Saggio
Alcune osservazioni sulla legittimazione del fallito (e non solo) ad impugnare i crediti fiscali nei procedimenti di liquidazione giudiziale
Fernando Platania, Presidente della Corte di giustizia tributaria di Verona
27 Gennaio 2025
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Sommario:
Quasi specularmente, la necessità che l’attività degli organi preposti alle procedure concorsuali sia diretta a perseguire risultati effettivamente utili suggerisce, spesso, di non impegnare risorse di tempo e di denaro su questioni che non presentano alcun rilevanza concreta per la massa in ragione della stimata mancanza di attivo distribuibile ai creditori fiscali, inducendo così i curatori a non opporsi alle insinuazioni di crediti fiscali ed in ogni caso a non impegnarsi in alcuna iniziativa processuale di contrasto.
L’effetto congiunto della perdita in capo al fallito della capacità di amministrare e di disporre dei suoi beni prevista dall’art. 142 CCII e dell’automatica sostituzione del curatore nell’attività processuale ha finito per creare un evidente conflitto tra l’interesse del fallito (e non solo, come si esaminerà in seguito) a far valere le proprie ragioni in sede giurisdizionale, e l’obbligo del curatore di procedere ad una gestione oculata ed economica della procedura.
La Corte è partita dall’osservazione che l’obbligazione tributaria presenta, rispetto a quella civile, rilevanti differenze sia, sul piano sostanziale (applicandosi solo in modo residuale ad essa la disciplina civilistica) sia, su quello processuale (appartenendo la giurisdizione in via esclusiva al giudice tributario), tanto che il credito dell’ente impositore insinuato al passivo sulla base di un avviso non definitivo – se contestato - deve essere ammesso dal giudice delegato con riserva in attesa dell’esito del contenzioso tributario[3]; correlativamente, una volta che il credito impositivo sia divenuto definitivo per mancata impugnazione dell’avviso da parte della curatela ed ammesso pertanto al passivo, non v’è altra possibilità di contestazione per il contribuente (non legittimato ad impugnare i crediti ammessi ex art.98 L. fall.), neppure entro i ristrettissimi ambiti del contraddittorio facoltativo in sede di verifica dei crediti ex art. 95 c.p., L. fall (oggi 203, comma, CCII).
La Cassazione, inoltre, ha sottolineato che la definitività dell’atto impositivo, non impugnato nel termine decadenziale previsto, produce i suoi effetti nei confronti del debitore, anche dopo la chiusura del fallimento, pregiudicando, tra l’altro, il suo futuro rapporto con l’Amministrazione Finanziaria in tema di valutazione della personalità del contribuente e affidabilità fiscale complessiva ex art. 7 D.Lgs. n. 472/97, nonché sull’an e quantum delle sanzioni pecuniarie applicabili.
E’ proprio l’aspetto sanzionatorio che rende particolarmente eclatante il divario di regime tra obbligazione tributaria ed obbligazione di diritto comune che ha, per di più, importanti ricadute sulla esdebitazione del debitore che costituisce uno degli aspetti più innovativi e rilevanti del codice della crisi. Infatti, come sottolineato dalla Cassazione, la più significativa differenza tra l’obbligazione civile e quella tributaria e che giustifica l’attribuzione, nei più ampi limiti indicati, della legittimazione del fallito all’impugnazione degli atti impositivi, si coglie appieno in sede di esdebitazione che, non esplicando effetti sulle sanzioni pecuniarie penali ed amministrative che non siano accessorie a debiti estinti (anche in conseguenza dell’esdebitazione), non estingue l’obbligo di pagare per intero, anche dopo la chiusura del fallimento, la sanzione irrogata dagli uffici finanziari che è quasi sempre commisurata in modo proporzionale all’entità del tributo non pagato.
Vi può, dunque, essere nella sostanza un interesse rilevante del liquidato alla corretta definizione delle obbligazioni che può non essere ritenuto rilevante dal curatore che, anche soltanto per ragioni connesse esclusivamente alla necessità di procedere rapidamente alla chiusura della procedura, può rinunciare ad assumere costose ed improduttive iniziative giudiziarie destinate a non modificare in nulla la distribuzione dell’attivo ed anzi a pregiudicare la soddisfazione dei creditori per l’aumento dei costi a carico della massa.
Alla luce di tali principi la Corte con l’indicata decisione ha ritenuto necessario tutelare nella misura più ampia possibile il debitore fiscale sottoposto a liquidazione giudiziale attribuendogli la legittimazione processuale in tutti i casi in cui il curatore abbia semplicemente omesso di opporsi all’atto fiscale qualunque sia la ragione di tale inerzia.
Può accadere che al curatore venga notificato (così come al debitore, essendo anzi ciò necessario affinchè possa essere anche a questi opponibile l’atto impositivo) un avviso di accertamento, un atto di recupero di crediti di imposte, un avviso di liquidazione ovvero altro atto di accertamento relativo a crediti erariali sorti antecedentemente all’apertura della procedura; dalla notifica decorrono per la procedura i termini per l’impugnazione, spettando al curatore ogni iniziativa anche processuale ai sensi dell’attuale art. 142 CCII o del precedente art. 42 L. fall.
Orbene, l’inerzia del curatore, ovvero l’assenza di ogni iniziativa di impugnazione di tali atti, per quanto ora assunto dalla Cassazione, legittima il debitore in proprio a ricorrere innanzi al giudice tributario per vedere riconosciute le sue buone ragioni ed ottenere l’annullamento parziale o totale dell’atto anche quando la scelta del curatore di non impugnarlo sia frutto di una consapevole adesione alle valutazioni dell’Amministrazione finanziaria.
Tali atti, ancorchè notificati, non producono però, direttamente, l’effetto dell’ammissione al passivo che, invece, deve essere domandata secondo le ordinarie forme previste dal codice della crisi (e, prima, dalla legge fallimentare). Questo non toglie, però, rilevanza alla notifica effettuata al curatore, perché l’omessa sua impugnazione ne determina la definitività e, quindi, per quel che si vedrà, l’obbligo per la procedura ed il giudice delegato di ammettere, definitivamente, il credito nel passivo concorsuale.
Ne consegue che la notifica di un atto impositivo alla curatela può esser privo di conseguenze pratiche per la procedura solo se ad essa non segua l’istanza di ammissione al passivo ma può produrre effetti definitivi ed insuperabili per la procedura se alla mancata impugnazione segua la richiesta di ammissione al passivo.
Da ciò l’interesse del liquidato a proporre impugnazione in ragione delle conseguenze che la mancata impugnazione può determinare soprattutto sulla sua personale posizione dopo la chiusura della procedura.
Ricordato che l’apertura della liquidazione giudiziaria determina ipso facto l’interruzione del processo, in primo luogo, occorre chiedersi se il giudizio intrapreso a suo tempo dal debitore, a seguito di impugnazione dell’atto impositivo, debba ancora essere automaticamente interrotto a seguito dell’apertura della liquidazione giudiziale ovvero ciò sia diventato inutile essendo già costituito il soggetto che potrebbe proseguirlo, in conformità all’orientamento della Cassazione secondo cui la presenza in giudizio di coloro che dovrebbero costituirsi in luogo del soggetto nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo (come nel caso degli eredi del soggetto defunto) rende inutile l’emissione di un provvedimento di interruzione e la successiva procedura di riassunzione[4].
In realtà, l’interruzione può risultare superflua solo nel caso in cui il debitore liquidato produca nel giudizio un’espressa dichiarazione del curatore di disinteresse, posto che in assenza di certezze sulle reali intenzioni del curatore, nulla potrebbe escludere che il processo venga riassunto proprio dal curatore a tutela degli interessi della massa, intervenendo nella vertenza già intrapresa dal debitore prima dell’apertura della procedura.
Sul tema si innesta un altro problema pratico costituito dall’effettiva conoscenza, da parte del curatore, della pendenza del giudizio tributario.
E’ stato, infatti, anche di recente ribadito che “In caso di apertura del fallimento, l’interruzione del processo è automatica ma il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c., decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, qualora non già conosciuta in ragione della sua pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c., va notificata alle parti o al curatore da uno degli interessati o comunque comunicata dall’ufficio giudiziario” [5].
Di conseguenza, è solo dal momento della dichiarazione giudiziale di interruzione della causa – di cui la parte abbia conoscenza o a seguito della pronuncia in udienza o a seguito dell’apposita comunicazione – che inizia a decorrere il termine per la riassunzione.
L’interpretazione dell’art. 43 L. fall. ad opera delle Sezioni Unite si applica anche nell’ambito del processo tributario, dove peraltro non solo l’art. 41 D.Lgs. n. 546/1992 (oggi art. 75 Testo unico della Giustizia Tributaria, D.Lgs. 14 novembre 2024) prevede che l’interruzione sia dichiarata dal presidente della sezione con decreto o dalla commissione con ordinanza, ma anche l’art. 43, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992 (oggi art. 92 Testo unico della Giustizia Tributaria, D.Lgs. 14 novembre 2024) stabilisce che “Se entro sei mesi da quanto è stata dichiarata l’interruzione del processo la parte colpita dall’evento o i suoi successori o qualsiasi altra parte presentano istanza di trattazione al presidente di sezione della commissione, quest’ultimo provvede a norma del comma precedente.”
Pertanto deve essere sempre dichiarata l’interruzione ( a meno che il debitore non produca, come in precedenza indicato, apposita dichiarazione del curatore di indifferenza rispetto alle sorti del procedimento che implicitamente dimostri la piena conoscenza della vertenza da parte degli organi della procedura) ed, altresì, comunicata a cura della Corte Tributaria al curatore onde far decorrere effettivamente il termine per la riassunzione per poi procedere, se del caso, correttamente all’estinzione del giudizio per inerzia delle parti ai sensi dell’art. 45 D.Lgs n. 546/92 (oggi art. 94 del Testo unico della Giustizia Tributaria D.Lgs. 14 novembre 2024).
Ed anche per il fallito, il momento di decorrenza del termine deve essere posto in collegamento con l’ordinanza/decreto di dichiarazione di interruzione come statuito da Cass., Sez. Un., 7 maggio 2022, n. 12154 che ha superato il diverso precedente orientamento seguito da Cass., 27 agosto 2020, n. 17944 che aveva ritenuto che per il fallito, invece, il termine decorresse dalla notificazione della sentenza di apertura della procedura.
Potrà anche accadere che per evitare il vano decorso del termine perentorio per la riassunzione, il debitore, non essendo necessariamente a conoscenza delle intenzioni del curatore, possa riassumere il processo prima ancora che il curatore abbia comunicato una posizione definitiva. Ovviamente l’iniziativa del debitore non potrebbe impedire l’autonoma riassunzione da parte del curatore né l’intervento in giudizio dopo la riassunzione ma in ogni caso, non essendo chiaramente individuabile il significato della posizione del curatore in pendenza del termine per la riassunzione, l’atto di riassunzione proveniente da una qualsiasi delle parti del giudizio dovrebbe essere notificato anche al curatore ( anche per valutare come inerzia la sua assenza dal giudizio e non come ignoranza della pendenza tributaria).
Si è costantemente affermato che il fallito non abbia alcun ruolo autonomo nei giudizi in cui sia parte il curatore, a prescindere dalla plausibilità della condotta adottata in concreto dall’organo concorsuale nel processo, potendosi ipotizzare per il liquidato l’ammissibilità, al più, di un intervento adesivo autonomo solo ove ricorra il rischio di un procedimento penale per bancarotta. Fuori da questa ipotesi, le incursioni del fallito nelle cause in cui sia parte il curatore sarebbero configurabili soltanto sub specie di intervento adesivo dipendente, essendo inibita al debitore l’opportunità di contrastare in giudizio la sentenza che definisce il processo, indipendentemente dall'eventuale impugnazione proposta dall’organo concorsuale[6].
Questo orientamento, però, deve essere, almeno in parte, rivisto alla luce delle nuove considerazioni espresse dalla Cassazione.
Come già sottolineato, le obbligazioni tributarie si atteggiano in modo diverso da quelle civilistiche atteso che i loro effetti, specie in tema di sanzioni ed esdebitazione, permangono anche dopo la chiusura della procedura; ciò, però, necessariamente comporta che debba essere rivalutata, sotto il profilo processuale, la posizione che può assumere il liquidato nel processo proseguito dal curatore [7] almeno ammettendo l’impugnazione della decisione sfavorevole pur se non censurata dagli organi della procedura[8] quanto meno in relazione agli effetti che possono perdurare in capo al fallito una volta chiusa la procedura.
Infatti, così come il debitore non può essere pregiudicato dall’inerzia del curatore nei confronti di un atto impositivo notificato al curatore, altrettanto deve ritenersi in relazione all’omissione all’impugnazione della sentenza sfavorevole che può determinare le medesime negative ricadute sulla sua posizione che deriverebbero dall’omessa impugnazione dell’atto.
Al fine di comprendere tale conclusione occorre ricordare che da sempre è stata riconosciuta la possibilità, per qualunque creditore, di agire nei confronti del soggetto sottoposto a procedura liquidativa concorsuale, qualora intenda ottenere un titolo da far valere solo a procedura conclusa. Ciò comporta per il debitore la possibilità di difendersi autonomamente nel giudizio intentato dal creditore ed anche di esercitare il diritto all’impugnativa quando la sentenza di primo grado gli fosse sfavorevole.
Il processo tributario ha, però, natura esclusivamente impugnatoria; ne consegue che il creditore fiscale deve notificare al debitore un atto al fine di provocarne, eventualmente l’impugnativa. In pendenza di procedura, l’Erario può scegliere di notificare l’atto impositivo al curatore, se intende ottenere un titolo valido nei confronti della curatela ai fini della partecipazione al concorso, oppure notificare solo al debitore qualora intenda agire nei soli suoi confronti una volta conclusa la procedura concorsuale; in ogni caso, vi sarebbero conseguenze per il debitore anche se la domanda fosse diretta solo nei confronti della procedura.
Tuttavia, il debitore, ancorchè non gli sia stato notificato nulla in pendenza della liquidazione, può impugnare l’atto (non essendo neppure decorsi i termini per l’impugnazione) in via autonoma al fine di neutralizzare le conseguenze dannose che gli potrebbero derivare dalla definitività dal giudicato.
Quando l’iniziativa all’impugnazione è assunta dalla curatela (perchè l’atto è stato notificato in pendenza della procedura) o sia proseguita dalla curatela (allorchè sia stato già impugnato dal debitore) l’azione promossa o proseguita dal curatore è diretta a neutralizzare gli effetti che potrebbe avere sulla procedura la definitività del credito; ma l’azione della curatela sarebbe sempre strettamente funzionale agli interessi della massa e non influenzerebbe le vicende estranee alla procedura. Perché, allora, dovrebbe essere inibita al debitore di riprendere l’iniziativa, abbandonata dalla curatela per una qualsiasi ragione, a tutela della sua propria posizione in vista della chiusura della procedura? L’area della legittimazione ad agire del debitore va determinata in stretta correlazione con l’interesse perseguito in giudizio; fino a quando v’è inerzia del curatore, l’iniziativa del debitore può spingersi a tutelare anche questioni coinvolgenti gli interessi della massa; una volta intervenuto il curatore, l’area della legittimazione del liquidato non evapora per ciò stesso, come pure tradizionalmente affermato in giurisprudenza, ma deve ritenersi rivolta solo ad escludere conseguenze dell’atto sulla sua posizione post procedura.
Una diversa lettura delle norme determinerebbe un’incostituzionale compressione dei diritti di difesa di colui che fosse sottoposto alla liquidazione giudiziale.
La questione è strettamente collegata ai poteri del giudice delegato in tema di ammissione al passivo dei crediti fiscali.
In base ai principi elaborati dalla giurisprudenza della Cassazione [9] in relazione alla domanda di ammissione al passivo di creditori tributari il giudice delegato deve accertare che:
Tale scissione di effetti che conseguenze provoca sulla esdebitazione?
Come più volte osservato ai sensi dell’art. 278 CCII l’esdebitazione non opera con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti. Pertanto, malgrado possa avvenire che tali sanzioni non accessorie siano state oggetto di ammissione al passivo a seguito di notifica dell’atto impositivo effettuata nei soli confronti del curatore, rimane sempre salvo il diritto del debitore, che impugnasse l’atto notificatogli successivamente alla chiusura della procedura, di far valere la nullità dell’atto impositivo al fine di far dichiarare l’inesigibilità della pretesa fiscale pur regolarmente ammessa nello stato passivo.
In sostanza il riconoscimento di una autonoma legittimazione del debitore soggetto a procedura liquidativa, come ricostruibile sulla base dei recenti orientamenti della Giurisprudenza di legittimità, comporta una tutela piena delle sue ragioni in relazione agli effetti che possano conseguirgli dalla chiusura della procedura, indipendentemente dalle scelte effettuate dalla curatela.
Note:
Con la chiusura del fallimento si verifica, pertanto, sia la perdita degli effetti protettivi ai fini della prescrizione prodottisi con la domanda di ammissione al passivo, sia il riacquisto da parte dei creditori delle azioni esecutive individuali. La sospensione del decorso della prescrizione appare, pertanto, legata anche al divieto di azioni esecutive individuali. Se durante il procedimento concorsuale il creditore non vede decorrere la prescrizione, ciò è dovuto anche al fatto che egli non può agire nei confronti del debitore e non può, di conseguenza, ritenersi pregiudicato dalla durata della procedura concorsuale, pendente la quale (salve le eccezioni di legge) non può procedere individualmente sul patrimonio del debitore. Di questo effetto interruttivo/sospensivo il creditore ne beneficia nei confronti del debitore dichiarato fallito, una volta che quest’ultimo torni in bonis. Se il creditore ha conservato i propri diritti di credito durante la procedura anche ai fini prescrizionali (salvo il divieto di azioni esecutive), la possibilità per il creditore di agire nei confronti del debitore non può che accompagnarsi alla conservazione dell’effetto sospensivo della prescrizione, invalso durante la pendenza della procedura concorsuale e non oltre la sua chiusura, con la ripresa in esito alla chiusura di un nuovo periodo prescrizionale.