d’imposta, mentre il soggetto che le riceve le contabilizza mediante annotazione con il segno “meno” nel registro degli acquisti (dal quale emerge l’IVA a credito verso l’Erario), riducendo così il proprio credito d’imposta. 
Nessuna disposizione dell’art. 26, dunque, prevede un obbligo per il cessionario/committente di provvedere all’autonoma rettifica dell’IVA detratta in caso di mancata corresponsione del corrispettivo o al verificarsi degli altri eventi previsti dall’art. 26, comma 2. 
Occorre però dare conto in proposito dell’orientamento assunto negli ultimi tempi dai giudici di legittimità, secondo cui in forza della Direttiva IVA il venir meno dell’operazione economica comporterebbe il venir meno anche del diritto alla detrazione dell’IVA operata dal soggetto acquirente/committente, come accade, ad esempio, per l’IVA versata alla controparte a titolo di acconto per l’acquisto di un immobile successivamente non perfezionato a causa del default del promittente venditore; in tal caso, secondo il principio sancito dalla Corte di cassazione con l’ordinanza 1° marzo 2025, n. 5421, il promissario acquirente ha l’obbligo di rettificare la detrazione, in ragione del mancato perfezionamento dell’operazione mediante apposita annotazione nei registri IVA[3]. Deve essere tuttavia sin d’ora precisato, anticipando uno degli argomenti trattati nel successivo paragrafo 3.7.2.4., che l’art. 26, comma 5, ultimo periodo, del Decreto IVA prevede, per il debitore, l’esonero dall’obbligo di registrare le note di variazione in diminuzione ricevute, che a propria volta fa venir meno l’obbligo di rettificare l’imposta a suo tempo detratta.
2 . La disciplina delle variazioni in diminuzione IVA nell’ambito della crisi d’impresa
Per quanto attiene alle fattispecie che consentono al cedente prestatore di recuperare l’IVA precedentemente applicata in relazione a cessioni di beni e/o prestazioni di servizi dallo stesso effettuate, l’art. 26 del Decreto IVA stabilisce che le note di variazione in diminuzione possono essere emesse da tale soggetto: 
1) in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili (comma 2); 
2) in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente (comma 2); 
3) a partire dalla data in cui il debitore è assoggettato a una procedura concorsuale, dalla data del decreto che omologa un accordo di ristrutturazione dei debiti, dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese di un piano attestato (comma 3 bis, lett. a); 
4) a causa di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose (comma 3 bis, lett. b). 
In base al successivo comma 3 dell’art. 26 la suddetta facoltà non può essere esercitata “dopo il decorso di un anno dall’effettuazione dell’operazione imponibile qualora gli eventi ivi indicati si verifichino in dipendenza di sopravvenuto accordo fra le parti”, mentre la variazione non dipendente da un sopravvenuto accordo tra le parti può essere operata senza limiti temporali. Questa disciplina riflette sostanzialmente la demarcazione presente negli artt. 90 e 185 della Direttiva IVA, in cui si distingue tra (i) eventi che fanno venir meno in tutto o in parte l’operazione economica precedentemente effettuata e (ii) il mancato pagamento non definitivo del corrispettivo e (con esso) dell’IVA applicata in via di rivalsa. Tuttavia, a questo assetto normativo si è pervenuti attraverso un percorso temporalmente lungo e tortuoso. 
Infatti, nella sua formulazione originaria l’art. 26, comma 2, del Decreto IVA non contemplava l’ipotesi del “mancato pagamento in tutto o in parte” del corrispettivo tra gli eventi che davano diritto all’emissione della nota di variazione in diminuzione rilevante ai fini IVA. Tale previsione fu inserita nell’ordinamento soltanto con l’art. 2 della Legge 28 febbraio 1997, n. 30, facendosi inizialmente riferimento, a tal fine, al “mancato pagamento in tutto o in parte a causa dell’avvio di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose”. Il legislatore fiscale, quindi, aveva ritenuto di circoscrivere la rilevanza del “mancato pagamento” alle sole situazioni in cui esso era dovuto all’incapienza del patrimonio del debitore, debitamente “attestate” dagli organi dell’Autorità giudiziaria, per cui in origine gli eventi legittimanti la rettifica in diminuzione della base imponibile di un’operazione IVA erano rappresentati, da un lato, dall’assoggettamento del debitore a una procedura concorsuale (come indicava il riferimento al momento “dell’avvio” delle procedure) e, dall’altro, dall’esito infruttuoso della procedura di esecuzione intentata dal creditore a titolo individuale, il che creava incertezza circa l’individuazione del presupposto (soprattutto sotto il profilo temporale) della rettifica, potendo il riferimento all’infruttuosità delle procedure essere letteralmente riferito anche alle procedure concorsuali e non solo a quelle esecutive. 
Con l’art. 13 bis, comma 1, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79, aggiunto in sede di conversione della Legge 28 maggio 1997, n. 140, il legislatore fiscale ritornò nuovamente sul testo del comma 2 dell’art. 26, eliminando il riferimento all’“avvio” delle procedure. Da quel momento in poi, fino all’entrata in vigore delle modifiche recate dall’art. 18 del decreto-legge 25 maggio 2021, n. 73, l’art. 26, comma 2, del Decreto IVA ha dunque disposto quanto segue: “Se un’operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione di cui agli artt. 23 e 24, viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali […], il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell’art. 19 l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell’art. 25”. È stato così riconosciuto, al creditore di un’impresa assoggettata a una procedura concorsuale, il diritto di rettificare, tramite apposita nota di variazione in diminuzione, la fattura originaria al fine di poter recuperare l’imposta applicata e non riscossa, con la precisazione che al riguardo non sarebbe stata sufficiente la sola “apertura” della procedura ma sarebbe stata necessaria la sua “conclusione infruttuosa” (questa almeno è stata la conclusione che l’Agenzia ha tratto dall’eliminazione della locuzione “dell’avvio”). 
Solo a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 18 del D.L. n. 73/2021, il diritto di recuperare l’IVA addebitata e non riscossa nei confronti di imprese in crisi può essere esercitato già dal momento in cui si manifesta tale stato mediante l’emissione della nota di variazione in diminuzione prevista dall’art. 26 del Decreto IVA, ancorché, ai sensi del comma 2 del citato art. 18, unicamente per le procedure aperte dal 26 maggio 2021. 
Già dalla sintetica ricostruzione dell’evoluzione di questa norma sopra esposta, si può intuire come il legislatore, nel regolamentare l’istituto delle variazioni in diminuzione IVA nell’ambito della crisi d’impresa, abbia dovuto - e in parte debba tuttora - affrontare e risolvere varie questioni interpretative, concernenti sia il creditore che voglia avvalersi della facoltà di recuperare l’IVA addebitata e non riscossa, sia il debitore che “subisce” l’esercizio di tale facoltà ricevendo la nota di variazione in diminuzione a rettifica della fattura d’acquisto originariamente registrata.
2.1 . I temi rilevanti per il creditore: presupposto oggettivo, dies a quo, dies ad quem, importo della variazione in diminuzione
La prima questione problematica concerne l’individuazione dei requisiti necessari per consentire al creditore di operare la variazione in diminuzione IVA, in quanto attestanti in maniera ragionevole il presumibile mancato pagamento del credito (comprensivo di IVA) da questi vantato a causa della crisi in cui versa il suo debitore[4]. Il legislatore fiscale avrebbe potuto individuare in maniera analitica gli istituti disciplinati, prima, dalla legge fallimentare e, poi, dal decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (“Codice della crisi”), ma questa opzione avrebbe richiesto un costante adeguamento del testo normativo alla graduale evoluzione subita dal diritto della crisi, caratterizzata (specie negli ultimi anni) dall’introduzione di nuovi istituti che danno diritto al recupero dell’IVA. 
Alla individuazione di tali istituti sono direttamente connessi il tema dell’importo per il quale la nota di variazione può essere emessa e quello dell’identificazione del dies a quo, vale a dire del momento a partire dal quale il creditore può esercitare il suddetto diritto, posto che ciascun istituto presenta caratteristiche procedurali diverse e quindi diverso è normalmente l’evento attestante la ragionevole irrecuperabilità del credito. 
Un’ulteriore questione problematica concerne l’individuazione del dies ad quem, cioè, ove sussista, di un termine ultimo entro il quale il creditore può esercitare il diritto di recuperare l’IVA non riscossa. 
Infine, ma non da ultimo, la disciplina delle variazioni in diminuzione IVA nell’ambito della crisi d’impresa richiede di verificare (anche in questo caso in assenza di norme ad hoc) i criteri da seguire ai fini della ripartizione dell’ammontare della somma non percepita, oggetto della nota di variazione in diminuzione, fra base imponibile e IVA, nonché con riferimento alla possibilità (peraltro da sempre esclusa dall’Amministrazione finanziaria) di emettere una nota di variazione in diminuzione per la sola imposta.
2.2 . Il tema rilevante per il debitore: l’esonero dall’obbligo di registrazione della nota di variazione
Ex latere debitoris, invece, la questione problematica sollevata dalle disposizioni di cui trattasi riguarda l’obbligo del debitore di registrare le note di variazione in diminuzione allo stesso notificate dai propri creditori, da cui deriva - in capo a tale soggetto - un ulteriore debito (o una riduzione del suo credito) IVA quale conseguenza della rettifica in tutto o in parte della detrazione a suo tempo operata dal debitore.
A questo riguardo per lungo tempo, in assenza di riferimenti normativi, l’interprete ha dovuto affrontare la questione relativa alla sussistenza o meno di tale obbligo anche per le imprese in crisi, risolta (come si vedrà) in senso negativo dall’Amministrazione finanziaria, che in via interpretativa ha ritenuto insussistente tale obbligo in considerazione dell’aggravio che ne sarebbe conseguito. 
Con l’art. 18 del D.L. n. 73/2021 è stata avvalorata in via legislativa la posizione dell’Agenzia delle Entrate tramite l’aggiunta di un ultimo periodo al comma 5 dell’art. 26, prevedendosi così espressamente l’esonero dalla registrazione a debito per le imprese in crisi, ma con una formulazione che ha destato e tuttora desta incertezze in ordine alla individuazione degli istituti cui esso è applicabile, in maniera per certi versi analoga a quanto accade con riguardo all’ambito di applicazione del comma 3 bis dell’art. 26 in capo al creditore.
3 . Esame dei temi rilevanti posti dall’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972
A seconda di come le suddette questioni problematiche vengono risolte dall’interprete, la disciplina delle variazioni in diminuzione IVA può produrre diversi effetti in dipendenza dell’istituto utilizzato per il risanamento dell’impresa in crisi; per questo motivo pare opportuno rinviare al successivo paragrafo 4 l’esame del presupposto oggettivo di applicazione della disciplina delle variazioni in diminuzione IVA e della sua possibile estensione agli istituti del Codice della crisi non espressamente menzionati nell’art. 26 del Decreto IVA rispetto ai quali la formulazione della norma non è stata allo stato adeguata, esaminando nel presente paragrafo le altre tematiche sopra individuate.
3.1 . Dies a quo
Come dianzi riferito, una delle problematiche interpretative più rilevanti poste dall’art. 26 del Decreto IVA ha riguardato il momento a partire dal quale il creditore è legittimato a recuperare l’IVA applicata e non riscossa. Poiché su tale tema l’art. 18 del D.L. n. 73/2021 è intervenuto unicamente con riferimento alle procedure aperte dal 26 maggio 2021, allo stato attuale per tali procedure continua ad applicarsi la normativa vigente prima dell’entrata in vigore del citato decreto, che anche per questo motivo è opportuno richiamare.
3.1.1 . La normativa vigente per le procedure aperte prima del 26 maggio 2021
Secondo l’orientamento restrittivo assunto dall’Amministrazione finanziaria con la circolare n. 77/E del 17 aprile 2000, l’eliminazione delle parole “dell’avvio” avrebbe portato a concludere che detto momento coincidesse con la definitiva chiusura della procedura concorsuale, manifestandosi solo in questo momento l’assoluta certezza circa la conclusione infruttuosa della procedura. 
In questa ottica l’Amministrazione finanziaria aveva affermato che il dies a quo, per l’emissione della nota di variazione in diminuzione nei confronti di un’impresa assoggettata alla procedura di fallimento, era rappresentato dalla data di emanazione del decreto che dichiara esecutivo il riparto finale ai sensi dell’art. 117, comma 1, della legge fallimentare oppure, in assenza di piano di riparto finale, dalla data del decreto di chiusura del fallimento ai sensi dell’art. 119 della legge fallimentare[5]. Tale indirizzo è stato poi ripetutamente ribadito dall’Agenzia delle Entrate con le risoluzioni n. 155/E del 12 ottobre 2001, n. 89/E del 18 marzo 2002 e n. 195/E del 16 maggio 2008, nonché con la risposta a interpello 28 ottobre 2019, n. 438, con cui è stato altresì affermato che, in caso di mancato reclamo contro il decreto di chiusura, il dies a quo decorre dal termine perentorio di 90 giorni dal deposito di tale provvedimento in cancelleria[6]. 
Con la risposta 22 maggio 2019, n. 155, analogamente a quanto rappresentato nell’ambito della circolare n. 77/E/2000, con riferimento al concordato fallimentare era stato del pari rimarcato che occorreva attendere il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione, “atteso che solo da tale momento discendono in modo definitivo gli effetti sia sostanziali che processuali del concordato”[7]. 
Con la risposta n. 113 del 18 dicembre 2018, avente ad oggetto le note di variazione emesse nei confronti di una società in concordato preventivo, sempre in linea con quanto rappresentato con la circolare n. 77/E/2000, l’Agenzia delle Entrate ha sostenuto che, per accertare la definitiva infruttuosità della procedura, occorre aver riguardo, “oltre che alla sentenza di omologazione (art. 181) divenuta definitiva, anche al momento in cui il debitore concordatario adempie agli obblighi assunti in sede di concordato. Fino a tale data, infatti, il concordato può essere risolto e può essere dichiarato il fallimento. In base a tali principi, suscettibili di applicazione anche al concordato in continuità aziendale, i creditori chirografari” possono emettere la nota di variazione in diminuzione solo dal momento in cui viene portata a compimento l’esecuzione del concordato. 
Con il principio di diritto n. 4 del 9 febbraio 2021 è stato però evidenziato che, in caso di concordato preventivo con assuntore, il dies a quo per l’emissione della nota di variazione in diminuzione decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di omologazione del concordato preventivo, senza dover attendere il definitivo adempimento degli obblighi concordatari; ciò perché detta nota deve essere emessa “nei confronti del debitore originario, per la quota percentuale del credito ‘falcidiato’, dal momento in cui diventa definitivo il decreto di omologa del concordato. È in tale momento, infatti, che si configura l’irrecuperabilità della parte del credito falcidiato, non potendo il creditore promuovere istanza volta a decretare il fallimento del debitore originario laddove l’assuntore non sia in grado di far fronte all’obbligazione concordataria”. Ad avviso di chi scrive, però, questo principio è da ritenersi applicabile a qualsiasi tipo di concordato, anche senza assuntore, poiché in ogni caso l’eventuale inadempimento dei suddetti obblighi non comporta certamente una riduzione della rettifica del credito di rivalsa, ma semmai un incremento. 
Infine nell’ambito della più volte citata circolare n. 77/E/2000 era stata esclusa la possibilità di applicare l’art. 26, commi 2 e seguenti, del Decreto IVA con riguardo ai crediti verso imprese ammesse alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, perché in detta procedura “la posizione dei creditori e il soddisfacimento dei loro crediti degrada ad elemento di secondo piano a fronte del compito specifico assegnato agli organi della procedura che è quello della continuazione e del risanamento dell’impresa”. Con la risposta a interpello n. 216 del 26 aprile 2022 l’Agenza ha tuttavia condivisibilmente modificato la propria opinione in merito, ammettendo tale possibilità anche con riferimento a detta procedura. 
Come dapprima evidenziato, in base alla norma di diritto transitorio contenuta nel comma 2 dell’art. 18 del D.L. n. 73/2021, le prescrizioni sopra illustrate sono tuttora operanti per le procedure avviate prima del 26 maggio 2021 e sono state finora condivise anche dalla Corte di cassazione[8], nonostante il denunciato contrasto delle stesse con la normativa europea[9].
3.1.2 . Il contrasto con la Direttiva IVA e la L. n. 208/215
A quest’ultimo riguardo si è dapprima premesso che il secondo paragrafo dell’art. 90 della Direttiva IVA consente agli Stati membri di non contemplare l’ipotesi del mancato pagamento del prezzo tra gli eventi comportanti la riduzione della base imponibile di un’operazione economica rilevante ai fini dell’IVA e il primo paragrafo consente agli stessi Stati di stabilirne le relative condizioni, qualora intendano attribuire a tale evento valenza ai fini dell’IVA. Tuttavia, una volta esercitata tale facoltà (come avvenuto nel nostro ordinamento con l’integrazione dell’art. 26, comma 2, del Decreto IVA da parte dell’art. 2 della L. n. 30/1997), le limitazioni eventualmente poste non possono violare i principi di neutralità e di proporzionalità, ma devono consentire, effettivamente e ragionevolmente, al soggetto passivo di non restare inciso del tributo. Dunque, la scelta di ancorare necessariamente la variazione in diminuzione alla definitiva chiusura della procedura (sul presupposto che solo in tale momento l’ammontare della perdita su crediti potrebbe essere determinato con certezza secondo l’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria) contrastava con entrambi i principi sopra citati[10], potendo la dimostrazione relativa alla infruttuosità della procedura concorsuale essere agevolmente e debitamente fornita anche prima della sua chiusura definitiva. Tant’è che la Corte di Giustizia UE, con la sentenza 23 novembre 2017, causa C-246/16, ha affermato che il diritto di rettificare l’IVA applicata e non riscossa dovrebbe poter essere attribuito ogniqualvolta “il soggetto passivo segnala l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato”, senza attendere la definitiva chiusura della procedura fallimentare e l’attuazione del piano di riparto. 
La suddetta norma interna si sarebbe peraltro posta in contrasto con il diritto dell’Unione Europea anche nel classificare tra le ipotesi di mancato pagamento quelle costituite da una procedura concorsuale o da un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato, avendo la Corte di Giustizia UE[11] rilevato che la riduzione del credito originata dall’omologazione definitiva di un concordato costituisce un mutamento degli elementi presi in considerazione per determinare l’importo delle detrazioni (e non un’ipotesi di non pagamento): ciò perché il cessionario/committente resta debitore (non più del prezzo inizialmente convenuto, ma) per il nuovo importo definito all’esito della procedura e il creditore non può più far valere dinanzi all’Autorità giudiziaria la parte del suo credito definitivamente stralciata a seguito della riduzione delle obbligazioni del debitore nei suoi confronti. Poiché in presenza di queste circostanze non si ricade nell’ipotesi del “mancato pagamento del prezzo di una fattura” e quindi non opera la deroga concessa dal paragrafo 2 dell’art. 90 della Direttiva n. 2006/112/CE, lo Stato membro non dispone della facoltà di non riconoscere al creditore il diritto di vedersi restituita (mediante la rettifica in diminuzione dell’operazione) l’imposta non versatagli dal debitore; né può impedirne il concreto esercizio attraverso l’imposizione di irragionevoli vincoli e condizioni (come accade con la pretesa di attendere la definitiva chiusura del fallimento per acquisire l’inoppugnabile certezza della perdita)[12]. 
In altri termini, il diritto dell’Unione Europea collega la rettifica in diminuzione di un’operazione a due distinte ipotesi, ovvero: (i) annullamento, risoluzione, recesso, riduzione della base imponibile concordata tra le parti e definitivo mancato pagamento (totale o parziale) del corrispettivo da parte del debitore e (ii) definitivo mancato pagamento (totale o parziale) del corrispettivo da parte del debitore. Il confine tra le due fattispecie è stato delineato sempre dalla Corte di Giustizia UE: quando il mancato pagamento totale o parziale del prezzo di acquisto interviene senza che vi sia stata risoluzione o annullamento del contratto, “l’acquirente resta debitore del prezzo convenuto e il venditore, per quanto non più proprietario del bene, dispone sempre - in linea di principio - del suo credito, che può far valere in sede giurisdizionale. Poiché non può essere escluso, tuttavia, che un tale credito divenga di fatto definitivamente irrecuperabile, il legislatore dell’Unione ha inteso lasciare a ciascuno Stato membro la scelta di determinare se la situazione di non pagamento del prezzo di acquisto, la quale, di per sé, contrariamente alla risoluzione o all’annullamento del contratto, non pone nuovamente le parti nella situazione iniziale, attribuisca il diritto alla riduzione della base imponibile nell’importo dovuto alle condizioni che esso stabilisce, o se siffatta riduzione non sia ammessa in tale situazione”[13]. Dall’intervenuta impossibilità per il creditore di disporre del credito e di farlo valere in sede giurisdizionale discende dunque l’equiparazione (ai fini di cui trattasi) tra il definitivo mancato pagamento del corrispettivo, in quanto sancito da un provvedimento adottato (o da adottare ragionevolmente) nell’ambito di una procedura concorsuale, e le altre ipotesi di riduzione della base imponibile indicate nell’art. 90 della Direttiva IVA. 
Proprio per superare le criticità sopra esposte, l’art. 1, commi 126 e 127, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, aveva introdotto disposizioni ad hoc per il mancato pagamento a causa dell’assoggettamento del debitore a procedure concorsuali, attribuendo rilevanza all’avvio della procedura quale momento a partire dal quale sarebbe stata esercitabile la facoltà di emettere la nota di variazione in diminuzione. Infatti, in base alla lett. a) del comma 4 dell’art. 26 (come riformulato da tale provvedimento legislativo), il diritto di emettere la nota di variazione in diminuzione ai fini dell’IVA per i crediti non riscossi si sarebbe dovuto applicare a partire: 
1) dalla data di assoggettamento del debitore a una procedura concorsuale; 
2) dalla data del decreto che omologa l’accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato dal cessionario o committente ai sensi dell’art. 182 bis della legge fallimentare; 
3) dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese di un piano attestato stipulato dal cessionario o committente ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. d), della legge fallimentare[14]. 
Nella relazione illustrativa alla L. n. 208/2015 si precisava al riguardo che la modifica in commento si era resa necessaria perché “in caso di mancato pagamento dei crediti le disposizioni vigenti nell’ordinamento domestico rendono l’Iva addebitata dal cedente o prestatore sostanzialmente non recuperabile. Tale assetto non appare idoneo a garantire il rispetto di uno dei principi essenziali che presiedono al funzionamento dell’Iva: il principio di neutralità. Nello specifico, la norma cerca anzitutto di distinguere le variazioni da risoluzione - che l’art. 90 della direttiva 2006/112/CE impone agli Stati membri di concedere - da quelle da mancato pagamento, disciplinandole in due commi diversi (rispettivamente il comma 2 e il comma 4 del predetto art. 26). Con tale disposizione si evita che il cedente o prestatore debba attendere la chiusura infruttuosa della procedura concorsuale per poter emettere la nota di variazione, potendo, questa, ora essere emessa già dopo l’assoggettamento a procedura del cessionario o committente”. 
Per effetto del comma 127 dell’art. 1 della L. n. 208/2015, tuttavia, le disposizioni inserite nella lett. a) del nuovo comma 4 dell’art. 26, che si sarebbero dovute applicare “nei casi in cui il cessionario o committente sia assoggettato a una procedura concorsuale successivamente al 31 dicembre 2016”, non divennero mai operative, in quanto abrogate - prima ancora della loro entrata in vigore - dall’art. 1, comma 567, della Legge 11 dicembre 2016, n. 232, con effetto da data anteriore a quella del 31 dicembre 2016. 
Di conseguenza, fino all’entrata in vigore dell’art. 18 del D.L. n. 73/2021, l’art. 26, comma 2, del Decreto IVA ha continuato a stabilire che ai fini dell’IVA l’operazione viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili[15] o per il mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose, ovvero a seguito di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato o di un piano attestato di risanamento pubblicato nel registro delle imprese[16], o in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente.
3.1.3 . La normativa vigente per le procedure aperte dal 26 maggio 2021
Ciò posto, con riguardo alle procedure avviate dal 26 maggio 2021 l’art. 18 del D.L. n. 73/2021 il legislatore è nuovamente intervenuto sulla disciplina delle rettifiche in diminuzione di cui trattasi, contenuta nell’art. 26, commi 2 e seguenti, del Decreto IVA, stabilendo che il diritto di recuperare l’imposta applicata nei confronti di imprese in crisi facenti ricorso a uno degli istituti regolamentati dalla legge fallimentare, e non percepita, può essere esercitato già dal momento di avvio della procedura.
Infatti è stato espunto dal comma 2 dell’art. 26 del Decreto IVA il riferimento al mancato pagamento tra le “cause” legittimanti l’emissione della nota di variazione in diminuzione. Esso è stato invece inserito nel comma 3 bis così aggiunto, a norma del quale tale documento può essere emesso anche in caso di mancato pagamento del corrispettivo, in tutto o in parte, da parte del cessionario o committente: 
· a partire dalla data in cui quest’ultimo è assoggettato a una procedura concorsuale o dalla data del decreto che omologa un accordo di ristrutturazione dei debiti o dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese di un piano attestato (lett. a); 
· a causa di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose (lett. b). 
A propria volta, il comma 10 bis aggiunto all’art. 26 chiarisce che, “[a]i fini del comma 3 bis, lettera a), il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi”. 
Con la risposta a interpello n. 485 del 3 ottobre 2022 l’Agenzia delle Entrate ha inoltre riconosciuto che per il cedente/prestatore il diritto di recuperare l’imposta non riscossa, attraverso l’emissione della nota di variazione in diminuzione, resta comunque insito nel principio generale sancito dal comma 2 dell’art. 26, per cui tale diritto spetta quando l’operazione economica “viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili”. L’Agenzia ha infatti chiarito che il riferimento “alle figure ‘simili’ alle cause di ‘nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione’, consente di valorizzare ragioni ulteriori per le quali un’operazione fatturata può venir meno in tutto o in parte o essere ridotta nel suo ammontare imponibile [...]. Tra i casi ‘simili’ è, dunque, possibile ricondurre tutte quelle cause in grado di determinare una modificazione dell’assetto giuridico instaurato tra le parti, caducando in tutto o in parte con effetto ex tunc gli effetti dell’atto originario, in particolare per ciò che attiene ai corrispettivi economici delle operazioni”. A supporto di questa conclusione, l’Agenzia ha citato quanto sottolineato dalla Suprema Corte, secondo cui a tal fine “ciò che conta non è tanto la modalità con cui si manifesta la causa della variazione dell’imponibile e dell’IVA, quanto piuttosto che della variazione e della sua causa si effettui registrazione ai sensi degli artt. 23, 24, e 25 del D.P.R. n. 633 del 1972. Occorre, altresì, che vi sia, da un lato, identità tra l’oggetto della fattura e la registrazione originaria e, dall’altro, l’oggetto della registrazione della variazione, in modo che sia palese la corrispondenza tra i due atti contabili (cfr. Cass., sentenze n. 9188 e n. 9195 del 6 luglio 2001 e risoluzione del 17 febbraio 2009, n. 42/E)”. 
Come detto, l’interpretazione fornita da ultimo dall’Agenzia delle Entrate consente dunque di effettuare un parallelismo tra le previsioni dell’art. 26 del Decreto IVA e quelle contenute nel citato art. 90 della Direttiva IVA: 
· la disposizione generale presente nel comma 2 dell’art. 26 esprime il principio generale, sancito nel paragrafo 1 dell’art. 90 della Direttiva IVA, che per rispettare la neutralità dell’IVA attribuisce al cedente/prestatore il diritto di recuperare l’imposta applicata quando si verificano eventi in grado di mutare gli elementi dell’operazione e la relativa base imponibile, tra cui rientra - secondo il citato insegnamento della Corte di Giustizia - anche la fattispecie del mancato pagamento (in tutto o in parte) del corrispettivo allorché possa dirsi definitivo oppure irreversibile o ragionevolmente probabile; 
· la disposizione “speciale” presente nel comma 3 bis dell’art. 26 va ora riferita alla facoltà attribuita agli Stati membri dal paragrafo 2 dell’art. 90 della Direttiva IVA, essendo consentito di anticipare il diritto di recupero dell’imposta non riscossa al momento di avvio della procedura avente come presupposto lo stato di crisi.
Da ciò consegue la presenza di un duplice dies ad quem, come qui di seguito precisato.
3.2 . Dies ad quem
L’individuazione dei diversi presupposti, che danno diritto ad emettere la nota di variazione in diminuzione e a esercitare di conseguenza il diritto di detrazione, si riflette direttamente anche sull’individuazione del termine ultimo per l’esercizio del diritto di rettifica Tuttavia, l’art. 26 non prevede espressamente un termine finale entro il quale il cedente/prestatore può, a pena di decadenza, emettere la nota di variazione in diminuzione, limitandosi a stabilire che a seguito dell’emissione del suddetto documento il creditore “ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell’art. 19 l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell’art. 25”. Almeno secondo l’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate, il recupero dell’IVA originariamente applicata è però sottoposto al rispetto delle medesime regole a cui è soggetta la detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti: in altri termini, la nota di variazione in diminuzione è equiparata alla fattura d’acquisto di beni o di prestazioni di servizi ed è attraverso la sua registrazione (da effettuarsi secondo i medesimi canoni previsti per quest’ultimo documento) che è in concreto possibile recuperare l’imposta oggetto di rettifica in diminuzione. 
Conseguentemente, in base al combinato disposto dell’art. 26, comma 2, e dell’art. 19, comma 1, del Decreto IVA[17], l’esercizio del diritto di recuperare l’imposta applicata e non percepita risulta subordinato alla tempestiva emissione della nota di variazione in diminuzione, da effettuarsi (al più tardi) con la dichiarazione IVA relativa all’anno in cui si è verificato l’evento che dà diritto alla sua emissione. 
La norma stabilisce che il diritto di rettifica in diminuzione possa essere esercitato “a partire dalla data” in cui la procedura concorsuale si considera avviata e ciò potrebbe indurre a ritenere sussistente un intervallo temporale che inizia con l’avvio della procedura e (presumibilmente) termina con la sua chiusura (allo stesso modo di quanto stabilito per la deducibilità della perdita su crediti). Diversa è tuttavia l’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate, secondo cui il suddetto intervallo temporale andrebbe suddiviso in due periodi distinti in cui è possibile emettere la nota d variazione in diminuzione: 
1) il primo è quello compreso tra la data di apertura della procedura e la data di presentazione della dichiarazione IVA relativa all’anno in cui si è verificato tale evento[18]; 
2) il secondo è quello compreso tra la data di chiusura della procedura e la data di presentazione della dichiarazione IVA relativa all’anno in cui si è verificato questo secondo evento. 
Con la circolare n. 20/E/2021 l’Agenzia delle Entrate ha infatti confermato l’interpretazione dalla stessa già fornita con le risposte a interpello n. 192 del 24 giugno 2020 e n. 119 del 17 febbraio 2021 (nonché con l’ultimo capoverso del paragrafo 1.5 della circolare n. 1/E del 17 gennaio 2018), rilevando che la nota di variazione in diminuzione si considera tempestiva se emessa “entro il termine di presentazione ordinario della dichiarazione annuale IVA relativa all’anno in cui si sono verificati i presupposti per operare la variazione in diminuzione”. La locuzione “con la dichiarazione” IVA dell’anno di riferimento è stata perciò condivisibilmente interpretata come equivalente all’espressione “entro il termine per la presentazione della dichiarazione” IVA dell’anno di riferimento. 
Pertanto, con riferimento all’ipotesi del mancato pagamento la nota di variazione in diminuzione deve essere emessa entro il termine di presentazione della dichiarazione IVA relativa: 
· all’anno in cui viene pronunciata la sentenza dichiarativa del fallimento; 
· all’anno in cui viene emesso il provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa[19]; 
· all’anno di emissione del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo; 
· all’anno di emissione del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi; 
· all’anno in cui è avvenuta l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ovvero la pubblicazione nel registro delle imprese del piano attestato di risanamento. 
Per esempio, se la procedura concorsuale cui è assoggettato il debitore è stata avviata il 1° giugno 2025, la nota di variazione può essere emessa a decorrere da tale data e, al più tardi, entro il termine di presentazione della dichiarazione IVA relativa all’anno 2025, vale a dire entro il 30 aprile 2026 e quindi anche dopo la chiusura dell’anno di avvio della procedura concorsuale. Lo stesso termine di decadenza opera evidentemente, mutatis mutandis, anche per la nota di variazione in diminuzione da emettere nei confronti di debitori che hanno fatto ricorso agli accordi di ristrutturazione dei debiti o ai piani attestati. 
In base al combinato disposto dell’art. 26, comma 2, e dell’art. 19, comma 1, del Decreto IVA, il diritto di recuperare l’imposta applicata e non percepita risulta dunque subordinato, come l’Agenzia delle Entrate ha affermato con la circolare n. 20/E/2021 e con la risposta a interpello n. 50 del 25 gennaio 2022, a due presupposti: 
· il primo, rappresentato dalla tempestiva emissione della nota di variazione in diminuzione, da effettuarsi - come dianzi riferito - al più tardi con la dichiarazione IVA relativa all’anno in cui si è verificato l’evento che dà diritto alla sua emissione; 
· il secondo, rappresentato dal possesso della nota di variazione in diminuzione, che consente di operarne la materiale registrazione e di esercitare così il diritto di detrazione, a propria volta da effettuarsi al più tardi con la dichiarazione IVA relativa all’anno di emissione di detto documento[20]. 
Ne discende, a titolo esemplificativo, che, in caso di liquidazione giudiziale dell’impresa debitrice dichiarata aperta il 29 gennaio 2025 o il 29 dicembre 2025, il cedente/prestatore, se intende avvalersi dell’“anticipazione” concessa dal comma 3 bis dell’art. 26, è tenuto necessariamente ad emettere la nota di variazione in diminuzione entro il 30 aprile 2026 (data di termine per la trasmissione telematica della dichiarazione IVA relativa all’anno 2025), mentre la materiale annotazione del documento nel registro IVA degli acquisti e l’esercizio della detrazione ad essa correlato possono avvenire entro il 30 aprile 2027 (data del termine previsto per la trasmissione telematica della dichiarazione IVA relativa all’anno 2026). 
È facile vedere come il distinguo operato dall’Agenzia delle Entrate non consenta comunque un prolungamento particolarmente rilevante del periodo temporale di rettifica in diminuzione dell’operazione originaria. Anche per questo motivo è dunque da accogliere con favore la risposta a interpello n. 485 del 3 ottobre 2022, secondo cui il cedente/prestatore, che abbia deciso di non avvalersi della facoltà di emettere la nota di variazione all’apertura della procedura e di attendere la definitiva infruttuosità del piano di riparto, può contare sul diverso e autonomo presupposto sancito dal comma 2 dell’art. 26 per operare la variazione in diminuzione, aspettando la data della definitiva conclusione della procedura (da individuarsi secondo le medesime regole sancite con riguardo alle procedure aperte anteriormente al 26 maggio 2021). 
Viene così concessa una “seconda chance” al creditore del corrispettivo non riscosso, talché ritornando alla precedente esemplificazione, se la liquidazione giudiziale dovesse concludersi con esito infruttuoso il 29 dicembre 2028, il cedente/prestatore avrebbe ancora diritto ad emettere la nota di variazione in diminuzione ai sensi del comma 2 dell’art. 26 entro il 30 aprile 2029 (data di termine per la trasmissione telematica della dichiarazione IVA relativa all’anno 2028), mentre la sua materiale annotazione nel registro IVA degli acquisti potrebbe avvenire entro il 30 aprile 2030 (data di termine per la trasmissione telematica della dichiarazione IVA relativa all’anno 2029). 
Peraltro, con riguardo agli accordi ristrutturazione dei debiti e al piano attestato di risanamento, il predetto criterio (concernente l’individuazione del termine ultimo di emissione della nota di variazione) non appare di immediata applicazione, non essendo in tali istituti prevista l’emissione di un provvedimento di chiusura da parte dell’Autorità giudiziaria. Esso potrebbe tuttavia essere rinvenuto nell’inutile decorso della scadenza prevista per l’integrale adempimento delle obbligazioni residue rimaste in capo al debitore, anche se all’eventuale inadempimento delle stesse discende di regola l’apertura di una diversa procedura concorsuale, con riguardo alla quale decorrerebbe per l’effettuazione della rettifica un nuovo termine secondo le regole generali sopra esposte. 
L’Agenzia delle Entrate ha inoltre ribadito che, in caso di mancata emissione della nota di variazione in diminuzione entro l’indicato dies ad quem, il recupero dell’imposta non incassata non può avvenire tramite la presentazione della dichiarazione integrativa a favore di cui all’art. 8, comma 6 bis, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 né tramite la presentazione dell’istanza di rimborso di cui all’art. 30 ter del Decreto IVA, essendo irrimediabilmente intervenuta la decadenza del diritto di rettifica che lo origina. In caso di mancata emissione della nota di variazione in diminuzione entro il termine di invio della dichiarazione IVA (relativa all’anno del dies a quo), essendo ormai intervenuta la decadenza del diritto di recuperare “in via anticipata” l’imposta non riscossa, quest’ultima non sarebbe del pari recuperabile tramite la presentazione dell’istanza di rimborso di cui all’art. 30 ter del Decreto IVA, in quanto costituente uno strumento residuale ed eccezionale, utilizzabile solo quando il creditore non possa ricorrere alla rettifica in diminuzione ex art. 26, commi 2 e seguenti, per motivi a lui non imputabili[21]. 
Su quest’ultimo aspetto si è peraltro espressa in senso contrario l’Assonime[22], secondo cui l’art. 30 ter rappresenta invece “un rimedio preordinato ad assicurare la neutralità del tributo” e così recuperare l’imposta non altrimenti recuperabile, osservando come il rimborso dell’imposta non potrebbe dar luogo a un rischio di perdita erariale, atteso che l’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 26, nell’esonerare il debitore assoggettato a procedura concorsuale dall’annotazione a debito della nota di variazione in diminuzione ricevuta, già prevede che deve far carico all’erario l’onere corrispondente all’imposta detratta e non versata.
3.3 . Importo della variazione in diminuzione
Il comma 3 bis si limita a individuare la data di avvio della procedura concordataria (quale presupposto di per sé legittimante la rettifica in diminuzione per l’importo del credito non ancora incassato), ma nulla dispone in ordine all’importo oggetto della variazione in diminuzione da eseguire. 
In caso di liquidazione giudiziale, con la circolare n. 20/E/2021 (§ 3) l’Agenzia delle Entrate sembra condivisibilmente legittimare la possibilità di rettificare in diminuzione il credito per l’intero ammontare dello stesso, all’avvio della procedura, come rimarcato anche dall’Assonime[23]. 
Con specifico riferimento al concordato preventivo l’Agenzia ha rilevato che “la parte dei corrispettivi fatturati dai creditori che dovrà essere pagata dai debitori sottoposti a detta procedura è individuata in modo specifico fin dal decreto di ammissione, in forza della peculiare disciplina prevista dalla Legge fallimentare. Da ciò discende, quindi, che il creditore può emettere una nota di variazione in diminuzione solo per la quota di credito chirografario destinata a restare insoddisfatta, in base alle percentuali definite dalla procedura”. L’assenza di una espressa limitazione quantitativa, dunque, non può legittimare l’emissione iniziale di una nota di variazione in diminuzione per l’intero ammontare del credito (cui far eventualmente seguire l’emissione di una nota di variazione in aumento per l’importo effettivamente incassato), dovendosi interpretare la previsione del comma 5 bis (di cui si dirà infra) come norma di chiusura, destinata a trovare applicazione solo per gli eventuali importi residuali “in eccesso”. Né sarebbe ragionevole attribuire al creditore il diritto di rettificare per intero il proprio credito, quando nella proposta di concordato è prevista una specifica percentuale di soddisfazione: lo scopo della modifica normativa, infatti, non è quello di consentire l’automatico azzeramento del credito e della relativa IVA al momento dell’avvio della procedura concorsuale cui è assoggettato il debitore, ma quello di consentire al creditore di recuperare la quota-parte dell’imposta di cui può essere escluso il recupero già in tale momento, senza dover attendere la completa esecuzione della procedura concorsuale, considerando che la rettifica in diminuzione deve riguardare in maniera proporzionale l’imponibile e l’imposta (non potendo riferirsi solo all’imposta)[24]. 
Ciò posto, occorre chiedersi se il cedente/prestatore, che abbia già provveduto ad effettuare la rettifica in diminuzione ai sensi del comma 3 bis entro il relativo dies ad quem, possa comunque provvedere a un’ulteriore riduzione in considerazione delle nuove informazioni e dei nuovi elementi emersi durante la procedura e prima della chiusura della stessa. Si pensi, per esempio, al caso in cui, nell’ambito del concordato preventivo, la percentuale di soddisfazione inizialmente proposta al creditore (in ipotesi pari al 40%) si riduca successivamente, ad esempio, al 25%: in proposito la Fondazione Nazionale dei Commercialisti, a pag. 11 del documento “Variazioni in diminuzione dell’IVA negli istituti disciplinati dal Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza”, 22 maggio 2024, ha affermato il principio secondo cui, qualora nel corso della procedura concordataria il pagamento ricevuto dal creditore risulti inferiore rispetto alla percentuale indicata nel piano concordatario, questi ha diritto a emettere un’ulteriore nota di variazione in diminuzione per la differenza. A giudicare dalla conclusione cui l’Agenzia è giunta in ordine ai creditori che non si sono avvalsi della facoltà di emettere la nota di variazione all’avvio della procedura, per operare l’ulteriore variazione in diminuzione sembrerebbe tuttavia necessario attendere la conclusione della procedura, il che appare ingiustamente penalizzante quando la rettifica iniziale risulta fondata sulle informazioni conoscibili nella fase iniziale della procedura e l’ulteriore perdita emerge da elementi oggettivi la cui conoscenza dovrebbe far decorrere un nuovo dies a quo
Un’apertura in tal senso sembrerebbe potersi desumere dalla risposta a interpello n. 126 del 3 giugno 2024, avente ad oggetto l’applicazione dell’art. 26, comma 3 bis, del Decreto IVA in relazione a un accordo transattivo da sottoscrivere (previo parere favorevole dei commissari giudiziali e autorizzazione del comitato dei creditori) nella fase esecutiva del concordato a parziale modifica delle obbligazioni del concordato preventivo, a seguito del quale la quota di credito falcidiata in base al decreto di omologa del piano di concordato (pari al 66,30% del credito) sarebbe divenuta pari al 90% per la falcidia di un’ulteriore quota del 23,70%[25]. Al riguardo l’Agenzia ha considerato possibile emettere la nota di variazione in diminuzione IVA relativamente al 90% del credito senza la limitazione temporale prevista dal comma 3 dell’art. 26; ciò perché il decreto di omologa prevedeva la presentazione di “modifiche o integrazioni al programma, da sottoporre anch’esse al parere dei commissari giudiziali ed all'approvazione del comitato dei creditori”, per cui l’atto di transazione non era configurabile quale sopravvenuto accordo tra le parti ma si collocava nell’ambito degli accordi formalizzati nel corso della procedura concorsuale. 
Ove alla procedura concordataria consegua la liquidazione giudiziale, è da ritenersi comunque legittima l’emissione di una nota di variazione in diminuzione per l’importo dell’IVA (parziale o totale) non recuperato al momento dell’apertura del concordato[26].
3.4 . Variazione in diminuzione in caso di trattamento differente, in sede di riparto, della somma dovuta a titolo di rivalsa IVA e di quella dovuta a titolo di corrispettivo
Nella più volte citata circolare n. 77/E/2000 l’Amministrazione finanziaria ha affermato che, in caso di soddisfazione parziale del credito, non è ammissibile l’emissione di una nota di variazione in diminuzione della sola IVA, dovendosi necessariamente procedere alla ripartizione proporzionale del credito incassato tra corrispettivo e imposta. 
Tuttavia, a causa delle diverse disposizioni che disciplinano le cause legittime di prelazione, ben può accadere che il creditore si veda riconosciuto dagli organi della procedura (i) il pagamento integrale o parziale del proprio credito per la componente riferita al corrispettivo (ove questo sia privilegiato) e un minor pagamento (o nullo) per la componente riferita al credito di rivalsa IVA oppure, all’opposto, (ii) il pagamento integrale o parziale del credito di rivalsa IVA e un minor soddisfacimento del corrispettivo (ove questo abbia natura chirografaria). 
La fattispecie indicata sub (i) è stata oggetto della risoluzione n. 127 del 3 aprile 2008[27], mentre non consta una posizione ufficiale dell’Amministrazione finanziaria con riguardo a quella indicata sub (ii).
3.4.1 . Il caso della somma incassata solo a titolo di corrispettivo
Fino al 31 dicembre 2017 il credito relativo all’IVA di rivalsa è stato assistito unicamente dal privilegio speciale[28] di cui agli artt. 2758 e 2772 c.c., esercitabile sui beni che hanno formato oggetto della cessione o ai quali si riferisce la prestazione di servizio effettuata dal creditore, con pregiudizio per i professionisti le cui prestazioni non sono normalmente riferite a uno specifico bene e che quindi, nell’ambito delle procedure concorsuali, il più delle volte non hanno potuto concretamente esercitare il privilegio relativo all’IVA di rivalsa loro formalmente attribuito e, conseguentemente, non hanno potuto ottenere il soddisfacimento di tale credito. A questa ingiustificata disparità di trattamento il legislatore ha posto rimedio con l’art. 1, comma 474, della legge 27 dicembre 2017, n. 205, che con decorrenza 1° gennaio 2018 ha esteso il privilegio generale attribuito dall’art. 2751 bis, n. 2), c.c., al credito di rivalsa per l’imposta sul valore aggiunto (e al contributo integrativo da versare alla rispettiva cassa di previdenza ed assistenza), che è stato a tal fine considerato compreso nella remunerazione del professionista. 
Nonostante la prevalente giurisprudenza di merito e buona parte della dottrina avessero più volte evidenziato la natura non concorsuale del credito per rivalsa di IVA, la Corte di cassazione ha più volte affermato la natura concorsuale di detta tipologia di crediti[29], quando la prestazione di servizi è eseguita prima dell’apertura della procedura, dovendosi di conseguenza considerare il credito di rivalsa per IVA sorto anch’esso prima del fallimento. 
In base all’assetto normativo vigente sino alle modifiche introdotte con la L. n. 205/2017, pertanto, quando a causa dell’incapienza dell’attivo del debitore non è possibile soddisfare un credito professionale anche per l’importo relativo all’IVA, l’ammontare corrisposto è pagato dagli organi della procedura solo a titolo di compenso e non anche di tributo. 
Per individuare la natura di tale pagamento, sono state nel tempo prospettate diverse tesi con riguardo al caso del professionista che non ha ancora emesso la fattura e che si accinge a emetterla al momento della ricezione del pagamento del proprio compenso. 
Per una migliore comprensione di tali tesi, si propone di seguito un’esemplificazione numerica riferita all’incasso per intero del compenso per prestazioni professionali pari a euro 10.000 per cui si rende dovuta un’IVA di euro 2.200, per un ammontare complessivo del credito pari a euro 12.200. In questa situazione sarebbero state prospettabili in teoria tre possibili soluzioni: 
1) una prima soluzione assumeva che il professionista emettesse la fattura (i) indicando quale imponibile l’intero importo percepito (pari a euro 10.000 nell’esempio), in quanto corrisposto a tale titolo dalla procedura, (ii) applicando al suddetto imponibile l’aliquota in vigore al momento e (iii) addebitando a titolo di rivalsa l’imposta corrispondente alla somma percepita (euro 2.200 nell’esempio), per un ammontare complessivo della fattura pari alla somma dell’importo effettivamente percepito e della relativa imposta (euro 12.200 nell’esempio), con eventuale recupero del tributo a carico della procedura; 
2) una seconda soluzione assumeva che il professionista emettesse la fattura considerando l’importo incassato comprensivo anche dell’imposta e dunque indicando come imponibile l’importo del compenso post scorporo (euro 8.196,72 nell’esempio) e come IVA la differenza (euro 1.803,28 nell’esempio), per un ammontare complessivo della fattura esattamente pari all’importo effettivamente percepito (euro 10.000 = 8.196,72 + 1.803,28 nell’esempio); 
3) una terza soluzione assumeva che il professionista, dopo avere emesso la propria fattura secondo uno dei due criteri sopra indicati, emettesse anche una nota di variazione inerente alla sola IVA, per un importo pari a quello dell’imposta addebitata in fattura ma di fatto non percepita per effetto di quanto previsto nel piano di riparto (euro 2.200 o a euro 1.803,28, a seconda dei casi, nell’esempio)[30]. 
Sotto il profilo pratico, dalla prima soluzione sarebbe disceso l’obbligo per il professionista di eseguire il versamento dell’IVA calcolata sull’intero importo percepito, così come accade in dipendenza della seconda soluzione, ancorché con una mitigazione dell’impatto negativo in capo al professionista (dovuta alla riduzione dell’imposta, in quanto scorporata dalla somma percepita e non applicata su di essa). La terza soluzione, infine, non comportava alcun obbligo di versamento del tributo da parte del professionista, corrispondendo all’emissione di una fattura di importo esattamente pari a quello percepito senza applicazione dell’IVA. 
Solo la soluzione indicata sub 2) è stata condivisa dall’Agenzia delle Entrate con la risoluzione 3 aprile 2008, n. 127/E, secondo cui, se l’importo liquidato risulta inferiore all’ammontare complessivo del credito professionale comprensivo dell’IVA, “il professionista al momento dell’emissione della fattura ridurrà proporzionalmente la base imponibile e la relativa imposta”. Pertanto, se il credito di un professionista, pari in ipotesi all’importo di euro 12.200 (costituito per 10.000 dal compenso imponibile e per 2.200 dall’imposta), per il quale non sia stata precedentemente già emessa la fattura, fosse stato corrisposto in costanza di procedura a titolo di remunerazione per euro 7.000 (e dunque in misura inferiore all’ammontare del solo compenso), sotto il profilo fiscale tale pagamento sarebbe stato comunque da riferire per euro 5.737,70 alla base imponibile e per euro 1.262,30 all’IVA, indipendentemente dalla qualificazione a esso attribuita ai fini della sua assegnazione ai creditori. Conseguentemente il professionista che avesse percepito detta somma avrebbe dovuto computare a debito nella sua liquidazione periodica del tributo il predetto importo di euro 1.262,30, dal che sarebbe discesa una riduzione del beneficio reale generatogli dall’incasso (all’importo di euro 5.737,70) rispetto a quello corrispondente all’ammontare complessivamente percepito (di euro 7.000). La tesi dell’Agenzia prevede dunque, relativamente alla indicata fattispecie, che la falcidia del credito complessivo originario cui il creditore deve soggiacere a causa dell’incapienza dell’attivo si riflette in misura proporzionale sia sul compenso sia sul tributo. 
L’Agenzia ha invece escluso la soluzione indicata sub 3), perché il professionista “è portatore di un credito complessivo per prestazioni professionali, composto da imponibile ed IVA, elementi strettamente collegati tra loro da un nesso inscindibile”, mentre la “nota di variazione che tenga conto della sola imposta non riscossa andrebbe a scindere l’indissolubile collegamento esistente tra imposta ed operazione imponibile. Se così non fosse, la conseguenza (paradossale) di una tale ricostruzione della disciplina sarebbe che, a fronte di un’operazione imponibile per la quale è stato interamente riscosso il corrispettivo, l’erario non incasserebbe alcuna imposta sul valore aggiunto”. Secondo l’Agenzia, per emettere la nota di variazione in diminuzione è infatti necessario che, “successivamente all’emissione della fattura ed alla sua registrazione, venga a mancare in tutto o in parte l’originaria prestazione imponibile”, perché la variazione in diminuzione deve “essere rappresentativa sia della riduzione dell’imponibile che della relativa imposta”. 
In senso contrario alla posizione dell’Agenzia delle Entrate sono stati esposti in dottrina principalmente gli argomenti di seguito indicati: (a) non sussisterebbe alcun nesso di indissolubilità tra imponibile e imposta, come dimostrano la diversa natura del credito (civilistica e tributaria) per le due componenti e il diverso tipo di privilegio ad essi attribuito fino al 1° gennaio 2018; (b) non sarebbe legittimo per il professionista/creditore modificare l’imputazione data dagli organi della procedura fallimentare all’importo corrisposto a titolo di remunerazione e in forza della quale il curatore è tenuto a determinare e applicare la ritenuta alla fonte ai sensi dell’art. 25 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600[31]. 
Secondo l’Agenzia delle Entrate, invece, se è vero che il decreto di ammissione al passivo fallimentare presuppone la preliminare suddivisione del credito del prestatore in due differenti componenti (il corrispettivo assistito da privilegio generale mobiliare e l’imposta assistita dal privilegio speciale), è altrettanto vero che tale suddivisione corrisponde a una qualificazione solo endo-fallimentare del credito, che resta “separata dal rapporto tributario tra contribuente ed erario e che condiziona il creditore (percettore) ad emettere una fattura per la sola somma complessivamente incassata in sede di riparto”[32]. In altri termini, la “scissione” del nesso sussistente tra imponibile e imposta rileverebbe solo ai fini dell’esecuzione del riparto delle somme fra i creditori, e non anche sul piano fiscale. 
La “soluzione proporzionale” indicata sub 2) è stata condivisa dalla Corte di cassazione con l’ordinanza 28 febbraio 2024, n. 5294, avente invero ad oggetto il caso del professionista che aveva emesso la fattura prima della dichiarazione di fallimento del debitore e che quindi si era insinuato al passivo anche per la quota relativa all’IVA di rivalsa, considerata quale credito chirografario dalla procedura. Con riguardo a detta fattispecie, i giudici di legittimità hanno concluso che, “se l’importo liquidato dal giudice fallimentare risulta inferiore all’ammontare complessivo del credito professionale, comprensivo dell’IVA, il professionista al momento dell’emissione della fattura deve ridurre proporzionalmente la base imponibile e la relativa imposta”; ciò perché il “principio di inscindibilità non muta se l’IVA sia stata già versata prima della dichiarazione di fallimento o non ancora versata in quanto non emessa ancora la fattura, essendo il pagamento parziale in sede di riparto da imputare proporzionalmente all’imponibile e all’IVA”.
3.4.2 . Il caso della somma incassata solo a titolo di IVA
Una problematica analoga, sebbene diametralmente opposta, si pone nel caso in cui il piano di riparto preveda il pagamento integrale o parziale del credito di rivalsa IVA (in ragione del privilegio che lo assiste) e il pagamento parziale e comunque in misura percentualmente inferiore del residuo importo del credito ammesso al passivo della procedura (costituito solo dal corrispettivo oppure dal corrispettivo e da una quota insoddisfatta del credito relativo all’IVA di rivalsa, in quanto degradato a chirografo). In questa ipotesi per il creditore sono astrattamente prospettabili diverse soluzioni. 
Analogamente a quanto esposto nel paragrafo precedente, una prima soluzione potrebbe essere quella che assume una sostanziale aderenza della nota di variazione rispetto al titolo in base al quale la procedura ha eseguito il pagamento. Poiché questa ipotesi assume anche ai fini IVA il completo pagamento del tributo (o di una parte di essa), si rende preliminarmente necessario scomporre l’imponibile tra (i) la quota riferibile all’IVA integralmente incassata e (ii) la quota residua riferibile all’IVA soddisfatta in misura percentuale; ciò perché la quota sub (i) non potrebbe essere oggetto di variazione in diminuzione ai fini IVA essendo stata integralmente incassata l’IVA corrispondente. In base a questo criterio, oggetto della variazione in diminuzione IVA resterebbe solo la quota sub (ii) per la parte non incassata, la quale va a propria volta determinata sottraendo dal credito la somma imponibile percepita riferibile all’IVA degradata in chirografo. 
In parallelo con il precedente paragrafo, la seconda soluzione prospettabile è quella che prescinde totalmente dal titolo delle somme pagate dalla procedura, sicché la nota di variazione dovrebbe essere predisposta semplicemente scorporando l’IVA dall’importo del credito non soddisfatto, in base al medesimo criterio indicato nella citata risoluzione n. 127/E/2008. 
Una terza soluzione prospettabile, che in realtà è una variante della prima, è quella che presuppone la preliminare suddivisione dell’importo del credito oggetto di stralcio tra (i) imponibile riferibile all’IVA in privilegio, (ii) imponibile riferibile all’IVA degradata a chirografo e (iii) IVA degradata a chirografo, con successiva applicazione alle tre suddette componenti della percentuale di stralcio: la nota di variazione IVA viene quindi emessa in relazione alla sola componente sub (ii). 
L’applicazione di una delle tre soluzioni qui prospettate porta a una determinazione assai differente dell’importo dell’IVA recuperabile, come emerge dall’esemplificazione numerica riportata nella tabella 1, in cui si è ipotizzato il riconoscimento del pagamento integrale di una quota dell’IVA e la degradazione a chirografo della quota dell’IVA residua nonché dell’intera componente del credito rappresentativa del compenso spettante:


Come emerge dalla tabella 1, applicando alla fattispecie qui considerata la regola sostenuta dall’Agenzia delle Entrate (soluzione n. 2), in base all’affermata sussistenza di un nesso indissolubile tra l’imponibile e l’IVA, dovendosi considerare in maniera unitaria il credito vantato verso l’impresa in crisi ne discenderebbe un effetto penalizzante per l’erario.
3.5 . Rettifica in aumento della variazione in diminuzione
A norma dell’art. 26 del comma 5 bis, “[n]el caso in cui, successivamente agli eventi di cui al comma 3 bis, il corrispettivo sia pagato, in tutto o in parte, si applica la disposizione di cui al comma 1. In tal caso, il cessionario o committente che abbia assolto all’obbligo di cui al comma 5 ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell’art. 19 l’imposta corrispondente alla variazione in aumento”. Con questa disposizione il legislatore ha inteso tenere conto della possibilità che la percentuale di soddisfazione possa in concreto variare a seguito dell’andamento della procedura, da cui consegue un obbligo di rettifica in aumento a seguito di un soddisfacimento del credito maggiore di quello inizialmente previsto. 
Ne discende che, qualora l’ammontare della nota di variazione in diminuzione emessa all’apertura della procedura concorsuale si dovesse rivelare superiore alla perdita effettivamente subita dal creditore, questi ha l’obbligo di emettere una nota di variazione in aumento per la differenza, entro dodici giorni dall’incasso del credito (il termine per l’emissione della nota di variazione in aumento, infatti, è quello previsto in via ordinaria per l’emissione della fattura da parte del cedente/prestatore)[33]. 
Con il principio di diritto n. 1 del 10 gennaio 2023 l’Agenzia delle Entrate ha peraltro chiarito che l’obbligo di effettuare una variazione in aumento ai sensi del comma 5 bis opera solo in caso di un effettivo incasso del credito in misura superiore a quella assunta con la nota di variazione in diminuzione. Tale provvedimento si riferiva, in particolare, alla sopravvenuta risoluzione di un piano attestato di risanamento, la cui pubblicazione nel registro delle imprese aveva autorizzato l’impresa creditrice a recuperare l’IVA in relazione alla quota del credito da stralciare in base all’accordo sottostante su cui si fondava detto piano; in proposito l’Agenzia ha riconosciuto che la sopravvenuta inefficacia dell’accordo con il debitore non fa scattare l’applicazione del comma 5 bis, almeno fino a quando permane l’inadempimento della controparte[34].  
3.6 . Insinuazione del creditore al passivo
La Corte di Giustizia UE, con la sentenza 11 giugno 2020, causa C-146/19, ha rilevato il contrasto sussistente tra l’art. 90 della Direttiva IVA e la norma interna che rifiuti il diritto di recuperare l’IVA a causa della mancata insinuazione da parte del creditore nella procedura fallimentare, rimarcando come il dissidio diventi ancora più evidente qualora il “soggetto dimostri che, se avesse insinuato il credito in questione, questo non sarebbe stato riscosso”. 
A seguito di tale pronuncia, con la risposta a interpello n. 832 del 17 dicembre 2021, l’Agenzia delle Entrate ha quindi cominciato ad abbandonare il precedente orientamento secondo cui l’insinuazione al passivo fallimentare avrebbe costituito presupposto imprescindibile per il recupero dell’IVA, ma sottolineando che, secondo il suddetto Giudice, il diritto di recuperare l’IVA avrebbe comunque postulato una condotta attiva, rappresentata dalla dimostrazione che l’insinuazione sarebbe stata inutile. 
Tuttavia, con la circolare n. 20/E/2021, l’Agenzia ha poi riconosciuto senza riserve che il diritto di emettere la nota di variazione in diminuzione a causa dell’inadempienza del debitore non può essere precluso al creditore che non abbia richiesto l’ammissione al passivo del credito corrispondente, non essendo tale diritto subordinato alla necessaria partecipazione del creditore al concorso[35]. Come osservato dall’Assonime[36], ciò dovrebbe valere anche in caso di sopravvenuta cessione del credito pro solvendo oppure pro soluto, mentre con la risposta a interpello n. 91 del 1° aprile 2019, era stata ancora richiesta l’avvenuta insinuazione al passivo fallimentare ad opera del cessionario del credito in caso di cessione pro solvendo
L’Agenzia delle Entrate ha altresì tenuto a precisare che l’abiura del precedente orientamento avviene “[i]n aderenza alla nuova formulazione della norma”, come sottolineato anche dall’Assonime[37]. Stando così le cose, era sorto il dubbio che, con riguardo ai crediti verso imprese assoggettate alla procedura fallimentare anteriormente al 26 maggio 2021, il Fisco continuasse a pretendere l’avvenuta insinuazione del credito al passivo fallimentare quale presupposto per poter operare la variazione in diminuzione; tale dubbio è stato sciolto nell’ambito della citata risposta a interpello n. 50/2022, con la quale è stata ribadita la sussistenza di detto obbligo. Questa distinzione non pare tuttavia condivisibile. Se infatti la riformulazione dell’art. 26 si spiega con la necessità di conformare la lettera dell’art. 26 all’art. 90 della Direttiva IVA, non è dato comprendere quale correlazione sussista tra la modifica normativa e l’abbandono della tesi che sosteneva la preventiva insinuazione al passivo fallimentare come presupposto della rettifica in diminuzione dell’imposta non riscossa, atteso che detto obbligo non era di per sé desumibile dalla lettera della norma, ma veniva affermato in via interpretativa dall’Agenzia delle Entrate (come dimostra il fatto che l’art. 18 del D.L. n. 73/2021 non è affatto intervenuto sulla questione). Se poi si considera che secondo la Corte di Giustizia UE una norma di tal fatta sarebbe stata da considerare in contrasto con l’art. 90 della Direttiva IVA, tanto più illegittima sarebbe la pretesa dell’Agenzia delle Entrate di interpretare in tal senso la norma, a prescindere dalla data di apertura del fallimento. Non si tratta dunque di un revirement giustificato dal nuovo assetto normativo, ma della rettifica di una posizione che poteva considerarsi errata, alla luce delle disposizioni unionali, già in base alla normativa applicabile alle procedure aperte prima del 26 maggio 2021.
3.7 . Esonero del debitore dalla registrazione della variazione in diminuzione
Un’ulteriore questione problematica concerne l’altra faccia della medaglia della nota di variazione in diminuzione emessa dal fornitore per recuperare l’IVA addebitata a titolo di rivalsa e non corrispostagli dal debitore in crisi, ovverosia il corrispondente obbligo sussistente in capo a quest’ultimo di rettificare l’imposta dallo stesso portata in detrazione sulla base della fattura d’acquisto originariamente registrata.
Secondo i dettami del comma 5, primo periodo, dell’art. 26 del Decreto IVA, infatti, il debitore deve annotare nei propri registri IVA la nota di variazione in diminuzione ricevuta e, quindi, registrare a debito l’imposta inizialmente detratta (per la parte non più spettante), con conseguente incremento del debito o riduzione del credito verso l’erario.
In assenza di norme che dispongano diversamente, la suddetta regola generale dovrebbe essere applicata anche alle rettifiche in diminuzione che trovano causa nell’assoggettamento del debitore a una procedura concorsuale, nonché nel ricorso da parte di quest’ultimo all’accordo di ristrutturazione dei debiti o al piano attestato di risanamento. Tuttavia l’art. 18 del D.L. n. 73/2021 ha integrato l’art. 26 del Decreto IVA anche a questo riguardo, sebbene unicamente in ordine alle procedure aperte dal 26 maggio 2021, per cui anche in proposito si rende necessario distinguere le discipline da applicare ratione temporis.
3.7.1 . La normativa vigente per le procedure aperte prima del 26 maggio 2021
Per quanto attiene alle procedure aperte prima del 26 maggio 2021 l’Agenzia delle Entrate, già con la risoluzione n. 155/E del 12 ottobre 2001, aveva affermato che l’emissione della nota di variazione in diminuzione da parte del creditore di una procedura concorsuale non determinava l’inclusione del corrispondente credito erariale nel riparto finale dell’attivo, da considerare ormai definitivo. Del pari, con la risoluzione n. 161/E del 17 ottobre 2001, l’Agenzia aveva precisato che l’emissione di detto documento, successivamente alla chiusura del concordato preventivo con garanzia o con cessione dei beni, non comportava per il debitore concordatario l’obbligo di rispondere verso l’erario del relativo debito per IVA, in quanto l’effetto esdebitatorio di cui all’art. 184 della legge fallimentare (all’epoca vigente) interessava anche la quota del credito rappresentata dall’IVA dovuta a titolo di rivalsa: in entrambi i casi, si è però ritenuto ugualmente sussistente l’obbligo per il debitore di registrare la nota di variazione, perché il credito dell’erario sarebbe potuto divenire esigibile in caso di eventuale ritorno in bonis del soggetto fallito. 
Sebbene di indubbia semplificazione, tale indirizzo non era apparso del tutto convincente, a causa dell’assenza di una norma ad hoc che consentisse di derogare alla regola generale 
Tant’è che anche in merito a questa problematica il legislatore aveva ritenuto di dover intervenire con la L. n. 208/2015, recependo in via legislativa la soluzione sostenuta in via interpretativa dall’Amministrazione finanziaria. Con il secondo periodo del nuovo comma 5 aggiunto all’art. 26, infatti, venne previsto espressamente che, in deroga alla regola generale, l’obbligo per il debitore di trattare la nota di variazione in diminuzione alla stregua di un’operazione attiva (sancito dal primo periodo del medesimo comma 5) non si sarebbe applicato al debitore assoggettato alle “procedure concorsuali indicate nel comma 4, lett. a)” a decorrere dal 1° gennaio 2017 (anche l’operatività di tale disposizione, infatti, era stata differita a tale data dall’art. 1, comma 127, della L. n. 208/2015). 
La modifica normativa contemplava dunque l’esonero dall’obbligo di registrazione delle note di variazione da parte del debitore assoggettato a una procedura concorsuale, ma in effetti era volta a sollevare quest’ultimo dall’obbligo di computare in aumento l’imposta rettificata nella relativa liquidazione del tributo; ciò in quanto, con il venir meno dell’obbligo di registrare detto documento, viene conseguentemente meno anche l’obbligo di versare l’imposta rettificata o di ridurre in misura corrispondente il credito IVA. Nella relazione illustrativa alla L. n. 208/2015 veniva in merito precisato quanto segue: “In attuazione dell’art. 185, paragrafo 2, della direttiva 2006/112/CE, secondo cui la rettifica della detrazione operata dal cessionario o committente non è richiesta in caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate, si prevede ora che, per le note di variazione emesse a seguito dell’assoggettamento a procedure concorsuali, il cessionario o committente assoggettato a procedure non sia obbligato a effettuare la corrispondente variazione, in rettifica della detrazione originariamente operata. In questa specifica fattispecie, infatti, il cessionario o committente non è più obbligato alla registrazione della nota di credito emessa dal cedente o prestatore”. Il venir meno dell’obbligo di rettificare l’imposta detratta per il debitore assoggettato a procedura concorsuale, destinatario della nota di variazione in diminuzione, era stato dunque previsto dal legislatore in conformità con la normativa europea e rifletteva direttamente le modifiche apportate in ordine al dies a quo per l’emissione della nota di variazione in diminuzione: infatti, posto che dal 1° gennaio 2017 detti documenti si sarebbero potuti emettere prima della chiusura della procedura concorsuale, il debitore si sarebbe potuto vedere costretto a registrarli (ad incremento del debito IVA o a decremento del credito IVA) nel corso della stessa. 
In proposito l’Assonime[38] aveva giudicato la scelta del legislatore “una soluzione di buon senso in quanto non è plausibile che il credito da rivalsa non pagato al fornitore possa tramutarsi in un credito dell’erario nei confronti del debitore insolvente relativamente all’imposta che il debitore stesso ha detratto pur senza aver corrisposto il relativo importo al fornitore. In concreto, il recupero dell’imposta in presenza di procedura concorsuale comporta che l’erario si assume l’onere della restituzione al fornitore dell’IVA che non ha potuto recuperare attraverso la rivalsa sul cliente”. 
Tuttavia, come dianzi anticipato, l’art. 1, comma 567, della Legge n. 232/2016, nel ripristinare la formulazione dell’art. 26 previgente alla L. n. 208/2015, dispose l’abrogazione anche del secondo periodo aggiunto al comma 5 contenente la deroga all’obbligo di registrare “a debito” la nota di variazione per il debitore assoggettato a procedura concorsuale a partire dal 1° gennaio 2017. Pertanto, in base alla disposizione di diritto transitorio sancita dal comma 2 dell’art. 18 del D.L. n. 73/2021, per le procedure aperte prima del 26 maggio 2021, l’art. 26 ha continuato a non prevedere alcunché circa gli adempimenti del debitore assoggettato a una procedura concorsuale, pur restando ferma la regola generale che impone al debitore di registrare “a debito” l’imposta oggetto di rettifica tramite la nota di variazione. 
A fronte dell’abrogazione dell’esonero dal suddetto obbligo (poco prima appositamente previsto), con la risposta a interpello n. 113/2018, avente ad oggetto le note di variazione emesse nei confronti di una società in concordato preventivo, nonché con la risposta 30 ottobre 2018, n. 54, l’Agenzia delle Entrate si è quindi nuovamente pronunciata sul trattamento che l’impresa debitrice deve riservare all’imposta alla stessa addebitata con le predette note, ribadendo l’indirizzo assunto prima delle modifiche recate dalla L. n. 208/2015, ovvero che la regola generale sancita dal comma 5 dell’art. 26 “deve essere interpretata tenendo conto della disciplina e degli effetti tipici del concordato preventivo, nella parte in cui consente al debitore di evitare la dichiarazione di fallimento, adempiendo gli obblighi assunti nei confronti dei creditori. In particolare, [...] essendo la nota di variazione relativa ad un debito sorto prima dell’avvio della procedura concorsuale, la sua registrazione non comporta, per il debitore concordatario, l’obbligo di rispondere verso l’erario di un debito sul quale si sono già prodotti gli effetti estintivi del concordato preventivo. Diversamente, [...] si avrebbe una deroga all’efficacia liberatoria della procedura, da ritenersi ingiustificata in relazione alle norme che dispongono l’estinzione di ogni debito sorto anteriormente all’inizio della procedura medesima”. 
È stata così riaffermata l’assenza di un obbligo di rettifica della detrazione, che troverebbe la sua giustificazione nelle stesse logiche che ispirano la procedura concorsuale e della più ampia finalità di esdebitazione del debitore cui la medesima è orientata; ciò perché il debito verso l’erario, discendente dall’emissione della nota di variazione in diminuzione da parte del fornitore, sarebbe da considerare sorto in capo al cessionario/committente (cioè al debitore), come il credito cui è geneticamente connesso, anteriormente alla pubblicazione, nel registro delle imprese, della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, restando quindi soggetto all’effetto esdebitatorio sancito dall’art. 184 della legge fallimentare (a norma del quale “Il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso di cui all’art. 161. Tuttavia, essi conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso. Salvo patto contrario, il concordato della società ha efficacia nei confronti dei soci illimitatamente responsabili”). 
Con la risposta n. 110 del 17 dicembre 2018 la medesima conclusione non è stata invece ritenuta operante per l’impresa debitrice che ricorre al piano attestato di risanamento o all’accordo di ristrutturazione dei debiti omologato, poiché per questi istituti l’effetto esdebitatorio non avrebbe operato secondo le forme sancite dal citato art. 184 della legge fallimentare previgente (che - come dianzi riferito - avrebbe giustificato l’esonero dal versamento della maggiore imposta non spettante in detrazione); relativamente a questi istituti secondo l’Agenzia delle Entrate di conseguenza sarebbe rimasto applicabile “l’obbligo del cessionario o committente di registrare la variazione, in rettifica della detrazione originariamente operata. Pertanto, il cedente o prestatore del servizio può portare in detrazione l’IVA, nella misura esposta nella nota di variazione, mentre la controparte è tenuta a ridurre in pari misura la detrazione che aveva effettuato, riversando l’imposta all’erario”. Allo stesso modo si era del resto espressa la stessa Agenzia, nel par. 13.2 della circolare n. 12/E dell’8 aprile 2016, anche con riguardo al secondo periodo aggiunto al comma 5 dell’art. 26 dalla L. n. 208/2015, perché il “richiamo alle sole procedure concorsuali comporta che nell’ipotesi di accordo di ristrutturazione dei debiti ovvero di un piano attestato ai sensi, rispettivamente, dell’art. 182 bis e dell’art. 67, terzo comma, lett. d), della legge Fallimentare, permane l’obbligo del cessionario o committente di registrare la variazione, in rettifica della detrazione originariamente operata”.
3.7.2 . La normativa vigente per le procedure aperte dal 26 maggio 2021
Con riferimento alle procedure aperte dal 26 maggio 2021, l’art. 18 del D.L. n. 73/2021 ha aggiunto un secondo periodo al comma 5 dell’art. 26, in forza del quale l’obbligo di rettifica dell’IVA originariamente detratta dal cessionario/committente “non si applica nel caso di procedure concorsuali di cui al comma 3 bis, lettera a)”. Ne deriva che per espressa previsione normativa il curatore del fallimento (e ora della liquidazione giudiziale), il liquidatore, il commissario straordinario o l’impresa in concordato preventivo che ricevono la nota di variazione non sono tenuti ad annotare la corrispondente variazione in aumento nel registro di cui all’art. 23 o all’art. 24 del Decreto IVA, restando a carico dell’erario l’imposta da rettificare.
3.7.2.1 . L’ambito oggettivo dell’esonero: la tesi restrittiva dell’Agenzia
Con riferimento all’ambito di applicazione, nella circolare n. 20/E/2021 l’Agenzia delle Entrate ha tenuto a rimarcare che l’esonero dalla registrazione a debito della nota di variazione in diminuzione emessa dal creditore opera unicamente nel caso di assoggettamento del debitore a fallimento, liquidazione coatta amministrativa, concordato preventivo (liquidatorio o con continuità aziendale) e amministrazione straordinaria. Il medesimo esonero non riguarderebbe, invece, gli accordi di ristrutturazione dei debiti e i piani di risanamento attestati contemplanti il pagamento parziale dei debiti, trattandosi di istituti non “qualificabili come procedure concorsuali in senso stretto, in quanto mancano sia del carattere della ‘concorsualità’, sia di quello della ‘ufficialità’”. 
Le motivazioni addotte dall’Agenzia non sembrano tuttavia del tutto convincenti. 
Infatti, se è pacificamente da escludere la possibilità di considerare una procedura concorsuale il piano attestato, non avendone esso né la forma né la natura che è puramente stragiudiziale, a opposta conclusione si deve pervenire con riferimento agli accordi di ristrutturazione dei debiti, alla luce dell’ormai consolidato orientamento della Corte di cassazione, espresso già nel vigore della precedente legge fallimentare con riferimento all’istituto di cui all’art. 182 bis, che ha ricondotto tale istituto nell’alveo delle procedure concorsuali, in quanto la relativa disciplina presuppone “forme di controllo e pubblicità sulla composizione negoziata, ed effetti protettivi, coerenti con le caratteristiche dei procedimenti concorsuali”[39]. 
Anche per quanto attiene alla ufficialità, dovendo l’accordo di ristrutturazione dei debiti essere, prima, pubblicato nel registro delle imprese e, poi, omologato dal competente tribunale, non vi è dubbio che questo istituto è munito della “ufficialità” a cui ha fatto riferimento l’Agenzia delle Entrate. Ad avviso di chi scrive, dunque, i motivi su cui è stata fondata la tesi negativa sostenuta da quest’ultima, “mancanza di “concorsualità” e di “ufficialità”, sono da ritenersi con riguardo all’accordo di ristrutturazione entrambi errati. 
E tale considerazione è da ritenersi tanto più valida con riferimento all’istituto dell’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa di cui all’art. 61 del Codice della crisi, che reca una deroga agli artt. 1372 e 1411 c.c., riconoscendo al debitore la facoltà di chiedere al giudice, con la medesima domanda di omologa dell’accordo, l’estensione degli effetti dell’accordo sottoscritto con alcuni dei creditori aderenti anche ad altri creditori non aderenti. In altri termini, con questa tipologia di strumento a contenuto adesivo e non deliberativo, il debitore propone un accordo al fine di liberare risorse per i creditori estranei, purché idoneo a rimuovere la crisi o l’insolvenza, derogando ai seguenti fondamentali principi previsti in materia di contratto dal libro IV, titolo II, del codice civile: (i) sistema di formazione del consenso ex art. 1326 e seguenti sul sistema della specularità (mirroring) della proposta ed accettazione; (ii) il contratto ha forza di legge tra le parti; (iii) il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge. In questa chiave, la possibilità di estendere al terzo creditore (non aderente) gli effetti non vantaggiosi dell’accordo perfezionato tra gli aderenti rappresenta una significativa deroga alle regole che disciplinano gli accordi privatistici, prevista per la formazione dell’accordo e soprattutto alla regola dell’autonomia negoziale (art. 1322 c.c.).
3.7.2.2 . La ratio dell’esonero
Ad avviso di chi scrive, occorre tuttavia chiedersi se, più che sui concetti di “concorsualità in senso stretto” e “ufficialità”, la tesi sostenuta dall’Agenzia delle Entrate non possa trovare conforto nella demarcazione presente nella lett. a) del comma 3 bis, tra le “procedure concorsuali”, da un lato, e gli altri due istituti sopra menzionati (accordo di ristrutturazione dei debiti e piano attestato), dall’altro lato, accertando se, indipendentemente dal fatto che l’accordo di ristrutturazione costituisca una procedura concorsuale ai fini della disciplina fallimentare, con riguardo al tema de quo non sia la stessa legge a escludere che esso possa essere considerato tale. In altri termini, occorre domandarsi se, pur costituendo l’accordo di ristrutturazione una procedura concorsuale, il fatto che per farvi riferimento nel comma 3 bis il legislatore abbia espressamente menzionato (oltre alle procedure concorsuali) tale istituto, non significhi che mediante il richiamo delle procedure concorsuali contenuto nell’ultimo periodo del comma 5 il legislatore abbia voluto richiamare solo le procedure concorsuali e non l’accordo di ristrutturazione. Si tratta, pertanto, di stabilire se la locuzione “procedura concorsuale” debba essere o meno interpretata in maniera uniforme nel contesto di tutte le disposizioni recate dall’art. 26, nel senso che, se l’accordo non è inteso come una procedura in relazione al disposto del comma 3 bis, non sia da considerare tale nemmeno in relazione a quello del comma 5, ultimo periodo. 
Invero la risposta da fornire a questa domanda non può essere fondata sulla lettera dei citati commi 3 bis e 5, ultimo periodo, perché le disposizioni tributarie che disciplinano fattispecie tipiche dell’ordinamento della crisi sono spesso utilizzate in modo atecnico. Occorre, invece, ricercare la risposta al suddetto interrogativo nella ratio dell’ultimo periodo del citato comma 5, la quale è costituita dall’esigenza di evitare l’insorgenza, in capo alle imprese che hanno avviato un percorso di risanamento, di un onere aggiuntivo che potrebbe ostacolare la ristrutturazione avviata dal debitore e/o il soddisfacimento dei suoi creditori. Poiché si tratta di una misura di sostegno, è comprensibile che essa sia consentita solo in presenza di atti che attestino sia lo stato di crisi in cui l’impresa che ne beneficia deve trovarsi, sia l’efficacia degli interventi adottati per il superamento di tale stato. Da qui la necessità di documenti ufficiali che certifichino la ricorrenza di dette circostanze. 
Ciò precisato, non sussistono ragioni per escludere che tali presupposti ricorrano anche in caso di accordo di ristrutturazione dei debiti, oltre che in quello di concordato preventivo. Da ciò discende che non sussiste alcun motivo per prevedere per il concordato preventivo in continuità una disciplina diversa da quella stabilita per l’accordo di ristrutturazione dei debiti, posto che ne deriverebbe l’introduzione nell’ordinamento di un elemento distorsivo che incentiverebbe ingiustificatamente il concordato a discapito dell’accordo di ristrutturazione, mentre un fattore che può giustificare una diversità di trattamento potrebbe semmai essere individuato nella natura - di risanamento, o meno - dell’istituto a cui l’impresa in crisi fa ricorso, evitando in ogni caso una differente disciplina tra concordato in continuità aziendale e accordo di ristrutturazione con continuità, da un lato, e tra concordato preventivo liquidatorio e accordo liquidatorio, dall’altro.
Dalla ratio dell’ultimo periodo del comma 5 discende quindi, ad avviso di chi scrive, che l’esonero della rilevazione - da parte del cessionario - dell’IVA a debito oggetto della nota di variazione emessa nei confronti dello stesso dal soggetto che gli ha ceduto i beni o gli ha reso prestazioni di servizi, sussiste anche quando la nota di variazione viene emessa a seguito della omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti e non solo in caso di concordato preventivo.
3.7.2.3 . L’interpretazione letterale della norma
L’espressione “procedure concorsuali di cui al comma 3 bis, lettera a)”, contenuta nell’ultimo periodo del comma 5, è utilizzata in senso atecnico e in forma sintetica per fare riferimento a tutti gli istituti richiamati in tale disposizione e deve pertanto essere letta come se il richiamo avesse a oggetto gli “istituti di cui al comma 3 bis, lettera a)”. In altri termini, al di là della circostanza che l’accordo di ristrutturazione costituisca tecnicamente una procedura concorsuale, usare l’espressione “procedura concorsuale” per richiamare cumulativamente anche questo istituto, per di più in una norma che non attiene al diritto della crisi ma a quello tributario, non rappresenta un’imprecisione particolarmente significativa. Del resto, come ha statuito dalla Corte di Giustizia UE, il divieto di interpretazione estensiva trova un limite solo laddove esso impedisce di riconoscere alla norma l’effetto utile che essa tende a raggiungere (CGUE 25 febbraio 1999, causa C-349/96). 
Vi è inoltre da considerare che la norma recata dall’ultimo periodo del comma 5 non richiama solo “le procedure concorsuali”, bensì “le procedure concorsuali di cui al comma 3 bis, lettera a)” e ciò avvalora quanto testé affermato. Infatti, per limitare l’esclusione dell’obbligo in essa prevista sarebbe stato sufficiente richiamare semplicemente “le procedure concorsuali”, non quelle “di cui al comma 3 bis, lettera a)”, lasciando il legislatore in tal modo intendere che il riferimento riguarda tutti gli istituti ivi richiamati, indipendentemente dal fatto che costituiscano tecnicamente procedure concorsuali, procedure non concorsuali o altri strumenti di regolazione della crisi. 
L’interpretazione dell’ultimo periodo del comma 5 sopra esposta, seppur richiedendone una lettura ragionata, è l’unica che rispetta la ratio di tale disposizione e, a ben vedere, non è ostacolata nemmeno dal disposto del comma 10 bis del citato art. 26, il quale specifica, ai fini del comma 3 bis, quando il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale e nel fornire tale precisazione menziona il fallimento (ora liquidazione giudiziale), (ii) la liquidazione coatta amministrativa, (iii) la procedura di concordato preventivo, (iv) la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Vero è che il comma 10 bis non menziona l’accordo di ristrutturazione dei debiti e che da ciò si potrebbe trarre prima facie conferma che quest’ultimo istituto non è considerato una procedura concorsuale e che quindi ai fini dell’esclusione dall’obbligo disposta dall’ultimo periodo del comma 5 questo istituto non rileva. Tuttavia lo scopo del citato comma 10 bis è solo quello di individuare puntualmente il momento a partire dal quale la nota di variazione IVA può essere emessa e nulla al riguardo vi era, rispetto al contenuto del comma 3 bis, da aggiungere relativamente all’accordo di ristrutturazione dei debiti, poiché per quanto attiene a questo istituto tale momento è già precisato dallo stesso comma 3 bis, lettera a), nella data del decreto di omologazione dell’accordo. 
Pare dunque doversi ritenere che l’esonero dalla registrazione a debito riguardi gli accordi di ristrutturazione dei debiti anche in base alla lettera delle disposizioni recate dai commi 3 bis e 5 e 10 bis dell’art. 26 del Decreto IVA, perché: 
1) ai sensi del comma 3 bis, lettera a), il cedente ha la facoltà di emettere la nota di variazione IVA a partire dalla data in cui il cessionario o committente “è assoggettato a una procedura concorsuale o dalla data del decreto che omologa un accordo di ristrutturazione dei debiti”; 
2) il comma 5, primo periodo, stabilisce che, ove il cedente si avvalga della facoltà prevista dal citato comma 3 bis, “il cessionario o committente, che abbia già registrato l’operazione ai sensi dell’art. 25, deve in tal caso registrare la variazione a norma dell’art. 23 o dell’art. 24”; 
3) il comma 5, ultimo periodo, dispone tuttavia che l’obbligo di cui al primo periodo del medesimo comma “non si applica nel caso di procedure concorsuali di cui al comma 3 bis, lettera a)”; 
4) l’espressione “procedure concorsuali di cui al comma 3 bis, lettera a)” contenuta nell’ultimo periodo del comma 5 intende riferirsi a tutti gli istituti richiamati in tale disposizione e deve pertanto essere letta come se il richiamo avesse a oggetto gli “istituti di cui al comma 3 bis, lettera a)”; 
5) la norma recata dall’ultimo periodo del comma 5 non richiama solo “le procedure concorsuali”, bensì “le procedure concorsuali di cui al comma 3 bis, lettera a)” e ciò avvalora quanto affermato al precedente punto 4).
3.7.2.4 . La discutibile scelta di discriminare gli accordi di ristrutturazione rispetto al concordato in continuità
Appare in ogni caso censurabile nel merito la scelta del legislatore di prevedere per il concordato preventivo in continuità una disciplina diversa da quella stabilita per l’accordo di ristrutturazione dei debiti, dalla quale deriva l’introduzione nell’ordinamento di un elemento distorsivo che incentiva ingiustificatamente il concordato a discapito dell’accordo di ristrutturazione (quanto meno se questo non è liquidatorio), mentre un fattore che può giustificare una diversità di trattamento potrebbe semmai essere individuato nella natura di risanamento, o meno, dell’istituto cui l’impresa in crisi fa ricorso. 
L’Agenzia delle Entrate, nell’ambito della citata circolare n. 20/E/2021, non ha invece espresso alcuna posizione con riferimento al principio sancito dalla Corte di Giustizia UE, con la sentenza 22 febbraio 2018, causa C-396/16 (punto 55), in forza del quale, qualora a seguito dell’omologazione definitiva di un concordato le obbligazioni del debitore - secondo il diritto nazionale applicabile - siano state ridotte in modo che la parte corrispondente dei crediti dei fornitori di quest’ultimo è divenuta definitivamente irrecuperabile, la riduzione delle obbligazioni di un debitore risultante dall’omologazione definitiva (impedendo ai creditori di chiedere il pagamento totale dei loro crediti) costituisce un’ipotesi di riduzione della base imponibile dell’operazione e perciò comporta l’obbligo del debitore di rettificare la detrazione operata inizialmente ai sensi dell’art. 185, paragrafo 1, della Direttiva IVA (cui non è dato facoltà di derogare agli Stati membri); di conseguenza l’art. 185, paragrafo 2, della Direttiva IVA “deve essere interpretato nel senso che la riduzione delle obbligazioni di un debitore risultante dall’omologazione definitiva di un concordato non costituisce un caso di operazione totalmente o parzialmente non pagata che non dà luogo a una rettifica della detrazione operata inizialmente, allorché tale riduzione è definitiva”[40]. 
A questo precetto si è attenuta la Corte di cassazione con la sentenza 28 gennaio 2020, n. 25896, e con la sentenza 11 settembre 2020, n. 18837, rilevando che il committente perde sin dall’omologa della proposta concordataria il diritto di far valere la rettifica oltre la percentuale indicata nella proposta omologata, nella misura di soddisfacimento dei crediti chirografari ivi prospettata. 
Fatta eccezione per la liquidazione giudiziale (e per il fallimento), l’esonero per il debitore assoggettato a procedura concorsuale dalla registrazione a debito della nota di variazione in diminuzione emessa dal creditore, ora espressamente accordato dal secondo periodo del comma 5 dell’art. 26 del Decreto IVA, potrebbe perciò contrastare con l’indirizzo sancito dalla Corte di Giustizia UE e dalla Corte di cassazione con riguardo alle obbligazioni del debitore, allorché l’ipotesi del mancato incasso del credito definitivamente sancito dall’omologa sia collocabile nel paragrafo 1 dell’art. 185 della Direttiva IVA, anziché nel paragrafo 2. 
Inoltre, come confermato con la circolare n. 20/E/2021, detto esonero trova applicazione anche in caso di concordato con continuità aziendale ma non con riguardo agli accordi di ristrutturazione dei debiti, dal che consegue un evidente discrimine nel trattamento fiscale tra i due istituti, ingiustificato alla luce della comune ratio di consentire il superamento della crisi d’impresa. 
Al fine di uniformare il trattamento fiscale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione, di dare attuazione all’obbligo di rettifica dell’IVA detratta nonché di evitare il rischio di possibili censure in sede europea, meglio avrebbe fatto il legislatore a riconoscere che il credito erariale derivante dalla rettifica della detrazione IVA costituisce un credito concorsuale come tutti gli altri aventi la medesima natura, da trattare perciò con i medesimi criteri sanciti dagli artt. 63 e 88 del Codice della crisi in tema di transazione fiscale, atteso che la falcidia dell’IVA derivante dal ricorso a detto istituto è stata ritenuta compatibile con il diritto dell’Unione dalla Corte di Giustizia con la sentenza 7 aprile 2016, causa C-546/14.
3.8 . Successione tra le procedure
Si è più volte riferito che, per espressa previsione normativa, le nuove regole introdotte dall’art. 18 del D.L. n. 73/2021 si applicano soltanto con riferimento alle procedure aperte dal 26 maggio 2021. Si può porre quindi il problema di quale normativa da applicare in caso di successione di una procedura ad un’altra. 
In proposito l’Assonime, nell’ambito della circolare n. 10/2022, si è occupata dell’impresa assoggettata alla procedura di concordato preventivo prima del 26 maggio 2021 e dichiarata fallita successivamente a tale data. Secondo l’associazione, in questo caso, ai fini della disciplina fiscale applicabile rileva la data di apertura dell’ultima procedura concorsuale, anche se “le procedure sono originate da un unico presupposto, costituito dallo stato di insolvenza, già esistente al momento del decreto di ammissione al concordato preventivo, ed è riscontrabile una consecuzione tra le stesse”. Infatti “la situazione venutasi a creare con la dichiarazione di fallimento modifica in modo sostanziale la situazione debitoria, rendendo poco probabile l’adempimento anche per la parte che il debitore si era impegnato a pagare”, sicché sono radicalmente modificati i parametri di giudizio. Se così fosse, lo stesso principio dovrebbe poter valere anche in caso di riduzione della percentuale di soddisfazione proposta in corso di svolgimento della procedura concordataria. 
Con la risposta a interpello n. 126 del 3 giugno 2024 relativa a una procedura di concordato preventivo aperta prima del 26 maggio 2021 e che successivamente a tale data è stata convertita in fallimento, l’Agenzia delle Entrate ha tuttavia ritenuto applicabile l’art. 26 del Decreto IVA nella formulazione vigente anteriormente al 26 maggio 2021. 
Segnatamente, la risposta dell’Agenzia si fonda sul principio della consecutio temporum sancita dall’art. 170, comma 2, del Codice della crisi in perfetta continuità con l’art. 69 bis della legge fallimentare, in forza del quale sussiste un collegamento temporale fra le diverse procedure concorsuali destinate a regolare la medesima situazione di dissesto dell’impresa. Al riguardo l’Agenzia ha fatto richiamo a quanto enunciato dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 24056 del settembre 2021, per cui, quando alla procedura di concordato preventivo segua il fallimento, le due procedure assumono come presupposto “un analogo fenomeno economico” (ovverosia lo stato d’insolvenza dell’impresa) e quindi necessitano di “una considerazione unitaria […] pur nella formale distinzione dei procedimenti. Tale principio presenta un valore sistematico, in quanto caratterizzato dall'esigenza di salvaguardia dell’interesse superiore di concreta attuazione della par condicio creditorum, anche contro eventuali espedienti tesi a vanificarla (cfr., da ultimo, Cass. 29 marzo 2019, n. 8970)”. In maniera del tutto analoga i giudici di legittimità si sono espressi con l’ordinanza n. 24056 del 6 settembre 2021, confermando che “la dichiarazione di fallimento seguita al concordato preventivo attua non un fenomeno di mera successione cronologica, ma di ‘consecuzione di procedimenti’, che, pur formalmente distinti, sul piano funzionale finiscono per essere strettamente collegati”. 
4 . Le variazioni in diminuzione negli istituti del Codice della crisi non menzionati dall’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972
Con la circolare n. 20/E/2021 l’Agenzia delle Entrate ha sostenuto che le modifiche legislative apportate all’art. 26 dal D.L. n. 73/2021 si applicano unicamente alle procedure concorsuali e agli istituti di regolazione della crisi ivi espressamente nominati.
Si rende dunque necessario esaminare la questione con riferimento analitico a tutti gli altri istituti disciplinati dal Codice della crisi che non sono espressamente menzionati nell’art. 26 del Decreto IVA.
4.1 . La composizione negoziata
Tra gli istituti citati dal comma 3 bis dell’art. 26 del Decreto IVA non rientra la composizione negoziata della crisi, la cui introduzione nell’ordinamento giuridico risale al decreto-legge 24 agosto 2021, n. 118. 
A dare soluzione alle incertezze che ne sono derivate sotto il profilo interpretativo[41] è successivamente intervenuto il comma 2 dell’art. 38 del decreto-legge 24 febbraio 2023, n. 13, con cui al creditore dell’impresa facente accesso alla composizione negoziata è stata attribuita la facoltà di recuperare l’imposta addebitata al cliente e non riscossa a causa dello stato di crisi di quest’ultimo, concessa dall’art. 26 del Decreto IVA. Tale possibilità è ora espressamente prevista dall’art. 25 bis del Codice della crisi, per cui [d]alla data della pubblicazione nel registro delle imprese dei contratti o degli accordi di cui all’art. 23, comma 1, lettere a) e c) e comma 2, lettera b), del Decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, si applica l’art. 26, comma 3 bis, del Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”. 
Per effetto di detta disposizione, pertanto, lo stralcio definitivo del credito vantato nei confronti del debitore in crisi, quale risultante dal contratto o dall’accordo sottoscritto tra le due parti nell’ambito della composizione negoziata, dà automaticamente diritto di recuperare l’imposta non più riscuotibile, al pari di quanto accade in presenza della pubblicazione del piano attestato di risanamento di cui all’art. 56 del Codice della crisi, venendo così i due istituti equiparati anche sotto il profilo dell’IVA (oltre che delle imposte sui redditi). 
Gli effetti del contratto o dell’accordo stipulato nell’ambito della composizione negoziata ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. a) e c), e comma 2, lett. b), del Codice della crisi, assumono rilevanza anche ex latere debitoris, per cui il debitore che usufruisce dello stralcio del debito è assoggettato alla disciplina ordinaria prevista dal comma 5 dell’art. 26 del Decreto IVA. Quest’ultima norma prevede l’obbligo del debitore di registrare a debito la nota di variazione in diminuzione emessa dal creditore, se in precedenza aveva proceduto a detrarre l’imposta così rettificata, sicché la nota in variazione in diminuzione emessa dal creditore fa sorgere in capo al debitore un onere tributario di ammontare corrispondente all’imposta rettificata, analogamente a quanto accade per gli accordi di ristrutturazione dei debiti soggetti a omologazione e ai piani attestati di risanamento. 
Per la composizione negoziata non opera dunque l’esonero previsto dall’ultimo periodo del comma 5 testé citato, in forza del quale l’obbligo di registrazione “a debito” della nota di variazione in diminuzione “non si applica nel caso di procedure concorsuali di cui al comma 3 bis, lettera a)”. A questa conclusione si perviene sia in base alla lettera dell’art. 38, comma 2, del D.L. n. 13/2023 (che richiama solo il comma 3 bis dell’art. 26 del Decreto IVA), sia alla luce dell’equiparazione operata dal legislatore tra la composizione negoziata con il piano attestato di risanamento e gli accordi ristrutturazione dei debiti da omologare, per i quali l’Agenzia delle Entrate non ammette alcun esonero dall’obbligo di registrazione “a debito” (sul punto si veda quanto precisato nel precedente paragrafo 3.7.2.). 
Ciò non toglie che, in una prospettiva de iure condendo, resti sempre da censurare la scelta del legislatore di prevedere tale esonero per il concordato preventivo con continuità aziendale e di sancire così una disciplina diversa da quella stabilita per gli atri istituti regolati dal Codice della crisi. Ad avviso di chi scrive, per evitare una ingiustificata “discriminazione fiscale” tra istituti diversi ma accomunati dalla medesima finalità (ovverosia la soluzione negoziale della crisi d’impresa), l’esonero dall’obbligo di registrare a debito la variazione in diminuzione dovrebbe quindi essere stabilito solo nel caso in cui il contenuto del piano contempli l’estinzione dell’impresa al termine della sua esecuzione, indipendentemente dall’istituto giuridico a cui si fa ricorso per la soluzione della crisi, così come previsto dai criteri direttivi da attuare ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. a), n. 3), della legge 9 agosto 2023, n. 111 (“Legge Delega”).
4.2 . Il concordato semplificato
Né il comma 3 bis né il comma 10 bis dell’art. 26 citano il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio del debitore, disciplinato dall’art. 25 sexies del Codice della crisi, e ciò è evidentemente dovuto al fatto che anche il testo di detta norma (al pari di quanto accaduto per l’art. 88, comma 4 ter, del TUIR) è stato scritto anteriormente all’introduzione nell’ordinamento di tale procedura e non è stato ancora organicamente adeguato ai nuovi istituti introdotti dal Codice della crisi. Con l’art. 9 della già menzionata Legge Delega, il legislatore ha disposto che il Governo deve provvedere a estendere a tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi l’applicazione delle disposizioni dell’art. 26, commi 3 bis, 5, 5 bis e 10 bis, del Decreto IVA, ma al momento la suddetta delega è ancora in attesa di attuazione e l’applicazione del comma 3 bis dell’art. 26 del Decreto IVA è già stata espressamente prevista dal D.L. n. 13/2023 solo con riguardo alla composizione negoziata della crisi d’impresa. 
Ciononostante non può revocarsi in dubbio che anche il concordato semplificato liquidatorio sia una procedura concorsuale e, in particolare, che si tratti di una procedura equiparabile, relativamente agli effetti che produce, al concordato preventivo liquidatorio: ne discende quindi che, a parere di chi scrive, è a esso direttamente applicabile il disposto del già citato comma 3 bis, a norma del quale il creditore può emettere una nota di variazione IVA a seguito dell’ammissione del debitore a una procedura concorsuale. 
È del resto del tutto naturale che, con il D.L. n. 13/2023, il legislatore si sia preoccupato di estendere, mediante un’apposita norma, la possibilità di emissione della nota di variazione di cui al citato comma 3 bis alla composizione negoziata della crisi e non anche al concordato semplificato: la composizione negoziata della crisi non è certamente una procedura concorsuale e pertanto la diposizione recata dal citato comma 3 bis, in quanto riferita alle “procedure concorsuali”, non sarebbe stata a essa di per sé applicabile in assenza di un’apposita norma, qual è quella introdotta con il menzionato decreto-legge, che ne prevedesse espressamente l’estensione anche a tale “percorso” (così è infatti definita la composizione negoziata nella stessa relazione illustrativa del provvedimento con cui è stata introdotta nell’ordinamento della crisi); invece, come si è già detto e si vedrà ancora, il concordato semplificato costituisce una procedura concorsuale e pertanto il disposto del citato comma 3 bis è a esso direttamente applicabile in quanto “procedura concorsuale”, senza necessità di una ulteriore norma che lo preveda mediante un’integrazione di cui non vi è bisogno. 
Inoltre si è riferito nel paragrafo 3.2. che il comma 3 bis dell’art. 26 è stato interpretato dall’Agenzia delle Entrate quale disposizione che consente di “anticipare” l’emissione della nota di variazione in diminuzione al momento di apertura della procedura concorsuale, con la conseguenza che, con riguardo a tutti gli altri istituti disciplinati dal Codice della crisi non menzionati da tale norma, opera la regola generale sancita dal comma 2 dell’art. 26, per cui il diritto di recuperare l’IVA non riscossa decorre dal momento dell’omologazione della procedura che determina il venir meno parziale o totale dell’obbligazione giuridica in capo all’impresa debitrice. 
Deve pertanto ritenersi che il diritto del creditore di emettere la nota di variazione di cui trattasi sussista anche nel caso del concordato semplificato liquidatorio sulla scorta dei seguenti presupposti: 
i) ove si ritenga, com’è certamente da ritenersi, che il concordato semplificato liquidatorio sia una procedura concorsuale (in particolare da assimilare, ai fini di cui trattasi, al concordato preventivo liquidatorio), il suddetto diritto sussiste in virtù della diretta applicazione del comma 3 bis dell’art. 26, che appunto alle procedure concorsuali fa riferimento, nel qual caso il suddetto diritto spetterebbe a decorrere già dalla data di ammissione del debitore alla procedura di concordato semplificato; 
ii) ove si ritenga invece di dover escludere, anche se non si vede come, che il concordato semplificato liquidatorio sia una procedura concorsuale, il suddetto diritto dovrebbe sussistere in base alla regola generale discendente dal comma 2 dell’art. 26, con decorrenza dalla data di omologazione del concordato semplificato (per il motivo esposto nel successivo paragrafo 4.3.). 
Per i motivi esposti è quindi da ritenersi sussistente il diritto del creditore ad emettere - nei confronti del suo cessionario/debitore - una nota di variazione IVA in diminuzione corrispondente all’importo dei suoi crediti non recuperabile a seguito dell’ammissione del debitore al concordato semplificato liquidatorio, ovvero a seguito della omologazione di tale procedura. 
Resta però da stabilire se il debitore abbia l’obbligo, in sede di liquidazione periodica dell’imposta, di registrare a debito le note di variazione in base alla regola generale posta dal primo periodo del comma 5 del citato art. 26, rilevando un debito IVA di ammontare pari all’imposta rettificata nei suoi confronti mediante le stesse, ovvero se possa beneficiare dell’esonero da tale obbligo stabilito dal secondo periodo del medesimo comma 5. 
Al riguardo si è già osservato che, anteriormente alle modifiche recate all’art. 26 del Decreto IVA dal D.L. n. 73/2021, l’Agenzia delle Entrate - con la risoluzione n. 155/E del 12 ottobre 2001 - aveva affermato in via interpretativa che l’emissione di una nota di variazione in diminuzione da parte del creditore di un’impresa fallita non potesse determinare l’inclusione del corrispondente credito erariale nel riparto finale dell’attivo, da considerare ormai definitivo. Del pari, con la risoluzione n. 161/E del 17 ottobre 2001 l’Agenzia aveva precisato che l’emissione di detto documento, successivamente alla chiusura del concordato preventivo con garanzia o con cessione dei beni, non potesse comportare per il debitore concordatario l’obbligo di rispondere verso l’erario del relativo debito per IVA, in quanto l’effetto esdebitatorio di cui all’art. 184 della legge fallimentare interessava anche la quota del credito rappresentata dall’IVA dovuta a titolo di rivalsa.
Ebbene, in virtù dell’applicazione dell’art. 117 del Codice della crisi, richiamato dal comma 8 del successivo art. 25 sexies, le medesime considerazioni (quantomeno con riguardo alle note di variazione in diminuzione ricevute a procedura omologata) sono parimenti riferibili al concordato semplificato liquidatorio, con la cui omologazione si produce il suddetto effetto liberatorio e la cristallizzazione dei debiti da soddisfare. Ne discende che anche in quest’ultima procedura non pare sussistere, in capo al debitore, l’obbligo di rispondere verso l’erario del debito che in via ordinaria, cioè in assenza di una procedura concorsuale, l’emissione della nota di variazione IVA da parte del creditore produce nei confronti del debitore. 
Indipendentemente da questo motivo, come già riferito in un’altra occasione[42], sussistono ulteriori ragioni per ritenere che relativamente al concordato semplificato liquidatorio, trovano comunque applicazione le disposizioni contenute nei commi 3 bis, 5 e 10 bis, sebbene tale procedura non sia (ancora) menzionata in tali norme. 
Giova al riguardo far di nuovo riferimento alla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 20/E/2021, secondo cui l’esonero dalla registrazione a debito della nota di variazione in diminuzione non riguarderebbe gli accordi di ristrutturazione dei debiti e i piani attestati, trattandosi di istituti non “qualificabili come procedure concorsuali in senso stretto, in quanto mancano sia del carattere della ‘concorsualità’, sia di quello dell’‘ufficialità’”, che ricorrono entrambi con riferimento al concordato semplificato. 
Infatti, secondo la dottrina e la giurisprudenza – e secondo la stessa Agenzia delle Entrate - il carattere della concorsualità sussiste quando un istituto: i) ha rilevanza nei confronti della totalità dei creditori; ii) prevede l’assoggettamento alla procedura di tutto l’attivo dell’impresa debitrice; iii) prevede l’applicazione, ai fini dell’attribuzione dell’attivo del debitore ai creditori, delle regole del concorso e di quelle dell’ordine delle cause di prelazione; iv) prevede la possibilità del debitore di usufruire di misure protettive e cautelari; v) attribuisce al tribunale il potere di dirigere le operazioni e di omologare la procedura. Il concordato semplificato possiede tutti questi caratteri ed è quindi certamente da considerare una procedura connotata da “concorsualità”. 
Il concordato semplificato, inoltre, costituisce una procedura munita del carattere della “ufficialità”, atteso che ai sensi dell’art. 25 sexies del Codice della crisi: i) l’imprenditore deve chiederne l’omologazione al tribunale competente mediante la presentazione di un apposito ricorso, che deve essere comunicato al pubblico ministero e pubblicato nel registro delle imprese (comma 2); ii) il tribunale nomina un ausiliario, che deve esprimere sulla proposta di concordato il proprio parere (comma 3); iii) il tribunale dispone con decreto che la proposta e il parere dell’ausiliario siano comunicati ai creditori (comma 4); iv) i creditori e qualsiasi interessato possono opporsi all’omologazione del concordato entro il termine disposto dal tribunale (comma 4); v) il tribunale omologa il concordato se ricorrono i presupposti stabiliti dal comma 5 e il decreto omologativo è comunicato alle parti, che possono proporre reclamo alla corte di appello (comma 6). 
La conclusione secondo cui al concordato semplificato liquidatorio si applica l’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 26 del Decreto IVA rispetta perfettamente la ratio di detta disposizione, la quale - come già evidenziato nel paragrafo 3.7.2. - è costituita dall’esigenza di evitare l’insorgenza, in capo alle imprese che hanno avviato un percorso di risanamento, di un onere aggiuntivo che potrebbe ostacolare la ristrutturazione avviata dal debitore e/o il soddisfacimento dei suoi creditori. Poiché si tratta di una misura di sostegno, è comprensibile che essa sia consentita solo in presenza di atti che attestino sia lo stato di crisi in cui l’impresa che ne beneficia deve trovarsi, sia l’efficacia degli interventi adottati per il superamento di tale stato; da qui deriva la necessità di documenti ufficiali che certifichino la ricorrenza di dette circostanze e che, come si è esposto, nel concordato semplificato trovano la propria fonte proprio nell’Autorità Giudiziaria. 
Per queste ragioni è di tutta evidenza che i caratteri della concorsualità e della ufficialità sussistono anche nel caso del concordato semplificato liquidatorio e che quindi esso costituisce una procedura concorsuale, né più né meno come il concordato preventivo liquidatorio: ne discende - in base a quanto affermato dalla stessa Agenzia delle Entrate con la circolare n. 20/E/2021 - che non sussiste alcun motivo per non applicare in caso di concordato semplificato l’esonero disposto dall’ultimo periodo del comma 5; così come non sussiste alcun motivo per non applicare al concordato semplificato una disciplina differente da quella stabilita per il concordato preventivo e viceversa. 
Questa conclusione non è altresì ostacolata dal disposto del comma 10 bis del citato art. 26, il quale non menziona il concordato semplificato. Si è infatti già evidenziato che lo scopo di tale norma è individuare puntualmente la data a partire dalla quale la nota di variazione IVA può essere emessa, che con riguardo al concordato semplificato può essere agevolmente ricavata dalla disciplina del concordato preventivo e perciò individuata nella data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese, da cui decorrono, a norma dell’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 25 sexies, gli effetti di cui agli artt. 6, 46, 94 e 96 del Codice della crisi[43]. 
Dalle considerazioni che precedono discende quindi che l’esonero dall’obbligo di annotazione della nota di variazione previsto dall’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 26 del DPR n. 633/1972 trova applicazione anche per effetto della omologazione del concordato semplificato liquidatorio di cui all’art. 25 sexies del Codice della crisi. 
Occorre tuttavia dare atto del fatto che al momento l’Agenzia delle Entrate sembrerebbe essere di diverso avviso, come dimostra la recente risposta a interpello n. 179 del 7 luglio 2025 con cui è stata esclusa la detassazione ai fini delle imposte sui redditi delle sopravvenienze attive da esdebitazione maturate in sede di concordato semplificato, non essendo il suddetto istituto espressamente menzionato nell’art. 88, comma 4 ter, del T.U.I.R.; alla medesima conclusione l’Agenzia potrebbe quindi pervenire con riferimento al comma 3 bis e all’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 26 del Decreto IVA, a causa della mancata menzione del concordato semplificato da parte di dette norme. 
Proprio sulla mancata menzione nel testé citato art. 26, del resto, l’Agenzia ha fondato la risposta a interpello n. 9 maggio 2023, n. 324, con cui ha escluso l’applicabilità del citato comma 3 bis alla procedura di liquidazione controllata del patrimonio regolata dall’art. 14 ter della legge 27 gennaio 2012, n. 3.
4.3 . Il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione
Un altro istituto introdotto nell’ordinamento dal Codice della crisi, non espressamente contemplato dall’art. 26 del Decreto IVA, è rappresentato dal piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) di cui all’art. 64 bis del Codice della crisi. 
Si tratta di un istituto di cui è invero ancora discussa la natura, essendosi la dottrina divisa tra chi tende ad assimilarlo al concordato preventivo e chi invece lo considera più vicino agli accordi di ristrutturazione dei debiti a efficacia estesa disciplinati dall’art. 61 del Codice della crisi[44]. 
Nonostante ciò, con la risposta a interpello n. 79 del 21 marzo 2025 l’Agenzia delle Entrate ha affermato che né il comma 3 bis né l’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 26 possono trovare applicazione con riferimento al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, fintantoché a detto istituto non verrà data attuazione ai criteri direttivi contenuti al riguardo nell’art. 9 della Legge Delega. 
Nell’ambito della medesima risposta a interpello l’Agenzia delle Entrate ha tuttavia precisato che anche per il PRO si applicano i principi affermati dalla Corte di Giustizia UE con la già citata sentenza 23 novembre 2017, causa C-246/16, la quale, nel “censurare” la previgente formulazione dell’art. 26, ha: 
· in ogni caso escluso – nell’osservanza del principio di neutralità dell’IVA - che l’imprenditore, in caso di mancato pagamento del corrispettivo, possa rimanere inciso dell’imposta versata all’erario; 
· previsto che una riduzione possa essere accordata “allorché il soggetto passivo segnali l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato, anche a rischio che la base imponibile sia rivalutata al rialzo nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque”. 
Pertanto, in ottemperanza a tali indicazioni, l’Agenzia delle Entrate ha convenuto che i creditori hanno diritto ad emettere la nota di variazione in diminuzione limitatamente all’importo falcidiato a decorrere dalla data di omologazione del piano, in quanto detto evento determina il venir meno parziale o totale dell’obbligazione giuridica in capo all’impresa debitrice. 
Ciò nonostante, considerato che il PRO è una procedura concorsuale, chi scrive ritiene che già al momento dell’accesso dell’impresa debitrice all’istituto del PRO i creditori della stessa maturino il diritto di recuperare l’IVA applicata e non riscossa secondo i dettami del comma 3 bis dell’art. 26, analogamente a quanto evidenziato in ordine al concordato semplificato. 
Lo stesso è a dirsi con riguardo all’impresa debitrice relativamente all’esonero della registrazione a debito della nota di variazione in diminuzione, sancito dall’ultimo periodo del comma 5, che non concerne solo gli istituti non “qualificabili come procedure concorsuali in senso stretto, in quanto mancano sia del carattere della ‘concorsualità’, sia di quello dell’‘ufficialità’”, secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate nell’ambito della circolare n. 20/E/2021. 
Infatti, come evidenziato nel precedente paragrafo con riguardo al concordato semplificato e nel paragrafo 3.7.2.1. con riferimento agli accordi di ristrutturazione dei debiti, il carattere della concorsualitàsussiste quando un istituto: i) ha rilevanza nei confronti della totalità dei creditori; ii) prevede l’assoggettamento alla procedura di tutto l’attivo dell’impresa debitrice; iii) prevede l’applicazione, ai fini dell’attribuzione dell’attivo del debitore ai creditori, delle regole del concorso e di quelle dell’ordine delle cause di prelazione; iv) prevede la possibilità del debitore di usufruire di misure protettive e cautelari; v) attribuisce al tribunale il potere di dirigere le operazioni e di omologare la procedura. 
Ebbene per il PRO (sebbene sia prevista la possibilità di derogare agli artt. 2740 e 2741 del codice civile) sono soddisfatti tutti i caratteri testé descritti, sicché si tratta certamente di una procedura connotata da “concorsualità”. 
Inoltre il PRO è munito del carattere della “ufficialità”, atteso che l’art. 64 bis prevede in estrema sintesi l’annotazione del decreto di apertura nelle scritture contabili dell’impresa, la nomina di un giudice delegato e di un commissario giudiziale, la prededucibilità dei crediti sorti per effetto di atti compiuti in corso di procedura e l’esenzione da revocatoria per gli atti posti in essere in esecuzione del piano di ristrutturazione, la formale e rituale convocazione dei creditori, il procedimento di voto dei creditori, la verifica del raggiungimento delle maggioranze richieste per l’approvazione del piano di ristrutturazione, l’omologazione del piano di ristrutturazione, l’eventuale conversione del piano di ristrutturazione in concordato preventivo e viceversa. 
Per queste ragioni i caratteri della concorsualità e della ufficialità sono da ritenersi sussistenti anche nel caso del PRO. 
Né osta a questa conclusione il fatto che il comma 10 bis del citato art. 26 non menzioni il PRO, atteso che detta norma risponde allo scopo di individuare puntualmente, con riferimento alle procedure concorsuali dalla stessa indicate, la data a partire dalla quale la nota di variazione IVA può essere emessa. Per il PRO il suddetto momento pare doversi individuare nel provvedimento di nomina del commissario giudiziale previsto dal comma 4 dell’art. 64 bis del Codice della crisi[45], una volta valutata la ritualità della proposta e verificata la correttezza dei criteri di formazione delle classi.
4.4 . Il concordato minore
Le considerazioni dapprima espresse con riferimento al concordato semplificato liquidatorio e al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, in ordine all’applicabilità della disciplina delle variazioni in diminuzione, a maggior ragione valgono per il “concordato minore”. Si tratta infatti di una procedura concorsuale che presenta anch’essa tutti i crismi della ufficialità e della concorsualità, alla quale l’art. 74, comma 4, del Codice della crisi rende peraltro applicabili – ove compatibili – le disposizioni disciplinanti il concordato preventivo, e caratterizzata in particolare dall’effetto esdebitatorio conseguente alla sua omologazione. 
Ai fini dei commi 3 bis e 10 bis dell’art. 26 del decreto IVA, per il concordato minore il riferimento dovrebbe essere individuato nella data di deposito del decreto di ammissione di cui all’art. 78 del Codice della crisi[46]. 
4.5 . La liquidazione controllata del sovraindebitato
La procedura di liquidazione controllata del sovraindebitato di cui agli artt. 268 e seguenti del Codice della crisi è finalizzata alla liquidazione del patrimonio del consumatore, del professionista, dell’imprenditore agricolo, dell’imprenditore minore e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale, che si trovi in stato di crisi o di insolvenza. 
Come emerge dalla relazione illustrativa al Codice della crisi, tale istituto, che ha sostituito quello disciplinata nella sezione seconda del capo secondo della legge 27 gennaio 2012, n. 3, consiste in una procedura semplificata rispetto alla liquidazione giudiziale, in quanto concernente patrimoni tendenzialmente di limitato valore (seppur con significative eccezioni) e situazioni economico-finanziarie connotate da ridotta complessità. 
Sebbene si tratti di una procedura sostitutiva della liquidazione giudiziale per i “soggetti non fallibili”, con la risposta a interpello n. 9 maggio 2023, n. 324, l’Agenzia delle Entrate ha escluso l’applicabilità del comma 3 bis dell’art. 26 del Decreto IVA con riguardo alla procedura di liquidazione controllata del patrimonio regolata dall’art. 14 ter della L. n. 3/2012 e, quindi, anche con riguardo alla liquidazione controllata di cui all’art. 268 del Codice della crisi che ne ha preso il posto; anche in proposito è stata infatti ritenuta impraticabile l’applicazione in via interpretativa delle disposizioni aggiunte all’art. 26 del Decreto IVA dall’art. 18 del D.L. n. 73/2021 con riferimento a una procedura non espressamente menzionata dal testé citato art. 26, per il che il creditore dell’impresa soggetta a detta procedura non sarebbe legittimato ad emettere la relativa nota di variazione in diminuzione all’apertura della stessa.
Con la risposta a interpello n. 177 del 7 luglio 2025 la medesima esclusione è stata affermata, per un motivo analogo, anche agli effetti della detassazione prevista dall’art. 88, comma 4 ter, del T.U.I.R. in relazione alle riduzioni dei debiti dell’impresa discendenti dalla chiusura della procedura, venendo al contempo respinta la possibilità di applicare il particolare meccanismo di determinazione del reddito sancito dall’art. 183 del T.U.I.R., che è fondato sulla imposizione del cosiddetto “residuo attivo”.
Tuttavia, proprio perché si tratta di una procedura concorsuale assimilabile in toto alla liquidazione giudiziale e come tale applicabile ai soggetti nei cui confronti quest’ultima procedura non può operare, l’esclusione sostenuta dall’Agenzia delle Entrate non appare sistematica né conforme alla ratio del citato art. 26.
4.6 . La liquidazione del patrimonio degli enti non societari
Tra gli istituti non espressamente indicati nell’art. 26 del Decreto IVA vi è infine la procedura di liquidazione generale dei beni di enti non societari prevista dall’art. 14 e seguenti delle disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, cui si applicano, per effetto del rinvio contenuto nel successivo art. 16, numerose norme regolanti la liquidazione coatta amministrativa, che a loro volta rinviano alle disposizioni disciplinanti il fallimento (ora liquidazione giudiziale). 
La questione dell’applicabilità dell’art. 26 del Decreto IVA a questa particolare procedura è stata affrontata dall’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 88 dell’8 aprile 2024. 
Al riguardo l’Agenzia ha rilevato che la procedura è in sostanza regolata dalle disposizioni sulla liquidazione coatta amministrativa, concernenti gli effetti della liquidazione per i creditori e sui rapporti giuridici preesistenti, le comunicazioni ai creditori e ai terzi (titolari di azioni di rivendicazione e restituzione su cose), le domande dei creditori e dei terzi, la formazione dello stato passivo, la liquidazione dell’attivo, la ripartizione dell’attivo, la chiusura della liquidazione. 
In considerazione dei numerosi rinvii alle disposizioni che disciplinano la liquidazione coatta amministrativa, con riguardo agli effetti sui creditori e al funzionamento delle procedure volte al soddisfacimento delle loro ragioni, l’Amministrazione finanziaria si è quindi mostrata dell’avviso che la procedura di liquidazione generale dei beni di cui si discute va ricondotta tra quelle per le quali il creditore ha diritto di avvalersi delle disposizioni dell’art. 26 del Decreto IVA vigente ratione temporis per variare i corrispettivi non incassati; ciò perché, con la risposta a interpello n. 100/2022, tale possibilità era stata riconosciuta anche con riferimento alla procedura di liquidazione coatta amministrativa (non contemplata nell’art. 26 del Decreto IVA prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 73/2021). 
L’Agenzia delle Entrate ha comunque tenuto a precisare per le procedure di liquidazione del patrimonio aperte prima del 26 maggio 2021 si rende necessario attendere l’infruttuosità della procedura di liquidazione in esame, ovverosia, stante il rinvio alle disposizioni della legge fallimentare da parte dell’art. 16 delle disposizioni di attuazione al codice civile, la decorrenza dei termini ivi previsti per l’approvazione del piano di riparto secondo le indicazioni fornite con la circolare n. 77/E/2000.

Note:

[1] 
Cfr. ex multis Corte di Giustizia dell’Unione europea, 26 gennaio 2012, causa C-588/10.
[2] 
Ai sensi dell’art. 60 del Decreto IVA, tale diritto spetta anche nei casi in cui l’emissione della nota di variazione in aumento discende dall’attività di accertamento espletata dall’Amministrazione finanziaria.
[3] 
In tal senso si veda anche Cass., 22 ottobre 2019, n. 26849; 19 gennaio 2023, n. 1609. Secondo un altro orientamento, invece, il diritto alla detrazione andrebbe negato solo in caso di conclamato accertamento dell’intento fraudolento perseguito dalle parti: cfr. Cass., 3 ottobre 2019, n. 24671; 3 agosto 2021, n. 22092. 
[4] 
In caso di surroga da parte dell’assicuratore, il soggetto legittimato all’emissione della nota di variazione in diminuzione ai fini IVA resta il cedente/prestatore, e non il soggetto che si è surrogato nella posizione dell’assicurato. Cfr. risposta a interpello n. 427 dell’11 settembre 2023.
[5] 
In tal senso si vedano anche le risoluzioni n. 155/E del 12 ottobre 2001, n. 89/E del 18 marzo 2002 e n. 195/E del 16 maggio 2008, nonché la risposta a interpello n. 33 del 7 febbraio 2020. Sul punto Cass., 16 dicembre 2011, n. 27136; 27 gennaio 2014, n. 1541.
[6] 
In caso di chiusura del fallimento “'in pendenza di giudizi”, le note di variazione in diminuzione possono essere emesse, in linea generale, solo al termine dei giudizi pendenti, a seguito dell’esecutività dell’eventuale piano supplementare di riparto, perché solo in tale momento si può avere certezza delle somme definitivamente distribuite ai creditori. Cfr. risposta a interpello n. 471 del 29 novembre 2023.
[7] 
Invece, ai fini delle imposte sui redditi, la stessa Amministrazione finanziaria, con la risoluzione n. 9/1116 del 1° settembre 1980, aveva collocato temporalmente l’effetto esdebitativo del concordato fallimentare al termine della fase di esecuzione della procedura, anziché al momento della omologazione della relativa domanda, poiché la perdita definitivamente subita sarebbe stata quantificabile soltanto all’esaurimento delle operazioni di esecuzione del concordato; ed è proprio a tale pronunciamento che si fa risalire la scelta del redattore del TUIR di inserire il riferimento al concordato fallimentare nel comma 4 dell’art. 55 (ora comma 4 ter, primo periodo, dell’art. 88) in ordine alla detassazione delle sopravvenienze attive da esdebitazione. Cfr. G. Zizzo, “Aspetti problematici della determinazione del reddito d’impresa in sede di chiusura della procedura fallimentare”, in Rivista di diritto tributario, n. 9/1992, pag. 683.
[8] 
Si veda ex multis Cass. 27 gennaio 2014, n. 1541; 16 dicembre 2011, n. 27136.
[9] 
Cfr. Associazione Italiana Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, norma di comportamento n. 192, 1° febbraio 2015. L’Associazione, con la denuncia n. 13 del 6 maggio 2019, aveva poi sottoposto alla Commissione europea la questione della incompatibilità della prassi dell’Agenzia delle Entrate (talora confortata dalla giurisprudenza nazionale) con il diritto dell’Unione Europea.
[10] 
Cfr. P. Centore, “Le note di variazione IVA a seguito di procedure concorsuali rimaste infruttuose”, in Corriere Tributario, n. 29/2010, pagg. 2355 e 2356.
[11] 
Cfr. Corte di Giustizia UE, 22 febbraio 2018, causa C-396/16.
[12] 
Cfr. P. Maspes, “Variazioni in diminuzione IVA: una risoluzione è per sempre”, in Corriere Tributario, n. 4/2025, pagg. 327-329.
[13] 
Cfr. Corte di Giustizia UE, 23 novembre 2017, causa C-246/16, punto 16. In senso analogo si veda la sentenza 15 maggio 2014, causa C-337/13, punto 25.
[14] 
A completamento di tale previsione, nel comma 11 del nuovo art. 26 veniva espressamente precisato che, ai fini della individuazione del momento in cui il cessionario o committente si considera assoggettato a una procedura concorsuale, assume rilievo la data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
[15] 
Il comma 3 dell’art. 26 non consente l’emissione della nota di variazione in diminuzione qualora gli eventi che la legittimerebbero si sono verificati dopo il decorso di un anno dall’effettuazione dell’operazione e in dipendenza di un sopravvenuto accordo tra le parti, come in caso di stipula di una transazione. Cfr. risposta a interpello 3 giugno 2019, n. 178.
[16] 
Il riferimento ai due istituti, per i quali il dies a quo decorre dalla data di omologazione dell’accordo ovvero dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese del piano di risanamento attestato, fu inserito dall’art. 31, comma 1, del decreto legislativo 21 novembre 2014, n. 175. Con l’ordinanza n. 23312 del 29 agosto 2014, in ordine alla disciplina previgente a tale modifica normativa, la Corte di cassazione ha ritenuto non applicabile il termine di un anno, previsto dal comma 3 dell’art. 26 del Decreto IVA, con riferimento al recupero dell’IVA relativamente a crediti stralciati a seguito dell’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti.
[17] 
L'art. 19, comma 1, secondo periodo, del Decreto IVA dispone al riguardo che “il diritto alla detrazione dell’imposta relativa ai beni e servizi acquistati o importati sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile ed è esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa all’anno in cui il diritto alla detrazione è sorto ed alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo”. 
[18] 
Diversamente è a dirsi per le diminuzioni della base imponibile legittimate dall’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ovvero dalla pubblicazione nel registro delle imprese del piano attestato, per le quali l’art. 26 individua rispettivamente la data di omologa e la data di pubblicazione quale riferimento iniziale.
[19] 
In questa nozione entra anche il provvedimento emanato ai sensi dell’art. 15, commi 1 e 5 bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98. Con la risposta a interpello n. 100 del 9 marzo 2022, infatti, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa non deve né può intendersi limitato alla sola procedura disciplinata dalla Legge fallimentare, ma si riferisce a tutte le procedure di tal guisa regolate dalla legislazione speciale di settore alla quale è rimessa l’individuazione dei casi in cui tale procedura può avere corso, del relativo iter e dell’ambito soggettivo di applicazione. 
[20] 
È stato così parzialmente corretto il precedente orientamento rappresentato nella circolare n. 1/E/2018, e nella risposta a interpello n. 544 dell’11 agosto 2021, secondo cui “la nota di variazione in diminuzione deve essere emessa (e la maggiore imposta a suo tempo può essere detratta), al più tardi, entro la data di presentazione della dichiarazione IVA relativa all’anno in cui si è verificato il presupposto per operare la variazione in diminuzione”. Secondo l’Assonime (circolare n. 10 del 15 marzo 2022, pagg. 10 e 11), per esigenze di certezza del diritto e di tutela del contribuente, dovrebbero essere considerati comunque corretti i comportamenti adottati in conformità con la prassi precedente.
[21] 
Tra le ipotesi in cui sussistono condizioni oggettive “non imputabili a una ‘colpevole’ inerzia del contribuente” nell’emissione della nota di variazione in diminuzione v’è la chiusura del numero di partita IVA (da parte del creditore) prima del deposito del piano di riparto, la quale circostanza non consente di emettere più il suddetto documento, come rilevato dall’Agenzia con la risposta a interpello n. 309 del 27 maggio 2022.
[22] 
Cfr. circolare n. 10/2022, pagg. 12 e 13.
[23] 
Cfr. circolare n. 10/2022, pag. 13.
[24] 
Cfr. circolare n. 20/E/2021 (§ 3). In tal senso anche Assonime, circolare n. 10/2022, pag. 14.
[25] 
Ad onor del vero, dalla descrizione della fattispecie non è dato rilevare se il creditore avesse già operato una rettifica dell’IVA per il 66,30% al momento dell’apertura della procedura concorsuale e se dunque chiedesse la possibilità di effettuare un’ulteriore rettifica in diminuzione rispetto a quella iniziale.
[26] 
Cfr. Fondazione Nazionale Commercialisti, cit., pag. 18.
[27] 
In senso analogo si vedano anche le risposte a interpello n. 801 del 3 dicembre 2021 e n. 485 del 3 ottobre 2022.
[28] 
Il privilegio speciale che assiste il credito per rivalsa IVA non si estende alla prestazione principale cui attiene, né al credito per rivalsa accede il privilegio che assiste la prestazione principale, stante la sua natura autonoma.
[29] 
Cfr. Cass., 1° aprile 2021, n. 9064; 14 marzo 2018, n. 6245; 17 gennaio 2017, n. 1034; 1° giugno 1996, n. 6149; 2 febbraio 1995, n. 1227; 4 giugno 1994, n. 5429. 
[30] 
In tal senso si è espressa la Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna con la sentenza dell’11 giugno 2021, n. 802.
[31] 
In tal senso E. Stasi, “Il credito IVA di rivalsa dei professionisti”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 7/2021, pagg. 796 e 797; B. Denora, Procedure concorsuali infruttuose e note di variazione in diminuzione ai fini IVA: la tutela del creditore a fronte dell’inadempimento del debitore, in F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, 2013, pag. 1043. In senso critico verso la “soluzione proporzionale” si sono espressi tra gli altri G. Rebecca, “Iva addebitata in fattura dai professionisti nel fallimento”, in il fisco n. 22/2009, pag. 3563; C. Zafarana, M. Giorgetti, “Prestazioni professionali e credito di rivalsa IVA”, in Corriere Tributario, n. 7/2009, pag. 528.
[32] 
Così P. Centore - M. Pollio, “Collocazione del credito di rivalsa in sede di accertamento del passivo fallimentare”, in Corriere Tributario, n. 42/2008, pag. 3421.
[33] 
Ad avviso di chi scrive, tuttavia, la disposizione presente nel nuovo comma 5 bis non potrebbe comportare l’obbligo per il fornitore di mantenere aperta la propria posizione IVA fino alla data di definitiva conclusione della procedura, perché in tale ipotesi si ripresenterebbero i problemi di compatibilità con la normativa UE, facendo gravare un onere sul soggetto passivo non proporzionale alle reali esigenze di cassa. Se così è, in caso di sopravvenuta cessazione della posizione IVA, la previsione testé citata non dovrebbe rendersi applicabile.
[34] 
In senso conforme si veda anche la risposta a interpello n. 359 del 23 giugno 2023.
[35] 
In caso di mancata ammissione al passivo a causa dell’avvenuta prescrizione del credito, la variazione in diminuzione non può essere effettuata. Cfr. risposta a interpello n. 102 del 10 marzo 2022.
[36] 
Cfr. circolare n. 10/2022, pagg. 8 e 9.
[37] 
Invero l’Agenzia aveva utilizzato l’argomento della colpevole inerzia del creditore per affermare che l’art. 26, comma 2, è inapplicabile in caso di intervenuta prescrizione del credito. Con la successiva risposta a interpello 10 marzo 2022, n. 102 l’Agenzia, invece, ha più correttamente affermato che la prescrizione del credito non rientra tra le cause che legittimano la variazione in diminuzione, non essendo riconducibili tra le figure “simili” a quelle annoverate nella norma testé citata.
[38] 
Cfr. circolare n. 5 del 16 marzo 2016, pag. 11.
[39] 
Cfr. Cass. 18 gennaio 2018, n. 1182. In dottrina si veda S. Ambrosini, “Le conseguenze della natura dell'accordo di ristrutturazione dei debiti sul credito del professionista”, in Il Diritto Fallimentare e delle Società Commerciali, n. 1/2018; A. Didone, “Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis)”, in Il Diritto Fallimentare e delle Società Commerciali, 2011, I, pag. 17; M. Ferro, Sub art. 182 bis, in Id. (a cura di), La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, 2014, pag. 2506.
[40] 
Il medesimo principio è stato ribadito con la sentenza 11 giugno 2020, causa C-146/17.
[41] 
Prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 13/2023, si era portati a ritenere che, in assenza di una norma speciale, il diritto del creditore di emettere la nota di variazione in diminuzione a conclusione dell’accordo nell’ambito della composizione negoziata dovesse soggiacere alle regole ordinariamente previste per gli accordi di natura stragiudiziale, con conseguente applicazione del limite temporale di un anno stabilito dal comma 3 dell’art. 26 del decreto IVA. 
[42] 
Cfr. G. Andreani, A. Tubelli, “Le questioni fiscali che minano il concordato semplificato”, in Dirittodellacrisi.it, 10 luglio 2025.   
[43] 
Secondo la Fondazione Nazionale Commercialisti, cit., pag. 14, la data di riferimento dovrebbe essere la data del decreto di nomina dell’ausiliario di cui al comma 4 dell’art. 25 sexies del Codice della crisi.
[44] 
Per una rassegna delle diverse posizioni assunte al riguardo si veda Fondazione Nazionale Commercialisti, cit., nota 19.
[45] 
Cfr. Fondazione Nazionale Commercialisti, cit., pag. 12.
[46] 
Cfr. P. Stella Monfedrini, L. Moretti, “L’emissione delle note di variazione IVA nei nuovi istituti del Codice della crisi”, in il fisco, n. 30/2024, pag. 2844; A. Nicotra, M. Pezzetta, “Limitata compatibilità delle note di variazione con il Codice della crisi”, in Eutekne.info, 12 giugno 2023.

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