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Commento

Due decisioni articolate sulle conseguenze del mancato versamento del trattamento di fine rapporto da parte dell’impresa poi fallita a un fondo di previdenza*

Enrico Gragnoli, Ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Parma

18 Settembre 2023

*Il commento è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.

Visualizza: Cass., 7 giugno 2023, n. 16116, Pres. Cristiano, Est. Vella

Visualizza: Cass., Sez. L, 28 giugno 2023, n. 18477, Pres. Berrino, Est. Patti

Cass., 7 giugno 2023, n. 16116, Pres. Cristiano, Est. Pazzi
In tema di previdenza complementare, il generico riferimento, contenuto nell’art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 252/2005, al "conferimento" del TFR maturando alle forme pensionistiche complementari, lascia aperta la possibilità che le parti, nell’esplicazione dell’autonomia negoziale loro riconosciuta dall’ordinamento, pongano in essere non già una delegazione di pagamento (art. 1268 c.c.) bensì una cessione di credito futuro (art. 1260 c.c.). In caso di fallimento del datore di lavoro, la legittimazione ad insinuarsi al passivo per le quote di TFR maturate e accantonate ma non versate al Fondo di previdenza complementare spetta, di regola, al lavoratore, stante lo scioglimento del rapporto di mandato in cui si estrinseca la delegazione di pagamento al datore di lavoro, salvo che dall’istruttoria emerga che vi sia stata una cessione del credito in favore del Fondo predetto, cui in quel caso spetta la legittimazione attiva ai sensi dell’art. 93 L. fall.
 
Cass., Sez. L, 28 giugno 2023, n. 18477, Pres. Berrino, Est. Patti
In tema di fondi pensione complementari, il fallimento del datore di lavoro, quale mandatario del lavoratore, comporta lo scioglimento, ai sensi dell'art. 78, comma 2, L. fall., del contratto di mandato avente ad oggetto il versamento al Fondo di previdenza complementare delle quote di TFR accantonate e il ripristino della titolarità delle risorse accantonate, spettante di regola al lavoratore, così legittimato ad insinuarsi allo stato passivo, salvo che dall'istruttoria emerga che vi sia stata una cessione del credito in favore del Fondo di previdenza complementare, cui in tal caso spetta la legittimazione attiva ai sensi dell'art. 93 L. fall.
Riproduzione riservata
1 . La conferma della natura previdenziale delle prestazioni del fondo di previdenza
Le due sentenze comportano una complessiva riflessione sulle conseguenze del fallimento del datore di lavoro che non abbia versato al fondo di previdenza le quote maturate di trattamento di fine rapporto. Si discute dell’ammissione allo stato passivo dei crediti dei lavoratori relativi ai contributi non corrisposti. Sulla natura previdenziale dei versamenti, il dibattito era stato acceso molti anni fa e aveva portato a discutibili pronunce di legittimità[1], ma la questione era stata risolta da due fondamentali decisioni, la prima inerente alla mancata computabilità dei pagamenti nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto[2], la seconda all’impossibilità di invocare l’art. 16, sesto comma, della legge n. 412 del 1991, in ordine al divieto di cumulo fra interessi e rivalutazione[3]. Del resto, per la stessa giurisprudenza costituzionale[4], la previdenza integrativa risponde agli obbiettivi dell’art. 38, secondo comma, cost.[5], che non si possono confondere con gli scopi dell’art. 36, primo comma, cost., a proposito della retribuzione sufficiente e proporzionata. Né si sarebbe potuto rivendicare per i versamenti al fondo natura di retribuzione differita[6], poiché ciò si sarebbe dovuto dire di tutti i … pagamenti effettuati in relazione a contributi, fermo il fatto che il destinatario non era il lavoratore, ma un terzo[7]. Quindi, i versamenti rispecchiano una funzione previdenziale[8], né vi è alcuna incompatibilità tra tale oggettiva connotazione e il carattere privatistico dell’intervento[9], appunto fondato sull’art. 38, secondo comma, cost.[10]. 
Il consolidarsi della tesi nella visione della Corte costituzionale[11] ha contribuito al suo affermarsi nella giurisprudenza di legittimità[12], seppure con qualche difficoltà[13]. In realtà, il problema era di soluzione molto più facile di quanto si potrebbe immaginare a vedere un così intenso dibattito, poiché i pagamenti effettuati dal datore di lavoro non vanno al prestatore di opere, il quale non ha diritto alle somme in quanto tali neppure all’estinzione del suo rapporto, così che non è convincente richiamare il concetto di retribuzione differita. Il dipendente ha diritto a eventuali prestazioni, appunto previdenziali, calcolate sulla base della disciplina del fondo e a seconda delle sue vicende, come infine riconosciuto in modo persuasivo[14]. 
Le due ultime sentenze hanno confermato[15] che la previdenza obbligatoria e quella privata sono diverse per il “carattere generale, necessario e non eludibile della prima, a fronte della natura eventuale delle garanzie della seconda”, fonte “di prestazioni aggiuntive rivolte a vantaggio esclusivo delle categorie di lavoratori aderenti ai patti incrementativi dei trattamenti ordinari”[16]. Su tale punto, le pronunce hanno ribadito principi noti[17]. Molto più importante è il problema posto dal mancato versamento da parte del datore di lavoro, poi fallito, poiché ci si è chiesti se il prestatore di opere possa invocare l’ammissione allo stato passivo del credito relativo al trattamento di fine rapporto maturato, ma non corrisposto al fondo. Il caso è frequente e i due precedenti hanno grande rilievo, anche perché il quadro non muta nella vigenza del decreto legislativo n. 14 del 2019.
2 . La natura del cosiddetto “conferimento” del lavoratore al fondo di previdenza complementare
Con la revisione di opposti principi[18], per cui l’adesione del lavoratore a un fondo lo priverebbe per sempre della possibilità di agire per ottenere il pagamento del trattamento di fine rapporto, “salvo il diritto al risarcimento del danno da azionare (…) nei confronti del datore di lavoro che abbia trascurato di versare in tutto o in parte il contributo volontario”[19], le due sentenze hanno riconosciuto come, a seguito del mancato “conferimento” al fondo di quote del trattamento di fine rapporto, il dipendente possa chiedere l’ammissione del suo diritto allo stato passivo. Infatti, il cosiddetto “conferimento” (art. 8, comma primo, del decreto legislativo n. 252 del 2005) è espressione normativa atecnica[20], con la “conseguente necessità di accertare la natura e la funzione del mezzo di volta in volta utilizzato ai fini dell’adesione”[21]. Lungi dal fare univoco riferimento a un solo negozio, l’art. 8, primo comma, del decreto n. 252 del 2005 rimanda all’esercizio dell’autonomia privata[22]. La soluzione è inevitabile, a prescindere dalla volontà del legislatore storico, poiché, se non si concludesse in questo senso, non si saprebbe come configurare l’esclusivo istituto che, a torto, si volesse ritenere oggetto del preteso rinvio dell’art. 8, primo comma, n. 252 del 2005. In quanto non esiste un autonomo concetto di “conferimento” al fondo, esso e i prestatori di opere possono fare ricorso a impostazioni diverse, con la conseguente necessità di una interpretazione della loro manifestazione di volontà e di una successiva qualificazione. 
Essa “segue all’interpretazione in quanto (…) tende a classificare il contratto, e cioè ad accertare in quale schema causale – giuridico (…) debba essere inquadrato”[23], poiché “con l’interpretazione si mira a ricostruire il senso di quanto le parti vorrebbero ottenere con la loro manifestazione di volontà, per vedere se e in che limiti ciò che è stato voluto trovi riconoscimento”[24]. Quindi, la qualificazione presuppone l’interpretazione. Tale conclusione è avvalorata dalla diversa impostazione per la quale l’ermeneutica includerebbe la “determinazione della fattispecie contrattuale, determinazione in senso ampio, che comprende la sua qualifica giuridica o meglio la costruzione del materiale di fatto dal quale l’interprete deve desumere gli intenti perseguiti”[25]. 
Nel caso dell’art. 8, primo comma, del decreto n. 252 del 2005, il trasferimento a opera dell’impresa e a beneficio del fondo delle quote di trattamento di fine rapporto può derivare da almeno due soluzioni negoziali, la delegazione e la cessione del credito futuro, e poco importa la maggiore frequenza della prima[26], nella prassi. Del resto, il dubbio sulla demarcazione fra i due modelli è frequente anche in ipotesi diverse, per esempio a proposito del contributo individuale a una associazione sindacale[27], per la presenza di più istituti votati a obbiettivi operativi non troppo dissimili, almeno nelle linee generali[28], con una sostanziale libertà di scelta degli stipulanti[29]. Perciò, l’esegesi del singolo atto deve stabilire se “il ‘conferimento’ del trattamento di fine rapporto si sia (…) tradotto in una vera e propria cessione, ovvero in una delegazione di pagamento ai sensi dell’art. 1270 c.c., poiché, in caso di fallimento, il contratto di mandato (quale è la delegazione di pagamento) si scioglie”[30], mentre non subisce la stessa sorte la cessione del credito, per il suo avvenuto trasferimento al momento della maturazione del trattamento di fine rapporto, di volta in volta. 
È convincente tale ricostruzione dell’art. 8, primo comma, del decreto n. 252 del 2005, poiché la norma guarda al risultato economico dell’operazione, vale a dire al versamento delle quote di trattamento di fine rapporto, non alla soluzione negoziale, né si può ravvisare nell’intero decreto un ostacolo al ricorso alla delegazione, come adombrato da una parte della giurisprudenza[31]. E a maggiore ragione l’affermazione fa sorgere perplessità se si considera come tale istituto sia quello più frequente nell’interpretazione degli atti di adesione ai fondi, mentre è rara la cessione del credito[32]. Ne deriva la necessità di una indagine ermeneutica e, quindi, in fatto. 
3 . Le conseguenze del fallimento e della liquidazione giudiziale del datore di lavoro inadempiente
Qualora l’impresa non “conferisca” le quote del trattamento di fine rapporto al fondo e, poi, subisca la liquidazione giudiziale, nel nuovo regime, il lavoratore può chiedere l’ammissione allo stato passivo, qualora sia stata convenuta una semplice delegazione di pagamento, come accade per lo più[33]. Prima di tutto, la soluzione è conforme a giustizia sostanziale, per l’ovvio e forte interesse del dipendente, mentre il fondo potrebbe avere scarse informazioni sulla sorte dell’azienda e, al limite, potrebbe non prendere provvedimenti di fronte alla sua insolvenza, in specie nell’ipotesi della mancata corresponsione di importi modesti, dal suo punto di vista aggregato. Inoltre, sul versante ricostruttivo, a ragione si riconosce come il fallimento o la liquidazione giudiziale determinino l’estinzione della delegazione, da equiparare al mandato[34], con una conclusione affermata in generale, a prescindere dalla fattispecie relativa al fondo di previdenza[35]. 
Tali affermazioni sono state rese con riguardo al vecchio fallimento[36], ma non vi possono essere differenze per il decreto n. 14 del 2019, se non altro ai sensi dell’art. 183, secondo comma, vista l’equiparazione della delegazione al mandato. Opposta è la sorte della cessione, in cui la maturazione delle quote del trattamento di fine rapporto ne abbia determinato il trasferimento a favore del fondo anche nell’ipotesi di inadempimento del datore di lavoro ai suoi obblighi, con la conseguente, esclusiva azione dello stesso fondo per l’ammissione del diritto allo stato passivo. Né si vede una fondata domanda risarcitoria del dipendente[37] nei confronti del fallimento o della procedura di liquidazione giudiziale, poiché l’inerzia del fondo sarebbe la causa diretta del pregiudizio, in considerazione dell’eventuale e scontato ricorso all’intervento del Fondo di garanzia. Per quanto il suggerimento abbia scarso significato pratico, i prestatori di opere dovrebbero essere molto attenti a non aderire a fondi di previdenza con la stipulazione di negozi di trasferimento del credito futuro, sebbene in pochi (se mai ve ne fossero) potrebbero avere la competenza necessaria per l’identificazione del problema e la qualificazione dell’accordo da concludere. Il relativo tema (con ovvie implicazioni di giustizia sostanziale) dovrebbe essere esaminato da una riforma dell’art. 8, primo comma, del decreto n. 252 del 2005, così che sia imposto il ricorso alla delegazione e, quindi, al mandato. 
La domanda di ammissione del lavoratore ha per oggetto crediti retributivi e, cioè, le quote del trattamento di fine rapporto, poiché, “fino al compimento del versamento da parte del datore di lavoro, la contribuzione o le quote del trattamento di fine rapporto maturando (…) hanno natura retributiva, mentre ha natura previdenziale la prestazione integrativa erogata al lavoratore dal fondo”[38]. L’affermazione è sottile, ma convincente. Mentre il dipendente percepisce benefici previdenziali dal fondo e tale carattere hanno i versamenti aziendali, lo stesso … non vale nell’ipotesi di ammissione allo stato passivo. Seppure con un inadempimento alla delegazione, l’impresa trattiene il trattamento di fine rapporto e, quindi, la retribuzione differita, non corrisposta (nonostante l’adesione al fondo) e non trasferita (ed è opposta la soluzione nell’eventualità di cessione). 
Quindi, l’azienda conserva il trattamento di fine rapporto, seppure in modo illegittimo, e tale è il presupposto della domanda di ammissione allo stato passivo, rivolta dal prestatore di opere. Pertanto, concludono le ultime decisioni, “le risorse accantonate” hanno “natura retributiva, posto che esse assumono” quella “previdenziale soltanto all’attuazione dei vincoli di destinazione, per effetto del loro adempimento”[39]. Ciò non esclude il carattere previdenziale dei crediti dello stesso dipendente nei riguardi del fondo, in ordine alle sue prestazioni[40].

Note:

[1] 
V. Cass., sez. un., 1 febbraio 1997, n. 974, in Giur.it, rep., 1997.
[2] 
V. Cass., sez. un., 9 marzo 2015, n. 4684, in Giur.it, rep., 2015.
[3] 
V. Cass., sez. un., 20 marzo 2018, n. 6928, in Giur.it, rep., 2018.
[4] 
V. Corte costituzionale 27 luglio 2001, n. 319, in Giur.it, rep., 2001.
[5] 
V. Corte costituzionale 28 luglio 2000, n. 393, in Giur.it, rep., 2000.
[6] 
V.: M. Persiani, Aspettative e diritti nella previdenza pubblica e privata, in Arg. dir. lav., 1998, 311 ss.
[7] 
V.: G. Santoro Passarelli, Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 2000, 93 ss.; A. Tursi, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, 124 ss.
[8] 
V. Corte costituzionale 8 settembre 1995, n. 421, in Giur. it. rep., 1995.
[9] 
V. Cass., sez. un., 9 giugno 2021, n. 16084, in Giur. it. rep., 2021.
[10] 
V.: G. Proia, La Corte costituzionale e la previdenza complementare, in Arg. dir. lav., 1995, 173 ss.
[11] 
V. Corte costituzionale 3 ottobre 1990, n. 427, in Giur. it. rep., 1990; Corte costituzionale 8 giugno 2000, n. 178, ibid., 2000; Corte costituzionale 28 luglio 2000, n. 393, ibid., 2000; Corte costituzionale 27 luglio 2001, n. 319, ibid., 2001.
[12] 
V. Cass. 31 maggio 2012, n. 8695, in Giur.it, rep., 2012.
[13] 
V. Cass. 12 gennaio 2011, n. 545, in Giur.it, rep., 2011; Cass. 30 settembre 2011, n. 20105, ibid., 2011, sulla pretesa natura retributiva dei versamenti
[14] 
V. Cass., sez. un., 9 marzo 2015, n. 4684, in Giur.it, rep., 2015; Cass., sez. un., 20 marzo 2018, n. 6928, ibid., 2018.
[15] 
V. Cass., sez. un., 9 marzo 2015, n. 4684, in Giur.it, rep., 2015.
[16] 
Così si esprime la sentenza in esame.
[17] 
V. Cass., sez. un., 9 giugno 2021, n. 16084, in Giur. it. rep., 2021.
[18] 
V. Cass. 27 gennaio 2022, n. 2406, in Giur.it, rep., 2022.
[19] 
V. Cass. 27 gennaio 2022, n. 2406, in Giur.it, rep., 2022.
[20] 
V. Cass. 7 giugno 2023, n. 16116, in Variaz. temi dir. lav., sito, 2023. 
[21] 
V. Cass. 7 giugno 2023, n. 16116, in Variaz. temi dir. lav., sito, 2023.
[22] 
V. Cass. 15 febbraio 2019, n. 4626, in Giur.it, rep., 2019.
[23] 
Cfr. M. C. Bianca, Diritto civile. Il contratto, Milano, 1987, 381 ss.; M. S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria generale dell’interpretazione, Milano, 1939, 135 ss.
[24] 
V.: M. C. Bianca, Diritto civile. Il contratto, cit., 381 ss.
[25] 
Cfr. C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova, 1938, 103 ss.; v. anche G.G. Scalfi, La qualificazione dei contratti nell’interpretazione, Milano – Varese, 1962, 138 ss.; M. Casella, Il contratto e l’interpretazione, Milano, 1961, 55 ss.; P. Perlingieri Interpretazione e qualificazione: profili dell’individuazione normativa, in Dir. soc., 1975, 826 ss.
[26] 
V. Cass. 28 giugno 2023, n. 18477, in Variaz. temi dir. lav., sito, 2023.
[27] 
V. Cass. 10 agosto 2017, n. 19944, in Giur.it, rep., 2011.
[28] 
V. Trib. Genova 22 febbraio 2011, in Giur.it, rep., 2011.
[29] 
V. App. Napoli 11 luglio 2006, in Foro.it, 2007, II, 1, 550. 
[30] 
V. Cass. 7 giugno 2023, n. 16116, in Variaz. temi dir. lav., sito, 2023. 
[31] 
V. Cass. 27 gennaio 2022, n. 2406, in Giur.it. rep., 2022.
[32] 
V. Cass. 28 giugno 2023, n. 18477, in Variaz. temi dir. lav., sito, 2023. 
[33] 
V. Cass. 28 giugno 2023, n. 18477, in Variaz. temi dir. lav., sito, 2023.
[34] 
V. Cass. 28 giugno 2023, n. 18477, in Variaz. temi dir. lav., sito, 2023.
[35] 
V. Cass. 17 gennaio 2017, n. 973, in Giur.it, rep., 2017; Cass. 22 ottobre 2013, n. 23894, ibid., 2017.
[36] 
V. Cass. 7 giugno 2023, n. 16116, in Variaz. temi dir. lav., sito, 2023.
[37] 
V. Cass. 27 gennaio 2022, n. 2406, in Giur.it, rep., 2022.
[38] 
V. Cass. 28 giugno 2023, n. 18477, in Variaz. temi dir. lav., sito, 2023.
[39] 
V. Cass. 28 giugno 2023, n. 18477, in Variaz. temi dir. lav., sito, 2023.
[40] 
V. Cass., sez. un., 9 giugno 2021, n. 16084, in Giur.it, rep., 2021.

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