Focalizzando poi l’angolo visuale su quanto specificamente introdotto dal Codice della Crisi, è appena il caso di segnalare che
[4]:
- l’art. 4, comma 2, lett. c), tra i vari doveri generali, prevede quello del debitore di gestire il patrimonio o l’impresa nell’interesse prioritario dei creditori
[5];
- l’art. 16, comma 4, prevede che l’imprenditore ha il dovere di rappresentare la propria situazione anche ai creditori, al fine di non pregiudicarne ingiustamente gli interessi e ribadisce il suo obbligo di gestire il patrimonio e l’impresa “senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori”;
- l’art. 21 prevede, inter alia, al comma 1, che, durante le trattative per la composizione negoziata l’imprenditore “in crisi” debba gestire l’impresa evitando un pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività, specificando, poi, che qualora nel corso della composizione risulti l’insolvenza, lo stesso debba gestire l’impresa “nel prevalente interesse dei creditori”.
Da quanto precede, si ricava linearmente che il Codice della Crisi, in maniera espressa e generale, non solo amplia lo shifting duty, ma anche lo qualifica sin da quando l’impresa entra in crisi.
In altri termini, la tutela dell’interesse dei creditori – e qui si colloca l’elemento di piena novità – viene introdotta fin dalla fase prodromica di crisi, per poi – in quella di insolvenza conclamata – farla assurgere a paradigma prioritario, in quanto l’attività va svolta nell’interesse principale dei creditori.
Non bastasse. Le modifiche introdotte dal Codice della Crisi – a più riprese, nel corso del tempo –incidono su ulteriori profili, prevedendo espressamente l’obbligo per l’imprenditore in crisi di adottare misure volte a superare la crisi.
Trattasi di profili che, a ben vedere, già erano stati colti dalla giurisprudenza, quanto meno in termini di non imputabilità dei comportamenti tesi al tentativo di salvataggio dell’impresa
[6], ma non erano ancora stati espressamente fissati nel diritto positivo, circostanza che ora avviene grazie agli artt. 2086 c.c., 3 e 4 Codice della Crisi.
A tal proposito, vale rammentare Tribunale di Firenze (sentenza 21 dicembre 2021, n. 3302).
Giova proporre alcuni passaggi di tale importante pronuncia, in quanto svolge una analitica distinzione sulla causa di scioglimento e pone l’accento sulla palese irragionevolezza della scelta gestionale quale motivo di censura, come segue: “La società deve essere sciolta se non ha più la quantità minima di capitale richiesta dalla legge, in relazione alla sua forma giuridica, o se si trova nella impossibilità, non temporanea ma irreversibile, di perseguire il suo scopo; ma, mentre il primo caso è misurabile in termini aritmetici ed economici, il secondo è assai più vario e non ancorato ad un giudizio retrospettivo e obiettivato, bensì prospettico e previsionale. Allorché si parla di sottocapitalizzazione o, più in generale, di perdita di una prospettiva di continuità aziendale, possono venire in rilievo situazioni diverse: dalla indisponibilità dell’azienda alla chiusura dell’unico mercato possibile di riferimento, dalla scomparsa dei soci/amministratori alla totale insufficienza di disponibilità finanziarie. Detta insufficienza, nuovamente, non coincide con uno stato di crisi tale da rendere impossibile il pagamento dei debiti (valutazione retrospettiva e oggettiva, quindi inerente alla dimensione economica), ma dalla concreta impossibilità di procurarsi nuova finanza per proseguire l’attività: tanto è vero che la constatazione di uno stato di piena insolvenza è causa di fallimento ma (dopo la riforma del 2003) non è (più) causa di scioglimento di una società di capitali; anzi è dato sempre maggiore spazio, nel diritto concorsuale, a procedure risanatorie e riorganizzative, tali da consentire il mantenimento della dimensione funzionale dell’impresa. Finché la continuità aziendale è recuperabile con scelte di organizzazione aziendale e/o commerciali, e si ha la possibilità di attingere a risorse finanziarie per attuarle, non vi è alcuna impossibilità definitiva di perseguire l’oggetto sociale: per affermare il contrario, occorre individuare il momento esatto in cui nessun afflusso di risorse era più ipotizzabile, e nessuna scelta organizzativa poteva più essere efficacemente adottata […] Non basta a tal fine sottolineare come sia stato male impiegato il mutuo: al di là del fatto che un sindacato nel merito delle scelte dell’imprenditore sarebbe possibile solo se l’impiego fosse stato manifestamente irragionevole (mentre pagare debiti scaduti non lo è), il punto dirimente è l’individuazione del momento, preciso, nel quale nessuna risorsa aggiuntiva avrebbe potuto essere ottenuta e nessuna diversa scelta di impiego delle risorse disponibili utilmente adottata”.
Di nodale importanza, poi, Cass., Sez. V Pen., 5 gennaio 2022, n. 118, la quale – attingendo a propri precedenti approdi – si pronuncia in maniera estremamente argomentata ed analitica con riferimento alla bancarotta semplice, distinguendo le due fattispecie all’uopo in rilievo, ossia le operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento vs. l’aggravamento del dissesto astenendosi dal chiedere il proprio fallimento.
Per comodità espositiva, giova indugiare sul punto, riportandone i passaggi principali: “
Quanto alla prima fattispecie di reato, è opportuno ricordare che le operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento consistono nelle operazioni economiche alle quali possono ricorrere gli imprenditori o amministratori (217, 224 L. fall.) nella speranza di ritardare o evitare il fallimento, che sono caratterizzate da un alto grado di rischio ma risultano prive di serie e ragionevoli prospettive di successo economico, operazioni che, con riguardo alla complessiva situazione dell'impresa, ormai votata al dissesto, hanno il solo scopo di ritardare il fallimento, essendo consapevole dello stato di crisi l'imprenditore/amministratore (Sez. 5, Sentenza n. 24231 del 20/03/2003 Ud. (dep. 04/06/2003) Rv. 225937 [7]. […] Per altro verso nella medesima sentenza sono state definite operazioni gravemente imprudenti ai sensi dell'art. 217 n. 3 L. fall. quelle finalisticamente orientate a ritardare il fallimento, ma ad un tempo caratterizzate da grave avventatezza o spregiudicatezza, che superino i limiti dell'ordinaria "imprudenza"; con tale ultimo concetto intendendosi il comportamento che, secondo la comune logica imprenditoriale, può a volte giustificare il ricorso, da parte dell'imprenditore che versi in situazione di difficoltà economica, ad iniziative "coraggiose", da "extrema ratio", ma ragionevolmente dotate di probabilità di successo, al fine di scongiurare il fallimento. Quanto all'elemento soggettivo si è puntualizzato che la finalizzazione che connota la fattispecie, impone la presenza ed il riscontro in sede di accertamento giudiziale del carattere doloso delle condotte (Sez. 5, Sentenza n. 24231 del 20/03/2003 Ud. (dep. 04/06/2003) Rv. 225938. Con riguardo al secondo profilo dell'imputazione di bancarotta semplice deve rammentarsi che l'aggravamento del dissesto punito dagli artt. 217, comma primo, n. 4 deve consistere nel deterioramento, provocato per colpa grave o per la mancata richiesta di fallimento, della complessiva situazione economico-finanziaria dell'impresa fallita. L'elemento psicologico della colpa grave può essere desunto, non sulla base del mero ritardo nella richiesta di fallimento, ma in concreto, attraverso la dimostrazione di una consapevole omissione (Sez. 5, Sentenza n. 18108 del 12/03/2018 Ud. (dep. 24/04/2018) Rv. 272823 - 01. Massime precedenti conformi: N. 43414 del 2013 Rv. 257533, N. 38077 del 2015. La prima delle pronunzie indicate si è interrogata sulla possibilità che la gravità della colpa debba o meno ritenersi presunta laddove il fallimento non sia tempestivamente richiesto dall'imprenditore in stato di insolvenza fornendo una risposta negativa. Si è, infatti, chiarito che la soluzione affermativa di una siffatta presunzione pare priva di ragionevolezza, evidenziandosi come non sia difficile comprendere come il ritardo nell'adozione della, senza dubbio grave, decisione dell'imprenditore di richiedere il proprio fallimento possa essere ricollegato a una vasta gamma di dinamiche gestionali, che svaria dall'estremo dell'assoluta noncuranza per gli effetti del possibile aggravamento del dissesto a quello dell'opinabile valutazione sull'efficacia di mezzi ritenuti idonei a procurare nuove risorse. L'eterogeneità di queste situazioni rende improponibile una loro automatica sussunzione nella più intensa dimensione della colpa. Il dato oggettivo del ritardo nella dichiarazione di fallimento, in altre parole, è ancora troppo generico perché dallo stesso possa farsi derivare una presunzione assoluta di colpa grave, dipendendo tale carattere dalle scelte che lo hanno determinato”.
Trattasi di principi che, seppur modellati sul comparto penale, si devono giudicare comunque immanenti: anche alla luce di ciò, e di questa prospettiva “garantista” della Cassazione penale, è dato evincere come, in uno sguardo orientato al futuro, possa risultare sempre più “incentivata” l’attività dell’imprenditore, anche in una condizione di crisi, beninteso laddove improntata comunque a criteri di ragionevolezza e non affetta da elementi patologici (id est, non palesemente spregiudicata, inficiata da dolo, ecc.).
L’importanza di tali pronunce, infatti, si coglie agevolmente ove si consideri che, come detto, le stesse si sono trovate a dirimere fattispecie verificatesi prima dell’avvento del nuovo Codice Crisi; antecedenti, quindi, all’affermazione espressa, e ripetuta, dell’obbligo dell’imprenditore che versi in situazione di crisi di assumere le misure idonee a farvi fonte.
Su questo quadro, tuttavia, si deve segnalare un elemento di significativa incertezza, causato da una problematica attinente alla formulazione letterale dell’art. 2486 c.c.
Infatti, come già anticipato, in caso di perdita del capitale viene introdotta una presunzione relativa che quantifica il danno – da risarcire ad opera dell’imprenditore del quale sia stata accertata la responsabilità – quale differenza tra i patrimoni alla data, rispettivamente (i) dell’apertura della procedura “concorsuale” e (ii) in cui si è verificata la causa di scioglimento
[8].
Trattasi, ad evidenza, di una determinazione che in talune situazioni potrebbe contrastare con la prospettiva garantista di cui sopra, in quanto non cesella la responsabilità dell’amministratore alla fascia temporale in cui questi è rimasto “inerte”, bensì l’estende tout court all’intero periodo di crisi. In una prospettiva di ragionevolezza e coerenza, infatti, apparirebbe maggiormente attagliato alla linea ermeneutica sopra illustrata, ed al “new deal” legislativo, escludere da tale presunzione quell’arco temporale in cui l’imprenditore assuma iniziative tese a (tentare di) superare la crisi.
In termini esemplificativi – e provando con ciò anche a tirare le fila dei ragionamenti sin qui esposti – secondo chi scrive nel caso in cui l’imprenditore rilevi, seppur in ritardo, la perdita del capitale, ovvero non adotti tempestivamente il comportamento conservativo imposto dalla normativa (con ciò assumendosi la responsabilità prevista dall’art. 2486), dovrebbe essere esclusa l’operatività della presunzione ivi prevista, a decorrere dal momento in cui lo stesso, poi, assuma un comportamento virtuoso, teso alla ristrutturazione dell’azienda.
Comportamento virtuoso che, ad esempio, è integrato rivolgendosi ad advisor qualificati per individuare un percorso di risanamento dell’impresa, anche qualora lo stesso non si strutturi tramite l’immediata apertura di una procedura concorsuale.
D’altro canto, analoga – sia consentita l’espressione – “approssimazione normativa” viene riportata nell’art. 323, lett. d), che punisce per bancarotta semplice chi “ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di apertura della propria liquidazione giudiziale …”.
Pure in questo caso il riferimento alla sola “liquidazione giudiziale” sembrerebbe punire anche l’aggravamento del dissesto subito durante i tentativi di salvataggio o addirittura quello subito durante lo svolgimento delle procedure concorsuali minori.
Sul punto, è opportuno ribadire come la già citata giurisprudenza penale abbia nitidamente interpretato il dato letterale della disposizione secondo condivisibili criteri sistematici, tesi a salvaguardare il comportamento dell’imprenditore che adotti comportamenti volti al salvataggio della propria impresa.
Pertanto, è auspicabile che anche in ambito civilistico possano essere adottati integralmente i medesimi canoni ermeneutici, limitando l’operatività della presunzione de qua.