Come la legge fallimentare, il Codice non disciplina in modo esaustivo aspetti importanti del giudizio di gravame instaurato con l’opposizione o l’impugnazione, quali la determinazione del suo oggetto, l’ambito dell’effetto devolutivo e i correlati oneri delle parti.
Abbiamo già affrontato incidentalmente questi temi nei paragrafi precedenti, ed ora dobbiamo esaminarli ex professo.
Le disposizioni rilevanti non sono univoche e delineano un quadro frammentario. L’art. 207, comma 2, lett. c), come l’art. 99, comma 2, n. 3), L. fall., onera l’attore di indicare i fatti e gli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con una previsione che pare alludere, senza menzionarla, alla formulazione dei motivi del gravame[63]. L’art. 206, comma 4, e l’art. 207, comma 7, contemplano l’impugnazione incidentale (anche tardiva) della parte contro cui l’impugnazione è proposta; tuttavia, lasciano all’interprete il compito di chiarire il quid rispetto a cui sussiste tale onere e, in particolare, se esso operi anche in caso di soccombenza c.d. virtuale (o teorica), ai fini della devoluzione al giudice superiore delle questioni risolte in senso sfavorevole al vincitore pratico del giudizio. Infine, l’art. 207, al comma 2, lett. d), e al comma 7 (come il previgente art. 99, al comma 2, num. 4), e al comma 7, L. fall.) stabilisce che, nel primo atto, la parte (l’attore nel ricorso e il convenuto nella memoria difensiva) deve sollevare le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio; la regola, pur essendo probabilmente pensata per le nuove eccezioni, non è ad esse limitata e può essere riferita anche alla riproposizione delle eccezioni formulate nel procedimento di verifica.
È pertanto necessario fare ricorso alla disciplina del Codice di procedura civile sulle impugnazioni in generale (capo I del titolo III del libro II del Codice) e, tra le regole dettate per i singoli mezzi, a quelle in materia di appello. Le impugnazioni dello stato passivo certamente non sono un “giudizio di appello”; è però indubbio che le regole valide per questo mezzo di impugnazione, come delineate dalla interpretazione della giurisprudenza di legittimità, sono espressione di una linea evolutiva del sistema, di cui occorre tenere conto – per i tratti non regolati dalle norme di settore – nella ricostruzione della disciplina di istituti che sono strutturalmente e funzionalmente omologhi all’appello, in quanto si configurano, al pari di questo, come mezzi di gravame a critica libera. Ai giudizi di opposizione e di impugnazione dello stato passivo non si applicano le regole procedimentali e di mero ordine previste per l’appello – dato che i rimedi de quibus non sono un “giudizio di appello” – mentre si applicano le regole che presiedono alla determinazione dell’oggetto e dell’effetto devolutivo nel giudizio di gravame, nella misura in cui occorra integrare rispetto a tali fondamentali profili la disciplina del Codice[64].
Dell’esigenza – e opportunità – di ricondurre le impugnazioni dello stato passivo al sistema e alla disciplina generale delle impugnazioni sembra avere preso atto anche il legislatore del Codice, che, agli artt. 206, comma 4, e 207, comma 7, ha precisato che, nei giudizi di impugnazione e di opposizione dello stato passivo, è ammessa l’impugnazione incidentale, anche nella forma tardiva. Come si è già notato (sopra, § 1), questa innovazione va posta in relazione con il contrario (e non condivisibile) orientamento della giurisprudenza formatosi riguardo agli artt. 98 e 99 L. fall.: nonostante l’applicazione delle regole generali sulle impugnazioni – come l’onere dell’impugnazione a carico del soccombente pratico parziale, al fine di vedere riformata in senso a sé favorevole la decisione – la giurisprudenza escludeva – sul rilievo che le impugnazioni dello stato passivo non sono un “giudizio di appello” – l’applicazione di un istituto – l’impugnazione incidentale (tempestiva e tardiva) ai sensi degli artt. 333 e 334 c.p.c. – che del sistema delle impugnazioni costituisce elemento essenziale, con le gravi conseguenze di cui si è già detto[65].
L’oggetto del processo di impugnazione e l’ambito della cognizione del tribunale sono definiti da quanto le parti hanno devoluto attraverso i motivi di impugnazione e la riproposizione; l’effetto devolutivo non è automatico: tantum devolutum quantum appellatum.
L’oggetto del processo di impugnazione è costituito dal diritto dedotto nel procedimento di verifica con la domanda, il quale, attraverso i motivi di impugnazione o la riproposizione, è sottoposto al giudizio del giudice superiore.
Se con la domanda erano stati fatti valere due o più diritti (cumulo oggettivo) e il decreto del giudice delegato presenta una pluralità di capi decisori (intesi come capi di domanda) riguardo ai quali il ricorrente è risultato soccombente, egli ha l’onere di impugnare il provvedimento in tutte le sue parti, se intende devolvere al tribunale il riesame della decisione riguardo a tutte le pretese; in difetto, sulla statuizione non impugnata si forma l’acquiescenza, ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c., ed essa diviene quindi definitiva[66].
Se, nella stessa ipotesi (di cumulo oggettivo), si è avuta una soccombenza pratica ripartita, in quanto la parte è risultata vincitrice rispetto a talune cause e soccombente rispetto ad altre, la controparte, contro cui l’impugnazione è diretta, se intende sottoporre a riesame la decisione sulla causa rispetto a cui è soccombente, ha l’onere di interporre l’impugnazione, che assume la forma dell’impugnazione incidentale, come detto ammessa anche in via tardiva (artt. 206, comma 4, e 207, comma 7); in difetto, la statuizione non impugnata diviene definitiva.
Se erano state proposte due domande, la seconda in via subordinata rispetto alla prima, e all’accoglimento della principale è seguito il legittimo assorbimento della condizionata, il vincitore, a seguito dell’impugnazione del curatore o di un concorrente relativamente alla prima, se intende devolvere al giudizio del tribunale la seconda, deve riproporla, perché altrimenti si intende rinunciata, come disposto dall’art. 346 c.p.c.[67].
Come abbiamo avuto occasione di notare, si può avere una soccombenza pratica parziale reciproca anche rispetto a una singola domanda, quando essa sia stata accolta solo in parte. Colui contro cui è proposta l’impugnazione principale, se intende vedere riformata la decisione nella parte rispetto a cui è soccombente, ha l’onere di proporre l’impugnazione incidentale, ex artt. 206, comma 4, e 207, comma 7; in mancanza, la pronuncia diviene in parte qua definitiva e la statuizione del giudice delegato non può essere riformata dal tribunale.
Ciò posto, dobbiamo adesso occuparci dell’effetto devolutivo delle questioni all’interno del singolo capo di decisione (inteso come capo di domanda) oggetto di impugnazione.
Occorre distinguere tra l’oggetto dell’impugnazione, costituito dal rapporto controverso, e l’ambito della cognizione del giudice al suo interno, rappresentato dalle questioni che possono essere esaminate dal giudice superiore ai fini della decisione del primo; si tratta delle questioni di rito, relative ai presupposti processuali (ossia, alle condizioni per la decisione di merito della domanda), e delle questioni di merito, concernenti l’esistenza dei fatti costitutivi e dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto oggetto del processo (questi ultimi fatti sono a base delle eccezioni di merito, in senso stretto o in senso lato).
Secondo la ricostruzione a nostro avviso preferibile, l’effetto devolutivo delle questioni non è automatico, in modo analogo a quanto avviene nel giudizio di appello: la domanda di gravame non implica di per sé la devoluzione delle questioni rilevate nel precedente grado di giudizio al riesame del giudice dell’impugnazione, ma quest’ultimo conosce le sole questioni, che gli siano specificamente devolute dalle parti[68].
A ciò l’attore provvede mediante la formulazione dei motivi di impugnazione, che assolvono pertanto la duplice funzione di determinare l’oggetto dell’impugnazione e, all’interno di questo, di selezionare le questioni devolute al giudice superiore (costituite dalle questioni decise a suo sfavore e da quelle illegittimamente assorbite).
Simmetrica è la posizione del convenuto, al quale spetta investire il giudice dell’impugnazione delle questioni che vuole vedere esaminate.
Dobbiamo introdurre il concetto di soccombenza virtuale o teorica: il convenuto, che è risultato vincitore rispetto al capo di domanda (e pertanto non è praticamente soccombente), può avere visto risolte a suo sfavore alcune questioni di rito (ad esempio, la domanda è stata rigettata nel merito, previo rigetto della eccezione di inammissibilità ex art. 201, comma 4) o di merito (ad esempio, la domanda è stata rigettata per prescrizione, ma il giudice delegato ha ritenuto infondata l’eccezione di inopponibilità del titolo del credito sollevata dal curatore). Si parla di soccombenza virtuale o teorica (e non effettiva) perché la parte ha ottenuto una tutela pari o superiore a quella richiesta (è vincitrice pratica), ma ha visto decise in senso a sé negativo alcune questioni.
In questi casi, proposta dal soccombente pratico l’impugnazione principale, la parte vittoriosa può fare riesaminare dal giudice superiore le questioni rispetto a cui è risultata soccombente virtuale; e il punto da chiarire riguarda con quali modalità e con quale tecnica possa provvedervi. Se, come ci sembra ragionevole, si applicano i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità riguardo all’appello, il vincitore pratico-soccombente virtuale non può limitarsi alla riproposizione delle questioni esaminate e decise a suo sfavore, bensì ha l’onere di formulare motivi di impugnazione incidentale, se intende devolvere il riesame di tali questioni al giudice superiore (e quelle rimaste illegittimamente assorbite)[69]; la mera riproposizione ex art. 346 c.p.c. è utilizzabile per la devoluzione al giudice superiore delle sole questioni non decise, perché legittimamente assorbite dal giudice delegato[70].
In breve: le questioni esaminate e decise devono essere oggetto di impugnazione incidentale, perché occorre formulare una critica rispetto a quanto statuito in ordine ad esse; le questioni legittimamente assorbite sono oggetto di mera riproposizione, perché riguardo ad esse, non essendo state decise, non vi è nulla da criticare. È. importante distinguere tra impugnazione incidentale e riproposizione, perché si applicano discipline giuridiche in parte differenziate: l’impugnazione incidentale deve contenere – come l’impugnazione principale - i motivi, cioè le ragioni di critica alla decisione contestata, individuandone gli errori, mentre la riproposizione si esaurisce nella mera manifestazione di volontà di devolvere al giudice superiore la questione, esclusa ogni ragione di critica, dato che essa non è stata decisa[71].
In difetto di impugnazione, la statuizione resa rispetto alla questione decisa diviene incontrovertibile nel processo, per le parti e per il tribunale, ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c. (si forma, secondo un comune, ma non del tutto corretto, modo di esprimersi, il “giudicato interno”); in mancanza di riproposizione, l’eccezione non decisa si intende rinunciata, a norma dell’art. 346 c.p.c.
Al di fuori di quanto devoluto dalle parti, il tribunale può esaminare – all’interno del capo di decisione oggetto dell’impugnazione – le questioni (di rito e di merito) rilevabili d’ufficio (ossia, le eccezioni in senso lato), a condizione che non siano state decise dal giudice delegato (secondo la giurisprudenza, neppure implicitamente)[72]; se, invece, siano state decise, non sono riesaminabili ex officio dal giudice superiore e sussiste l’onere dell’impugnazione, come appena detto[73].
Correttamente, quindi, la giurisprudenza ha affermato che l’eccezione di difetto di data certa anteriore ex art. 2704 c.c. non esaminata dal giudice delegato – la quale costituisce un’eccezione in senso lato[74] – è rilevabile dal tribunale ex officio nel giudizio di opposizione[75].
Alla luce di questi principi, si può osservare, in via esemplificativa, quanto segue.
A) ammesso al passivo il credito con il riconoscimento della prelazione richiesta, il curatore o il concorrente possono impugnare una o entrambe le statuizioni. Se è impugnata la decisione solo nella parte in cui ha riconosciuto esistente il credito, sull’altra si forma il giudicato ex art. 329, comma 2, c.p.c. (con la precisazione che, in caso di accoglimento dell’impugnazione, la riforma ha effetto ex art. 336, comma 1, c.p.c. anche sulla decisione concernente la causa di prelazione, in quanto quest’ultima dipende dalla decisione sull’esistenza del credito)[76]. Se è impugnato il provvedimento solo nella parte in cui ha riconosciuto la prelazione, la statuizione circa l’esistenza del credito diviene definitiva ex art. 329, comma 2, c.p.c. (e in ordine ad essa, a differenza di quanto visto nel caso precedente, non avrà alcun effetto la decisione sull’impugnazione, dato che la statuizione sul credito non dipende da quella inerente all’esistenza della prelazione)[77].
B) se il giudice delegato ha ammesso il credito pecuniario, negando la prelazione richiesta, e il creditore propone l’opposizione per ottenere il riconoscimento della prelazione, il curatore, per ottenere la esclusione dal passivo del credito, deve proporre l’impugnazione in via incidentale (consentita anche in via tardiva) avverso la parte di decisione che lo ha ammesso, articolando tanti motivi di censura, quante sono le questioni risolte a suo sfavore (esistenza dei fatti costitutivi, inesistenza di fatti estintivi, modificativi e impeditivi) che vuole vedere riesaminate[78].
C) Se è accolta parzialmente la domanda di insinuazione e il creditore formula l’opposizione per conseguire l’ammissione per l’intero importo domandato, il curatore, per ottenere la integrale esclusione dal passivo del credito, deve proporre l’impugnazione incidentale, al fine di vedere riesaminate le questioni relative all’(in)esistenza di uno o più fatti costitutivi o di fatti estintivi, modificativi o estintivi del credito; in difetto, la decisione diviene in parte qua definitiva e il tribunale non potrà disporre l’esclusione del credito (divieto di reformatio in peius)[79].
D) se il giudice delegato ha accolto la domanda, e ha pertanto ritenuto esistenti i fatti costitutivi del diritto e inesistenti i fatti impeditivi, modificativi o estintivi rilevati in via di eccezione nel procedimento di verifica (dal curatore o da una delle altre parti), con l’impugnazione il curatore o il concorrente deve formulare i motivi di gravame, con i quali individua le questioni risolte in senso a sé sfavorevole devolute al riesame del tribunale. Ad esempio, se impugna la decisione del giudice delegato nella parte in cui ha ritenuto esistente un certo fatto costitutivo (ad esempio, l’esecuzione della prestazione) e ha ritenuto inesistente un fatto estintivo (ad esempio, l’eccezione di prescrizione), quanto affermato dal giudice delegato rispetto alle altre questioni, inerenti all’esistenza di ulteriori fatti costitutivi del diritto (ad esempio, la stipula del contratto) e all’inesistenza di fatti impeditivi, modificativi ed estintivi dello stesso (ad esempio, la nullità del contratto o l’intervenuto adempimento), non essendo “colpito” dai motivi di impugnazione, diviene incontrovertibile. Pertanto, il tribunale, ai fini della decisione del diritto oggetto del processo, non deve né può procedere a un nuovo esame di tali questioni, ma solo di quelle specificamente devolute con i motivi di impugnazione dall’attore (a cui possono aggiungersi, in via eventuale, quelle rilevabili d’ufficio nel secondo grado di giudizio).
E) se il giudice delegato ha respinto integralmente la domanda di insinuazione al passivo, accogliendo un’eccezione sollevata dal curatore (ad esempio, di inopponibilità della pretesa), al contempo rigettando una diversa eccezione (ad esempio, di prescrizione) e assorbendone un’altra (ad esempio, di compensazione), sempre rilevate dal curatore, nel giudizio di opposizione promosso dal creditore, il curatore ha l’onere di proporre l‘impugnazione incidentale, se intende vedere riesaminata la questione sollevata con l’eccezione decisa in senso a lui sfavorevole (nell’esempio, di prescrizione), mentre è sufficiente la riproposizione per la devoluzione della questione oggetto dell’eccezione assorbita (nell’esempio, di compensazione), in quanto essa non è stata legittimamente decisa dal giudice delegato[80].
L’onere della riproposizione concerne anche le istanze istruttorie formulate e i documenti prodotti nel procedimento di verifica, che debbono essere specificamente indicati negli atti introduttivi del giudizio di impugnazione, dall’attore nel ricorso (art. 207, comma 4, lett. d)) e dal convenuto nella memoria difensiva (art. 207, comma 7). In particolare, i documenti prodotti nella fase dinanzi al giudice delegato non “trasmigrano” automaticamente nel fascicolo del giudizio di impugnazione; in assenza di “specifica indicazione” nell’atto introduttivo, essi non possono essere presi in considerazione dal tribunale ai fini della decisione[81]. Superando un precedente contrario orientamento, la giurisprudenza più recente formatasi con riferimento all’art. 99, comma 2, n. 4, L. fall. (identico all’art. 207, comma 2, lett. d)) afferma che l’onere della riproposizione è soddisfatto con l’indicazione nell’atto introduttivo dei documenti già prodotti di cui la parte intende avvalersi, mentre non è necessario che essa provveda a un nuovo deposito nel giudizio di gravame; se la parte non effettua il deposito, i documenti possono e debbono essere acquisiti dal tribunale dal fascicolo d’ufficio della procedura in cui sono custoditi[82].
Un’ultima precisazione riguarda la disciplina dell’onere della prova.
Come si è detto, vale la regola generale dell’art. 2697 c.c. e pertanto va a danno di chi si afferma titolare del diritto la mancata prova dei fatti costitutivi, e di colui nei cui riguardi esso è azionato la mancata dimostrazione dei fatti impeditivi, modificativi e estintivi a fondamento dell’eccezione. Tuttavia, ciò non toglie – se si conviene sulla funzione da riconoscere ai motivi di gravame anche nei giudizi di impugnazione dello stato passivo – che spetta all’impugnante dimostrare, sul piano logico-argomentativo, l’errore commesso dal giudice delegato nel ritenere provato quel determinato fatto[83]. In altri, ma equivalenti, termini: l’impugnante ha un onere dimostrativo primario della fondatezza dei motivi di gravame con cui si censura l’accertamento del fatto (ossia, della ragione di critica rivolta alla decisione nella parte in cui ha ritenuto provato il fatto), fermo restando che, assolto tale onere, la regola di riparto della prova dei fatti principali rilevanti ai fini dell’esistenza del diritto controverso è quella ordinaria di cui all’art. 2697 c.c.
È in questi termini e con la precisazione svolta, che, nostro avviso, devono essere interpretate le affermazioni giurisprudenziali, secondo cui, nel giudizio di impugnazione dei crediti ammessi, “non è il creditore ammesso a dovere dimostrare nuovamente il suo credito, già assistito dalla favorevole valutazione espressa dal giudice delegato in sede di verifica, ma è l'impugnante a dover provare la fondatezza della sua contestazione”[84]. Assolto dall’impugnante l’onere primario di dimostrare la fondatezza della contestazione (ossia, del motivo di gravame con cui si censura sul piano logico-argomentativo l’errore commesso dal giudice delegato nel ritenere esistente il fatto costitutivo del diritto), opera pienamente la regola generale dell’art. 2697 c.c. e pertanto incombe sul creditore contestato l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto, e non sull’impugnante l’onere di dimostrare la loro inesistenza[85].