La decisione della Suprema Corte n. 2061 del 28 gennaio 2021[1], resa a Sezioni Unite, risolve dunque un problema tanto dibattuto quanto destinato – nei fatti – a cessare di esistere, man mano che le vertenze inerenti i contratti di leasing risolti prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017 andranno esaurendosi. Va sin da subito evidenziato, infatti, che il principio reso dalla decisione in commento è destinato ad operare solo nel perimetro dei contratti di leasing nei quali i presupposti per la risoluzione del contratto si siano verificati prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017 e che siano stati risolti prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore[2].
Una volta prosciugato, dunque, questo bacino di contratti, il principio reso dalla Corte in tema di leasing sarà privato di efficacia concreta, purtuttavia le argomentazioni e i passaggi logici seguiti dalla Corte per giungere alla soluzione del caso “leasing” potranno certamente mantenere utilità ed efficacia anche una volta che si sia da solo estinto, in ragione del passare del tempo e della cessazione dei contenziosi, il tema per la soluzione del quale sono state utilizzate.
In questa sede, per ragioni redazionali, ci si soffermerà esclusivamente sul principio di diritto intertemporale affermato dalle S.U. sul leasing, segnalando purtuttavia il particolare interesse dell’iter argomentativo svolto dalla Corte e l’importanza anche del secondo principio espresso, in tema di contenuto della domanda di insinuazione del concedente[3].
La sezioni unite specificano, dunque, col primo principio, che: “La L. n. 124 del 2017 (art. 1, commi 136-140) non ha effetti retroattivi e trova, quindi, applicazione per i contratti di leasing finanziario in cui i presupposti della risoluzione per l'inadempimento dell'utilizzatore (previsti dal comma 137)[4] non si siano ancora verificati al momento della sua entrata in vigore; sicchè, per i contratti risolti in precedenza e rispetto ai quali sia intervenuto il fallimento dell'utilizzatore soltanto successivamente alla risoluzione contrattuale, rimane valida la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, dovendo per quest'ultimo social-tipo negoziale applicarsi, in via analogica, la disciplina di cui all'art. 1526 c.c. e non quella dettata dall'art. 72-quater L. Fall., rispetto alla quale non possono ravvisarsi, nella specie, le condizioni per il ricorso all'analogia legis, nè essendo altrimenti consentito giungere in via interpretativa ad una applicazione retroattiva della L. n. 124 del 2017.”
Per poterci addentrare nelle dinamiche logiche della pronuncia occorre, tuttavia, fissare dapprima alcuni punti fermi ai quali potremo ancorarci per comprendere la rotta tratteggiata dalla Sezioni Unite.
Innanzitutto, a monte, occorre osservare che si è avuta per la prima volta una disciplina positiva organica e generale del contratto di locazione finanziaria – e degli effetti della sua risoluzione – solamente con l’adozione della Legge 4 agosto 2017 n. 124, Pubblicata nella Gazz. Uff. 14 agosto 2017, n. 189 ed entrata in vigore il quindicesimo giorno successivo, pertanto il 29.8.2017. Il comma 138 ha reso dunque generale una disciplina[5] degli effetti della risoluzione del contratto di leasing che era stata dapprima introdotta, in forme simili[6], a livello settoriale, con l’art. 72 quater della legge fallimentare[7], con l’art. 169 bis L. fall.[8] e con il comma 78 della legge di stabilità 2016[9] per quanto attiene la locazione finanziaria di immobile da adibire ad abitazione principale, affermando che: “In caso di risoluzione del contratto per l'inadempimento dell'utilizzatore ai sensi del comma 137, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all'utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all'ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l'esercizio dell'opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell'utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all'ammontare dell'importo dovuto dall'utilizzatore a norma del periodo precedente”.
Prima dell’introduzione, dunque, della legge 124/2017 il contratto di leasing era un contratto c.d. socialmente tipico (con le appena indicate parziali e settoriali positive regolamentazioni), la cui disciplina – ferma la libertà delle parti così come sancita dall’art. 1322 cc – era il risultato del formante giurisprudenziale, che attingeva alle diverse norme dei contratti tipici per costruire un quadro normativo il più possibile coerente, chiaro e certo.
Nell’esercizio interpretativo volto a regolare il contratto di leasing si era venuta, dunque, a creare la distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento: nel primo la causa del contratto e la sua disciplina ponevano l’accento sul godimento del bene (mobile o immobile che fosse) e sulla retribuzione del diritto concesso, nel secondo caso invece l’accento era posto sulla remunerazione del capitale investito in vista dell’acquisto della proprietà. Mutuando le parole di una recente pronuncia della Cassazione[10] si ha “la figura del leasing di godimento se l'insieme dei canoni è significativamente inferiore alla remunerazione del capitale investito nell'operazione di acquisto e concessione in locazione del bene e lascia non coperta una parte rilevante di questo capitale, mentre il prezzo pattuito per l'opzione è di corrispondente livello; ricorre, invece, la figura del leasing traslativo se l'insieme dei canoni remunera interamente il capitale impiegato e il prevedibile valore del bene alla scadenza del contratto sopravanza in modo non indifferente il prezzo di opzione”. Dacché, dal diverso connotarsi della causa dei contratti, derivava anche l’assimilazione – ai fini dell’applicazione analogica delle norme – del leasing di godimento alla locazione e del leasing traslativo alla vendita con riserva della proprietà. Differenza che si concretizzava con forza proprio nelle conseguenze della risoluzione del contratto: nel leasing di godimento, data l’applicazione analogica dell’art. 1458 c.c., si aveva l’irretroattività degli effetti della risoluzione, con la conseguenza che tutte le prestazioni sino a quel momento eseguite restavano ferme; nel leasing traslativo, vista l’applicazione dell’art. 1526 c.c., a fronte della restituzione del bene al concedente, quest’ultimo avrebbe dovuto restituire le rate sino a quel momento riscosse, salvo un equo compenso per l’utilizzo del bene oltre al risarcimento del danno.
In tale ultimo caso, inoltre, si innestava il problema delle clausole penali inserite nei contratti di leasing traslativi volte a consentire al concedente di trattenere i canoni già corrisposti oltre che ad ottenere la restituzione del bene (c.d. clausole di confisca): su di esse poteva intervenire la riduzione equitativa del giudice, quando fosse dimostrato che la loro applicazione comportava una locupletazione per il concedente superiore a quella che avrebbe ricevuto in caso di adempimento del contratto[11].
In questo “contesto” si erano poi innestati, come già sopra evidenziato, l’art. 72quater L. fall., l’art. 169 bis L. fall., il comma 78 della legge di stabilità 2016 (Legge 28/12/2015, n. 208) con riferimento specifico alle locazioni finanziarie di immobili destinati ad abitazione principale e – quale esito del percorso normativo – la legge 124 del 2017.
Da qui dunque l’origine del contrasto giurisprudenziale[12]: le conseguenze della risoluzione del contratto di leasing avvenuta prima del fallimento, ma dopo l’introduzione nell’ordinamento della disposizione dell’art. 72quater L. fall., devono essere regolate dalla norma di diritto vivente che richiama l’applicazione dell’art. 1526 c.c. oppure, per analogia, dall’art. 72quater L. fall., poi reso “generale” dalla legge 124 del 2017[13]?
La prima soluzione – applicazione dell’art. 1526 c.c. – si porrebbe in continuità con l’orientamento pluridecennale formatosi, come si è visto, prima dell’introduzione delle norme settoriali e generali inerenti il contratto di locazione finanziaria. E per superare tale soluzione abbracciando l’applicazione analogica del comma 138 della legge n. 124 del 2017 (diacronica) o dell’art. 72 quater L. fall. (nonostante la diversa sedes materiae) occorrerebbe superare due ostacoli interpretativi: se “l’interpretazione della l. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1 commi 136-140, secondo cui tale norma imporrebbe di abbandonare (anche per i fatti avvenuti prima della sua entrata in vigore) il tradizionale orientamento che applica alla risoluzione del contratto di leasing traslativo l’art. 1526 c.c. sia coerente con i principi comunitari di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento” e “se possa applicarsi in via analogica, anche solo per analogia iuris, una norma inesistente al momento in cui venne ad esistenza la fattispecie concreta non prevista nell’ordinamento; ed in caso affermativo se, con riferimento al caso di specie, tale norma da applicarsi in via analogica possa ravvisarsi nella l. fall., art. 72 quater”.
Concentrandosi in particolare sull’ultima norma richiamata (art. 72quater L. fall.)[14] deve evidenziarsi però che la disposizione si applica alla condizione che il contratto di locazione immobiliare sia ancora pendente alla data del fallimento: ciò nonostante l’introduzione di questa disposizione nell’ordinamento ha fatto sorgere il dubbio che la norma potesse, rectius dovesse, essere applicata anche nel caso opposto, cioè di non-pendenza del contratto, per essersi questo già risolto precedentemente. Ciò, per i propulsori di questa interpretazione, a maggior ragione considerando che tale regolazione degli interessi è stata poi resa di applicazione “generale” con la già citata legge n. 124 del 2017.
Le sezioni unite risolvono il contrasto facendo prevalere il principio della certezza del diritto e della tutela dell’affidamento[15]: occorre applicare, dunque, la normativa (quand’anche di formazione giurisprudenziale, sotto forma di diritto vivente) vigente nel momento della produzione degli effetti giuridici, non già quella esistente nel momento della decisione inerente quegli effetti. E ciò non disconoscendo l’importanza dell’interpretazione storico-evolutiva delle norme, quanto riconoscendo che essa si arresta di fronte all’esigenza di salvaguardare il principio di certezza del diritto.