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Saggio

Il procedimento delle impugnazioni dello stato passivo*

Alessandro Motto, Ordinario di diritto processuale civile nell’Università degli Studi dell’Insubria

2 Maggio 2024

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
Il lavoro, in un’ottica di ideale prosecuzione di un nostro precedente studio dedicato alla natura, alla struttura e all’oggetto dei mezzi di impugnazione dello stato passivo (Le impugnazioni dello stato passivo e la correzione degli errori materiali nella liquidazione giudiziale, in questa Rivista, aprile 2024), illustra le regole procedimentali dettate dall’art. 207 del Codice per la proposizione, la trattazione e la decisione dei  mezzi di impugnazione dello stato passivo. 
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1 . Caratteri generali del rito
In questo scritto, ci proponiamo di esaminare i profili di rito delle impugnazioni dello stato passivo e, pertanto, la disciplina dinamica del procedimento uniforme delle impugnazioni dello stato passivo dettata dall’art. 207 del Codice[1]. Esulano dall’ambito specifico della trattazione i temi inerenti alla definizione dell’oggetto dell’impugnazione e dell’effetto devolutivo, per i quali ci avvaliamo della trattazione svolta in un nostro precedente lavoro[2], nonché gli aspetti di carattere generale concernenti il giudizio di accertamento del passivo  e dei diritti reali e personali di terzi (quali i principi di esclusività e di tipicità dell’oggetto del processo, i poteri e le difese esercitabili dalle parti al suo interno e gli effetti del decreto che rende esecutivo lo stato passivo e delle decisioni del tribunale assunte all’esito del giudizio di impugnazione)[3].  
Per le impugnazioni è competente il tribunale che ha aperto la liquidazione giudiziale (art. 122, comma 1, lett. c)), che le decide in un giudizio che si configura come un processo speciale di carattere contenzioso a cognizione piena ed esauriente[4]. 
La legge disciplina analiticamente la fase iniziale del giudizio, predeterminando il contenuto e la forma degli atti introduttivi delle parti (art. 207, comma 2 e 7), nonché i modi e le forme di instaurazione del contraddittorio, inclusi i termini di comparizione e di costituzione del resistente (art. 207, commi 4, 5 e 6). 
Il rito è concentrato: sono previste preclusioni anticipate e contestuali negli atti introduttivi per l’esercizio dei poteri assertivi (allegazione dei fatti e rilievo delle eccezioni) e dei poteri istruttori (produzione di documenti e richiesta di mezzi di prova), in modo tale da definire in limine litis il thema decidendum e il thema probandum della causa. Non è prevista la possibilità di modificare liberamente le domande, le eccezioni e le conclusioni nel corso del processo (ius poenitendi); le nuove attività ammesse, come si vedrà (al § 7), sono solo quelle giustificate dallo sviluppo dialettico del giudizio in attuazione dell’inderogabile principio del contraddittorio. 
Il convincimento del tribunale circa i fatti rilevanti ai fini della decisione si forma secondo le regole ordinarie. 
La legge prevede che le parti indichino “i mezzi di prova” (art. 207, comma 2, lett. d), e comma 7) e che il giudice provveda “all’ammissione ed all’espletamento dei mezzi istruttori” (art. 207, comma 11): da un lato, devono essere ammessi tutti i mezzi di prova ritenuti rilevanti, e non solo gli atti di istruzione “compatibili con le esigenze di speditezza del procedimento”, come previsto dall’art. 204, comma 3, per la fase dinanzi al giudice delegato, ed è tipico di un giudizio sommario a cognizione superficiale; da un altro lato, il riferimento ai “mezzi di prova” e alle regole sulla “ammissione” delle prove effettua un implicito rinvio alla disciplina comune dell’istruzione probatoria, quanto all’individuazione dei mezzi di prova utilizzabili, alla loro ammissibilità e alla loro efficacia[5]. 
Riguardo alla posizione del curatore, resta fermo, anche nel giudizio di impugnazione, il limite costituito dalla inutilizzabilità delle prove che richiedono la capacità di disporre del diritto, quali, in particolare, la prestazione della confessione (art. 2731 c.c.) e il deferimento e il riferimento del giuramento decisorio (art. 2737 c.c.), in quanto il curatore non può disporre del diritto, se non previa autorizzazione degli organi della procedura[6]. 
Nel silenzio della legge, è ragionevole ritenere che al tribunale spettino gli stessi poteri istruttori officiosi di cui dispone in un ordinario giudizio di cognizione[7], il cui concreto esercizio, ovviamente, deve avvenire nel rispetto del divieto di scienza privata (quindi, limitatamente ai fatti ritualmente acquisiti al materiale di causa e alle fonti di prova emergenti dagli atti). 
Il tribunale assume la decisione in base alla regola ordinaria di giudizio dell’art. 2697 c.c. e, quindi, sulla scorta di un pieno convincimento circa l’esistenza del fatto rilevante, e non secondo un criterio di verosimiglianza, invece utilizzabile nei giudizi sommari a cognizione superficiale (come quello che si svolge dinanzi al giudice delegato); conseguentemente, il fatto rimasto incerto, in quanto il giudice non si è formato un pieno convincimento sulla scorta delle prove in atti, deve essere ritenuto inesistente ai fini della decisione. 
Un’attenuazione del carico dell’onere della prova[8] è dato dall’operare nel giudizio di impugnazione – come nel procedimento di verifica dinanzi al giudice delegato – del principio di non contestazione ex  art. 115 c.p.c. Esso opera anche nei confronti del curatore costituito in giudizio[9]; l’art. 115 c.p.c., infatti, prevede un meccanismo di semplificazione probatoria (il fatto non contestato è posto al di fuori del thema probandum, non necessitando di prova per essere posto a fondamento della decisione) e pertanto non presuppone la capacità di disporre del diritto controverso ad opera della parte processuale che non effettua la contestazione (di cui, come poco sopra ricordato, il curatore è privo)[10]. 
Il procedimento è invece deformalizzato riguardo alle scansioni ed ai tempi delle fasi di trattazione, di istruzione e di decisione della causa, dato che l’art. 207 si limita a stabilire che il giudice provveda all’ammissione ed all’espletamento dei mezzi istruttori (comma 11) e che la decisione sia resa “entro sessanta giorni dall’udienza o dalla scadenza del termine eventualmente assegnato per il deposito di memorie” (comma 13). In parte qua, le regole di svolgimento del giudizio sono dettate, di volta in volta, dal magistrato, nell’esercizio dei poteri discrezionali di gestione e direzione del procedimento. 
Il procedimento si conclude con un provvedimento avente forma di decreto motivato (comma 13), il quale, avendo i caratteri della definitività e della decisorietà, è sostanzialmente una sentenza; il decreto è impugnabile con il ricorso ordinario per cassazione (comma 14). L’efficacia di accertamento del decreto del tribunale riguardo ai diritti decisi è la medesima del decreto del giudice delegato, ai sensi dell’art. 204, comma 5[11]. 
Nei giudizi di impugnazione, che si svolgono dinanzi al tribunale, vi è l’obbligo di difesa tecnica, in base alla regola generale dell’art. 9, comma 2, e dell’art. 82, comma 3, c.p.c., non essendo previsto che le parti possano stare in giudizio personalmente, a differenza di quanto stabilito per il procedimento di verifica dinanzi al giudice delegato (artt. 200, comma 1, e 201, comma 2). 
Infine, a conclusione di queste notazioni generali, sottolineiamo che il curatore sta in giudizio senza necessità di autorizzazione del giudice delegato (artt. 123, comma 1, lett. e), e 128, comma 2); pertanto, al fine del valido compimento delle attività processuali nei giudizi di impugnazione dello stato passivo (di opposizione, di impugnazione dei crediti ammessi e di revocazione), il curatore non deve essere autorizzato dal giudice delegato (a seconda dei casi, all’esercizio della domanda di impugnazione o alla costituzione nel giudizio instaurato da una parte privata). 
2 . I termini per la proposizione delle impugnazioni ordinarie. La sospensione feriale dei termini
L’opposizione e l’impugnazione – che pacificamente costituiscono mezzi di impugnazione ordinari – devono essere proposte nel termine perentorio di 30 giorni dalla comunicazione del curatore ai ricorrenti della dichiarazione di esecutività dello stato passivo di cui all’art. 205[12], mentre la revocazione, la quale è un mezzo di impugnazione straordinario, si propone decorsi i termini per l’esercizio delle impugnazioni ordinarie (art. 206, comma 5), nel termine perentorio di trenta giorni dalla scoperta del vizio (art. 207, comma 1)[13]. 
Stante il chiaro disposto della norma, la comunicazione ex art. 205 costituisce il dies a quo di decorrenza del termine per l’esercizio in via principale dell’impugnazione dei crediti ammessi (art. 206, comma 3) anche da parte del curatore, sebbene egli non sia il destinatario della comunicazione[14]. 
Il Codice, come già la legge fallimentare, non prevede un termine lungo per l’esercizio delle impugnazioni ordinarie, il cui decorso sia indipendente dalla comunicazione del curatore di cui all’art. 205. Tuttavia, ineludibili esigenze di certezza giuridica giustificano l’applicazione in via analogica l’art. 327 c.p.c.: in caso di omessa o invalida comunicazione del decreto di esecutività dello stato passivo, dal suo deposito in cancelleria (art. 204, comma 4) decorre il termine di impugnazione di sei mesi, spirato il quale il decreto diviene in ogni caso definitivo e produce gli effetti dell’art. 204, comma 5[15]. 
Le impugnazioni si propongono con ricorso (art. 207, comma 1); pertanto, ai fini del rispetto del termine perentorio, rileva il deposito dell’atto introduttivo (con modalità telematiche) nella cancelleria del tribunale[16]. 
In conformità alle regole generali, il tribunale deve verificare d’ufficio la tempestività della impugnazione e rilevare l’eventuale violazione del termine di decadenza, conseguentemente definendo in rito il giudizio di gravame con una pronuncia di inammissibilità[17]. 
L’onere di provare la tempestività dell’impugnazione incombe sul ricorrente, il quale a tale fine deve produrre in giudizio (come vedremo, non necessariamente con l’atto introduttivo) la comunicazione ricevuta ai sensi dell’art. 205[18]. Tuttavia, nel caso in cui egli affermi di non avere ricevuto la comunicazione e che per tale ragione si applica il termine lungo, dovrà essere il curatore a dimostrare che la comunicazione è stata ritualmente trasmessa all’interessato (all’indirizzo indicato all’art. 201, comma 3, lett. e), oppure ai sensi dell’art. 10, comma 3, a cui rinvia l’art. 201, comma 4). 
Ai sensi del comma 16, le impugnazioni dello stato passivo (opposizione, impugnazione e revocazione) sono soggette alla sospensione feriale dei termini di cui all'articolo 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742. La sospensione opera sia per i termini infraprocedimentali, sia per il termine di proposizione delle impugnazioni. 
Diversamente da quanto sostenuto da parte della dottrina, a nostro avviso la sospensione dei termini si applica sempre, indipendentemente dalla tipologia del diritto controverso oggetto del giudizio di impugnazione; quindi, pensando alla fattispecie più ricorrente, anche se si tratti di crediti di lavoro, ai quali, in via ordinaria, non si applica la sospensione feriale dei termini di cui all’art. 1 L. n. 742/1962, ai sensi dell’art. 3 della medesima legge[19]. 
Infatti, la disposizione stabilisce che le impugnazioni dell’art. 206 sono soggette alla sospensione feriale dei termini, richiamando, espressamente e specificamente, solo l’art. 1 della L. n. 742/1969, che, appunto, prevede la sospensione feriale dei termini; per contro, non richiama l’art. 3 della medesima legge, ossia la disposizione che sancisce le ipotesi in cui, “in materia civile, non si applica l’art. 1”. Se ne trae conferma dalla Relazione al Codice, ove si legge che “in attuazione del principio generale di delega di cui all’articolo 2, comma 1, lettera m), della legge n. 155 del 2017 (superamento dei contrasti interpretativi) è stabilito che i procedimenti di impugnazione sono soggetti alla sospensione feriale dei termini di cui all’articolo 1 della legge n. 742 del 1969”. Il riferimento è alla giurisprudenza della Cassazione formatasi nel vigore della legge fallimentare, secondo cui la sospensione feriale dei termini non si applicava in caso di controversie su crediti di lavoro, “le quali, pur dovendo essere trattate con il rito fallimentare, sono assoggettate al regime previsto dall'art. 3” l. 742/1969”[20]. Sicché, avere previso, in generale e senza eccezione – richiamando il solo art. 1 e non l’art. 3 – che la sospensione feriale si applica, non può avere altro significato che quello di sancire che la sospensione opera sempre, e quindi anche se oggetto del giudizio sia un diritto, che, se dedotto in un ordinario processo, giustificherebbe la disapplicazione dell’art. 1 L. n. 742/1969. 
3 . Giudice competente e composizione dell’organo giudicante
Come si è anticipato, giudice competente per le impugnazioni è il tribunale che ha aperto la liquidazione giudiziale. L’eventuale proposizione dell’impugnazione a un giudice diverso, a nostro avviso, non integra un vizio insanabile e la conseguente inammissibilità del ricorso[21]; si tratta di un ordinario vizio di incompetenza, che determina la pronuncia di un’ordinanza declinatoria, a cui, su istanza di parte, può seguire la prosecuzione del processo dinanzi al giudice dichiarato incompetente ai sensi dell’art. 50 c.p.c., con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della originaria domanda[22]. 
Il tribunale decide la causa in composizione collegiale (come prevede l’art. 50 bis, comma 1, n. 2), c.p.c. e presuppongono i commi 13 e 14 dell’art. 207); non è invece necessariamente collegiale la trattazione della causa, la quale può essere delegata al giudice relatore (comma 3) [23]. 
Del collegio – doverosamente, trattandosi di mezzi di impugnazione in senso proprio [24]– non può fare parte il giudice delegato della procedura, in quanto egli ha emesso la decisione impugnata (comma 12)[25].
4 . La fase introduttiva del processo: il contenuto del ricorso
L’art. 207 prevede un procedimento uniforme per tutti i mezzi di impugnazione; in realtà, le regole processuali devono subire alcuni necessari adattamenti in ragione delle specificità di ciascuno, in particolare per tenere conto delle differenze che sussistono tra l’opposizione e l’impugnazione dei crediti ammessi (che sono mezzi di gravame) e la revocazione (che si configura come impugnazione in senso stretto)[26]. 
L’atto introduttivo ha la forma del ricorso, di cui l’art. 207, comma 2, disciplina i requisiti di forma–contenuto. Il Codice, come la legge fallimentare, non indica se e quali requisiti siano previsti a pena di nullità o di inammissibilità dell’atto introduttivo (a differenza del codice di procedura civile, che in genere indica i requisiti di forma–contenuto previsti a pena di inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione: artt. 342, 366, 398 c.p.c.); pertanto, occorre di volta in volta verificare, in base ai principi generali, se la carenza degli stessi abbia ripercussioni sulla validità del ricorso e, in caso affermativo, quale sia il regime giuridico applicabile.  
Il ricorso deve contenere l’indicazione del tribunale, del giudice delegato e della procedura di liquidazione giudiziale (comma 2, lett. a)), nonché le generalità dell’impugnante e l’elezione di domicilio nel comune ove ha sede il tribunale che ha aperto la liquidazione giudiziale (comma 2, lett. b); ovviamente, nonostante la disposizione non lo preveda, l’elezione di domicilio può anche essere digitale[27]. 
La disposizione deve essere in parte qua integrata facendo ricorso alla norma generale di cui all’art. 125 c.p.c. 
Innanzitutto, nel ricorso devono essere indicati anche il difensore e la procura alle liti, dato che, come abbiamo detto, nei giudizi di impugnazione vi è l’obbligo di difesa tecnica. 
Inoltre, il ricorso deve contenere l’indicazione di tutte le parti del giudizio e, quindi, oltre che dell’impugnante, anche del soggetto o dei soggetti nei cui confronti essa è proposta, con i consueti elementi necessari per la loro identificazione. 
Se sono omessi o assolutamente incerti gli elementi necessari per l’individuazione del tribunale e delle parti (in senso processuale), il ricorso è nullo (arg. ex artt. 156, comma 2, e 164, comma 1, c.p.c.); il vizio è sanabile, con efficacia ex tunc, mediante la costituzione del convenuto o la rinnovazione dell’atto nel termine perentorio assegnato dal giudice (in applicazione analogica dell’art. 164, comma 2 e 3, c.p.c.). 
Il comma 2, lett. c), stabilisce che il ricorso debba contenere i fatti e gli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione e le relative conclusioni. 
Venendo in rilievo un mezzo di gravame, tale indicazione è comprensiva sia degli elementi necessari per l’individuazione del diritto e, quindi, degli elementi previsti a tal fine dall’art. 201, comma 3 (in modo analogo a quanto stabilisce l’art. 342 c.p.c., nella parte in cui dispone che la citazione in appello deve contenere le indicazioni di cui all’art. 163 c.p.c.), sia – per le ragioni esposte in altra sede[28]- dei motivi di impugnazione (sempre in modo analogo a quanto prevede l’art. 342 c.p.c., nella parte in cui stabilisce che l’appello deve essere motivato). 
Quest’ultimo è il profilo caratteristico del ricorso per impugnazione o opposizione, che si distingue rispetto all’atto introduttivo del procedimento di verifica, sia strutturalmente (in quanto non contiene una domanda giudiziale, posto che la litispendenza è sempre quella dalla originaria domanda contenuta nell’atto introduttivo), sia per i fini che si propone. Con l’impugnazione si chiede al giudice superiore di controllare la decisione emessa e di riformarla; costituisce pertanto contenuto caratteristico dell’atto introduttivo del giudizio, ancorché si tratti di un gravame a critica libera, l’esposizione dei motivi di impugnazione, la cui funzione fondamentale è individuare la statuizione contestata sottoposta al riesame del giudice superiore e indicare le ragioni di critica ad essa. In breve, occorre indicare cosa si contesta e perché, come prevede l’art. 342 c.p.c., nella parte in cui stabilisce che l’appello deve essere motivato, con una disposizione che recepisce la regola elaborata dal diritto vivente ed è espressione del principio generale richiamato. 
Pertanto, il ricorso introduttivo dell’opposizione o dell’impugnazione deve contenere i motivi, con i quali l’impugnante individua l’oggetto del giudizio di gravame e le questioni che devolve all’esame del tribunale, ossia il capo di decisione impugnato (parte volitiva)[29]. Inoltre, i motivi devono contenere le censure alla decisione del giudice delegato, da articolare con un grado sufficiente di specificità (parte argomentativa)[30]; esse consistono nella deduzione dell’errore nella ricostruzione del fatto oppure della violazione di legge (da intendersi comprensiva della falsa applicazione), con l’esposizione delle ragioni di critica alla decisione impugnata nella soluzione della quaestio facti o della quaestio iuris
Se si condivide l’impostazione sostenuta circa la funzione dei motivi di gravame nelle impugnazioni dello stato passivo, il ricorso privo dei motivi specifici è nullo, perché manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo (art. 156, comma 2, c.p.c.)[31]. Il vizio è (astrattamente) sanabile, ma la sanatoria non può operare retroattivamente (trattandosi di un vizio attinente al contenuto della domanda: arg. ex art. 164, comma 4 e 5, c.p.c.); conseguentemente, la sanatoria non potrebbe fare venire meno la decadenza ricollegata alla scadenza del termine per proporre l’impugnazione, considerato che i motivi vanno formulati nel rispetto di tale termine. 
Nei giudizi di opposizione e di impugnazione sono ammesse nuove attività difensive: proposizione di eccezioni, in senso stretto e in senso lato (comprensive della facoltà di allegazione per la prima volta del fatto materiale che integra l’eccezione); allegazione di nuovi fatti costitutivi (a condizione che resti invariato il diritto fatto valere in giudizio) e  di fatti secondari; proposizione di controeccezioni; contestazione dei fatti non controversi nel procedimento di verifica; formulazione di nuove richieste istruttorie e produzione di nuovi documenti[32].  
Come in altra sede più ampiamente esposto, non sono invece ammesse nuove domande[33]: l’oggetto del giudizio di impugnazione è costituito dal diritto fatto valere dalla parte con la domanda proposta nella fase di verifica dinanzi al giudice delegato e pertanto – in ossequio al principio di tipicità del processo di verifica (art. 151, comma 2, in combinato disposto con gli artt. 201, 203 e 204) - dal diritto di credito oggetto della domanda di insinuazione al passivo (o di partecipazione alla distribuzione del ricavato, se la domanda sia proposta dal creditore di un terzo, con diritto di ipoteca su un bene del debitore sottoposto a liquidazione giudiziale) o dal diritto reale o personale oggetto della domanda di rivendica o restituzione del bene acquisito all’attivo[34]. 
Pertanto, il creditore pecuniario non può chiedere l’insinuazione per una pretesa differente da quella azionata, né il riconoscimento di una causa di prelazione prima non fatta valere o della prededuzione originariamente non richiesta. 
Il curatore, come nel procedimento di verifica, nel giudizio di impugnazione non può proporre domande riconvenzionali[35]. Ciò, peraltro, non limita in alcun modo il suo diritto di difesa, in quanto eventuali contro-diritti incompatibili con il diritto fatto valere dalla parte privata, che non possono essere esercitati in via di azione, possono nondimeno essere dedotti in via di eccezione (c.d. riconvenzionale), ed essi sono oggetto (non di accertamento a ogni effetto, bensì) di mera cognizione incidentale, ai soli fini del rigetto della domanda di ammissione al passivo o di restituzione del bene[36]. 
Può essere opportuno soffermare l’attenzione sulla posizione del curatore, con particolare riguardo alle  eccezioni di merito che egli può sollevare (anche) nel giudizio di gravame dinanzi al tribunale. Il curatore può dedurre i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi, costituenti oggetto di eccezioni sia in senso stretto sia in senso lato, concernenti sia la sussistenza, il quantum e il rango delle pretese creditorie e, quindi, la validità e l’efficacia del titolo del diritto e della causa di prelazione, sia l’opponibilità del diritto, o meglio del suo titolo, alla procedura e, di conseguenza, la possibilità che il credito sia insinuato nel passivo e sia soddisfatto in sede di ripartizione dell’attivo (o, se si tratta di un diritto su un bene, che la pretesa del terzo sia riconosciuta esistente, prevalente e opponibile alla massa e il  bene sia sottratto alla liquidazione concorsuale). 
Innanzitutto, il curatore può rilevare le eccezioni che gli spettano “in sostituzione” dell’imprenditore: eventuali invalidità o difetti di funzionamento del contratto che costituisce il titolo del diritto o della prelazione, negli stessi termini in cui tali eccezioni avrebbero potuto essere rilevate dal debitore (nullità, annullamento, rescissione, risoluzione del contratto); parimenti, può eccepire tutti gli altri fatti estintivi, impeditivi e modificativi del diritto (quali la prescrizione, l’inadempimento, la compensazione) o della causa di prelazione.  
Inoltre, il curatore, assumendo il ruolo di terzo rispetto al debitore, può fare valere le eccezioni che spetterebbero ai creditori: può rilevare l’eccezione di revocabilità (ordinaria) di atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori, la simulazione di contratti stipulati dal debitore, l’inopponibilità alla massa di scritture private non munite di data certa anteriore alla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, ex art. 2704 c.c.[37] 
Infine, il curatore può rilevare le eccezioni che sono a lui attribuite in via originaria in ragione della pendenza della procedura di liquidazione giudiziale: segnatamente, può eccepire l’inefficacia e la revocabilità degli atti costituenti il titolo del diritto, ai sensi degli articoli 163, 164, 166, 167, 168, 169 (c.d. revocatoria in via breve), anche se siano decorsi i termini di decadenza stabiliti dall’art. 170  per l’esercizio dell’azione[38]. 
Dobbiamo adesso illustrare i profili dinamici relativi al compimento delle attività difensive delle parti, con particolare riferimento ai termini per il loro esercizio da parte del ricorrente. 
L’art. 207, comma 2, lett. d), prevede che, a pena di decadenza, con il ricorso l’attore deve proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, ossia le nuove eccezioni in senso stretto, non sollevate nella fase di verifica dinanzi al giudice delegato[39]. 
La proposizione con il ricorso di nuove eccezioni di merito in senso stretto, mediante le quali sono dedotti fatti impeditivi, modificativi ed estintivi del diritto oggetto del processo, assume rilievo, ovviamente, nel giudizio di impugnazione proposto dal curatore o da una parte privata contro il provvedimento di accoglimento della domanda di un creditore o di un terzo titolare di un diritto su un bene.  In modo simmetrico e speculare, in caso di opposizione avverso il rigetto della domanda, al ricorrente è consentita – per il principio di parità delle parti – l’allegazione di nuovi fatti costitutivi del diritto, da effettuare sempre a pena di decadenza nell’atto introduttivo; l’allegazione è ammessa, a condizione che essa non determini il mutamento del diritto dedotto in giudizio con la originaria domanda proposta nella fase di verifica[40]. 
Alla medesima lett. d), si prevede inoltre che l’attore, nel ricorso, sempre a pena di decadenza, debba indicare specificamente i mezzi di prova e i documenti prodotti. La disposizione si applica sia alle nuove prove, ossia alle richieste istruttorie non formulate e ai documenti non prodotti nel procedimento di verifica, sia alla riproposizione delle istanze istruttorie e dei documenti prodotti nella fase dinanzi al giudice delegato[41]. L’onere della produzione riguarda i nuovi documenti; per quanto riguarda invece i documenti già prodotti nel procedimento di verifica, ricordiamo che la giurisprudenza formatasi nel vigore della legge fallimentare (di identico tenore letterale in parte qua), superando un proprio contrario orientamento, ritiene sufficiente l’indicazione dei documenti, senza che vi sia l’onere di produrli una seconda volta nel giudizio di gravame[42].  ​ 
La violazione del termine decadenziale è rilevabile anche d’ufficio[43]. 
Nel vigore del previgente art. 99 L. fall. , la Corte di cassazione ha precisato che la produzione del nuovo documento deve essere effettuata a pena di decadenza contestualmente al deposito del ricorso; con la conseguenza, che la produzione effettuata il giorno successivo al deposito del ricorso non è ammissibile, ancorché il termine per l’impugnazione non sia ancora decorso[44]. Questa precisazione  è introdotta dal legislatore del Codice al comma 7, di disciplina della memoria difensiva del resistente, ove si puntualizza che devono essere indicati specificamente i mezzi di prova e i documenti “contestualmente” prodotti.  
La legge nulla dice, invece, circa la contestazione dei fatti (con riferimento, ovviamente, ai fatti allegati nel procedimento di verifica dalla controparte e in quella sede rimasti non controversi). In difetto di una espressa previsione di decadenza, ogni soluzione sconta un certo margine di incertezza e presenta alcuni inconvenienti. A nostro avviso, la natura impugnatoria del giudizio e il carattere concentrato del rito, che prevede la definizione in limine litis del thema decidendum e del thema probandum della causa (come emerge dalla mancata attribuzione alle parti dello ius poenitendi nel corso del processo e, soprattutto, dalla comminatoria sin dagli atti introduttivi della preclusione anticipata e contestuale per i poteri assertivi e probatori delle parti), offrono indicazioni per ritenere che anche questa attività difensiva si precluda nell’atto introduttivo[45]. Da un lato, la contestazione determina per la controparte l’onere di provare il fatto e, da un altro lato, il convenuto deve, a pena di decadenza, formulare le richieste istruttorie e produrre i documenti nella memoria difensiva (art. 207, comma 7); appare pertanto maggiormente coerente con questo sistema di preclusioni e con la funzione affidata agli atti introduttivi  – determinare i temi controversi e di indicare le relative prove – ritenere che l’attore debba, a pena di preclusione, effettuare la contestazione dei fatti non controversi nel procedimento di verifica nel ricorso introduttivo. Ovviamente, resta impregiudicata la facoltà di contestare nel successivo corso del processo i fatti ammissibilmente allegati per la prima volta dal convenuto con la memoria difensiva nel giudizio di gravame[46]. 
Infine, manca una regola espressa anche per la proposizione delle nuove eccezioni in senso lato; rispetto ad esse, poiché il tribunale ha il potere (–dovere) di rilevare d’ufficio il fatto ritualmente acquisito in causa (e tale potere è esercitabile per tutto il corso del processo), il problema che soprattutto si pone è quello dell’eventuale termine di decadenza entro cui la parte deve allegare il fatto su cui l’eccezione si fonda, se non già introdotto in causa nel procedimento di verifica dinanzi al giudice delegato. La soluzione a nostro avviso più coerente con la natura del giudizio e le caratteristiche del rito prevede che la allegazione debba essere effettuata dall’attore a pena di preclusione nell’atto introduttivo, per ragioni analoghe a quelle sopra esposte (in specie, l’assenza di una previsione che espressamente autorizzi la parte a proporre nuove eccezioni in senso lato in una certa fase del processo e la preclusione sin dall’atto introduttivo del potere istruttorio, con cui appare scarsamente compatibile la facoltà di allegare successivamente un fatto, per il quale può porsi l’esigenza di fornire la prova)[47]. Siamo tuttavia consapevoli che, in senso contrario, depone la regola generale per cui i termini perentori devono essere espressamente previsti dalla legge (art. 152 c.p.c.) e, soprattutto, la disposizione che sancisce la decadenza nell’atto introduttivo soltanto per le eccezioni in senso stretto, da cui si può desumere a contrario che la preclusione non opera per le eccezioni in senso lato[48]; ove si acceda a questa interpretazione, ci pare peraltro ragionevole ritenere che la allegazione del fatto a fondamento della eccezione non possa avvenire oltre la prima udienza di comparizione. 
Con il ricorso, l’attore deve produrre la comunicazione dell’art. 205 (ai fini della prova della tempestività dell’impugnazione, come abbiamo visto) e copia autentica del provvedimento del giudice delegato, ossia lo stato passivo formato e dichiarato esecutivo dal giudice delegato ai sensi dell’art. 204, comma 4 (in quanto è necessario che il tribunale, quale giudice dell’impugnazione, disponga del provvedimento sottoposto al suo esame)[49]. 
La legge, mancando di indicare tali adempimenti, non disciplina neppure le conseguenze della loro omissione; ne deriva che la mancata produzione con l’atto introduttivo della comunicazione o dello stato passivo dichiarato esecutivo (rilevabile anche d’ufficio dal tribunale) costituisce un vizio processuale sanabile con efficacia retroattiva, e pertanto può essere integrata dall’attore nel corso del processo (esigenza che, ovviamente, non si pone, qualora tali atti siano comunque acquisiti in giudizio per effetto della loro produzione ad opera del convenuto)[50]. 
In caso di revocazione, il contenuto del ricorso deve essere adattato ai caratteri propri di un mezzo di impugnazione a critica vincolata e di natura straordinaria. Pertanto, nel ricorso l’attore deve indicare il motivo di revocazione, nonché le prove relative al vizio ed al momento in cui ne è venuto a conoscenza (come prevede l’art. 398 c.p.c. per la revocazione delle sentenze, peraltro sanzionando la omessa indicazione di tali elementi con l’inammissibilità dell’atto introduttivo). Se manca la deduzione del motivo, il ricorso è nullo, per inidoneità al raggiungimento dello scopo (art. 156, comma 2, c.p.c.); attenendo al contenuto dell’atto introduttivo, il vizio non è sanabile retroattivamente e pertanto resta ferma la decadenza maturata relativamente al termine perentorio per la proposizione della revocazione. Quanto alla mancata indicazione delle prove relative al vizio e al momento di conoscenza dello stesso, anch’essa costituisce causa di nullità del ricorso ex art. 156, comma 2, c.p.c.; tuttavia, a differenza del caso precedente, appare ragionevole ritenere che il vizio sia sanabile retroattivamente, mediante l’integrazione del ricorso. 
Infine, nella prospettiva dell’eventuale giudizio rescissorio, in cui il giudice effettua una nuova decisione nel merito della domanda, il ricorso per revocazione deve contenere gli elementi necessari per l’individuazione del diritto e, se il provvedimento impugnato ha contenuto di merito, per conseguire la riforma della statuizione resa in ordine ad esso.
5 . Segue. Le misure cautelari nel giudizio di opposizione (avverso il provvedimento di rigetto della domanda di insinuazione al passivo e delle domande di rivendica o restituzione di beni) e gli effetti ex lege del ricorso per impugnazione e revocazione dei crediti ammessi
Il ricorso per opposizione del creditore pecuniario può avere, quale contenuto eventuale, la richiesta di misure cautelari. 
L’art. 207 non lo prevede, ma lo si desume dall’art. 227, comma 1, lett. b), ai sensi del quale, nelle ripartizioni parziali, devono essere trattenute e depositate, nei modi stabiliti dal giudice delegato, le quote assegnate (tra gli altri) “b) ai creditori opponenti a favore dei quali sono state disposte misure cautelari”; inoltre, l’art. 243, comma 1, prima parte, stabilisce che possano votare nel concordato i creditori indicati nello stato passivo, “inclusi i creditori ammessi provvisoriamente e con riserva”[51]. 
Il Codice, come già l’art. 99 L. fall.  nella formulazione risultante dalle modifiche apportate dal decreto correttivo del 2007 (in relazione al disposto degli artt. 113 e 127, comma 1, ult. periodo, L. fall. , di cui i citati artt. 227, comma 1, lett. b) e 243, comma 1, sono in parte qua trasposizione pressoché immutata), non disciplinando la misura cautelare, non ne indica neppure i presupposti, il contenuto e le regole procedimentali, che, oggi come ieri, debbono essere ricostruiti in via interpretativa, facendo ricorso ai principi generali[52]. 
L’indefettibile esigenza (art. 24 Cost.) che la tutela dei diritti soggettivi sia effettiva impone di accordare al creditore, che abbia proposto l’opposizione avverso il provvedimento di rigetto (integrale o parziale) della domanda di insinuazione al passivo, un rimedio di natura in senso lato cautelare, funzionale ad assicurare, almeno parzialmente, gli effetti della decisione di accoglimento del gravame, quale può essere – lo ricaviamo dalle disposizioni sopra richiamate e dalla evoluzione normativa che le ha interessate – l’ammissione provvisoria al passivo, con diritto all’accantonamento della quota e potere di voto nel concordato[53]. Si tratta di un provvedimento di carattere assicurativo (o di regolamentazione provvisoria), non integralmente anticipatorio del provvedimento di merito e dei suoi effetti, il cui contenuto è coerente con quanto dispone l’art. 227, comma 1, lett. c), ai sensi del quale, a seguito dell’accoglimento della opposizione, e prima del passaggio in giudicato del decreto[54], il creditore ha ex lege diritto all’accantonamento della quota a lui assegnata​. 
Negare che al creditore opponente spetti un siffatto rimedio di tutela, significa tollerare che l’opponente, nel tempo occorrente per la decisione della causa, possa subire dalle ripartizioni (parziali e finale) dell’attivo (e financo dalla chiusura della procedura, che non è impedita dalla pendenza dell’opposizione) un pregiudizio, che, tuttavia, non è giustificabile in caso di esito vittorioso del giudizio di opposizione, primo e unico processo in cui il diritto al concorso è accertato con le garanzie della cognizione piena ed esauriente. 
Il riconoscimento di una forma di tutela interinale dell’opponente consente anche di attuare il principio della parità delle parti nel processo. Infatti, nello speculare caso di domanda di impugnazione o di revocazione proposta contro un creditore ammesso al passivo, a tutela delle ragioni della massa, l’art. 227, comma 1, lett. d) prevede – questa volta oltretutto quale effetto automatico ed ex lege della domanda – che sia disposto l’accantonamento della quota spettante al creditore contestato; questo effetto, in assenza di diversa disposizione e come indirettamente si ricava dall’art. 232, comma 2, permane sino alla definizione del giudizio con pronuncia passata in giudicato. 
Chiamata ad affrontare il problema che stiamo esaminando, la giurisprudenza ha ritenuto applicabile l’art. 700 c.p.c., ossia la disposizione che prevede una misura cautelare residuale e atipica, la quale assolve nel nostro ordinamento la fondamentale funzione di attuare l’art. 24 Cost., in relazione ai pericula che il diritto soggettivo può subire a causa del tempo occorrente per ottenere la tutela di merito, i quali non trovino rimedio in misure cautelari di carattere tipico[55]. 
Nella fattispecie in esame, il fumus boni iuris è costituito dalla valutazione inerente alla fondatezza dei motivi di opposizione articolati dall’impugnante, mentre il periculum in mora, ossia il pregiudizio che potrebbe subire il creditore non ammesso nelle more del giudizio di opposizione, è costituito, come abbiamo visto, dalla distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dei beni[56]; in ordine al contenuto, l’art. 700 c.p.c., consentendo al giudice di adottare provvedimenti di contenuto atipico idonei ad assicurare gli effetti della decisione di merito, permette di adottare una misura cautelare di ammissione provvisoria, con gli effetti di cui si è sopra detto. Infine, in ordine alle regole processuali applicabili per la proposizione, la trattazione e la decisione dell’istanza, l’applicazione dell’art. 700 c.p.c. consente di fare riferimento alle disposizioni del procedimento cautelare uniforme (artt. 669 bis ss. c.p.c.). 
Nel caso di opposizione proposta avverso il decreto di rigetto della domanda di rivendica o di restituzione di un bene, nel tempo occorrente per la decisione dell’impugnazione il terzo potrebbe subire un pregiudizio a causa della liquidazione del bene[57]; si tratta del medesimo pregiudizio che potrebbe verificarsi nelle more del procedimento di verifica dinanzi al giudice delegato, e a tutela del quale è previsto che, con la domanda di rivendica o di restituzione, egli può chiedere la sospensione della liquidazione del bene oggetto della domanda (art. 201, comma 7, corrispondente all’art. 93, comma 7, L. fall. , come risultante dalla riforma del 2006)[58]. 
A differenza di quanto abbiamo constatato in caso di opposizione relativamente a un credito pecuniario, nel Codice non vi è, come non vi era nella legge fallimentare, alcuna indicazione circa la possibilità per il terzo pretendente opponente di ottenere una misura cautelare a tutela del proprio diritto. Ciò non toglie, tuttavia, per considerazioni analoghe a quelle sopra esposte, che la garanzia costituzionale del diritto di azione imponga di ritenere che il terzo possa ottenere la sospensione della liquidazione del bene, in attesa della decisione nel giudizio di impugnazione della sua domanda[59]; del resto, questo bisogno di tutela trova riconoscimento nel procedimento di verifica, e non si vede perché dovrebbe valere qualcosa di diverso in pendenza del giudizio di opposizione. 
Se si ritenga che, chiuso il procedimento di verifica dinanzi al giudice delegato, non possa più operare l’art. 201, comma 7, c.p.c. e conseguentemente che la sospensione non possa essere richiesta dall’opponente ai sensi di questa disposizione né al giudice delegato[60] né al tribunale, sussistono i presupposti per l’applicazione della misura cautelare residuale e atipica di cui all’art. 700 c.p.c., la quale dovrà essere richiesta al tribunale, quale giudice dinanzi a cui pende la causa di merito (art. 669 quater, comma 1, c.p.c.). 
Per completare il discorso, resta da esaminare il caso opposto, in cui invece la domanda di rivendica o di restituzione sia stata accolta dal giudice delegato. Un soddisfacente punto di equilibrio tra le opposte e confliggenti esigenze è costituito dal ritenere, da un lato, che la res debba essere restituita al terzo solo dopo che la decisione di accoglimento sia divenuta definitiva (esaurite le impugnazioni o decorso il termine per il loro esercizio) e, da un altro lato, che, a seguito della decreto di accoglimento della domanda di rivendica o di restituzione del giudice delegato, non sia possibile procedere alla liquidazione del bene, essendo gli organi della procedura comunque tenuti al rispetto del comando giudiziale, ancorché non definitivo.
6 . Segue. L’instaurazione del contraddittorio e la memoria difensiva della parte resistente
Depositato il ricorso, il presidente, nei cinque giorni successivi (termine di carattere ordinatorio), designa il relatore, al quale può delegare la trattazione del procedimento, e fissa con decreto l'udienza di comparizione delle parti entro sessanta giorni dal deposito del ricorso (comma 3). 
Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, deve essere notificato, a cura del ricorrente, entro dieci giorni dalla comunicazione del decreto (comma 4); tra la notificazione e l’udienza devono intercorrere almeno 30 giorni (comma 5). 
Il primo termine (di dieci giorni per la notificazione del ricorso e del decreto), non essendo espressamente qualificato come perentorio, ha carattere ordinatorio (art. 152, comma 2, c.p.c.) e pertanto la sua violazione non costituisce una causa di nullità autonomamente sanzionabile[61]. Assume rilievo soltanto il rispetto del secondo termine, ossia il termine a difesa del convenuto (di trenta giorni): la violazione del primo, se non incide sul secondo, è di per sé irrilevante. 
Qualora non sia stato osservato il termine minimo a difesa, si ha un vizio inerente alla corretta instaurazione del contraddittorio, che è soggetto alle regole generali di cui all’art. 164, comma 2 e 3, c.p.c., applicabili in via analogica. Secondo l’interpretazione giurisprudenziale di questa disposizione, la nullità è rilevabile solo ad istanza di parte, nel primo atto difensivo: il convenuto ha l’onere di costituirsi in giudizio e di rilevare il vizio nel primo atto di difesa, con la conseguenza che, ove egli non si costituisca, esso si sana[62]. Per contro, nel caso in cui il convenuto si costituisca e rilevi tempestivamente la nullità, il giudice deve fissare una nuova udienza e concedere un termine perentorio per la rinnovazione della vocatio in ius nel rispetto del termine di comparizione previsto dalla legge (pertanto, il vizio è sanabile con efficacia ex tunc)[63]. 
Nelle ipotesi in cui la notificazione del ricorso e del decreto sia nulla (o sia addirittura omessa o inesistente)[64], la costituzione del convenuto sana, per convalidazione oggettiva, il vizio relativo al difetto di instaurazione del contraddittorio[65]. Se il convenuto non si costituisce, il giudice, ai sensi dell’art. 291 c.p.c., può rilevare d’ufficio il vizio ed invitare l’attore a porvi rimedio, mediante rinnovazione della notificazione entro un termine perentorio: se la notificazione è rinnovata nel rispetto del termine, il vizio è sanato con efficacia ex tunc; in caso contrario, l’impugnazione è dichiarata inammissibile. 
Ai sensi del comma 4, sono destinatari della notificazione del ricorso e del decreto il curatore e l’eventuale controinteressato; con formulazione ellittica, il legislatore indica che la notificazione deve essere effettuata ai soggetti legittimati passivi rispetto all’impugnazione proposta: in caso di opposizione o di revocazione formulata dall’istante avverso il rigetto della propria domanda, alcuratore; in caso di impugnazione o di revocazione del provvedimento di accoglimento della domanda,  al creditore o al titolare del diritto sul bene la cui domanda è stata accolta, oltre che al curatore, se l’impugnazione sia proposta da una parte privata. 
Il comma 7 prevede che le parti resistenti, cioè coloro nei cui confronti l’impugnazione è proposta, devono costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza con una memoria difensiva, contenente, a pena di decadenza, le difese indicate dalla disposizione. 
Preliminarmente, occorre precisare che le incomplete indicazioni della legge devono essere integrate con quanto prevede la disposizione generale dell’art. 125 c.p.c.: la memoria deve contenere anche l’indicazione dell’ufficio giudiziario, le generalità del resistente e delle altre parti del giudizio, l’indicazione del difensore e della procura alle liti, l’elezione di domicilio (che può anche essere digitale), nonché le conclusioni. 
Nella memoria tempestivamente depositata, il resistente (nell’opposizione, il curatore, nell’impugnazione, il creditore contestato e, se sia stata esercitata da una parte privata, anche il curatore) deve esercitare a pena di decadenza l’eventuale impugnazione incidentale, la quale è ammessa anche in via tardiva; poiché l’impugnazione incidentale è una vera e propria impugnazione, essa deve contenere i motivi di gravame, ossia le censure alla statuizione impugnata[66]. 
Sempre a pena di decadenza, nella memoria tempestivamente depositata debbono essere proposte anche le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio. 
La regola è dettata per il rilievo delle nuove eccezioni ed essa vale, a nostro avviso, anche per le eccezioni rimaste legittimamente assorbite per le quali sussiste l’onere della riproposizione ex art. 346 c.p.c.[67]. 
In modo analogo e speculare a quanto si è sopra detto analizzando il contenuto del ricorso introduttivo, la disposizione è scritta assumendo la prospettiva del giudizio di opposizione, in cui il curatore, costituendosi, può eccepire i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi del diritto dell’attore; nell’ipotesi, inversa, in cui si tratti invece di un giudizio di impugnazione, la parte resistente, la cui domanda è stata accolta,  con la memoria difensiva può effettuare l’allegazione di eventuali nuovi fatti costitutivi del diritto (ammessa nei limiti indicati in precedenza). 
In coerenza con quanto esposto, le domande legittimamente assorbite devono essere riproposte con la memoria difensiva, altrimenti si intendono rinunciate ex art. 346 c.p.c. 
La disposizione prevede inoltre che, nella memoria tempestivamente depositata, devono essere specificamente indicati – a pena di decadenza – i mezzi di prova e i documenti “contestualmente” prodotti. Per le ragioni già indicate, la previsione è applicabile sia alle nuove prove, sia alle richieste istruttorie formulate e, soprattutto, ai documenti prodotti dinanzi al giudice delegato, per i quali opera l’onere della riproposizione; con la precisazione, anch’essa già compiuta, che solo i nuovi documenti debbono essere prodotti con la memoria difensiva – e debbono esserlo contestualmente a pena di preclusione – mentre, per i documenti già prodotti nel precedente grado, è sufficiente la loro specifica indicazione al fine di ritenere adempiuto l’onere della riproposizione. 
Infine, come per il ricorso introduttivo, la legge non indica che nella memoria difensiva il resistente debba effettuare la contestazione dei fatti allegati dall’attore e proporre le eccezioni in senso lato. A questo riguardo, vale quanto abbiamo già sopra osservato: a nostro avviso, anche tali attività difensive devono essere svolte dal ricorrente nella memoria a pena di decadenza, pur con le incertezze di cui si è detto, dovute alla mancanza di un’espressa comminatoria della decadenza, a cui si aggiunge, in relazione alle eccezioni in senso lato, la previsione che stabilisce la preclusione nella memoria difensiva per le sole eccezioni in senso stretto[68].
7 . L’attuazione del principio del contraddittorio imposta dallo svolgimento dialettico del processo
Ai sensi dell’art. 207, comma 8, il tribunale adotta i provvedimenti necessari ad assicurare il contraddittorio in caso di impugnazione incidentale tardiva. 
La disposizione, costituendo espressione di un principio generale, è applicabile anche a fattispecie diverse da quella considerata, nelle quali nondimeno si pongano omologhe esigenze di assicurare il contraddittorio. 
Anche in un rito concentrato, caratterizzato da preclusioni che scattano già negli atti introduttivi, deve essere assicurata la garanzia del contraddittorio (artt. 24, comma 2 e 111, comma 2, Cost.), la cui attuazione impone che sia ammesso l’esercizio delle attività che sono conseguenza delle difese altrui. Questo principio trova oggi espressione nella fondamentale regola di cui al nuovo art. 101, comma 2, c.p.c. La disposizione, nella parte novellata dal D.Lgs. 149/2022, ha una considerevole rilevanza pratica e sistematica, in quanto chiarisce che il principio del contraddittorio non può dirsi senz’altro attuato dal rispetto delle norme processuali del rito, in quanto queste ultime possono essere insufficienti (o addirittura mancare); oppure, può avvenire che, ancorché tali regole siano previste e siano state rispettate, nel caso concreto il contraddittorio non sia stato comunque attuato. Quando ciò avvenga, opera la regola “aperta” dettata dalla disposizione, la quale consente – anzi, impone – al giudice di attuare il contraddittorio adottando a tale fine i provvedimenti opportuni[69]. 
Ne ricaviamo, ad esempio, che se, nel giudizio di opposizione, il curatore convenuto propone l’impugnazione incidentale (tardiva o tempestiva), contesta (non avendolo fatto in sede di verifica) i fatti costitutivi della pretesa, propone una nuova eccezione (in senso stretto o in senso lato), l’attore deve essere ammesso a replicare con pienezza di poteri assertivi e probatori: può allegare i fatti, rilevare le controeccezioni, effettuare la contestazione dei nuovi fatti allegati ex adverso, formulare le richieste istruttorie e le produzioni documentali che siano rese necessarie dalla nuova attività altrui e funzionali a replicare ad essa[70]. 
Ovviamente, lo stesso vale (art. 101, comma 2, seconda frase, c.p.c.), se sia il giudice a rilevare d’ufficio una questione nel corso del giudizio di impugnazione[71]. Con la precisazione, che l’operare dell’art. 101, comma 2, seconda frase, c.p.c. (e della sanzione di nullità dallo stesso prevista) va affermato con riferimento all’omessa indicazione alle parti di qualsiasi questione rilevata d’ufficio dal giudice e posta a base della decisione; e pertanto non soltanto in relazione alle questioni di fatto oppure miste di fatto e di diritto, come ritenuto dalla giurisprudenza consolidata, ma anche in caso di omessa indicazione delle questioni di puro diritto: l’esigenza per le parti di svolgere attività difensive conseguenti al rilievo officioso della questione può porsi nell’ultimo caso, non diversamente che negli altri. 
8 . L’intervento volontario di terzi
Ai sensi dell’art. 207, comma 9, “qualunque interessato” può intervenire in causa, entro il termine stabilito per la costituzione delle parti resistenti e con le stesse modalità per queste ultime previste. 
La disposizione si riferisce all’intervento volontario del terzo, ossia di colui che non ha proposto l’impugnazione e che non è parte necessaria del processo[72]. 
“Interessati”, e come tali legittimati all’intervento, sono i titolari di un diritto, azionato nel processo di verifica, il cui soddisfacimento nel concorso è in varia guisa condizionato dal riconoscimento della pretesa (pecuniaria o su un bene) di un’altra parte privata, che è oggetto del giudizio di impugnazione. Ad esempio, i creditori di somme di denaro, la cui domanda di insinuazione non sia stata rigettata in via definitiva, hanno interesse a che sia respinta la domanda di un altro concorrente (di pari grado o poziore), o di colui che si afferma titolare di un diritto su un bene; essi sono pertanto legittimati ad intervenire ai sensi della disposizione in esame nel giudizio di opposizione, per sostenere le ragioni del curatore convenuto, e, nel giudizio di impugnazione, per sostenere quelle dell’attore (curatore o altro concorrente)[73]. 
Il debitore (a meno che non ricorrano le condizioni di cui all’art. 143, comma 2) non è legittimato all’intervento, dato che egli non è parte del procedimento di verifica e la decisione emessa non è a lui opponibile al di fuori del concorso. 
A seguito dell’intervento, il terzo diviene parte del giudizio di impugnazione, ed assume una posizione assimilabile a quella di un interventore adesivo dipendente ex art. 105, comma 2, c.p.c., in quanto egli prende parte al processo per sostenere la ragioni di una parte, senza tuttavia esercitare il potere di impugnazione (che era legittimato ad esercitare e che non ha esercitato). 
Per quanto concerne i poteri processuali dell’interveniente, occorre tenere in considerazione, da un lato, che egli, come detto, non esercita l’impugnazione e, da un altro lato, che l’istituto è preordinato a consentire che, anche in sede di impugnazione, almeno in parte, possa essere riprodotta la complessità soggettiva del procedimento di verifica e sia realizzabile il “contraddittorio incrociato” tra gli interessati. 
L’oggetto del giudizio di impugnazione è definito dalle parti principali, mediante l’impugnazione principale e la eventuale impugnazione incidentale. Ne discende, ad esempio, che, nel caso di pronuncia oggettivamente cumulativa, l’impugnazione individua i capi rimessi alla decisione del tribunale e le conclusioni rassegnate nell’atto introduttivo determinano i limiti del potere decisorio del giudice rispetto alla controversia; il terzo, intervenendo in causa, non può mutare l’oggetto del giudizio ed è vincolato al petitum della domanda di gravame, in quanto non ha esercitato l’impugnazione[74]. 
Nell’ambito dell’oggetto della controversia di secondo grado, il terzo è legittimato ad esercitare gli ordinari poteri processuali, che spettano alle parti principali del giudizio: può devolvere le questioni rimaste legittimamente assorbite che non siano state riproposte dalla parte adiuvata; può contestare i fatti, esercitare nuove eccezioni, di rito e di merito, rilevabili d’ufficio o solo ad istanza di parte, formulare nuove richieste istruttorie e produrre nuovi documenti. 
Infine, il terzo interventore è vincolato agli atti dispositivi del processo compiuti dalle parti principali del giudizio e, stando alla consolidata interpretazione giurisprudenziale dell’art. 105, comma 2, c.p.c., non ha un’autonoma legittimazione ad impugnare il decreto del tribunale[75].
9 . La fase di trattazione e istruttoria
La trattazione e l’eventuale fase istruttoria del processo sono collegiali, salvo che il presidente, con il decreto di fissazione dell’udienza, non abbia delegato per tali attività il giudice relatore (comma 3). 
L’istruttoria segue le regole ordinarie proprie del rito a cognizione piena ed esauriente, in ordine ai mezzi di prova ammissibili, alle modalità della loro assunzione e alla loro efficacia, secondo quanto più ampiamente esposto al § 1, a cui si rinvia. 
Se il presidente ha delegato al relatore la trattazione del procedimento, spetta a quest’ultimo provvedere con ordinanza revocabile (con facoltà per le parti di investire della questione il collegio al momento della decisione, ex art. 178 c.p.c.) sulla ammissione dei mezzi di prova e procedere all’assunzione dei mezzi istruttori ammessi (comma 13). 
Come si è già detto, e brevemente si ripete (v. il § 1), le scansioni e i tempi della fase di trattazione non sono disciplinate dalla legge, dato che l’art. 207 si limita a stabilire che il giudice provveda all’ammissione ed all’espletamento dei mezzi istruttori (comma 11) e che la decisione sia resa entro sessanta giorni dall’udienza o dalla scadenza del termine eventualmente assegnato per il deposito di memorie (comma 13).  Pertanto, spetta al collegio o al giudice relatore delegato alla trattazione del procedimento, nell’esercizio dei poteri discrezionali di gestione e direzione del procedimento, dare i provvedimenti inerenti allo svolgimento del processo, fissando, secondo quanto necessario ed opportuno, le udienze e i termini per il compimento degli atti processuali (art. 175 c.p.c.). 
10 . Su alcuni eventi anomali del processo: a) l’estinzione per mancata comparizione delle parti; b) la sorte dell’impugnazione incidentale tardiva in caso di inammissibilità (o improcedibilità) dell’impugnazione principale; c) l’improcedibilità a seguito di revoca della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale con sentenza passata in giudicato
Il comma 10 (modificato dal decreto correttivo di cui al D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147) prevede che, in caso di mancata comparizione delle parti, si applichino gli articoli 181 e 309 c.p.c., ossia le disposizioni che nel primo grado di giudizio a rito ordinario disciplinano l’estinzione del processo, rispettivamente, in caso di mancata comparizione alla prima udienza di tutte le parti o dell’attore costituito (come è per definizione nei giudizi de quibus, che iniziano con ricorso), e nell’ipotesi in cui nessuna delle parti si presenti alle udienze successive. L’estinzione del giudizio di impugnazione rende definitivo il decreto del giudice delegato ai sensi dell’art. 338 c.p.c.[76]. 
L’espressa regolamentazione degli effetti della inattività delle parti nel giudizio di impugnazione esclude l’applicabilità della disposizione sull’improcedibilità dell’appello di cui all’art. 348 c.p.c., che sanziona talune ipotesi di inattività dell’appellante[77]. 
Il comma 10 prevede inoltre che il curatore partecipa all’udienza di comparizione, anche se non sia costituito (evenienza che può porsi soltanto nel giudizio di opposizione, oppure nei giudizi di impugnazione e revocazione instaurati da una parte privata). La partecipazione del curatore all’udienza – rispetto a cui la disposizione non sembra riservare al curatore alcuna valutazione discrezionale (stabilendosi che egli  “partecipa all’udienza di comparizione”) – ha una funzione meramente informativa delle parti e del giudice sullo stato della procedura e sulle concrete prospettive di soddisfacimento; in questo modo, il tribunale e il creditore possono giovarsi dell’apporto conoscitivo del curatore, senza tuttavia onerare quest’ultimo della formale costituzione in giudizio (con i relativi costi). Il curatore, ovviamente, non può compiere attività né esercitare poteri processuali, che presuppongano la costituzione in giudizio. 
All’impugnazione incidentale tardiva si applica, a nostro avviso, l’art. 334, comma 2, c.p.c.[78]. Pertanto, se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione incidentale tardiva perde ogni efficacia e lo stesso – come precisa oggi l’art. 334, comma 2, c.p.c. a seguito della modifica del D.Lgs. n. 149/2022 [79]– dovrebbe valere in caso di dichiarazione di improcedibilità[80]. L’impugnazione incidentale tardiva nei giudizi di impugnazione dello stato passivo presenta i caratteri di una “ordinaria” impugnazione incidentale tardiva, che sono a fondamento dell’art. 334, comma 2, c.p.c., e in ragione dei quali, pertanto, si giustifica l’applicazione ad essa della disposizione, in quanto norma generale sulle impugnazioni: da un lato, l’impugnazione incidentale tardiva, a differenza della impugnazione incidentale tempestiva, dipende dalla valida proposizione dell’impugnazione principale, perché la parte impugna in quanto ha impugnato la controparte e, da un altro lato, essa è proposta da chi non poteva proporre l’impugnazione principale, in quanto era un soccombente virtuale o aveva perso il potere di impugnare. Pertanto, è logico che l’impugnazione incidentale, dipendendo dalla valida proposizione della impugnazione principale, perda efficacia se quest’ultima sia dichiarata inammissibile, a causa di un vizio dell’atto introduttivo di carattere insanabile o in concreto non sanato.  
Infine, la revoca, con sentenza passata in giudicato, dell’apertura della liquidazione giudiziale determina l’improcedibilità delle impugnazioni dello stato passivo aventi ad oggetto crediti pecuniari[81]: venuta meno la procedura e con essa la possibilità di soddisfacimento dei diritti nel concorso, viene meno anche l’interesse del creditore per una decisione, la cui unica funzione è accertare il diritto ai fini del suo soddisfacimento nella procedura (e che per tale ragione ha effetti limitati ad essa, ex art. 204, comma 5)[82]. Lo stesso vale in caso di chiusura della procedura ex art. 233. 
Ci si può chiedere se la stessa conclusione valga anche qualora il giudizio di impugnazione abbia ad oggetto diritti sui beni; il quesito ha ragione di  porsi, se si ritenga, come noi riteniamo, che la decisione (del giudice delegato e del tribunale) riguardo a tali diritti (a differenza di quella concernente crediti pecuniari, ex art. 204, comma 5) sia idonea ad assumere autorità di cosa giudicata e, conseguentemente, sia in grado di esplicare effetti anche all’esterno della procedura dopo la sua conclusione, nel rispetto dei relativi limiti soggettivi ed oggettivi di efficacia[83]. 
Poiché l’esigenza di tutela sottesa a queste domande è data dalla apprensione all’attivo della procedura del bene e  la loro funzione precipua è la sottrazione del bene all’espropriazione concorsuale, con la chiusura della procedura anteriormente alla liquidazione del bene, di regola, viene meno l’interesse alla relativa decisione; non è tuttavia possibile escludere che, nonostante la chiusura della procedura, possa sussistere l’interesse del pretendente per l’accertamento del proprio diritto sul bene: ad esempio, al fine di ottenere una decisione efficace nei confronti dell’acquirente del bene nella vendita forzata compiuta prima della chiusura della procedura (art. 111 c.p.c.), oppure, in caso di mancata alienazione del bene, nei riguardi dell’imprenditore tornato in bonis, previa prosecuzione del giudizio nei suoi confronti.
11 . La fase decisoria e l’impugnazione del decreto del tribunale con il ricorso per cassazione (anche per revocazione e per opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, comma 2, c.p.c.?)
Conclusa la trattazione e l’eventuale istruttoria, il tribunale, in composizione necessariamente collegiale, decide l’impugnazione nel termine (meramente ordinatorio) di sessanta giorni dall’udienza o dalla scadenza del termine eventualmente assegnato alle parti per il deposito di memorie (comma 13)[84]. 
La decisione è assunta con decreto motivato, con il quale il tribunale provvede anche sulle spese, secondo le regole generali degli artt. 91 ss. c.p.c. 
Al decreto di accoglimento dell’opposizione, prima del suo passaggio in giudicato, consegue ex lege, ove non fosse già stato disposto (v. il § 4), l’accantonamento della quota spettante al creditore (art. 227, comma 1, lett. c)) . 
Il decreto è comunicato alle parti, le quali possono impugnarlo con ricorso ordinario per cassazione[85] nei successivi 30 giorni (comma 14)[86]. Anche in questo caso, resta la lacuna di non avere previsto un termine lungo, decorrente dalla pubblicazione del decreto, nel caso di mancata o invalida comunicazione, e vale pertanto quanto precedentemente osservato. 
Il Codice, come già la legge fallimentare a seguito delle riforme del 2006 e del 2007 – ma diversamente dal testo originario dell’art. 102 L. fall. [87] – non prevede che il decreto del tribunale (a differenza di quello del giudice delegato) sia impugnabile con la revocazione ex art. 206, comma 5. 
Tuttavia, considerato che il decreto del tribunale (al pari di quello del giudice delegato), ancorché  non idoneo ad assumere autorità di cosa giudicata sostanziale (quando è relativo a crediti pecuniari, a differenza del caso in cui abbia ad oggetto diritti sui beni)[88], è un provvedimento definitivo (perché non modificabile e revocabile dal giudice che lo ha emesso) e decisorio (in quanto risolve in modo vincolante ex art. 204, comma 5, la controversia sul diritto del creditore a essere soddisfatto nel concorso); osservato che i vizi revocatori non sono deducibili quali motivi di ricorso per cassazione; la garanzia del diritto di difesa delle parti e della effettività della tutela giurisdizionale inducono ad adottare una interpretazione costituzionalmente adeguata della disposizione, volta ad ammettere l’impugnabilità per revocazione anche del decreto del tribunale[89] e, se non lo si ritenga possibile, a sollecitare un intervento del legislatore o della Corte costituzionale[90]. 
Precisiamo che, a nostro avviso, l’interpretazione preferibile prevede l’estensione al decreto del tribunale del rimedio revocatorio di cui all’art. 206, comma 5, per tutti i motivi dallo stesso previsti, anziché l’estensione della disposizione generale di cui all’art. 395 c.p.c. per tutti o alcuni dei vizi da quest’ultima contemplati, non essendovi ragione di differenziare in parte qua il provvedimento del tribunale rispetto a quello del giudice delegato. 
Il Codice, come già la legge fallimentare, non consente neppure che il decreto, con cui il tribunale abbia ammesso al passivo un credito o accolto la domanda di rivendica o di restituzione di un bene, sia contestabile dai creditori concorrenti rimasti estranei al giudizio di gravame, con l’impugnazione ai sensi dell’art. 206, comma 3, o la revocazione ai sensi dell’art. 206, comma 5 (a differenza del decreto del giudice delegato di omologo contenuto), né prevede che avverso il decreto del tribunale sia esperibile l’opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, comma 2, c.p.c. Per rendersi conto della rilevanza del problema, è sufficiente considerare la seguente fattispecie, esaminata in giurisprudenza:  in un caso in cui  il tribunale, in accoglimento dell’opposizione, aveva ammesso il credito escluso dal giudice delegato, la Cassazione ha negato che il creditore concorrente, terzo rispetto al giudizio di gravame, potesse interporre l’impugnazione avverso la decisione di accoglimento, in quanto l’impugnazione del credito ammesso esperibile dai creditori concorrenti ai sensi degli artt. 98 e 99 L. fall.  (oggi, artt. 206 e 207) può avere ad oggetto solo il decreto del giudice delegato e non il decreto del tribunale, il quale è impugnabile solo dalle parti del giudizio di gravame con il ricorso per cassazione[91]. La soluzione, in base al diritto vigente, è senz’altro corretta; ciò non toglie, tuttavia, che il decreto abbia carattere decisorio e definitivo, e pertanto avverso di esso dovrebbe essere ammessa l’impugnazione dei creditori concorrenti rimasti estranei al giudizio di gravame, almeno nei casi in cui esso sia frutto di dolo o collusione delle parti del processo di impugnazione a loro danno. Del resto, sino alle riforme della legge fallimentare del 2006 e del 2007, quando le opposizioni dello stato passivo erano decise con sentenza dal tribunale, da un lato, era previsto (dall’art. 102, comma 1, L. fall. ) che “qualunque creditore” concorrente potesse proporre sino alla chiusura del fallimento la revocazione straordinaria avverso la sentenza di ammissione di un credito o di una garanzia se si scopriva (per quanto qui rileva) che essa determinata da dolo delle parti, e, da un altro lato, si ammetteva anche che avverso la sentenza fosse esperibile l’opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, comma 2, c.p.c. da parte del creditore concorrente rimasto estraneo al giudizio di gravame[92]. 
Se  si ritiene (v. sopra) che il decreto del tribunale sia impugnabile con la revocazione ex art. 206, comma 5, questa esigenza di tutela può essere soddisfatta dall’applicazione di tale rimedio, considerato che, da un lato, la revocazione è esperibile dai creditori concorrenti (a cui va riconosciuta la legittimazione ad agire nonostante non abbiano partecipato al giudizio di gravame) e, da un altro lato, nella figura del dolo revocatorio ex art. 206, comma 5, rientrano condotte che integrano il dolo e la collusione delle parti del processo a danno di un terzo. In via alternativa, se non si ritenga di accogliere questa interpretazione, occorre estendere al decreto del tribunale l’applicazione dell’opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, comma 2, c.p.c., ma a tale fine appare necessario un intervento del legislatore o della Corte costituzionale.
12 . Gli effetti del decreto del tribunale
Ai  sensi dell’art. 204, comma 5, le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei giudizi di impugnazione, limitatamente ai crediti accertati ed al diritto di partecipare al riparto (quando il debitore ha concesso ipoteca a garanzia di debiti altrui), producono effetti soltanto ai fini del concorso, al pari del decreto del giudice delegato che rende esecutivo lo stato passivo. 
Poiché l’esame di questo tema esula dall’oggetto specifico della nostra analisi, ci limitiamo ad alcune sintetiche notazioni[93].  
La decisione di merito assunta dal tribunale -  producendo «effetti soltanto ai fini del concorso» -  una volta divenuta definitiva (per decorso dei termini di impugnazione o esaurimento dei mezzi di impugnazione ordinari) assume il predicato della incontrovertibilità all’interno della procedura, con conseguente incontestabilità (per tutte le parti e per il giudice) dell’accertamento in essa contenuto circa il diritto del creditore di soddisfarsi con il ricavato dalla liquidazione (salvo il fondato esercizio dell’impugnazione straordinaria, cioè della revocazione per i motivi di cui all’art. 206, comma 5). 
Nel prosieguo della procedura, non è possibile porre in discussione l’esistenza (o l’inesistenza) del credito, la validità e l’efficacia del titolo da cui deriva, il suo importo e la sussistenza di (eventuali) cause di prelazione[94]. In particolare, il curatore e gli altri creditori concorrenti, in sede di riparto, non possono svolgere contestazioni riguardo all’esistenza e all’ammontare della pretesa per la quale il creditore è insinuato, o all’esistenza della prelazione riconosciuta con il decreto; le uniche questioni che si possono porre sono quelle relative alla graduazione dei crediti ed all’ammontare della somma distribuita[95] . D’altra parte, il creditore non può reclamare in sede di distribuzione l’ammissione per un importo maggiore o il soddisfacimento con preferenza, se la prelazione non gli è stata riconosciuta, né può proporre la domanda in via tardiva per ottenere l’ammissione in via privilegiata del credito ammesso come chirografo[96]. Il creditore la cui domanda di ammissione al passivo è stata rigetta, non può validamente riproporre la domanda per il medesimo credito in via tardiva, a ciò ostando l’efficacia negativa (ne bis in idem) del decreto.  
Solo se la domanda sia stata rigettata in rito, per difetto dei presupposti processuali o per vizio insanabile (o in concreto non sanato) del ricorso introduttivo, il creditore potrà proporre una seconda domanda (che assumerà necessariamente carattere tardivo): come puntualizza l’art. 204, comma 1, per il caso della inammissibilità (con implicito riferimento ai vizi del ricorso di cui all’art. 201, comma 4), con regola espressione di un principio generale. 
La preclusione colpisce, oltre ai fatti dedotti nel procedimento di verifica del passivo (nella fase dinanzi al giudice delegato e nel giudizio di impugnazione di fronte al tribunale), i fatti al suo interno non dedotti, ma in esso deducibili, perché a quel tempo esistenti; l’accertamento contenuto nel decreto può essere superato solo da fatti sopravvenuti, verificatisi posteriormente alla formazione della decisione[97]. 
Più complesso è il tema degli effetti del decreto al di fuori della procedura, per il quale assumono rilevanza, oltre all’art. 204, comma 4, anche gli artt. 229, comma 1, e 236, comma 4 (che corrispondono agli omologhi artt. 114, comma 1, e 120, comma 4, L. fall., come sostituiti dal D.Lgs. n. 5/2006). 
Il decreto, avendo effetti soltanto  ai fini concorso (art. 204, comma 5), all’esterno di esso non esplica autorità di cosa giudicata ai sensi dell’art. 2909 c.c. circa l’esistenza e l’ammontare del credito, nei confronti del creditore istante, degli altri creditori e del curatore, nonché nei riguardi dell’imprenditore. 
Al fine di assicurare la protezione del risultato del processo esecutivo, l’art. 229, comma 1, prevede una preclusione rispetto all’esercizio delle azioni di ripetizione di quanto percepito dai creditori all’interno del concorso in esecuzione dei piani di riparto; in questo modo, si assicura la stabilità degli effetti della distribuzione del ricavato, rendendo incontestabile l’attribuzione patrimoniale effettuata a favore dei creditori in sede di riparto (salvo il fondato esercizio della revocazione ex art. 206, comma 5, avverso il decreto)[98].La preclusione opera nei confronti di tutti i soggetti astrattamente legittimati all’azione di ripetizione: curatore e imprenditore tornato in bonis
L’art. 236, di disciplina degli effetti della chiusura della procedura, dopo avere stabilito (al comma 3) che i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi (salva l’esdebitazione), prevede (al comma 4) che il decreto con cui il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta ai fini della concessione del decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 634[99].Quest’ultima disposizione conferma che la decisione del giudice delegato (come quella del tribunale) nell’accertamento del passivo non esplica efficacia vincolante (e non costituisce neppure prova in senso proprio) circa l’esistenza e l’ammontare del credito insinuato in giudizi nei confronti dell’imprenditore tornato in bonis (ad esempio, e salva l’esdebitazione, di adempimento della parte di credito rimasta insoddisfatta, di pagamento degli interessi sospesi ai fini del concorso ex art. 154, di opposizione a decreto ingiuntivo proseguito dal debitore in proprio)[100]. 
Può aggiungersi che il decreto – avendo effetti ai soli fini del concorso – neppure produce effetti sfavorevoli al creditore: quest’ultimo può domandare all’imprenditore l’adempimento del credito escluso dal concorso perché ritenuto inesistente, o il pagamento di una somma maggiore rispetto a quella insinuata al passivo. 
Tuttavia, sarebbe affrettato dedurre che l’efficacia del decreto sia circoscritta all’interno della procedura
Il decreto – che, ai sensi dell’art. 204, comma 5, non ha effetti solo all’interno del concorso, bensì soltanto ai fini del concorso – preclude le azioni del curatore in sede ordinaria nei confronti del creditore ammesso al passivo di carattere incompatibile  con il diritto e la prelazione accertati in sede di accertamento al passivo: sono precluse le azioni il cui accoglimento pone in discussione (negandolo o anche solo diminuendolo) il risultato acquisito dal creditore nel giudizio di accertamento del passivo (ad esempio, azioni di nullità o revocatoria del contratto che costituisce titolo del credito o della prelazione), ossia il diritto del creditore di partecipare al riparto per il proprio credito, per l’importo e con il grado accertato in sede di verifica del passivo[101].  L’esercizio di queste azioni, ancorché di carattere incompatibile, è invece ammesso, nella misura in cui non ponga in discussione il diritto del creditore di partecipare al riparto per l’importo accertato. Ad esempio, se il creditore si è insinuato al passivo per il residuo del credito insoddisfatto, avendo ricevuto prima dell’apertura della liquidazione giudiziale un pagamento parziale, l’ammissione per tale importo non impedisce al curatore di domandare la revocatoria dei pagamenti parziali già eseguiti, né di esercitare le azioni di impugnazione o di inefficacia del titolo su cui si fonda la pretesa del creditore, al fine di ottenere la restituzione delle somme già corrisposte dall’imprenditore in bonis, in quanto il curatore «incide non sulla parte della pretesa sulla quale si è deciso in sede di verifica, ma sull’altra parte, che non ha formato oggetto della domanda di ammissione»[102]. 
Se in sede di accertamento del passivo sia stato fondatamente eccepito in compensazione (dal creditore stessi o dal curatore) un controcredito dell’imprenditore, il curatore non può fare valere il controcredito in sede ordinaria, se non limitatamente all’eventuale importo eccedente a quello “speso” in compensazione; il curatore non può neppure contestare l’esistenza, la validità e l’opponibilità alla massa del titolo da cui deriva il controcredito opposto in compensazione, se, in questo modo, sia posto in discussione il valore del controcredito quale fatto estintivo (di carattere satisfattivo) della pretesa insinuata, e l’accoglimento di tale contestazione andrebbe ad incidere sul risultato assicurato al creditore dal provvedimento del giudice delegato[103]. 
L’art. 204, comma 5, disciplina gli effetti del decreto limitatamente ai crediti pecuniari, mentre nulla dice circa gli effetti del decreto con cui sono decise le domande di rivendica e di restituzione, aventi a oggetto diritti reali o personali di terzi su beni mobili o immobili acquisiti all’attivo della procedura. 
Poiché il criterio di delega – il quale indicava di adottare misure volte a «assicurare stabilità alle decisioni sui diritti reali immobiliari» (art. 7, comma 8, lett. d), l. 155/2017) -  rimetteva al delegato il compito di introdurre per tali decisioni un regime diverso da quello della efficacia limitata al concorso (come invece stabiliva, con disposizione di portata generale, l’art. 96, comma 5, L. fall.), riteniamo che il decreto con cui sono decise le domande di rivendica o restituzione di beni assuma autorità di cosa giudicata ai sensi dell’art. 2909 c.c.[104]. Questa soluzione consente di soddisfare le ineludibili esigenze di funzionalità della procedura sottese al criterio di delega, ossia di porre rimedio agli inconvenienti a cui dava adito la decisione con effetti limitati al concorso, in specie in caso di rigetto della domanda di rivendica o di restituzione[105]. Nulla osta a riconoscere tali effetti al decreto, in quanto, da un lato, esso è emesso all’esito di un giudizio contenzioso, in cui è previsto almeno un grado a cognizione pinea ed esauriente (il giudizio di impugnazione dinanzi al tribunale) e, da un altro lato, l’autorità di cosa giudicata del decreto si esplica al di fuori della procedura nell’ambito segnato dai suoi limiti oggettivi e soggettivi di efficacia, e pertanto nel rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio[106].
13 . La correzione degli errori materiali del decreto del tribunale
L’art. 206, comma 6, disciplina la correzione degli errori materiali del decreto del giudice delegato. 
Con disposizione omologa – non prevista dalla legge fallimentare ed innovativamente inserita dal Codice[107] – il comma 15 dell’art. 207 disciplina la correzione del decreto del tribunale inficiato da errori materiali, di cui costituiscono una species le omissioni e gli errori di calcolo. 
Similmente a quanto stabilito dall’art. 288, comma 1, c.p.c. (e a differenza di quanto si è constato in relazione alla correzione del decreto del giudice delegato), la correzione può essere fatta senza necessità di instaurazione del contraddittorio “se tutte le parti concordano nel chiedere la stessa correzione”: per “parti” ai fini di questa disposizione si intendono le parti del giudizio di impugnazione. 
Se, invece, l’istanza di correzione proviene da una delle parti, il presidente del collegio, con decreto da notificarsi insieme con il ricorso, fissa l’udienza nella quale le parti debbono comparire davanti al giudice designato come relatore; sull’istanza provvede il collegio con decreto, che dovrà poi essere annotato sull’originale del provvedimento.  
Quanto all’impugnazione, in difetto di espressa disposizione di legge, vale la regola di cui all’art. 288, comma 4, c.p.c.[108].

Note:

[1] 
Sulla disciplina anteriore, oltre agli Autori che saranno citati nel prosieguo, sia consentito rinviare, anche per i relativi riferimenti, a S. Menchini–A. Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da G. Vassalli, F. P. Luiso, E. Gabrielli, II, Il processo di fallimento, Torino, 2014, p. 375 ss., specie p. 565 ss.; sulla nuova disposizione, si vedano: A. Villa, La nuova liquidazione giudiziale: effetti per i creditori e accertamento del passivo, in Il diritto degli affari, 2019, p. 192 ss., specie p. 206 ss.; M. Zulberti, Novità in tema di accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale: riflessioni a prima lettura, in Ildirittodegliaffari.it, 2019, p. 404 ss., specie p. 418 ss.; G. Iappelli, Accertamento del passivo e dei diritti dei terzi sui beni compresi nella liquidazione giudiziale, in Codice della crisi e dell’insolvenza, a cura di M. Giorgetti, Pisa, 2019, p. 181 ss., specie p. 185 ss.; G. Trisorio Liuzzi, Le impugnazioni dello stato passivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Giusto proc. civ., 2021, p. 309 ss.; A. Carratta, Impugnazioni e stabilità dell’accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale, in Dir. fall., 2021, p. 495 ss.; S. Menchini–A. Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti di terzi sui beni compresi nella liquidazione giudiziale nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Giust. civ., 2022, p. 415 ss., specie p. 485 ss.; F. Lamanna, Il Codice della crisi e dell’insolvenza dopo il secondo correttivo, Milano, 2022, p. 640–641; G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, 2° ed., Torino, 2022, p. 285 ss.; M. Montanari, Le impugnazioni dello stato passivo nel Codice della crisi: profili di novità, in Riv. dir. proc., 2023, p. 425 ss.; F. Dimundo, Verifica dei crediti e dei diritti sui beni nella liquidazione giudiziale, Milano, 2023, p. 482 ss.; A. Jorio, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2023, p. 279–280; A. Nigro–D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, 6° ed., Bologna, 2023, p. 272 ss.; M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, Milano 2023, p. 425 ss.; G. Impagnatiello, L’accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale, in Diritto della crisi d’impresa,  a cura di G. Trisorio Liuzzi, Bari, 2023, p. 485 ss., specie p. 511 ss.; D. Manente, Art. 207, in A. Maffei Alberti, Commentario breve alle leggi su Crisi d’impresa e insolvenza, 7° ed., Milano, 2023, p. 1579 ss.; C. D’Alonzo, La liquidazione giudiziale vista dal curatore, in Dir. fall., 2023, I, p. 1095 ss., specie p. 1128 ss. 
[2] 
A. Motto, Le impugnazioni dello stato passivo e la correlazione degli errori materiali, in Dirittodellacrisi.it, aprile 2024. 
[3] 
Temi oggetto di analisi nei nostri precedenti studi citati alla nota 1. 
[4] 
In modo conforme, A. Carratta, op. cit., p. 502 e, in relazione all’omologo art. 99 L. Fall., G. Costantino, Artt. 98 e 99, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A Nigro e M. A. Sandulli, Torino, 2006, p. 557 ss., specie p. 560 ss.; M. Montanari, Il procedimento delle opposizioni al passivo tra inquadramento di fondo e specifiche questioni applicative, in Fall., 2011, p. 1116 ss.; C. Cavallini, Art. 99, in Commentario alla legge fallimentare, diretto da C. Cavallini, op. cit., II, p. 865 ss., specie p. 867 ss.; M. Giorgetti– F. Locatelli, Procedimento, in A. Jorio–B. N. Sassani, Trattato delle procedure concorsuali, II, Il fallimento, Milano, 2014, p.1059 ss., specie p. 1061; G. Fauceglia, Le impugnazioni dello stato passivo, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, II, diretto da O. Cagnasso e L. Panzani, II, Milano, 2016, p. 1709 ss., specie p. 1715; in giurisprudenza, Cass., 4 giugno 2012, n. 8929; Cass., 11 settembre 2009, n. 19697. 
[5] 
Così, in relazione all’art. 99 L. Fall., G. Costantino, op. cit.,p. 567; in modo analogo, G. Trisorio Liuzzi, op. cit., p. 325, 333. 
[6] 
Se il curatore abbia eccepito la prescrizione presuntiva del credito, il creditore può deferire il giuramento decisorio de scientia al curatore e la dichiarazione di quest’ultimo di non sapere se il pagamento sia avvenuto o meno produce gli effetti del mancato giuramento: Cass., Sez. Un., 29 agosto 2023, n. 25442, in Fall., 2023, p. 1348 ss., con nota parzialmente critica di V. Baroncini, Sulla deferibilità al curatore del giuramento decisorio: la parola alle Sezioni Unite, a cui si rinvia per ulteriori riferimenti, nonché per l’esame della questione se il curatore, che non può deferire e riferire il giuramento, essendo privo della capacità di disporre dei diritti (art. 2737 c.c.), possa nondimeno prestare il giuramento a lui deferito, anche nella forma de veritate (ciò che le Sezioni Unite escludono, in conformità a un indirizzo consolidato), nei casi in cui esso riguardi non un fatto proprio del debitore, bensì una circostanza direttamente appresa dal curatore in ragione del suo ufficio. 
[7] 
C. Cavallini, Art. 99, op. cit., p. 884; contra, G. Trisorio Liuzzi, op. cit., p. 333–334. 
[8] 
Per quanto invece riguarda il riparto degli oneri probatori tra le parti nel giudizio di gravame, rinviamo, per un approfondimento e l’esame della giurisprudenzza, a A. Motto, Le impugnazioni dello stato passivo e la correzione degli errori materiali nella liquidazione giudiziale, in Dirittodellacrisi.it, 2024, § 4. 
[9] 
Cass., Sez. 1, 16 giugno 2022, n. 19481; Cass., Sez. 1, 31 maggio 2022, n. 17731; Cass., Sez. 1, 9 maggio 2022, n. 14589. 
[10] 
Aggiungiamo che, secondo l’interpretazione preferibile e prevalente, la non contestazione non impone al giudice un vincolo di carattere assoluto, obbligandolo a considerare esistente ai fini del giudizio il fatto non contestato, in quanto il giudice può (e deve) rilevare l'inesistenza della circostanza non contestata, se tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2016, n. 2951; Cass., Sez. Un., 3 giugno 2015, n. 11377; in dottrina, per tutti: S. Menchini, Diritto processuale civile, I, Parte generale, Torino, 2023, p. 332 ss., specie p. 334; G. Ruffini (a cura di), Diritto processuale civile, I, La giustizia civile, Bologna, 2023, p. 426; G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, 6° ed., II, Il processo ordinario, Bari, 2023, p. 105 ss.; E. Merlin, Elementi di diritto processuale civile, I, Parte generale, Torino, 2022, p. 69). In modo diverso, secondo una differente interpretazione, la non contestazione vincola il giudice, il quale deve ritenere esistenti i fatti non contestati, astenendosi da qualsivoglia controllo probatorio in merito agli stessi (Cass., Sez. 3, 27 febbraio 2020, n. 5429; Cass., Sez. 3, 17 giugno 2016, n. 12517; in dottrina, da ultimi, A. Amadei, Efficacia della non contestazione e redazione degli atti processuali, in Scritti in onore di B. Sassani, I, Pisa, 2022, p. 3 ss., specie p. 5 ss.; G. Della Pietra, Le preclusioni e l’irreversibilità della non contestazione: l’armonia perduta, in Tutela giurisdizionale e giusto processo, Scritti in memoria di F. Cipriani, I, Bari, 2020, p. 473 ss., a cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti). 
[11] 
Al riguardo, per alcune sintetiche notazioni, v. il § 12. 
[12] 
Secondo la Cassazione, l’omissione nella comunicazione del curatore dell’informazione sul “diritto  di proporre opposizione in caso di mancato accoglimento della domanda” (che il vigente art. 205, comma 1, prevede in modo identico all’art. 97 L. Fall.) non è causa di nullità dell’atto (e non impedisce pertanto che dalla comunicazione inizi a decorrere il termine perentorio per la proposizione dell’opposizione), né legittima l’opponente che abbia proposto la domanda tardivamente alla rimessione in termini per causa non imputabile ex art. 153, comma 2, c.p.c. (Cass., Sez. 1, 11 novembre 2021, n. 33622). 
[13] 
Sul termine per proporre la revocazione e i rapporti con le impugnazioni ordinarie, si rinvia a quanto osservato in A. Motto, Le impugnazioni dello stato passivo, op. cit., § 6. 
[14] 
Cfr. G. Trisorio Liuzzi, op. cit., p. 326; contra, A. Carratta, op. ult. cit., p. 501; M. Montanari, Le impugnazioni dello stato passivo, in Trattato di diritto fallimentare diretto da V. Buonocore e A. Bassi, coordinato da G. Capo, F. De Santis e B. Meoli, III, Padova, 2011, p. 81 ss., specie p. 181, per i quali il termine decorre dal deposito dello stato passivo in cancelleria. 
[15] 
Cass., Sez. VI, 10 maggio 2018, n. 11366; Cass., 28 marzo 2022, n. 9850; Cass., sez. 1, 19 giugno 2023, n. 17512; Cass., Sez. 1, 5 luglio 2023, n. 18965; Cass., Sez. 1, 6 novembre 2023, n. 30718; in dottrina, per tutti: A. Carratta, op. ult. cit., p. 502. 
[16] 
Si segnala, per la rilevanza pratica della questione esaminata, Cass., Sez. 1, 12 maggio 2022, n. 15243, la quale ha ritenuto tempestivamente proposto il ricorso depositato in forma telematica presso il tribunale, ma in un registro di cancelleria (quello della volontaria giurisdizione) diverso da quello appropriato (degli affari contenziosi); condivisibilmente, la Corte ha conferito esclusivo rilievo alla circostanza del deposito dell’atto presso l’ufficio giudiziario, ritenendo che l’errore circa il registro di cancelleria non sia causa di nullità, costituendo una mera irregolarità.   
[17] 
Giurisprudenza consolidata; da ultimo, Cass., sez. 1, 20 dicembre 2022, n. 37175. 
[18] 
G. Trisorio Liuzzi, op. cit., p. 326. In passato, la giurisprudenza aveva affermato che, in base al principio della vicinanza della prova, spettava al curatore dimostrare la tardività dell’impugnazione, producendo in giudizio l’avviso di ricevimento delle raccomandate con cui comunicava l’avvenuto deposito dello stato passivo in cancelleria (Cass., 4 maggio 2012, n. 6799, in Fall., 2013, p. 321, con nota adesiva di G. Impagnatiello, Evoluzioni (e involuzioni) della giurisprudenza sull’opposizione allo stato passivo). Oggi, le ragioni sottese a questo orientamento (che peraltro non era pacifico: Cass., 13 settembre 2013, n. 21021) sono venute meno, dato che la comunicazione è effettuata mediante posta elettronica certificata; pertanto, secondo i principi generali, spetta all’impugnante dimostrare la tempestività del ricorso, producendo la comunicazione del curatore, da cui risulta la data in cui essa è stata ricevuta. 
[19] 
Per la tesi che non si condivide, v. G. Trisorio Liuzzi, op. cit., p. 324; M. Montanari, Le impugnazioni (…): profili di novità, op. cit., § 8; M. P. Gasperini, I termini processuali nel Codice della crisi, tra semplificazione e ragionevole durata delle procedure concorsuali, in Fall., 2023, p. 5 ss., specie p. 15. 
[20] 
Cass., Sez. Un., 24 novembre 2009, n. 24665; rimessa nuovamente la questione al loro esame, le Sezioni Unite avevano confermato il proprio orientamento (Cass., Sez. Un., 5 maggio 2017, n. 10944). 
[21] 
Così, D. Manente, Art. 207, in A. Maffei Alberti, Commentario breve alle leggi su Crisi d’impresa e insolvenza, 7° ed., Milano, 2023, p. 1579 ss., specie p. 1582, sul presupposto che si tratti di un criterio di competenza funzionale e inderogabile. 
[22] 
Come si ritiene in relazione al giudizio di appello: Cass., Sez. Un., 14 settembre 2016, n. 18121, per la quale “L'appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall'art. 341 c.p.c. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della ‘translatio iudicii’”. 
[23] 
Sottolineiamo che la revocazione avverso il decreto del giudice delegato è proposta al tribunale e, quindi, a un giudice diverso da quello che ha emesso il provvedimento, a differenza di quanto prevede la regola generale in materia di impugnazioni straordinarie, secondo cui esse si propongono dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato, enunciata per la revocazione delle sentenze dall’art. 398, comma 1, c.p.c. 
[24] 
Per le ragioni più ampiamente esposte in A. Motto, Le impugnazioni dello stato passivo, op. cit., §1, a cui si rinvia anche per gli opportuni riferimenti. 
[25] 
Per un orientamento minoritario, la violazione della disposizione integra un vizio di costituzione del giudice ai sensi dell’art. 158 c.p.c., deducibile per la prima volta anche in sede di impugnazione (Cass., Sez. 6, 4 aprile 2012, n. 5426; Cass., Sez. Lav., 9 marzo 2015, n. 4677). Invece, secondo la giurisprudenza prevalente, l’incompatibilità del giudice delegato va ricondotta alla disciplina della ricusazione, che la parte interessata ha l’onere di far valere nel corso del giudizio nelle forme e nei modi dell’art. 52 c.p.c. (Cass., Sez. 1, 9 novembre 2016, n. 22835; Cass., sez. 3, 4 dicembre 2015, n. 24718, in Riv. dir. proc., 2016, p. 1317 ss., con nota di P. Bertollini, L’incompatibilità del giudice delegato nel giudizio di opposizione allo stato passivo). Pertanto, se la ricusazione non è ritualmente proposta, la questione non può essere sollevata in seguito; se è proposta ed è rigettata, l’(eventuale) errore contenuto nell’ordinanza si ripercuote sul decreto con cui il tribunale definisce il giudizio di impugnazione dello stato passivo e pertanto si converte in motivo di ricorso per cassazione avverso quest’ultimo (secondo i principi enunciati da Cass., Sez. Un., 20 novembre 2003, n. 17636 e tenuti fermi dalla giurisprudenza successiva). 
[26] 
Si veda A. Motto, Le impugnazioni dello stato passivo, op. cit., passim. 
[27] 
Cass., Sez. Un., 20 giugno 2012, n. 10143. 
[28] 
In questo lavoro, avente ad oggetto specifico il procedimento delle impugnazioni, concentriamo l’esame sui profili dinamici attinenti all’esercizio dei poteri processuali; quanto alla definizione dell’oggetto dell’impugnazione, all’ambito della devoluzione e ai correlati oneri delle parti, ci avvaliamo della trattazione svolta nel nostro scritto Le impugnazioni dello stato passivo e la correlazione degli errori materiali, in Dirittodellacrisi.it, specie § 4, a cui rinviamo per gli opportuni approfondimenti e i necessari riferimenti, anche a contrarie opinioni. 
[29] 
Come più ampiamente esposto in A. Motto, op. loc. ult. cit. 
[30] 
In relazione all’appello, sul contenuto e il grado di specificità dei motivi ai fini della individuazione delle questioni devolute al riesame del giudice di appello, si veda Cass., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199. 
[31] 
L’art. 342, comma 1, c.p.c. prevede che la citazione in appello debba contenere i motivi specifici di gravame a pena di inammissibilità; l’espressa previsione della inammissibilità è stata introdotta nella disposizione dal d.l. 83/2012, che tuttavia si era limitato a recepire la consolidata interpretazione adottata dalla giurisprudenza (Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16; in precedenza, Cass., Sez. Un., 6/06/1987, n. 4991, in Foro.it., 1987, I, p. 3037 ss., con nota di G. Balena, aveva affermato che l’atto privo dei motivi fosse da considerare affetto da nullità sanabile, ma non retroattivamente). 
[32] 
Si rinvia, per una più ampia illustrazione e gli opportuni riferimenti, a A. Motto, Le impugnazioni dello stato passivo, op. cit., § 5. 
[33] 
Anche a questo riguardo, ci permettiamo di rinviare, anche per gli opportuni riferimenti, a A. Motto, Le impugnazioni dello stato passivo, op. cit., § 5. 
[34] 
Non è possibile in questa sede, dedicata all’esame del procedimento delle impugnazioni dello stato passivo, soffermarsi sulla esatta portata del principio di tipicità dell’oggetto del procedimento di verifica, e in particolare sulla vexata quaestio della possibilità di proporre domande pregiudiziali di mero accertamento o costitutive; su questo tema, ci permettiamo di rinviare, per ogni opportuno approfondimento e i pertinenti riferimenti, ad alcuni nostri precedenti studi e (S. Menchini-A. Motto, L’accertamento, in Trattato, cit., 411 ss., spec. 418 ss.; A. Motto, Domanda di impugnazione del contratto con effetti reali e fallimento dell’acquirente, in Riv. dir. proc., 2020, 567 ss.; nonché, con esame del problema alla luce del Codice, a S. Menchini-A. Motto, L’accertamento, in Giust. civ., 2022, cit., 433 ss., specie 435 ss.). In giurisprudenza, da ultimo, si vedano Cass. civ., sez. I, 7 febbraio 2020, nn. 2990 e 2991, nonché (con riferimento all’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria e concorsuale rispetto al terzo acquirente dichiarato fallito), Cass. civ., sez. un., 23 novembre 2018, n. 30416; Cass. civ., sez. un., 24 giugno 2020, n. 12476. 
[35] 
Principio pacifico; per riferimenti, si rinvia a A. Motto, Le impugnazioni dello stato passivo, op. cit., § 5, nota 97. 
[36] 
Ad esempio, l’eccezione di compensazione (Cass., 15 aprile 2019, n. 10528; Cass., 6 settembre 2019, n. 22386) e l’eccezione di revocabilità del titolo del credito o della prelazione (Cass., 14 dicembre 2016, n. 25728; Cass., 25 settembre 2018, n. 22784; Cass., Sez. 1, 7 marzo 2023, n. 6699). 
[37] 
Circa l’eccezione di difetto di data certa anteriore ex art. 2704 c.c.,  cfr. Cass., sez. un., 20 febbraio 2013, n. 4213, la quale ha chiarito che si tratta di eccezione in senso lato, rilevabile anche d’ufficio dal giudice. 
[38] 
Cass., 15 febbraio 2023, n. 4777, in Fall., 2023, 617, con nota di M. Montanari, La sopravvivenza dell’eccezione revocatoria all’estinzione per decadenza del corrispondente potere di azione
[39] 
È quindi molto importante distinguere tra le eccezioni in senso stretto (rilevabili solo a istanza di parte) e le eccezioni in senso lato (rilevabili anche d’ufficio dal giudice), in quanto, a pena della violazione dell’art. 112 c.p.c., il giudice non può tenere conto ai fini della decisione delle prime, se non siano ritualmente sollevate dalle parte, ancorché il fatto che ne è a fondamento sia acquisito agli atti del giudizio; inoltre, come vedremo a breve nel testo, la distinzione tra eccezioni in senso stretto e in senso lato può assumere rilevanza anche in ordine al termine di preclusione per la proposizione dell’eccezione ad opera della parte nel giudizio di impugnazione. 
Quanto alle eccezioni di merito, con cui è rilevata l’efficacia giuridica di fatti a rilievo impeditivo, estintivo o modificativo del diritto dedotto in giudizio, dall’art. 112 c.p.c. – ai sensi della quale “il giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti” – può trarsi un mero criterio direttivo, circa la normale rilevabilità officiosa delle eccezioni, ma non un criterio sufficientemente preciso ed univoco idoneo a discernere tra le eccezioni in senso stretto e le eccezioni in senso lato. Secondo un indirizzo interpretativo consolidato della giurisprudenza (che si deve a importanti arresti delle Sezioni Unite: 3 febbraio 1998, n. 1099; 25 maggio 2001, n. 226; 27 luglio 2005, n. 15661; 7 maggio 2013, n. 10531), quando la legge non fornisca un’indicazione espressa circa il regime di rilevabilità dell’eccezione (come invece fa, ad esempio, all’art. 2938 c.c. e all’art. 1242 c.c., circa la rilevabilità solo a istanza di parte rispettivamente della prescrizione e della compensazione, e all’art. 1421 c.c., per la rilevabilità officiosa della nullità), si deve ritenere, per regola generale, che l’eccezione sia in senso lato (si pensi, ad esempio, alle eccezioni di adempimento, di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, di aliunde perceptum e di difetto di data certa anteriore, nonché alla controeccezione di interruzione della prescrizione). A questa regola generale sono sottratte (sempre che manchi un’espressa previsione di legge circa il loro regime di rilevabilità), le eccezioni a cui corrisponde, al lato attivo, un’azione costitutiva (ad esempio, l’eccezione di annullabilità del contratto, ex art. 1442 c.c.): con la previsione di un’azione costitutiva si rimette nella esclusiva disponibilità dell’interessato la produzione dell’effetto giuridico a rilevo estintivo o modificativo di un rapporto giuridico o di un diritto, ed è pertanto coerente che, quando il fatto sia deducibile ope exceptionis avverso la domanda di adempimento dell’obbligazione, l’iniziativa circa la rilevazione dell’eccezione sia riservata alla parte, in quanto essa soltanto deve essere arbitra della convenienza di provocare l’effetto giuridico. Questo principio, tuttavia, non ha portata assoluta; non si può escludere, infatti, che anche fatti non produttivi ipso iure di effetti giuridici siano oggetto di un potere officioso, quando, in via di interpretazione sistematica, debba ritenersi che la modificazione giuridica sia posta a tutela di interessi pubblici o comunque non meramente individuali, e non appaia congruo riservarne il rilievo alla parte (questo, secondo la giurisprudenza, è il caso della riduzione della penale contrattuale eccessiva ex art. 1384 c.c., la quale può essere attuata anche d’ufficio dal giudice, indipendentemente da un’istanza a ciò diretta della parte: Cass., Sez. Un., 13 settembre 2005, n. 18128). 
[40] 
Per gli opportuni riferimenti, si v. A. Motto, Le impugnazioni dello stato passivo, op. cit., § 5. 
[41] 
Cass., Sez. 1, 18 maggio 2017, n. 12548, cit., Cass., Sez. 1, 6 novembre 2013, n. 24972; Cass., sez. VI, 6 marzo 2017, n. 5596; Cass., 24 novembre 2023, n. 29421. 
[42] 
Come illustrato, in A. Motto, Le impugnazioni dello stato passivo, op. cit., § 4, a cui si rinvia anche per i necessari riferimenti. 
[43] 
Cass., Sez. 1, 6 novembre 2013, n. 24972; Cass., sez. 6, 6 marzo 2017, n. 5596; Cass., Sez. 1, 14 dicembre 2015, n. 25174; Cass., Sez. 1, 21 luglio 2016, n. 15037. 
[44] 
Cass., Sez. 1, 23 novembre 2023, n. 29294; Cass., Sez. 1, 16 novembre 2022, n. 33744. 
[45] 
Cfr. C. Cavallini, Art. 99, cit., p. 883–884. 
[46] 
V. il § 6. 
[47] 
Come sostenuto in S. Menchini–A. Motto, L’accertamento, op. cit., in Giust. civ., p. 500 e in L’accertamento, in Trattato, op. cit., p. 613, per ragioni analoghe a quelle affermate, con riferimento al rito del lavoro (in cui l’art. 416 c.p.c. espressamente prevede che nella memoria difensiva il convenuto debba proporre a pena di decadenza le sole eccezioni in senso stretto) da Cass., Sez. Un., 3 febbraio 1998, n. 1099: “deve, in altre parole, distinguersi il potere di allegazione da quello di rilevazione: il primo compete esclusivamente alla parte ed è, di norma, esercitabile, nel rito del lavoro, entro il limite temporale del tempestivo deposito della memoria difensiva ex art.416 cod. proc. civ., posto che, ipotizzare l'allegabilità di fatti nuovi anche oltre tale termine per la sola ragione che la rilevanza dei loro effetti non si iscrive nel novero delle eccezioni riservate alla parte, significherebbe compromettere il sistema delle preclusioni sul quale quel rito si fonda ed in particolare la sua funzione di affidare alla fase degli atti introduttivi del giudizio la cristallizzazione dei temi controversi e delle relative istanze istruttorie (…)”. Precisiamo che questo orientamento non è pacifico,  in quanto una diversa interpretazione afferma che nel rito del lavoro le eccezioni in senso lato non debbono essere proposte a pena di decadenza nella memoria depositata tempestivamente  (cfr., con soluzioni non coincidenti, F. P. Luiso, Diritto processuale civile, IV, I processi speciali, 13° ed., Milano, 2023, p. 41; G. Trisorio Liuzzi–D. Dalfino, Manuale del processo del lavoro, Bari, 2021, p. 60; G. Miccolis, L’acquisizione della “verità materiale” nel “giusto processo”, in Giusto proc. civ., 2020, p. 37 ss., specie p. 68 ss. e ivi ulteriori riferimenti). 
[48] 
Così, infatti, Cass., Sez. 1, 22 dicembre 2022, n. 37570. 
[49] 
La Corte di cassazione ha precisato che, invece, il ricorso introduttivo, con cui è stata proposta la domanda ex art. 201, non deve necessariamente essere prodotto con l’atto introduttivo dell’impugnazione; ove una copia del ricorso non sia rinvenibile nei fascicoli di parte o nel fascicolo d’ufficio, e il tribunale ritenga necessario esaminarlo ai fini della decisione, ne deve disporre l’acquisizione nel corso del processo (Cass., Sez. 1, 9 agosto 2017, n. 19764; Cass., sez. 6, 17 settembre 2015, n. 18253). 
[50] 
Cass., Sez. 1, 4 maggio 2012, n. 6804; Cass., Sez. 1, 22 ottobre 2020, n. 23138; Cass., Sez. 1, 29 luglio 2021, n. 21826. 
[51] 
L’art. 243, comma 1, prima parte, riproduce il riferimento all’ammissione provvisoria del credito già contenuto nell’art. 127, comma 1, L. Fall., il quale era da porre in relazione con la disposizione sull’ammissione provvisoria del credito dell’opponente che era prevista dall’art. 99, comma 3, L. fall., nel testo originario in vigore sino alla riforma del 2006: se il tribunale provvedeva sulla istruzione della causa ai sensi dell’art. 279, comma 1, c.p.c., poteva “ammettere provvisoriamente al passivo tutto o in parte il credito contestato”, misura a cui la dottrina riconosceva carattere sostanzialmente cautelare (cfr. G. Bonfatti, L’accertamento del passivo e dei diritti mobiliari, in Il Fallimento, Trattato diretto da G. R. Maggiore e C. Costa, III, Torino, 1997, p. 1 ss., specie p. 322–323; G. Ragusa Maggiore, op. cit., p. 216). Il D.Lgs. 5/2006 aveva disciplinato in modo innovativo l’istituto al comma 10 dell’art. 99 L. Fall., ma questa disposizione, peraltro di ardua interpretazione, è venuta meno a seguito del decreto correttivo di cui al D.Lgs. n. 169/2007, mentre era rimasto il riferimento all’ammissione provvisoria del credito all’art. 127, comma 1, L. fall., che risulta oggi riprodotto all’art. 243, comma 1. 
[52] 
Si era formulata una proposta interpretativa in S. Menchini–A. Motto, L’accertamento, in Trattato, op. cit., p. 578–579; per un quadro delle differenti ricostruzioni proposte in dottrina dopo la riforma della legge fallimentare del 2006 e il correttivo del 2007, v. D. Manente, op. cit., p. 1599–1600; M. Montanari, Le impugnazioni dello stato passivo, in Trattato, op. cit., p. 235; G. Miele, Art. 113, in La legge fallimentare: commentario teorico pratico, 2° ed., Padova, 2011, p. 1365 ss., specie p. 136–137. 
[53] 
Come abbiamo ricordato (v. la nota precedente), l’art. 99, comma 3, L. Fall., nel testo in vigore sino alla riforma del 2006, contemplava la ammissione provvisoria al passivo del creditore opponente; in assenza di indicazioni legislative circa gli effetti del provvedimento, parte della dottrina riteneva che “l’effetto dell’ammissione provvisoria è quello dell’accantonamento delle somme dovute al creditore” (G. Ragusa Maggiore, op. cit., p. 216; cfr. F. Lanfranchi, Fallimento, IX, Accertamento del passivo e dei diritti reali mobiliari dei terzi, in Enc. giur., Roma, 1988, p. 19; S. Satta, Diritto fallimentare, 3° ed., Padova, 1996, p. 340), mentre altra parte riteneva che l’opponente avesse diritto a partecipare al riparto senza alcuna limitazione (S. Bonfatti, op. cit., p. 323 e ivi ulteriori riferimenti). 
[54] 
L’art. 227, comma 1, lett. c), nel riferirsi alla “sentenza”, presenta un difetto di coordinamento con l’art. 207, dato che il tribunale provvede sull’opposizione con un provvedimento avente forma di decreto; la disposizione costituisce trasposizione dell’art. 113, comma 1, n. 3), L. fall., che non era stato adeguato all’art. 99 L. fall., quando, con le riforme degli anni 2006–2007, fu previsto che il tribunale decidesse sulle impugnazioni con decreto motivato, anziché con sentenza, come originariamente previsto. 
[55] 
Trib. Roma, ord., 2 aprile 2019, in Ilcaso.it. 
[56] 
Nella fattispecie decisa da Trib. Roma, ord., 2 aprile 2019, il periculum era integrato dalla comunicazione del curatore, sopravvenuta nel corso del giudizio di opposizione, della fissazione dell’udienza di rendiconto prodromica alla chiusura della procedura. 
[57] 
Il pregiudizio deriva dal trasferimento del diritto al terzo aggiudicatario nella vendita forzata e si configura diversamente a seconda che oggetto della liquidazione sia un bene immobile (o mobile registrato) oppure un bene mobile. Nel primo caso, il trasferimento del bene avviene sempre a titolo derivativo (art. 2919, comma 1, c.c.), di guisa che il diritto reale del terzo sul bene non viene pregiudicato dalla vendita forzata (art. 2921 c.c.); in questa ipotesi, la sospensione consente al terzo di recuperare la disponibilità̀ del bene direttamente dalla procedura, anziché́ dal terzo aggiudicatario che ne abbia acquistato il possesso. Nel secondo caso, invece, il trasferimento del bene mobile può dare luogo (e di norma è quanto avviene), a un acquisto a titolo originario da parte dell’aggiudicatario che ne acquista il possesso in buona fede (art. 2919, comma 1, c.c.) , di guisa che il terzo vede il proprio diritto reale sul bene pregiudicato dalla vendita forzata (artt. 2920 c.c. e 620 c.p.c.); in questa  ipotesi, la sospensione consente al terzo di evitare la perdita del diritto sul bene e, quindi, che il suo diritto subisca un pregiudizio irreparabile
[58] 
Sia consentito rinviare, anche per gli opportuni riferimenti, a S. Menchini–A. Motto, L’accertamento, in Trattato, cit., p. 485 ss.  
[59] 
Se si ritiene che la sospensione disposta ai sensi dell’art. 201, comma 7, mantenga effetti anche a seguito della decisione di rigetto del giudice delegato (sulla questione, sia consentito rinviare, anche per gli opportuni riferimenti, a S. Menchini–A. Motto, op. ult. cit., p. 490), il problema che stiamo esaminando può porsi nel caso in cui la sospensione non sia stata richiesta e disposta nel procedimento di verifica. 
[60] 
In questo senso, Trib. Milano, decr., 7 ottobre 2015, in Fall., 2016, p. 709 ss., con commento adesivo A. Ficarella, La sospensione della liquidazione dei beni rivendicati nell’accertamento dello stato passivo, in un caso in cui il terzo rivendicante un bene mobile, in pendenza del giudizio di opposizione, aveva richiesto al giudice delegato la sospensione della liquidazione del bene ai sensi dell’art. 93, comma 7, L. fall. (a cui corrisponde il vigente art. 201, comma 7); nel medesimo decreto, il Tribunale ha altresì escluso che, nella fattispecie, la sospensione della liquidazione possa essere disposta ai sensi dell’art. 108, comma 1, L. fall. (oggi, art. 217, comma 1) per gravi motivi, in quanto tale norma ha un differente ambito di applicazione e assolve a una diversa funzione (come ritenuto dall’interpretazione assolutamente prevalente, per la quale v. A.  Ficcarella, op. cit., p. 714 ss., a cui si rinvia anche per gli opportuni riferimenti).  
[61] 
Cass., Sez. Un., 4 dicembre 2009, n. 25494, in Riv. dir. proc., 2010, p. 1437 ss., con osservazioni di F. Marelli, Opposizione allo stato passivo nel fallimento, appello nel rito del lavoro e sanatoria dei vizi della vocatio in ius; Cass., 10 maggio 2010, n. 11301; Cass., 28 maggio 2012, n. 8439; Cass., Sez. 6, 27 novembre 2015, n. 24322.  
[62] 
La giurisprudenza, infatti, nell’ambito dell’art. 164 c.p.c. (letto in combinato disposto con gli artt. 157 e 294 c.p.c.), distingue il regime dei vizi dell’atto introduttivo che impediscono al convenuto di avere conoscenza del processo, da quello dei vizi, che, invece, come quello in esame, non incidono sulla conoscenza del processo e della data dell’udienza di comparizione (cfr., Cass., 30 dicembre 2011, n. 30652). 
[63] 
Cass., Sez. 6, 9 dicembre 2014, n. 25862; in modo conforme, M. Montanari, op. ult. cit., p. 203; F. Marelli, op. ult. cit., p. 1446. 
[64] 
Secondo la giurisprudenza, infatti, in materia di impugnazioni dello stato passivo, la mancanza o l’inesistenza della notificazione non incidono sull’ammissibilità e sulla procedibilità della domanda, di guisa che tali vizi possono essere sanati, con efficacia ex tunc, dalla costituzione del convenuto o mediante rinnovazione della notificazione nel termine perentorio assegnato dal giudice; l’inammissibilità dell’impugnazione consegue solo alla violazione del termine perentorio assegnato per la rinnovazione (Cass., Sez. 1, 4 dicembre 2015, n. 24722; Cass., Sez. 1, 10 settembre 2014, n. 19018). 
[65] 
Ovviamente, la costituzione del convenuto significa che il contraddittorio si è realizzato, ma non anche che esso sia stato instaurato correttamente: ove il convenuto deduca l’inosservanza dei termini a comparire, il giudice deve fissare una nuova udienza, in modo tale che sia rispettato il termine a difesa previsto dalla legge a suo favore per il deposito della memoria difensiva (art. 164, comma 3, c.p.c.). 
[66] 
Sull’oggetto dell’impugnazione incidentale e la relativa legittimazione, si rinvia a A. Motto, Le impugnazioni dello stato passivo, op. cit., § 1 e ivi gli opportuni riferimenti. 
[67] 
Occorre fornire un chiarimento. In relazione all’appello, Cass., Sez. Un., 21 marzo 2019, n. 7940, ha affermato che la riproposizione delle domande e delle eccezioni assorbite non soggiace al termine di decadenza previsto per l’appello incidentale (da formulare nella comparsa di risposta depositata tempestivamente venti giorni prima dell’udienza, ex art. 343 c.p.c.), e pertanto può essere fatta nel primo atto difensivo e, comunque, non oltre alla prima udienza (al riguardo, v. C. Comastri, Note in tema di riproposizione in appello di domande ed eccezioni assorbite, in Riv. dir. proc., 2019, p. 1355 ss.). Dubitiamo tuttavia che un’omologa regola possa valere nei giudizi di impugnazione dello stato passivo: l’art. 207, comma 7, non si riferisce espressamente alle “nuove” eccezioni e pertanto appare ragionevole ritenere – una volta ammesso che operi l’onere della riproposizione – che la decadenza sancita da tale disposizione valga anche per la riproposizione delle eccezioni già rilevate nella fase anteriore. 
[68] 
Cfr., la già citata Cass., Sez. 1, 22 dicembre 2022, n. 37570. 
[69] 
In relazione all’art. 101, comma 2, c.p.c., osserva S. Menchini, Diritto processuale civile, op. cit., p. 87–88: “(…) il contraddittorio è un valore intangibile ed è protetto in sé dall’ordinamento, a prescindere dalla violazione di una specifica norma processuale. Ciò significa che, se la norma processuale non permette la perfetta attuazione del contraddittorio, il giudice deve disporre i provvedimenti opportuni per consentire il rispetto di esso. Esempio: pur nel silenzio della legge, il giudice deve assicurare alla parte l’esercizio dei poteri processuali, anche se siano maturate e decadenze in ordine ad essi, ogni volta che ciò si renda necessario al fine del rispetto del contraddittorio”; cfr. F. P. Luiso, Il nuovo processo civile, Milano, 2023, p. 22. 
[70] 
Come affermato dalla giurisprudenza (Cass., Sez. 1, 6 settembre 2019, n. 22386; Cass., Sez. 1, 16 novembre 2022, n. 33744) e dalla dottrina (per tutti, G. Trisorio Liuzzi, op. ult. cit., p. 330). 
[71] 
Cfr., Cass., Sez. 1, 16 dicembre 2019, n. 33234; Cass., Sez. 1, 8 maggio 2023, n. 12081 (con riferimento al rilievo officioso nel giudizio di opposizione del difetto di data certa anteriore ex art. 2704 c.c.); Cass., Sez. 1, 9 giugno 2022, n. 18558 (in relazione a un caso in cui il tribunale aveva rilevato d’ufficio la questione inerente al difetto di prova della iscrizione dell’ipoteca nei pubblici registri, a fronte della mancata contestazione di tale fatto costitutivo del diritto di ipoteca da parte del curatore costituito). 
[72] 
È da escludere, sia in base alla formulazione letterale della disposizione, sia, ancor prima, in ragione della natura impugnatoria del giudizio, dei principi di esclusività e tipicità del procedimento di verifica, nonché degli effetti del decreto, che, nel processo dinanzi al tribunale (come già in sede di verifica) sia consentita la chiamata in causa (anche non innovativa) di un terzo, su istanza di parte ai sensi dell’art. 106 c.p.c., o per ordine del giudice ex art. 107 c.p.c. (cfr. M. Giorgetti–F. Locatelli, op. cit., p.1074–1075; contra, Trib. Piacenza, 14 luglio 2020, in Fall., 2021, p. 73 ss., con osservazioni critiche di M. Montanari, La (pretesa) ammissibilità della chiamata in garanzia in sede di opposizione al passivo fallimentare). 
[73] 
In modo diverso, Cass., 24 maggio 2012, n. 8239, in Fall., 2012, p. 1323 ss., con osservazioni critiche di M. Montanari, Ulteriori svolgimenti della riflessione del giudice di legittimità in tema di opposizione allo stato passivo. In questa pronuncia, la Corte, discostandosi da un orientamento consolidato, ha negato che il creditore concorrente sia per definizione munito di un interesse giuridico (e non di mero fatto) che lo legittima all’intervento, affermando che la questione relativa alla sua legittimazione debba essere oggetto di verifica caso per caso. Tuttavia, queste affermazioni sono state svolte in relazione a una fattispecie, in cui non si poneva, in realtà, la questione relativa alla legittimazione all’intervento di un concorrente, bensì la diversa questione relativa alla capacità dei concorrenti a testimoniare nel giudizio di opposizione instaurato da un altro creditore; nel risolvere la questione, la Corte ha affermato che l’interesse, il quale, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., impedisce ad un soggetto di testimoniare, non sempre è configurabile in via generale in capo agli altri creditori concorrenti, per l’appunto negando che questi soggetti siano, per definizione, legittimati ad esplicare l’intervento nel processo di impugnazione (nel caso di specie, la Corte ha ritenuto ammissibile la testimonianza dei creditori concorrenti, richiesta dal creditore opponente, al fine di fornire prova dell’esistenza della propria pretesa). 
[74] 
Ciò è evidente, quando il terzo interviene nel giudizio di impugnazione instaurato dal curatore o da un altro concorrente, rispetto al quale anche a lui era attribuita la legittimazione ad impugnare.  Lo stesso vale, peraltro, nel caso in cui egli intervenga nel giudizio di opposizione instaurato dal ricorrente, che abbia visto la propria domanda parzialmente rigettata; il terzo non  può estendere l’oggetto del giudizio di gravame alla statuizione favorevole all’attore in quanto, da un lato, egli avrebbe dovuto proporre tempestivamente l’impugnazione in via principale e, da un altro lato, è da escludere che egli sia legittimato all’esercizio dell’impugnazione incidentale, atteso che nei suoi confronti non è stata proposta la domanda di gravame (art. 206, comma 4). 
[75] 
Cass., Sez. Un., 18 aprile 2023, n. 10398; Cass., Sez. 1, 6 febbraio 2018, n. 2818; Cass., Sez. Un., 17 aprile 2012, n. 5992. 
[76] 
Cass., Sez. 1, 5 maggio 2021, n. 11779. 
[77] 
 In questo senso, nel vigore dell’art. 99 L. Fall., Cass., sez. VI, 26 gennaio 2016, n. 1342. 
[78] 
Contra, M. Montanari, Le impugnazioni (…): profili di novità, op. cit., § 5. 
[79] 
La modifica dell’art. 334, comma 2, c.p.c. recepisce un (discusso) principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, che ha esteso la regola dettata per l’inammissibilità (ossia per le figure di invalidità originaria insanabili o in concreto non sanate della impugnazione principale) alla improcedibilità (ossia per le ipotesi in cui, per scelta del legislatore, una inattività dell’impugnante nel corso del processo ne determina la definizione in rito),  “e ciò non in virtù di un'applicazione analogica dell'art. 334, secondo comma, cod. proc. civ. – dettato per la diversa ipotesi dell'inammissibilità dell'impugnazione principale – bensì in base ad un'interpretazione logico–sistematica dell'ordinamento, che conduce a ritenere irrazionale che un'impugnazione (tra l'altro anomala) possa trovare tutela in caso di sopravvenuta mancanza del presupposto in funzione del quale è stata riconosciuta la sua proponibilità” (Cass., Sez. Un., 9 aprile 2008, n. 9741). Ricordiamo che, invece, secondo la giurisprudenza di legittimità, la rinuncia all’impugnazione principale non ha effetti rispetto all’impugnazione incidentale tardiva (Cass., Sez. Un., 19 aprile 2011 n. 8925; da ultimo, Cass., sez. VI, 3 maggio 2022, n. 13888), dato che “l’appello incidentale è dipendente dalla validità dell’appello principale, non però dall’arbitrio dell’appellante principale”, con la conseguenza che “la rinuncia al medesimo [all’appello principale]non pregiudica l’appello incidentale”, come prevedeva l’art. 487, comma 3, c.p.c. 1865 (così, G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, II, 2° ed., Napoli, 1936, p. 564). 
[80] 
Il condizionale è d’obbligo, in quanto, come abbiamo constatato, è tendenzialmente da escludere che la chiusura del processo per improcedibilità in senso tecnico – che nelle disposizioni del codice di rito costituisce sanzione per talune ipotesi di inattività dell’impugnante – trovi applicazione nei giudizi di impugnazione dello stato passivo. 
[81] 
Cass., 11 ottobre 2022, n. 29670; Cass., 9 agosto 2017, n. 19752; Cass., Sez. 1, 19 febbraio 2018, n. 3957, in Fall., 2018, p. 1290 ss., con commento di L. Baccaglini, Revoca del fallimento ed improcedibilità delle liti passive pendenti, a cui si rinvia per un approfondito esame della questione. 
[82] 
Si precisa che l’effetto interruttivo permanente della prescrizione determinato dalla domanda rimane fermo ai sensi dell’art. 202, di guisa che la dichiarazione di improcedibilità, dovuta a un fatto non imputabile al creditore, non ha effetti pregiudizievoli per il suo diritto.  
[83] 
Si rinvia a S. Menchini–A. Motto, L’accertamento del passivo, in Giust. civ., 2021, cit., p. 481 ss. 
[84] 
Come prevede la legge, il tribunale ha un potere discrezionale circa la concessione del termine per memorie: Cass., sez. VI, 20 agosto 2020, n. 17421. 
[85] 
Cass., 13 dicembre 2022, n. 36465 ha escluso l’applicazione al decreto del tribunale di conferma della decisione del giudice delegato della previsione dell’art. 348 ter, comma 4 e 5, c.p.c.  (oggi contenuta all’art. 360, comma 4, c.p.c.), sulla non impugnabilità in cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. in caso di c.d. “doppia conforme”, atteso il carattere sommario della cognizione della fase di verifica.   
[86] 
Cass., Sez. 1, 9 dicembre 2021, n. 39123, ha precisato che “nel caso non espressamente previsto, ma consentito dalla legge, in cui il collegio emetta il decreto in udienza in presenza delle parti, il termine di cui all'art. 99, comma 12, L. fall. per proporre ricorso per cassazione decorre dalla pronuncia in udienza solo se del decreto è stata data lettura integrale, attestata a verbale, mentre, in difetto di tale requisito, detto termine decorre dalla successiva comunicazione da parte della cancelleria”. 
[87] 
L’art. 102, comma 1, L. fall., infatti, prevedeva che la domanda di revocazione dei crediti ammessi fosse esercitabile, oltre che avverso il decreto del giudice delegato, anche contro la sentenza del tribunale, e la dottrina (G. Ragusa Maggiore, op. cit., p. 226) ascriveva a un lapsus del legislatore non avere previsto che la revocazione fosse esperibile anche avverso la sentenza della corte d’appello di riforma della sentenza di esclusione dal passivo del credito pronunciata dal tribunale. 
[88] 
Si rinvia a S. Menchini–A. Motto, L’accertamento del passivo, in Giust. civ., 2021, cit., p. 472 ss.  
[89] 
Come ritenuto da Corte cost., 5 maggio 2021, n. 89 (su cui v. B. Zuffi, La revocazione per errore di fatto come rimedio imprescindibile di tutela giurisdizionale, in Giur. it., 2022, p. 79 ss.), in relazione alla revocazione per errore di fatto revocatorio ex art. 395, comma 1, n. 4), c.p.c. dell’ordinanza emessa all’esito del procedimento sommario di cognizione ex art. 14 D.Lgs. n. 150/2011: la Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni censurate “ai sensi di cui in motivazione”, ove ha chiarito (punto 10) che “la norma espressa dalle disposizioni denunciate deve essere interpretata in modo costituzionalmente adeguato e coerente agli evocati parametri costituzionali, nel senso, appunto, che la revocazione per errore di fatto può essere esperita contro ogni atto giurisdizionale riconducibile nel paradigma del provvedimento decisorio innanzi delineato”. Non sembra che l’inidoneità del decreto ad assumere autorità di cosa giudicata sostanziale (quando è relativo a crediti pecuniari) sia elemento di per sé ostativo ad ammettere la revocazione, in quanto, come indicato nel testo, il decreto si configura comunque come un provvedimento definitivo e decisorio. 
[90] 
La revocabilità per errore di fatto ex art. 395, comma 1, n. 4), c.p.c. del decreto del tribunale è stata già affermata da Trib. Milano, 6 aprile 2017, in Giur. it., 2017, p. 2129.
[91] 
Cass., Sez. 6, 30 luglio 2020, n. 16268. 
[92] 
Cfr., in dottrina, G. Ragusa Maggiore, op. cit., p. 220; in giurisprudenza, Trib. Catania, 24 febbraio 1983, in Dir. fall., 1983, II, p. 574: “Avverso la sentenza che, accogliendo l'opposizione allo stato passivo proposta da un creditore lo insinui al passivo fallimentare, è ammessa l'opposizione di terzo da parte di altro creditore, che non abbia partecipato al precedente giudizio”. 
[93] 
Per un più ampio discorso, ci permettiamo di rinviare a S. Menchini – A. Motto, L’accertamento del passivo, in Giust. civ., op. cit., p. 472 ss. e ivi gli opportuni riferimenti. 
[94] 
Cass. civ., sez. un., 14 luglio 2010, n. 16508, in Fall., 2010, 1380 ss., con osservazioni di L. Salvato, Intangibilità dell’accertamento della compensazione effettuato in sede di verifica del passivo e di I. Pagni, Accertamento del passivo e revocatoria: efficacia preclusiva del decreto di esecutività, ed anche in Foro it., 2010, I, 3376 ss., con commento di M. Fabiani, Spunti di riflessione sull’oggetto del procedimento di accertamento del passivo. 
[95] 
Cass. civ., sez. I, 14 gennaio 2016, n. 525. 
[96] 
Cass. civ., sez. I, 27 ottobre 2017, n. 25640. 
[97] 
Si pensi al caso in cui il terzo coobbligato paghi il creditore ammesso al passivo (Cass. civ., sez. I, 14 gennaio 2016, n. 525). 
[98] 
In giurisprudenza, da ultimo: Cass. civ., sez. un., 26 settembre 2019, n. 24068; Cass. civ., sez. I, 28 febbraio 2018, n. 4729. 
[99] 
Il riferimento contenuto nella disposizione, oltre che al decreto, alla sentenza con cui il credito è stato ammesso, rappresenta un mero difetto di coordinamento (che presentava già l’art. 120, comma 4, L. fall. dopo le riforme), dato che anche il provvedimento con cui il tribunale decide le impugnazioni ha forma di decreto.  
[100] 
Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2020, n. 22611.
[101] 
Cass. civ., sez. I, 8 marzo 2013, n. 5840; Cass. civ., sez. I, 26 luglio 2012, n. 13289; Cass. civ., sez. I, 9 giugno 2011, n. 12638; Cass. civ., sez. I, 20 settembre 2006, n. 20416; Cass. civ., sez. II, 22 gennaio 1999, n. 664.
[102] 
Così, I. Pagni, Accertamento del passivo e revocatoria, cit., 1399; conf. Cass. civ., sez. un., 14 luglio 2010, n. 16508.
[103] 
Cass. civ., sez. un., 14 luglio 2010, n. 16508. 
[104] 
In senso conforme: L. Panzani, Dal “fallimento” alla liquidazione giudiziale: note minime sulla nuova disciplina del CCII, in Fall., 2019, 1141 ss., spec. 1148; G. Bozza, L’accertamento del passivo nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ivi, 1203 ss., specie 1203-1204; A. Carratta, Impugnazioni e stabilità dell’accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale, cit., 495 ss., spec. 513. 
[105] 
Cfr. S. Menchini-A.Motto, L’accertamento, cit., nel Trattato, cit., 555 ss., specie 558; S. Menchini-A. Motto, L’accertamento, cit., in Giust. civ., 2022, 481 ss., specie 483 ss. 
[106] 
S. Menchini-A. Motto, L’accertamento, cit., in Giust. civ., 2022, 484-485. 
[107] 
Con ogni probabilità, in quanto la Cassazione aveva affermato, in difetto di una disposizione specifica, che il decreto del tribunale fosse soggetto a correzione ai sensi degli artt. 287 e 288 c.p.c. dettati per le sentenze (Cass., 2 ottobre 2015, n. 19722). Peraltro, come subito constateremo, il procedimento di correzione oggi disciplinato all’art. 207, comma 15, sostanzialmente ricalca quanto previsto dall’art. 288 c.p.c.   
[108] 
A. Motto, op. ult. loc. cit.

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