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Commento

Il leasing alla corte delle Sezioni Unite: confermata la distinzione tra leasing traslativo e di godimento

Giulia Gabassi, Avvocato in Udine

29 Luglio 2021

Visualizza: Cass., Sez. Un. 28 gennaio 2021, n. 2061, Pres. Curzio, Est. Vincenti

Un focus sulla portata e sulle implicazioni del arrêt in tema di locazione finanziaria e sull'assetto delle regole delineato dal giudice nomofilattico.
Riproduzione riservata
1 . La vicenda e la rimessione alle Sezioni Unite
La vicenda processuale trae origine da un contratto di leasing immobiliare (con naturale scadenza a maggio del 2014) concluso tra un istituto bancario e una società e avente ad oggetto un capannone industriale. L’utilizzatore non esercita il diritto di opzione né paga le ultime rate dovute, sicché nel luglio del 2014, dopo la scadenza del contratto, la concedente si avvale della clausola risolutiva espressa e chiede il pagamento dei canoni scaduti. Nel maggio del 2016 la società utilizzatrice viene dichiarata fallita e la concedente chiede, dunque, oltre alla restituzione del bene, di essere ammessa al passivo per l’importo corrispondente ai canoni scaduti e non pagati. Il giudice delegato respinge la domanda, sul presupposto che la risoluzione del contratto era intervenuta prima del fallimento e che quindi dovesse applicarsi l’art. 1526 c.c. e non l’art. 72 quater L. fall., dacché il diritto della concedente solo a vedersi riconosciuto un equo compenso per l’utilizzo della cosa, con correlato obbligo di restituire i canoni già riscossi. Anche l’opposizione allo stato passivo proposta viene rigettata e la concedente propone quindi ricorso in Cassazione, che viene affidato alla Sezione Terza, la quale con ordinanza dd. 25.2.2020 n. 5022 rimette il ricorso al Primo Presidente, per l’assegnazione alle Sezioni Unite.
La sezione terza individua in particolare l’esigenza di un pronunciamento delle Sezioni Unite, in quanto ravvisa l’esistenza di un duplice orientamento giurisprudenziale, il primo – sviluppatosi pressoché inalterato per un trentennio – che propugna l’applicazione analogica ai leasing traslativi dell’art. 1526 c.c., il secondo – sorto a partire dal 2019 – che invoca invece l’applicazione analogica dell’art. 72 quater L. fall.
2 . La decisione
La decisione della Suprema Corte n. 2061 del 28 gennaio 2021[1], resa a Sezioni Unite, risolve dunque un problema tanto dibattuto quanto destinato – nei fatti – a cessare di esistere, man mano che le vertenze inerenti i contratti di leasing risolti prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017 andranno esaurendosi. Va sin da subito evidenziato, infatti, che il principio reso dalla decisione in commento è destinato ad operare solo nel perimetro dei contratti di leasing nei quali i presupposti per la risoluzione del contratto si siano verificati prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017 e che siano stati risolti prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore[2].
Una volta prosciugato, dunque, questo bacino di contratti, il principio reso dalla Corte in tema di leasing sarà privato di efficacia concreta, purtuttavia le argomentazioni e i passaggi logici seguiti dalla Corte per giungere alla soluzione del caso “leasing” potranno certamente mantenere utilità ed efficacia anche una volta che si sia da solo estinto, in ragione del passare del tempo e della cessazione dei contenziosi, il tema per la soluzione del quale sono state utilizzate.
In questa sede, per ragioni redazionali, ci si soffermerà esclusivamente sul principio di diritto intertemporale affermato dalle S.U. sul leasing, segnalando purtuttavia il particolare interesse dell’iter argomentativo svolto dalla Corte e l’importanza anche del secondo principio espresso, in tema di contenuto della domanda di insinuazione del concedente[3].
La sezioni unite specificano, dunque, col primo principio, che: “La L. n. 124 del 2017 (art. 1, commi 136-140) non ha effetti retroattivi e trova, quindi, applicazione per i contratti di leasing finanziario in cui i presupposti della risoluzione per l'inadempimento dell'utilizzatore (previsti dal comma 137)[4] non si siano ancora verificati al momento della sua entrata in vigore; sicchè, per i contratti risolti in precedenza e rispetto ai quali sia intervenuto il fallimento dell'utilizzatore soltanto successivamente alla risoluzione contrattuale, rimane valida la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, dovendo per quest'ultimo social-tipo negoziale applicarsi, in via analogica, la disciplina di cui all'art. 1526 c.c. e non quella dettata dall'art. 72-quater L. Fall., rispetto alla quale non possono ravvisarsi, nella specie, le condizioni per il ricorso all'analogia legis, nè essendo altrimenti consentito giungere in via interpretativa ad una applicazione retroattiva della L. n. 124 del 2017.”
Per poterci addentrare nelle dinamiche logiche della pronuncia occorre, tuttavia, fissare dapprima alcuni punti fermi ai quali potremo ancorarci per comprendere la rotta tratteggiata dalla Sezioni Unite.
Innanzitutto, a monte, occorre osservare che si è avuta per la prima volta una disciplina positiva organica e generale del contratto di locazione finanziaria – e degli effetti della sua risoluzione – solamente con l’adozione della Legge 4 agosto 2017 n. 124, Pubblicata nella Gazz. Uff. 14 agosto 2017, n. 189 ed entrata in vigore il quindicesimo giorno successivo, pertanto il 29.8.2017. Il comma 138 ha reso dunque generale una disciplina[5] degli effetti della risoluzione del contratto di leasing che era stata dapprima introdotta, in forme simili[6], a livello settoriale, con l’art. 72 quater della legge fallimentare[7], con l’art. 169 bis L. fall.[8] e con il comma 78 della legge di stabilità 2016[9] per quanto attiene la locazione finanziaria di immobile da adibire ad abitazione principale, affermando che: “In caso di risoluzione del contratto per l'inadempimento dell'utilizzatore ai sensi del comma 137, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all'utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all'ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l'esercizio dell'opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell'utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all'ammontare dell'importo dovuto dall'utilizzatore a norma del periodo precedente”.
Prima dell’introduzione, dunque, della legge 124/2017 il contratto di leasing era un contratto c.d. socialmente tipico (con le appena indicate parziali e settoriali positive regolamentazioni), la cui disciplina – ferma la libertà delle parti così come sancita dall’art. 1322 cc – era il risultato del formante giurisprudenziale, che attingeva alle diverse norme dei contratti tipici per costruire un quadro normativo il più possibile coerente, chiaro e certo. 
Nell’esercizio interpretativo volto a regolare il contratto di leasing si era venuta, dunque, a creare la distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento: nel primo la causa del contratto e la sua disciplina ponevano l’accento sul godimento del bene (mobile o immobile che fosse) e sulla retribuzione del diritto concesso, nel secondo caso invece l’accento era posto sulla remunerazione del capitale investito in vista dell’acquisto della proprietà. Mutuando le parole di una recente pronuncia della Cassazione[10] si ha “la figura del leasing di godimento se l'insieme dei canoni è significativamente inferiore alla remunerazione del capitale investito nell'operazione di acquisto e concessione in locazione del bene e lascia non coperta una parte rilevante di questo capitale, mentre il prezzo pattuito per l'opzione è di corrispondente livello; ricorre, invece, la figura del leasing traslativo se l'insieme dei canoni remunera interamente il capitale impiegato e il prevedibile valore del bene alla scadenza del contratto sopravanza in modo non indifferente il prezzo di opzione”. Dacché, dal diverso connotarsi della causa dei contratti, derivava anche l’assimilazione – ai fini dell’applicazione analogica delle norme – del leasing di godimento alla locazione e del leasing traslativo alla vendita con riserva della proprietà. Differenza che si concretizzava con forza proprio nelle conseguenze della risoluzione del contratto: nel leasing di godimento, data l’applicazione analogica dell’art. 1458 c.c., si aveva l’irretroattività degli effetti della risoluzione, con la conseguenza che tutte le prestazioni sino a quel momento eseguite restavano ferme; nel leasing traslativo, vista l’applicazione dell’art. 1526 c.c., a fronte della restituzione del bene al concedente, quest’ultimo avrebbe dovuto restituire le rate sino a quel momento riscosse, salvo un equo compenso per l’utilizzo del bene oltre al risarcimento del danno.
In tale ultimo caso, inoltre, si innestava il problema delle clausole penali inserite nei contratti di leasing traslativi volte a consentire al concedente di trattenere i canoni già corrisposti oltre che ad ottenere la restituzione del bene (c.d. clausole di confisca): su di esse poteva intervenire la riduzione equitativa del giudice, quando fosse dimostrato che la loro applicazione comportava una locupletazione per il concedente superiore a quella che avrebbe ricevuto in caso di adempimento del contratto[11].
In questo “contesto” si erano poi innestati, come già sopra evidenziato, l’art. 72quater L. fall., l’art. 169 bis L. fall., il comma 78 della legge di stabilità 2016 (Legge 28/12/2015, n. 208) con riferimento specifico alle locazioni finanziarie di immobili destinati ad abitazione principale e – quale esito del percorso normativo – la legge 124 del 2017.
Da qui dunque l’origine del contrasto giurisprudenziale[12]: le conseguenze della risoluzione del contratto di leasing avvenuta prima del fallimento, ma dopo l’introduzione nell’ordinamento della disposizione dell’art. 72quater L. fall., devono essere regolate dalla norma di diritto vivente che richiama l’applicazione dell’art. 1526 c.c. oppure, per analogia, dall’art. 72quater L. fall., poi reso “generale” dalla legge 124 del 2017[13]?
La prima soluzione – applicazione dell’art. 1526 c.c. – si porrebbe in continuità con l’orientamento pluridecennale formatosi, come si è visto, prima dell’introduzione delle norme settoriali e generali inerenti il contratto di locazione finanziaria. E per superare tale soluzione abbracciando l’applicazione analogica del comma 138 della legge n. 124 del 2017 (diacronica) o dell’art. 72 quater L. fall. (nonostante la diversa sedes materiae) occorrerebbe superare due ostacoli interpretativi: se “l’interpretazione della l. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1 commi 136-140, secondo cui tale norma imporrebbe di abbandonare (anche per i fatti avvenuti prima della sua entrata in vigore) il tradizionale orientamento che applica alla risoluzione del contratto di leasing traslativo l’art. 1526 c.c. sia coerente con i principi comunitari di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento” e “se possa applicarsi in via analogica, anche solo per analogia iuris, una norma inesistente al momento in cui venne ad esistenza la fattispecie concreta non prevista nell’ordinamento; ed in caso affermativo se, con riferimento al caso di specie, tale norma da applicarsi in via analogica possa ravvisarsi nella l. fall., art. 72 quater”.
Concentrandosi in particolare sull’ultima norma richiamata (art. 72quater L. fall.)[14] deve evidenziarsi però che la disposizione si applica alla condizione che il contratto di locazione immobiliare sia ancora pendente alla data del fallimento: ciò nonostante l’introduzione di questa disposizione nell’ordinamento ha fatto sorgere il dubbio che la norma potesse, rectius dovesse, essere applicata anche nel caso opposto, cioè di non-pendenza del contratto, per essersi questo già risolto precedentemente. Ciò, per i propulsori di questa interpretazione, a maggior ragione considerando che tale regolazione degli interessi è stata poi resa di applicazione “generale” con la già citata legge n. 124 del 2017.
Le sezioni unite risolvono il contrasto facendo prevalere il principio della certezza del diritto e della tutela dell’affidamento[15]: occorre applicare, dunque, la normativa (quand’anche di formazione giurisprudenziale, sotto forma di diritto vivente) vigente nel momento della produzione degli effetti giuridici, non già quella esistente nel momento della decisione inerente quegli effetti. E ciò non disconoscendo l’importanza dell’interpretazione storico-evolutiva delle norme, quanto riconoscendo che essa si arresta di fronte all’esigenza di salvaguardare il principio di certezza del diritto.
3 . Osservazioni conclusive
Dall’applicazione del principio espresso dalle S.U. discende, dunque, che il leasing traslativo i cui presupposti per la risoluzione si siano verificati prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017 e che sia stato risolto prima del fallimento dell’utilizzatore deve continuare a essere regolato dall’art. 1526 e ciò sia che la risoluzione sia avvenuta prima dell’entrata in vigore dell’art. 72quater sia che sia intervenuta dopo: la regola, dunque, è che l’art. 72quater L. fall. non può essere applicato analogicamente a fattispecie estranee rispetto a quella espressamente regolata, cioè il contratto pendente alla data di fallimento[16]. Di converso, la legge 124 del 2017 regolerà esclusivamente gli effetti delle risoluzioni intervenute dopo la sua entrata in vigore. 
Si tratta insomma, parafrasando una nota canzone, di “questione di tempi”: per risolvere il caso concreto occorre identificare il momento in cui si sono verificati i presupposti per la risoluzione del contratto perché quello è lo spartiacque temporale che ci consente di dire se le conseguenze della risoluzione verranno disciplinate dall’art. 1526[17] c.c. o se dalla legge 124 del 2017, lasciando all’art. 72quater L. fall. solamente lo spazio applicativo diretto dei contratti di leasing pendenti alla data della dichiarazione di fallimento.
Una sola notazione su quest’ultimo punto: sembra doversi dire che l’art. 72quater disciplinerà gli effetti dello scioglimento del contratto (deciso dal curatore) anche quando i presupposti per la risoluzione si siano verificati prima della dichiarazione di fallimento, ma la risoluzione non sia stata chiesta (in via giudiziale o stragiudiziale, ricorrendo l’esistenza di una clausola risolutiva espressa o di una diffida ad adempiere) prima della dichiarazione di fallimento, ciò in applicazione dell’art. 72, 5° co. L. fall., che prevede che solo l’azione di risoluzione che sia stata promossa prima del fallimento possa essere opposta al curatore. 
Resta da chiedersi, dunque, se nei rapporti tra applicazione dell’art. 1526 cc. e dell’art. 72quater L. fall. ciò che rileva non sia il verificarsi dei presupposti per la risoluzione, quanto l’esercizio del diritto di risolvere il contratto[18].

Note:

[1] 
Pubblicata in questa Rivista (https://dirittodellacrisi.it/articolo/cass-sez-un-28-gennaio-2021-n-2061-pres-curzio-est-vincenti) e in Fall., 2021, p. 781 con nota di Fichera. V. anche Errede, Le Sezioni Unite pongono fine all’annosa questione della disciplina applicabile al contratto di leasing traslativo risolto prima della dichiarazione di fallimento, in ilcaso.it.
[2] 
E che non riguardino immobili destinati ad abitazione principale dell’utilizzatore, come si dirà infra.
[3] 
Il secondo principio recita: “In base alla disciplina dettata dall'art. 1526 c.c., in caso di fallimento dell'utilizzatore, il concedente che aspiri a diventare creditore concorrente ha l'onere di formulare una completa domanda di insinuazione al passivo, ex art. 93 L. Fall., in seno alla quale, invocando ai fini del risarcimento del danno l'applicazione dell'eventuale clausola penale stipulata in suo favore, dovrà offrire al giudice delegato la possibilità di apprezzare se detta penale sia equa ovvero manifestamente eccessiva, a tal riguardo avendo l'onere di indicare la somma esattamente ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto di leasing, ovvero, in mancanza, di allegare alla sua domanda una stima attendibile del valore di mercato del bene medesimo al momento del deposito della stessa”.
[4] 
Il quale prescrive che “Costituisce grave inadempimento dell'utilizzatore il mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i leasing immobiliari, ovvero di quattro canoni mensili anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria.”. le S.U. al riguardo precisano che si tratta di norma imperativa, insuscettibile dunque di deroghe pattizie.
[5] 
Non è questa la sede per indagare le pur presenti differenze tra le discipline, considerando la sostanziale identità di disciplina.
[6] 
Si scrive simili in quanto, soprattutto nel confronto con l’art. 72quater L. fall., occorre evidenziare che in quest’ultima norma il credito scaduto e non pagato alla data del fallimento deve essere fatta oggetto di insinuazione. 
[7] 
Articolo inserito dall'art. 59, comma 1, D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, a decorrere dal 16 luglio 2006 e modificato dall'art. 4, comma 8, D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, a decorrere dal 1° gennaio 2008, che recita: “Al contratto di locazione finanziaria si applica, in caso di fallimento dell'utilizzatore, l'articolo 72. Se è disposto l'esercizio provvisorio dell'impresa il contratto continua ad avere esecuzione salvo che il curatore dichiari di volersi sciogliere dal contratto.
In caso di scioglimento del contratto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a versare alla curatela l'eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al credito residuo in linea capitale; per le somme già riscosse si applica l'articolo 67, terzo comma, lettera a). Il concedente ha diritto ad insinuarsi nello stato passivo per la differenza fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene. In caso di fallimento delle società autorizzate alla concessione di finanziamenti sotto forma di locazione finanziaria, il contratto prosegue; l'utilizzatore conserva la facoltà di acquistare, alla scadenza del contratto, la proprietà del bene, previo pagamento dei canoni e del prezzo pattuito.”.
[8] 
U.c. aggiunto dall’art. 8, comma 1, lett. d), D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015, n. 132, che recita: “In caso di scioglimento del contratto di locazione finanziaria, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a versare al debitore l'eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al credito residuo in linea capitale. La somma versata al debitore a norma del periodo precedente è acquisita alla procedura. Il concedente ha diritto di far valere verso il debitore un credito determinato nella differenza tra il credito vantato alla data del deposito della domanda e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene. Tale credito è soddisfatto come credito anteriore al concordato”.
[9] 
Legge 28/12/2015, n. 208, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, il cui co. 78 recita: “In caso di risoluzione del contratto di locazione finanziaria per inadempimento dell'utilizzatore, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all'utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene avvenute a valori di mercato, dedotta la somma dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere attualizzati e del prezzo pattuito per l'esercizio dell'opzione finale di acquisto.
L'eventuale differenza negativa è corrisposta dall'utilizzatore al concedente. Nelle attività di vendita e ricollocazione del bene, di cui al periodo precedente, la banca o l'intermediario finanziario deve attenersi a criteri di trasparenza e pubblicità nei confronti dell'utilizzatore.”
[10] 
Cass. civ., Sez. III, Sentenza, 23/05/2019, n. 13965.
[11] 
Mentre legittime sono state considerate le clausole penali che consentivano al concedente di acquisire i canoni riscossi, ma con detrazione delle somme ricavate dalla futura vendita del bene restituito. Come sottolineato dalle S.U. trattavasi di “patto che, quale espressione di una razionalità propria della realtà socio-economica, ha trovato origine e sviluppo nell’ambito dell’autonomia privata, il cui regolamento è stato (omissis) assunto dal legislatore a parametro di una disciplina dapprima solo settoriale e specifica (tra cui quella dettata dall’art. 72-quater L. fall.) e poi, da un dato momento in avanti, generale (con la l. n. 124 del 2017)”. 
[12] 
I termini del contrasto sono ben evidenziati nell’ordinanza di rimessione della terza sezione, 25 febbraio 2020, n. 5022, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2020, I, p. 784 con nota di Maisano. L’indirizzo “nuovo” nel senso dell’applicazione analogica dell’art. 72quater L. fall. è stato inaugurato con la pronuncia della Sezione I, 29 maggio 2019, n. 8980, in Giur. It., 2019, 2361, con nota di Viti e in Fall., 2019, 759, con nota di Finardi, ove è pubblicata anche la conforme Cass., sez. I, 10 maggio 2019, n. 12552 (stesso estensore della precedente). Nel senso dell’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. la casistica è amplissima, ma merita riportare le pronunce citate dalle stesse S.U. che esprimono il principio che l’art. 72-quater è “norma, di natura eccezionale, a valenza e portata endoconcorsuale”: tra le altre, Cass., 9 febbraio 2016, n. 2538, Cass., 13 febbraio 2017, n. 3750, Cass., 7 settembre 2017, n. 20890, Cass., 15 settembre 2017, n. 21476, Cass., 12 giugno 2018, n. 15202, Cass., 18 giugno 2018, n. 15975, Cass., 17 aprile 2019, n. 10733 e anche dopo il revirement del 2019, v. Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 24 gennaio 2020, n. 1581.
[13] 
Abbastanza evidenti sono anche le conseguenze “indirette” dell’una o dell’altra ricostruzione: consentire l’applicazione di un solo quadro normativo a tutte le controversie in corso, senza dover distinguere le normative a seconda del momento estintivo del rapporto negoziale oppure di converso applicare alla fattispecie concreta la soluzione normativa “vigente” al momento del verificarsi dei suoi presupposti.
[14] 
Di cui nella maggior parte dei casi viene invocata l’applicazione analogica.
[15] 
Ampia analisi meriterebbe il punto, purtuttavia in questa sede ci si limita a rilevare che il principio della certezza del diritto è sancito – e da tal sede è tratto anche dalle S.U. – nell’art. 6 della CEDU e si esplicherebbe in tre corollari (così l’ordinanza di rimessione): “il principio di irretroattività delle norme, il principio di tutela del legittimo affidamento ed il principio di salvaguardia dei diritti quesiti”. La CEDU è assunta a norma eurounitaria in forza del rinvio operato dall’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea.
[16] 
La diversa soluzione, precisano le S.U., costituisce una “operazione disallineata rispetto ai criteri posti dall’art. 12 preleggi e avente carattere di dissimulata applicazione retroattiva della stessa l. n. 1234 del 2017”.
[17] 
In applicazione della teoria c.d. del fatto compiuto.
[18] 
Senza che in questa sede sia possibile approfondire il punto, occorre rilevare l’importanza della questione, perché impone innanzitutto di chiedersi se occorre guardare al momento in cui la risoluzione può dirsi avvenuta o al momento in cui la formazione progressiva della fattispecie estintiva è iniziata: ad esempio, in caso di risoluzione ex art. 1454 c.c. con diffida ad adempiere, è sufficiente che la diffida sia stata indirizzata prima della dichiarazione di fallimento (rectius sia stata ricevuta dal destinatario, trattandosi di atto recettizio) oppure la fattispecie deve essersi conclusa anteriormente per il trascorrere del congruo termine? Ancora, se la risoluzione stragiudiziale è stata esercitata prima, ma l’azione di accertamento della stessa è incominciata dopo il fallimento, quid iuris? Sul punto, senza la minima pretesa di completezza, si vedano ad es. Cass. civ., Sez. VI - 1, Ordinanza, 09 agosto 2017, n. 19914 e Cassazione civile, sez. I, 4 marzo 2013, n. 5298, in Unijuris.it. Si noti solo che nella vertenza oggetto di pronuncia delle S.U., si ricava dalla descrizione del caso che la concedente aveva dichiarato di avvalersi della clausola risolutiva espressa ante fallimento e aveva poi presentato domanda di insinuazione al passivo per le rate insolute.

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  • - a soggetti che possono accedere ai dati in forza di disposizione di legge, di regolamento o di normativa comunitaria, nei limiti previsti da tali norme;
  • - a soggetti che hanno necessità di accedere ai dati per finalità ausiliare al rapporto che intercorre tra l’interessato e la Società, nei limiti strettamente necessari per svolgere i compiti ausiliari.

Diritti dell’interessato - Ai sensi degli artt. 15 e ss GDPR, l’interessato potrà esercitare i seguenti diritti:

  • 1. accesso: conferma o meno che sia in corso un trattamento dei dati personali dell’interessato e diritto di accesso agli stessi; non è possibile rispondere a richieste manifestamente infondate, eccessive o ripetitive;
  • 2. rettifica: correggere/ottenere la correzione dei dati personali se errati o obsoleti e di completarli, se incompleti;
  • 3. cancellazione/oblio: ottenere, in alcuni casi, la cancellazione dei dati personali forniti; questo non è un diritto assoluto, in quanto le Società potrebbero avere motivi legittimi o legali per conservarli;
  • 4. limitazione: i dati saranno archiviati, ma non potranno essere né trattati, né elaborati ulteriormente, nei casi previsti dalla normativa;
  • 5. portabilità: spostare, copiare o trasferire i dati dai database delle Società a terzi. Questo vale solo per i dati forniti dall’interessato per l’esecuzione di un contratto o per i quali è stato fornito consenso e espresso e il trattamento viene eseguito con mezzi automatizzati;
  • 6. opposizione al marketing diretto;
  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

Dati di contatto - Società per lo studio del diritto della crisi con sede in via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN); email: ssdirittodellacrisi@gmail.com.

Responsabile della protezione dei dati - Il Responsabile della protezione dei dati non è stato nominato perché non ricorrono i presupposti di cui all’art 37 del Regolamento (UE) 2016/679.

Il TITOLARE

del trattamento dei dati personali

Società per lo studio del diritto della crisi

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