La visione originaria del concordato preventivo nella legge fallimentare [1] era fondata sull’idea di un accordo tra la maggioranza dei creditori e il debitore diretto alla sistemazione dei debiti nelle due forme del concordato in garanzia e del concordato con cessione dei beni[2]. La procedura, cui era ammesso soltanto l’imprenditore che si trovasse in stato d’insolvenza, si fondava su requisiti di meritevolezza, essendo diretta a premiare l’imprenditore “sfortunato, ma onesto”[3] e comportava il pagamento integrale dei creditori privilegiati e dei creditori chirografari nella misura del 40%. Anche nel caso della cessione dei beni occorreva che la proposta potesse far fondatamente ritenere che i creditori sarebbero stati soddisfatti almeno in tale misura. La proposta doveva essere conveniente per i creditori rispetto al fallimento, che poteva essere dichiarato d’ufficio dal tribunale quando la domanda non avesse trovato accoglimento. Ne derivava che la finalità della procedura era da un lato il soddisfacimento dei creditori secondo modalità e percentuali più favorevoli di quelli propri del fallimento e dall’altro per il debitore la sistemazione della situazione debitoria perché all’omologazione del concordato si accompagnava l’effetto esdebitatorio, allora non previsto in caso di fallimento[4].
Si potrebbe dire che dall’assetto del concordato preventivo nella disciplina originaria della legge fallimentare del 1942 esulava ogni finalità di conservazione dell’impresa. Tale conclusione urta però con le parole del Guardasigilli Grandi nella Relazione al Re[5] che, dopo aver osservato che il fallimento tende alla liquidazione dell’impresa, aggiunge: “…Questo carattere si rivela esorbitante rispetto a quelle crisi economiche che non sono indici di mancanza di vitalità dell’impresa, e che possono essere superate senza arrivare alla liquidazione dell’impresa. La legge del 1903 sul concordato preventivo, correttivo e quasi antidoto al fallimento, ha inteso precisamente far fronte a tali speciali situazioni e l’istituto del concordato preventivo, ormai collaudato da un quarantennio di esperienza, non poteva non essere coordinato con la nuova legge sul fallimento”.
Tra le finalità del concordato vi era dunque anche la conservazione dell’impresa, ancorché vista come evento auspicabile, ma certo non probabile. Del resto lo stesso Guardasigilli, in altra parte della Relazione, confrontando il concordato preventivo con l’amministrazione controllata, allora di nuova istituzione, osservava[6] che nella vita di un’impresa poteva accadere che si determinasse una crisi temporanea che rendeva impossibile l’immediato e regolare soddisfacimento delle obbligazioni senza che si potesse parlare di insolvenza e soprattutto di incapacità dell’impresa a riacquistare il suo normale equilibrio. Per tale ipotesi il concordato preventivo non poteva essere una soluzione conveniente. A questo fine tendeva l'amministrazione controllata, “la quale, rispetto al concordato è come la medicina rispetto alla operazione chirurgica, che non può guarire l'ammalato senza lederne in maggiore o minore misura l'integrità”.
Già prima della riforma Vietti, attuata tra il 2005 ed il 2006, si è registrata sia in dottrina che in giurisprudenza un’evoluzione, diretta a recuperare nel testo normativo esistente, anche in analogia e contaminazione con un processo già evidente in altri ordinamenti, soprattutto negli Stati Uniti, ed in Italia nel nuovo istituto dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi introdotto dalla legge Prodi del 1979, gli spazi utili alla ristrutturazione ed alla conservazione dell’impresa, spazi peraltro che i rigidi vincoli previsti dal legislatore limitavano notevolmente.
Giovanni Lo Cascio aveva rilevato per tempo, sulla scorta di alcuni arresti giurisprudenziali, che il concordato per cessio bonorum poteva essere strumento di conservazione dell’impresa attraverso la continuazione dell’attività in capo ad un soggetto terzo, ancorché mancasse un dato normativo che permettesse di identificare un interesse in tal senso[7]. Lo stesso autore aveva sottolineato, sempre nella vigenza del testo ancora non riformato della legge fallimentare, l’evoluzione della concezione d’impresa, non più da considerare “esercizio di un’attività professionale riservata all’imprenditore, ma …centro di confluenza delle diverse componenti aziendali….anche di equilibrio delle posizioni conflittuali in funzione della sua salvaguardia”[8].
La riforma della legge fallimentare del 2005-2006 introduce profonde modifiche nella disciplina del concordato preventivo, in armonia con l’intera riforma che muove dalla premessa che l’interesse della procedura concorsuale non è più focalizzato sull’eliminazione dell’impresa insolvente, quanto piuttosto sulla ricerca di ogni possibile strumento per salvaguardare il recupero, se possibile, dell’impresa in difficoltà. La riforma si fonda sulla centralità dell’interesse del ceto creditizio, sul contingentamento dei tempi dell’azione revocatoria il cui eccessivo rigore rappresenta un ostacolo al recupero dell’impresa in difficoltà, sull’introduzione di strumenti alternativi per la risoluzione della crisi ( il piano attestato di risanamento, gli accordi di ristrutturazione). Lo stesso concordato muta natura perché, eliminati i requisiti di meritevolezza, assume caratteristiche del tutto nuove. Il debitore può accedere alla procedura anche quando si trova soltanto in stato di crisi ( cui verrà poi affiancato, quale requisito oggettivo, anche lo stato di insolvenza consentendo alle imprese di avviare il tentativo di ristrutturazione quando la loro situazione è già seriamente compromessa). Spariscono i requisiti minimi di soddisfacimento dei creditori. Il contenuto della proposta si deve fondare su un piano a contenuto libero, che può prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, ivi compresa la cessione delle attività ad un terzo e l’accollo. La suddivisione, facoltativa, dei creditori in classi e la previsione di trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse, attenuano i vincoli derivanti dal rispetto del principio della par condicio. La ripartizione dei creditori in classi non consente tuttavia di attenuare il vincolo derivante dall’art. 2740 c.c. Il debitore continua a rispondere delle proprie obbligazioni con tutto il patrimonio, ma sono ammesse differenze di trattamento a livello orizzontale tra le diverse classi di creditori, fermo restando tuttavia il rispetto delle cause di prelazione.
Le finalità della riforma non sono espressamente enunciate nel testo delle norme. Tuttavia esse risultano evidenti dall’esame del disegno riformatore nel suo complesso. Alla tutela dei creditori, che rimane legata alla previsione del requisito della fattibilità del piano, che sarà poi oggetto di approfondimento nel dibattito tra dottrina e giurisprudenza, ed alla tutela dell’interesse del debitore a raggiungere un accordo esdebitatorio con i creditori, si accompagna l’obiettivo del risanamento e della prosecuzione dell’attività, che non è però un requisito vincolante della procedura, posto che il concordato può avere carattere liquidatorio, senza che debba essere necessariamente prevista la prosecuzione in capo ad un terzo acquirente. La riforma è ispirata all’importazione nel nostro ordinamento di modelli stranieri di ristrutturazione dell’impresa, soprattutto il Chapter 11 americano, ma tale obiettivo viene realizzato innestando le nuove regole sul tessuto normativo esistente con il metodo della novellazione.
Il risultato è un sistema ibrido. La ristrutturazione e la prosecuzione dell’attività d’impresa è possibile, ma nel contempo il concordato rimane uno strumento per evitare il fallimento, spogliato dei connotati afflittivi che lo caratterizzavano, ma sempre fonte di preoccupazione per l’imprenditore anche per le possibili conseguenze penali. La possibilità di accedere quando già l’insolvenza è conclamata e di proporre una soluzione liquidatoria, rendono il sistema bivalente. La prosecuzione e la ristrutturazione dell’impresa è una finalità esistente, ma sovente irrealistica. La mancata previsione di un soddisfacimento minimo per i creditori, salvo che per i creditori privilegiati nei limiti della capienza della garanzia che assiste il credito, consente la presentazione di piani dove per i creditori chirografari il vantaggio rispetto all’ipotesi fallimentare è illusorio. La giurisprudenza, applicando il principio della causa in concreto, interverrà a tutelarne gli interessi. Le Sezioni Unite, infatti, sciogliendo il nodo in ordine all’interpretazione della nozione di fattibilità del piano, ed affermando che tale nozione si riferisce alla fattibilità giuridica, non economica, del piano stesso, rimessa quest’ultima all’apprezzamento dei creditori attraverso il voto, affermano che la fattibilità giuridica riguarda anche la realizzabilità della causa in concreto, intesa come “obiettivo specifico perseguito dal procedimento, che non ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento finalizzato al superamento della situazione di crisi dell'imprenditore, da un lato, e all'assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori ( corsivo nostro), da un altro”[9]. La giurisprudenza in seguito confermerà quest’orientamento osservando che la fattibilità giuridica comporta “il riconoscimento in favore dei creditori di una sia pur minimale consistenza del credito vantato in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti”[10].
Il concordato preventivo, pur con questi evidenti limiti, garantisce il ceto creditorio rispetto al modello alternativo, la procedura di amministrazione straordinaria che, introdotta nel nostro ordinamento nel 1979 con la c.d. legge Prodi[11], viene modificata ed aggiornata con il d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 che tiene conto dei vincoli che derivavano dal divieto UE di aiuti di Stato ( c.d. legge Prodi bis), e con il d.l. Marzano ( d.l.23 dicembre 2003, n. 347 convertito in legge 39/2004).
L’art. 1 della legge 270/99 indica le finalità della procedura precisando che “L'amministrazione straordinaria è la procedura concorsuale della grande impresa commerciale insolvente, con finalità conservative del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali”. Significativamente si parla di conservazione dell’attività produttiva nell’interesse pubblico collettivo, non del patrimonio del debitore nell’interesse dei creditori. Nell’amministrazione straordinaria il legislatore non pone alcun vincolo in favore dei creditori. L’interesse generale alla conservazione della grande impresa, ancorché insolvente, è tuttavia legato, ai sensi dell’art. 27, comma 1, della legge, all’esistenza di “concrete prospettive di recupero dell'equilibrio economico delle attività imprenditoriali”. Gli artt. 62-63 della legge nel disciplinare l’alienazione dei beni, in particolare l’art. 63, pongono una serie di vincoli che individuano chiaramente una seconda finalità della procedura, il mantenimento dell’occupazione. Ed infatti la valutazione dell’azienda tiene conto della c.d. redditività negativa, vale a dire degli oneri che il cessionario si addossa, impegnandosi a proseguire l’attività per un biennio ed a mantenere i livelli occupazionali per il medesimo periodo. La scelta dell’acquirente è effettuata tenendo conto tra le altre cose, del piano di prosecuzione dell’attività imprenditoriale che questi ha presentato, anche con riguardo alla garanzia di mantenimento dei livelli occupazionali. Sorge quindi spontanea la domanda se nella gestione della procedura i commissari straordinari debbano tener conto dell’interesse dei creditori. Di fatto nella maggior parte delle procedure si assiste alla consumazione dell’attivo, nel gioco perverso dell’accumulo delle perdite di gestione e del maturare di crediti in prededuzione, nel tentativo di proseguire l’attività senza che i creditori ricevano adeguata tutela.
L’art. 55 della legge con riferimento al caso in cui la procedura sia attuata attraverso il programma di cessione dei complessi aziendali, e non tramite la prosecuzione diretta dell’attività ( oggi nel linguaggio del codice della crisi si direbbe: per il tramite della continuità indiretta anziché della continuità diretta) prevede che il programma debba salvaguardare l’unità operativa dei complessi aziendali, tenendo conto degli interessi dei creditori. La loro tutela non è dunque l’obiettivo primario[12]. A ciò si aggiunge il fatto che i creditori, a differenza di quanto avviene nel concordato preventivo, non votano e non approvano il piano.
Molte saranno le successive modifiche della disciplina del concordato preventivo che interverranno a correggere ora questo ora quel profilo della riforma Vietti. Il d.l. 30.12. 2005, n. 273, come si è detto, affianca lo stato di insolvenza allo stato di crisi quale presupposto oggettivo della procedura. Il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, introduce la procedura con riserva che consente di accedere alla tutela dalle azioni esecutive dei creditori beneficiando di uno spatium temporis per la redazione e presentazione del piano, soluzione questa che darà luogo a incresciosi casi di abuso del ricorso alla procedura a fronte di imprese prive di ogni possibilità di effettivo risanamento. La riforma del 2012[13] aggiunge alla legge fallimentare l’art. 186 bis e quindi il concordato in continuità, espressamente focalizzato sulla conservazione e sulla prosecuzione dell’attività sia direttamente da parte del debitore che attraverso la cessione ad un terzo. Nasce l’istituto della continuità diretta ed indiretta. In tali ipotesi é ammessa la liquidazione delle attività non funzionali alla prosecuzione dell’attività. Ed è prevista una moratoria a carico dei creditori titolari di pegno, privilegio od ipoteca quando i beni oggetto della garanzia non debbono essere liquidati. La tutela dell’interesse dei creditori è affermata con rigore dalla norma perché l’attestatore deve certificare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
Il vincolo tuttavia è meno rigoroso[14] di quanto potrebbe apparire a prima vista perché è subito nozione di comune esperienza che la vendita atomistica dei beni determina un calo verticale del valore degli asset, anche in ragione della frequente presenza nell’attivo dei c.d. intangibles, beni immateriali il cui valore di realizzo è strettamente legato al mantenimento dell’impresa in continuità. Il miglior soddisfacimento potrebbe forse essere verificato per il tramite del confronto con altre ipotesi di piano, ma l’istituto delle proposte concorrenti, successivamente introdotto dal legislatore con il d.l. 83/2015, non ha significativa attuazione.
La moratoria sui crediti dei creditori privilegiati relativamente ai beni vincolati alla prosecuzione dell’attività indica tuttavia che la tutela dei creditori incontra vincoli direttamente collegati alla realizzazione del progetto di ristrutturazione.
La riforma del 2015[15] rafforza seriamente le garanzie di soddisfacimento dei creditori, indicando complessivamente la volontà del legislatore di assicurare che questa finalità del concordato non rimanga lettera vuota. Si impone nel concordato liquidatorio l’obbligo per il debitore di corrispondere ai creditori chirografari una percentuale minima del 20% e si prevede che la proposta, anche nel caso del concordato con continuità dove la percentuale minima non si applica, debba indicare l'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore. Prevedere tale utilità a favore di ogni creditore equivale a dire che ogni creditore chirografario deve ricevere denaro o altre utilità dal concordato e che quindi non vi possono essere proposte, in continuità o meno, che non riconoscano qualcosa a tutti i creditori. Se non è possibile pagare almeno in percentuale minima tutti i creditori, si deve far luogo al fallimento, sacrificando l’azienda, salvo che il curatore possa ancora cederla in continuità. Questa regola, sia pur attenuata dalla possibilità che l’utilità in favore dei creditori possa derivare dalla prosecuzione di contratti in corso, verrà mantenuta dal codice della crisi, con la conseguenza che il legislatore non si limita a richiedere che ai creditori venga riconosciuto un trattamento non deteriore rispetto a quanto essi potrebbero ottenere in sede di liquidazione giudiziale, ma vuole che ad ogni creditore derivi un vantaggio, economicamente valutabile, e quindi un minimo soddisfacimento dei loro crediti.
Nella prima versione del codice, approvata con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, poi non entrata in vigore per effetto dei successivi rinvii conseguenti alla pandemia e alla necessità di adeguare il testo alla Direttiva Insolvency, il legislatore all’art. 84, comma 2, ult. parte, richiede che la continuità, diretta o indiretta, sia “funzionale ad assicurare il ripristino dell’equilibrio economico-finanziario nell’interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci”, precisando che nel caso di continuità indiretta la regola si applica, in quanto compatibile, anche nel caso di attività aziendale proseguita da soggetto diverso dall’imprenditore.
Nel testo in vigore del codice il riferimento alla tutela dell’imprenditore e dei soci è scomparso, anche se, come vedremo, non può ritenersi che questi interessi non siano attualmente tutelati.
E’ sparito, salvo che nella disciplina dei gruppi, anche il riferimento, già contenuto nell’art. 186 bis l.fall. sin dal 2012, al miglior soddisfacimento dei creditori cui doveva essere funzionale la prosecuzione dell’attività d’impresa secondo l’attestazione del professionista. Tale requisito era ripreso dall’art. 87, comma 1, lett. f) tra gli elementi che dovevano essere indicati dal piano.
La dottrina[16], ma anche la giurisprudenza[17] non hanno avuto dubbi nel ritenere che il requisito previsto dall’art. 186 bis, che imponeva all’attestatore di accertare che la soluzione concordataria in continuità assicurasse il miglior soddisfacimento dei creditori, implicasse in sostanza il confronto tra le alternative possibili, in particolar modo l’alternativa della liquidazione fallimentare, secondo un criterio sostanzialmente non difforme dal meccanismo del cram down. La prosecuzione dell’attività d’impresa e quindi la sua conservazione era condizionata alla compatibilità di tale scelta con la miglior tutela dei creditori rispetto all’alternativa liquidatoria.
Se così stanno le cose, la nuova versione del codice non ha modificato le scelte di fondo del legislatore, perché, come vedremo, la tutela prioritaria dei creditori cui rimane condizionata la possibilità di avvalersi del concordato, permane.