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Brevissime note sui “nuovi” compiti dell’organo amministrativo, tra Codice Civile e Codice della Crisi

Renato Bogoni e Emanuele Artuso, Dottori Commercialisti in Padova

2 Gennaio 2023

A seguito delle modifiche normative recentemente introdotte, gli Autori si interrogano su come mutino i compiti dell’organo amministrativo in concomitanza alla “crisi”, e quali siano le interpretazioni preferibili a fronte di una formulazione letterale non sempre piana e coerente.
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1 . Premessa
Le modifiche normative che hanno interessato la materia societaria e concorsuale hanno significativamente rimodulato il perimetro dei compiti (latamente intesi) riguardanti gli amministratori delle società di capitali.
Da un lato, infatti, in termini specifici, dal combinato disposto dell’art. 2086 c.c. e dell’art. 3 del Codice della Crisi, spiccano i rigorosi comportamenti che gli amministratori debbono attuare in una ottica di prevenzione alla insorgenza della crisi d’impresa, in specie mediante l’implementazione e la coltivazione degli “adeguati assetti”.
Dall’altro lato, ed in termini generali, devesi porre nella corretta luce il dettato del Codice Civile, che quale nucleo centrale eleva inequivocabilmente il novero dei compiti (assunti come composito corpus di diritti e doveri) quali funzionali al perseguimento dello scopo sociale.
Tale direttrice funge da “stella polare” per il comportamento degli amministratori, da ossequiare nell’intero svolgimento dell’ufficio ed è da sempre oggetto di attenti ed amplissimi approfondimenti da parte della dottrina e della giurisprudenza [1].
Accanto a tali principi di carattere generale, va segnalato che, nel nostro ordinamento, analogamente a quanto previsto dalla legislazione degli altri paesi europei, al manifestarsi della crisi d’impresa insorge una significativa variazione degli obbiettivi e degli obblighi degli amministratori. 
In particolare, in tale situazione  si registra un tutt’altro che trascurabile “scarto” delle finalità a cui deve ispirarsi l’attività degli organi sociali, nel senso che – secondo la nota teoria dello shifting duty, radicato nei principali ordinamenti giuridici – il focus dell’operato gestorio diviene la tutela dei creditori sociali; recte, diventa la necessaria predisposizione di adeguati meccanismi che, nella predetta prospettiva, si devono innescare in corrispondenza della delicata fase di deterioramento della condizione di normale svolgimento dell’attività d’impresa. 
In linea di principio, è chiaro che questi strumenti devono essere primariamente ricercati in una più nitida definizione del sistema dei doveri e, perciò, delle consequenziali responsabilità degli amministratori nella fase di patologia aziendale. 
Del resto, cesellare un predefinito pacchetto di regole, oltre che nell’ambito delle possibili conseguenze promananti dalla violazione delle medesime, rappresenta un valido incentivo nel favorire comportamenti gestori il più possibile virtuosi nella fase dell’insolvenza ed in quella prodromica alla stessa.
Insomma, in altri termini, se vogliamo più semplicistici, si può affermare che, con l’approssimarsi della crisi, viene in luce un “irrobustimento” della diligenza imposta in capo all’organo amministrativo secondo l’art. 2392 c.c., stante la circostanza che la situazione di patologia reca la seguente criticità: ossia, che chi ricopre l’ufficio gestorio possa implementare operazioni azzardate, ad alto coefficiente di rischio, perniciose per i creditori sociali [2].
Molto chiara nell’affrontare questo profilo – raccordandolo alle novità introdotte dal D. Lgs. n. 14/2019, profilo che sarà sviluppato nel prosieguo – Assonime, Guida al Codice della Crisi, 14 dicembre 2022, 24 e ss.: “Con riguardo ai doveri di intervento, l’articolo 2086 del Codice civile impone agli amministratori l’obbligo di attivarsi per adottare e attuare uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e per il recupero della continuità aziendale. Tale dovere di attivazione – per effetto dell’introduzione del nuovo istituto della composizione negoziata – si estende, tuttavia, anche al verificarsi di quelle situazioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rendono probabile una situazione di crisi. L’organo amministrativo, in attuazione di un principio di corretta gestione societaria, è dunque tenuto a valutare e ad attivarsi in uno spettro di situazioni di difficoltà dell’impresa che vanno dalla pre-crisi sino all’insolvenza, secondo una valutazione discrezionale dello strumento più adatto alla situazione concreta.
In particolare, nella situazione di pre-crisi l’organo amministrativo potrà ricorrere agli istituiti di natura privatistica previsti dal Codice civile o dall’autonomia privata secondo i criteri di comune discrezionalità imprenditoriale, oppure accedere al percorso della composizione negoziata della crisi. In caso di crisi o insolvenza, la scelta riguarderà, invece, uno dei diversi strumenti previsti dal Titolo IV del Codice, ferma restando la possibilità di ricorrere alla composizione negoziata della crisi purché ricorrano ragionevoli prospettive di risanamento”.
2 . Brevi cenni normativi sul perimetro degli obblighi gravanti sull’organo amministrativo
Cristallizzata la circostanza che, con la situazione di crisi, muta il campo degli obblighi degli amministratori – curvandosi massimamente verso la tutela dei creditori – giova evidenziare come sia lo stesso Codice Civile a recare un significativo articolato normativo. 
A ben vedere, si può distinguere un novero di disposizioni che prevede ciò “ex ante”, quasi come una sorta di rimedio preventivo, da altre che lo impongono “ex post”.
Più nel dettaglio: l’ordito normativo recato dagli artt. 2446, 2447, 2482 bis e 2482 ter, in uno con l’art. 2486, c.c., dispone – in estrema sintesi e semplificazione – che, in caso di perdita del patrimonio, mutano gli obblighi dell’amministratore il quale – laddove non si riesca a risolvere la causa di scioglimento – deve gestire la società secondo criteri conservativi. 
Ebbene, laddove venga successivamente accertato che la gestione non è stata improntata secondo i predetti criteri, ciò integra causa di responsabilità avverso l’amministratore stesso, che l’art. 2486, comma 3, primo periodo, (siccome modificato dall’art. 378, comma 2, Codice Crisi) quantifica mediante una presunzione relativa, come segue: “il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all'articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione”. Insomma, trattasi del criterio dei “netti patrimoniali”[3].
Per quanto concerne le disposizioni che intrudono nei doveri degli amministratori “ex post”, devesi segnalare come gli artt. 2476 e 2494 c.c. impongono agli amministratori l’obbligo di conservare l’integrità del patrimonio sociale; obbligo che, in linea di principio vige sempre, durante l’intera vita sociale, ma consente l’intervento dei creditori a sua tutela solo quando il patrimonio risulta insufficiente al soddisfacimento delle loro ragioni (ciò, ad evidenza, riveste importanti risvolti anche nell’ambito della decorrenza della prescrizione delle azioni risarcitorie).
Sempre a tutela del patrimonio disponibile per i creditori nel momento della crisi, va segnalato, nell’ambito penale, l’art. 217 Legge Fallimentare (oggi riproposto nell’art. 323 del Codice Crisi) che, in punto di bancarotta semplice, prevede – in estrema sintesi e semplificazione – l’imputabilità per chi (i) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare l'apertura della liquidazione giudiziale e (ii) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di apertura della propria liquidazione giudiziale o con altra grave colpa.
3 . La portata innovativa del Codice della Crisi ed alcuni addentellati giurisprudenziali di primario rilievo, auspicabilmente idonei a meglio definirne la portata applicativa
Focalizzando poi l’angolo visuale su quanto specificamente introdotto dal Codice della Crisi, è appena il caso di segnalare che [4]:
- l’art. 4, comma 2, lett. c), tra i vari doveri generali, prevede quello del debitore di gestire il patrimonio o l’impresa nell’interesse prioritario dei creditori [5];
- l’art. 16, comma 4, prevede che l’imprenditore ha il dovere di rappresentare la propria situazione anche ai creditori, al fine di non pregiudicarne ingiustamente gli interessi e ribadisce il suo obbligo di gestire il patrimonio e l’impresa “senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori”;
- l’art. 21 prevede, inter alia, al comma 1, che, durante le trattative per la composizione negoziata l’imprenditore “in crisi” debba gestire l’impresa evitando un pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività, specificando, poi, che qualora nel corso della composizione risulti l’insolvenza, lo stesso debba gestire l’impresa “nel prevalente interesse dei creditori”.
Da quanto precede, si ricava linearmente che il Codice della Crisi, in maniera espressa e generale, non solo amplia lo shifting duty, ma anche lo qualifica sin da quando l’impresa entra in crisi. 
In altri termini, la tutela dell’interesse dei creditori – e qui si colloca l’elemento di piena novità – viene introdotta fin dalla fase prodromica di crisi, per poi – in quella di insolvenza conclamata – farla assurgere a paradigma prioritario, in quanto l’attività va svolta nell’interesse principale dei creditori.
Non bastasse. Le modifiche introdotte dal Codice della Crisi – a più riprese, nel corso del tempo –incidono su ulteriori profili, prevedendo espressamente l’obbligo per l’imprenditore in crisi di adottare misure volte a superare la crisi. 
Trattasi di profili che, a ben vedere, già erano stati colti dalla giurisprudenza, quanto meno in termini di non imputabilità dei comportamenti tesi al tentativo di salvataggio dell’impresa [6], ma non erano ancora stati espressamente fissati nel diritto positivo, circostanza che ora avviene grazie agli artt. 2086 c.c., 3 e 4 Codice della Crisi. 
A tal proposito, vale rammentare Tribunale di Firenze (sentenza 21 dicembre 2021, n. 3302). 
Giova proporre alcuni passaggi di tale importante pronuncia, in quanto svolge una analitica distinzione sulla causa di scioglimento e pone l’accento sulla palese irragionevolezza della scelta gestionale quale motivo di censura, come segue: “La società deve essere sciolta se non ha più la quantità minima di capitale richiesta dalla legge, in relazione alla sua forma giuridica, o se si trova nella impossibilità, non temporanea ma irreversibile, di perseguire il suo scopo; ma, mentre il primo caso è misurabile in termini aritmetici ed economici, il secondo è assai più vario e non ancorato ad un giudizio retrospettivo e obiettivato, bensì prospettico e previsionale. Allorché si parla di sottocapitalizzazione o, più in generale, di perdita di una prospettiva di continuità aziendale, possono venire in rilievo situazioni diverse: dalla indisponibilità dell’azienda alla chiusura dell’unico mercato possibile di riferimento, dalla scomparsa dei soci/amministratori alla totale insufficienza di disponibilità finanziarie. Detta insufficienza, nuovamente, non coincide con uno stato di crisi tale da rendere impossibile il pagamento dei debiti (valutazione retrospettiva e oggettiva, quindi inerente alla dimensione economica), ma dalla concreta impossibilità di procurarsi nuova finanza per proseguire l’attività: tanto è vero che la constatazione di uno stato di piena insolvenza è causa di fallimento ma (dopo la riforma del 2003) non è (più) causa di scioglimento di una società di capitali; anzi è dato sempre maggiore spazio, nel diritto concorsuale, a procedure risanatorie e riorganizzative, tali da consentire il mantenimento della dimensione funzionale dell’impresa. Finché la continuità aziendale è recuperabile con scelte di organizzazione aziendale e/o commerciali, e si ha la possibilità di attingere a risorse finanziarie per attuarle, non vi è alcuna impossibilità definitiva di perseguire l’oggetto sociale: per affermare il contrario, occorre individuare il momento esatto in cui nessun afflusso di risorse era più ipotizzabile, e nessuna scelta organizzativa poteva più essere efficacemente adottata […] Non basta a tal fine sottolineare come sia stato male impiegato il mutuo: al di là del fatto che un sindacato nel merito delle scelte dell’imprenditore sarebbe possibile solo se l’impiego fosse stato manifestamente irragionevole (mentre pagare debiti scaduti non lo è), il punto dirimente è l’individuazione del momento, preciso, nel quale nessuna risorsa aggiuntiva avrebbe potuto essere ottenuta e nessuna diversa scelta di impiego delle risorse disponibili utilmente adottata”.
Di nodale importanza, poi, Cass., Sez. V Pen., 5 gennaio 2022, n. 118, la quale – attingendo a propri precedenti approdi – si pronuncia in maniera estremamente argomentata ed analitica con riferimento alla bancarotta semplice, distinguendo le due fattispecie all’uopo in rilievo, ossia le operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento vs. l’aggravamento del dissesto astenendosi dal chiedere il proprio fallimento.
Per comodità espositiva, giova indugiare sul punto, riportandone i passaggi principali: “Quanto alla prima fattispecie di reato, è opportuno ricordare che le operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento consistono nelle operazioni economiche alle quali possono ricorrere gli imprenditori o amministratori (217, 224 L. fall.) nella speranza di ritardare o evitare il fallimento, che sono caratterizzate da un alto grado di rischio ma risultano prive di serie e ragionevoli prospettive di successo economico, operazioni che, con riguardo alla complessiva situazione dell'impresa, ormai votata al dissesto, hanno il solo scopo di ritardare il fallimento, essendo consapevole dello stato di crisi l'imprenditore/amministratore (Sez. 5, Sentenza n. 24231 del 20/03/2003 Ud. (dep. 04/06/2003) Rv. 225937 [7]. […] Per altro verso nella medesima sentenza sono state definite operazioni gravemente imprudenti ai sensi dell'art. 217 n. 3 L. fall. quelle finalisticamente orientate a ritardare il fallimento, ma ad un tempo caratterizzate da grave avventatezza o spregiudicatezza, che superino i limiti dell'ordinaria "imprudenza"; con tale ultimo concetto intendendosi il comportamento che, secondo la comune logica imprenditoriale, può a volte giustificare il ricorso, da parte dell'imprenditore che versi in situazione di difficoltà economica, ad iniziative "coraggiose", da "extrema ratio", ma ragionevolmente dotate di probabilità di successo, al fine di scongiurare il fallimento. Quanto all'elemento soggettivo si è puntualizzato che la finalizzazione che connota la fattispecie, impone la presenza ed il riscontro in sede di accertamento giudiziale del carattere doloso delle condotte (Sez. 5, Sentenza n. 24231 del 20/03/2003 Ud. (dep. 04/06/2003) Rv. 225938. 
Con riguardo al secondo profilo dell'imputazione di bancarotta semplice deve rammentarsi che l'aggravamento del dissesto punito dagli artt. 217, comma primo, n. 4 deve consistere nel deterioramento, provocato per colpa grave o per la mancata richiesta di fallimento, della complessiva situazione economico-finanziaria dell'impresa fallita. L'elemento psicologico della colpa grave può essere desunto, non sulla base del mero ritardo nella richiesta di fallimento, ma in concreto, attraverso la dimostrazione di una consapevole omissione (Sez. 5, Sentenza n. 18108 del 12/03/2018 Ud. (dep. 24/04/2018) Rv. 272823 - 01. Massime precedenti conformi: N. 43414 del 2013 Rv. 257533, N. 38077 del 2015. La prima delle pronunzie indicate si è interrogata sulla possibilità che la gravità della colpa debba o meno ritenersi presunta laddove il fallimento non sia tempestivamente richiesto dall'imprenditore in stato di insolvenza fornendo una risposta negativa. Si è, infatti, chiarito che la soluzione affermativa di una siffatta presunzione pare priva di ragionevolezza, evidenziandosi come non sia difficile comprendere come il ritardo nell'adozione della, senza dubbio grave, decisione dell'imprenditore di richiedere il proprio fallimento possa essere ricollegato a una vasta gamma di dinamiche gestionali, che svaria dall'estremo dell'assoluta noncuranza per gli effetti del possibile aggravamento del dissesto a quello dell'opinabile valutazione sull'efficacia di mezzi ritenuti idonei a procurare nuove risorse. L'eterogeneità di queste situazioni rende improponibile una loro automatica sussunzione nella più intensa dimensione della colpa. Il dato oggettivo del ritardo nella dichiarazione di fallimento, in altre parole, è ancora troppo generico perché dallo stesso possa farsi derivare una presunzione assoluta di colpa grave, dipendendo tale carattere dalle scelte che lo hanno determinato”.
Trattasi di principi che, seppur modellati sul comparto penale, si devono giudicare comunque immanenti: anche alla luce di ciò, e di questa prospettiva “garantista” della Cassazione penale, è dato evincere come, in uno sguardo orientato al futuro, possa risultare sempre più “incentivata” l’attività dell’imprenditore, anche in una condizione di crisi, beninteso laddove improntata comunque a criteri di ragionevolezza e non affetta da elementi patologici (id est, non palesemente spregiudicata, inficiata da dolo, ecc.).
L’importanza di tali pronunce, infatti, si coglie agevolmente ove si consideri che, come detto, le stesse si sono trovate a dirimere fattispecie verificatesi prima dell’avvento del nuovo Codice Crisi; antecedenti, quindi, all’affermazione espressa, e ripetuta, dell’obbligo dell’imprenditore che versi in situazione di crisi di assumere le misure idonee a farvi fonte. 
Su questo quadro, tuttavia, si deve segnalare un elemento di significativa incertezza, causato da una problematica attinente alla formulazione letterale dell’art. 2486 c.c.
Infatti, come già anticipato, in caso di perdita del capitale viene introdotta una presunzione relativa che quantifica il danno – da risarcire ad opera dell’imprenditore del quale sia stata accertata la responsabilità – quale differenza tra i patrimoni alla data, rispettivamente (i) dell’apertura della procedura “concorsuale” e (ii) in cui si è verificata la causa di scioglimento [8].
Trattasi, ad evidenza, di una determinazione che in talune situazioni potrebbe contrastare con la prospettiva garantista di cui sopra, in quanto non cesella la responsabilità dell’amministratore alla fascia temporale in cui questi è rimasto “inerte”, bensì l’estende tout court all’intero periodo di crisi. In una prospettiva di ragionevolezza e coerenza, infatti, apparirebbe maggiormente attagliato alla linea ermeneutica sopra illustrata, ed al “new deal” legislativo, escludere da tale presunzione quell’arco temporale in cui l’imprenditore assuma iniziative tese a (tentare di) superare la crisi. 
In termini esemplificativi – e provando con ciò anche a tirare le fila dei ragionamenti sin qui esposti – secondo chi scrive nel caso in cui l’imprenditore rilevi, seppur in ritardo, la perdita del capitale, ovvero non adotti tempestivamente il comportamento conservativo imposto dalla normativa (con ciò assumendosi la responsabilità prevista dall’art. 2486), dovrebbe essere esclusa l’operatività della presunzione ivi prevista, a decorrere dal momento in cui lo stesso, poi, assuma un comportamento virtuoso, teso alla ristrutturazione dell’azienda.
Comportamento virtuoso che, ad esempio, è integrato rivolgendosi ad advisor qualificati per individuare un percorso di risanamento dell’impresa, anche qualora lo stesso non si strutturi tramite l’immediata apertura di una procedura concorsuale. 
D’altro canto, analoga – sia consentita l’espressione – “approssimazione normativa” viene riportata nell’art. 323, lett. d), che punisce per bancarotta semplice chi “ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di apertura della propria liquidazione giudiziale …”. 
Pure in questo caso il riferimento alla sola “liquidazione giudiziale” sembrerebbe punire anche l’aggravamento del dissesto subito durante i tentativi di salvataggio o addirittura quello subito durante lo svolgimento delle procedure concorsuali minori. 
Sul punto, è opportuno ribadire come la già citata giurisprudenza penale abbia nitidamente interpretato il dato letterale della disposizione secondo condivisibili criteri sistematici, tesi a salvaguardare il comportamento dell’imprenditore che adotti comportamenti volti al salvataggio della propria impresa. 
Pertanto, è auspicabile che anche in ambito civilistico possano essere adottati integralmente i medesimi canoni ermeneutici, limitando l’operatività della presunzione de qua.

Note:

[1] 
E’ in concreto impossibile elencare i molteplici ed autorevoli contributi tanto giurisprudenziali quanto dottrinali che, nel corso del tempo, si sono soffermati su tale profilo. 
Senza alcuna pretesa di completezza, e solo per attestarsi ai contributi più recenti, cfr., ex multis, F. Galgano, Il nuovo diritto societario, in F. Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Volume IXXX, Padova, 2003, 277 e ss.; A. Rossi, Commento sub art. 2392 cod. civ., in A. Maffei Alberti (a cura di), Il nuovo diritto delle società, Padova, 2005, 790 e ss.; A. Castagnazzo, Commento sub art. 2392 cod. civ., in N. Abriani – M. Stella Richter (a cura di), Codice commentato delle società, Torino, 2010, 1124 e ss.; T. Tomasi, Commento sub art. 2392 cod. civ., in A. Maffei Alberti (a cura di), Commentario breve al diritto delle società, Padova, 2017, 772 e ss., nonché le amplissime dottrina e giurisprudenza richiamate; P. M. Sanfilippo, Gli amministratori, in M. Cian (a cura di), Diritto commerciale. III. Diritto delle società, Torino, 2017, 515 e ss.; A. Perrone, Commento sub art. 2392 cod. civ., in G. Cian – A. Trabucchi (a cura di), Commentario breve al codice civile, XIII edizione, Milano – Padova, 2018, 2850 e ss.; U. Patroni Griffi, Gli amministratori della s.p.a., in L. De Angelis (a cura di), Diritto commerciale. II edizione, Milano-Padova, 2020, 349 e ss.
[2] 
Recentemente, sui doveri di comportamento degli amministratori nelle situazioni di difficoltà economica, si veda quanto efficacemente illustrato ancora da Assonime, Circolare 21 novembre 2022, n. 27, in specie par. 4.
[3] 
F. Bartolini, Commento sub art. 378, in F. Di Marzio (diretto da), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2022, 1646, evidenzia limpidamente che la novella “persegue lo scopo di imporre agli amministratori della Società di assicurare che il patrimonio sociale sia sempre mantenuto nella consistenza idonea all’attuazione dello scopo statutario e a costituire una tutela effettiva dei diritti di partecipazione economica dei soci e dei crediti di terzi. Dei risultati contrari gli amministratori rispondono quando ad essi è attribuibile una inosservanza: circostanza che implica la violazione di un dovere, non solo, ma anche l’elemento soggettivo del dolo e della colpa”.
Cfr. anche l’ampia trattazione di L. Castelli – S. Monti, Il nuovo art. 2486, comma 3, c.c.: background, profili di continuità e di innovazione, impatto processuale, in https://ilsocietario.it/articoli/focus/il-nuovo-art-2486-comma-3-cc-background-profili-di-continuit-e-di-innovazione-impatto 14 ottobre 2019.
Sul punto si tornerà ulteriormente nel prosieguo. 
[4] 
Cfr. sul punto, e per tutti, quanto chiaramente evidenziato da L. Panzani, Le finalità del concordato preventivo, 10 ottobre 2022, in Dirittodellacrisi.it.
[5] 
Al riguardo, si veda F. Lamanna, Il Codice della crisi e dell’insolvenza dopo il secondo correttivo, Milano, 2022, 88 e ss.
Sviluppa tale tema, inoltre, Assonime, Guida al Codice della crisi, 14 dicembre 2022, 10 e ss. (par. 1).
[6] 
Per ampi riferimenti giurisprudenziali, si vedano i contributi scientifici già indicati nelle precedenti note in calce, che ripercorrono tali posizioni.
[7] 
Interessante la casistica concreta offerta dalla pronuncia con riferimento al caso di specie: “In questo senso sono state considerate gravemente imprudenti nella pronunzia testé citata, alcune operazioni negoziali poste in essere da una società in stato di dissesto, e precisamente : a) la locazione dell'intera azienda in favore di altra società, che non offriva peraltro serie garanzie di solvibilità, e per un canone locativo di gran lunga inferiore rispetto al valore dei beni locati; b) un contratto estimatorio mediante il quale la merce di magazzino era immediatamente consegnata all'altra società, con facoltà per quest'ultima di acquistarla per sè, venderla a terzi o restituirla alla controparte; c) una cessione di contratti relativi a beni oggetto di locazione finanziaria detenuti dalla stessa società cedente”.
[8] 
Cfr. sul punto, in maniera estremamente esauriente, recante anche il precedente dibattito interpretativo, F. Lamanna, Op. cit., 664 e ss.; F. Bartolini, Commento sub art. 378, in F. Di Marzio (diretto da), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2022, 1645 e ss.

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  • 2. rettifica: correggere/ottenere la correzione dei dati personali se errati o obsoleti e di completarli, se incompleti;
  • 3. cancellazione/oblio: ottenere, in alcuni casi, la cancellazione dei dati personali forniti; questo non è un diritto assoluto, in quanto le Società potrebbero avere motivi legittimi o legali per conservarli;
  • 4. limitazione: i dati saranno archiviati, ma non potranno essere né trattati, né elaborati ulteriormente, nei casi previsti dalla normativa;
  • 5. portabilità: spostare, copiare o trasferire i dati dai database delle Società a terzi. Questo vale solo per i dati forniti dall’interessato per l’esecuzione di un contratto o per i quali è stato fornito consenso e espresso e il trattamento viene eseguito con mezzi automatizzati;
  • 6. opposizione al marketing diretto;
  • 7. revoca del consenso in qualsiasi momento, qualora il trattamento si basi sul consenso.

Ai sensi dell’art. 2-undicies del D.Lgs. 196/2003 l’esercizio dei diritti dell’interessato può essere ritardato, limitato o escluso, con comunicazione motivata e resa senza ritardo, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, al fine di salvaguardare gli interessi di cui al comma 1, lettere a) (interessi tutelati in materia di riciclaggio), e) (allo svolgimento delle investigazioni difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria)ed f) (alla riservatezza dell’identità del dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio). In tali casi, i diritti dell’interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante con le modalità di cui all’articolo 160 dello stesso Decreto. In tale ipotesi, il Garante informerà l’interessato di aver eseguito tutte le verifiche necessarie o di aver svolto un riesame nonché della facoltà dell’interessato di proporre ricorso giurisdizionale.

Per esercitare tali diritti potrà rivolgersi alla nostra Struttura "Titolare del trattamento dei dati personali" all'indirizzo ssdirittodellacrisi@gmail.com oppure inviando una missiva a Società per lo studio del diritto della crisi via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN). Il Titolare Le risponderà entro 30 giorni dalla ricezione della Sua richiesta formale.

Dati di contatto - Società per lo studio del diritto della crisi con sede in via Principe Amedeo, 27, 46100 - Mantova (MN); email: ssdirittodellacrisi@gmail.com.

Responsabile della protezione dei dati - Il Responsabile della protezione dei dati non è stato nominato perché non ricorrono i presupposti di cui all’art 37 del Regolamento (UE) 2016/679.

Il TITOLARE

del trattamento dei dati personali

Società per lo studio del diritto della crisi

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