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Saggio

Alcune osservazioni sulla legittimazione del fallito (e non solo) ad impugnare i crediti fiscali nei procedimenti di liquidazione giudiziale

Fernando Platania, Presidente della Corte di giustizia tributaria di Verona

27 Gennaio 2025

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
L’autore esamina le vaste ricadute che, anche dopo la conclusione della procedura concorsuale, derivano dal riconoscimento, all’imprenditore sottoposto alla liquidazione giudiziale, della legittimazione processuale ad impugnare atti impositivi innanzi al giudice tributario nell’ipotesi in cui il curatore ometta di assumere iniziative di contrasto. Sono, altresì, valutate le conseguenze delle sentenze assunte su ricorso del solo imprenditore quando i crediti fiscali siano stati ammessi definitivamente o con riserva dal giudice delegato nello stato passivo della procedura; viene anche problematicamente affrontato il tema della tutela del creditore che impugni l’ammissione dei crediti erariali per questioni rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice tributario.
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1 . Premessa
I rapporti tra procedure concorsuali e giudizio tributario sono sempre stati piuttosto stretti, non solo, per l’importanza che normalmente rivestono i debiti fiscali nell’insorgenza della crisi, ma anche, per l’interesse alla loro corretta definizione che continua a manifestare l’imprenditore (individuale e collettivo) pur dopo l’apertura di una procedura concorsuale di tipo liquidativo. 
Quasi specularmente, la necessità che l’attività degli organi preposti alle procedure concorsuali sia diretta a perseguire risultati effettivamente utili suggerisce, spesso, di non impegnare risorse di tempo e di denaro su questioni che non presentano alcun rilevanza concreta per la massa in ragione della stimata mancanza di attivo distribuibile ai creditori fiscali, inducendo così i curatori a non opporsi alle insinuazioni di crediti fiscali ed in ogni caso a non impegnarsi in alcuna iniziativa processuale di contrasto. 
L’effetto congiunto della perdita in capo al fallito della capacità di amministrare e di disporre dei suoi beni prevista dall’art. 142 CCII e dell’automatica sostituzione del curatore nell’attività processuale ha finito per creare un evidente conflitto tra l’interesse del fallito (e non solo, come si esaminerà in seguito) a far valere le proprie ragioni in sede giurisdizionale, e l’obbligo del curatore di procedere ad una gestione oculata ed economica della procedura.
2 . I nuovi confini della legittimazione del fallito
Sul tema, assai rilevante per le sue ricadute, è di recente intervenuta la Cassazione[1] che, modificando in modo significativo il suo più risalente orientamento, in applicazione dei principi posti da Cass., Sez. Un., 28 aprile 2023, n. 11287, ha inteso superare in modo netto la distinzione tra inerzia pura e semplice ed inerzia qualificata che stava alla base dell’orientamento prevalente (o comunque largamente diffuso[2]) che subordinava la legittimazione suppletiva del fallito all’assenza di ogni forma di valutazione da parte degli organi della curatela.
La Corte è partita dall’osservazione che l’obbligazione tributaria presenta, rispetto a quella civile, rilevanti differenze sia, sul piano sostanziale (applicandosi solo in modo residuale ad essa la disciplina civilistica) sia, su quello processuale (appartenendo la giurisdizione in via esclusiva al giudice tributario), tanto che il credito dell’ente impositore insinuato al passivo sulla base di un avviso non definitivo – se contestato - deve essere ammesso dal giudice delegato con riserva in attesa dell’esito del contenzioso tributario[3]; correlativamente, una volta che il credito impositivo sia divenuto definitivo per mancata impugnazione dell’avviso da parte della curatela ed ammesso pertanto al passivo, non v’è altra possibilità di contestazione per il contribuente (non legittimato ad impugnare i crediti ammessi ex art.98 L. fall.), neppure entro i ristrettissimi ambiti del contraddittorio facoltativo in sede di verifica dei crediti ex art. 95 c.p., L. fall (oggi 203, comma, CCII).
La Cassazione, inoltre, ha sottolineato che la definitività dell’atto impositivo, non impugnato nel termine decadenziale previsto, produce i suoi effetti nei confronti del debitore, anche dopo la chiusura del fallimento, pregiudicando, tra l’altro, il suo futuro rapporto con l’Amministrazione Finanziaria in tema di valutazione della personalità del contribuente e affidabilità fiscale complessiva ex art. 7 D.Lgs. n. 472/97, nonché sull’an e quantum delle sanzioni pecuniarie applicabili. 
E’ proprio l’aspetto sanzionatorio che rende particolarmente eclatante il divario di regime tra obbligazione tributaria ed obbligazione di diritto comune che ha, per di più, importanti ricadute sulla esdebitazione del debitore che costituisce uno degli aspetti più innovativi e rilevanti del codice della crisi. Infatti, come sottolineato dalla Cassazione, la più significativa differenza tra l’obbligazione civile e quella tributaria e che giustifica l’attribuzione, nei più ampi limiti indicati, della legittimazione del fallito all’impugnazione degli atti impositivi, si coglie appieno in sede di esdebitazione che, non esplicando effetti sulle sanzioni pecuniarie penali ed amministrative che non siano accessorie a debiti estinti (anche in conseguenza dell’esdebitazione), non estingue l’obbligo di pagare per intero, anche dopo la chiusura del fallimento, la sanzione irrogata dagli uffici finanziari che è quasi sempre commisurata in modo proporzionale all’entità del tributo non pagato. 
Vi può, dunque, essere nella sostanza un interesse rilevante del liquidato alla corretta definizione delle obbligazioni che può non essere ritenuto rilevante dal curatore che, anche soltanto per ragioni connesse esclusivamente alla necessità di procedere rapidamente alla chiusura della procedura, può rinunciare ad assumere costose ed improduttive iniziative giudiziarie destinate a non modificare in nulla la distribuzione dell’attivo ed anzi a pregiudicare la soddisfazione dei creditori per l’aumento dei costi a carico della massa. 
Alla luce di tali principi la Corte con l’indicata decisione ha ritenuto necessario tutelare nella misura più ampia possibile il debitore fiscale sottoposto a liquidazione giudiziale attribuendogli la legittimazione processuale in tutti i casi in cui il curatore abbia semplicemente omesso di opporsi all’atto fiscale qualunque sia la ragione di tale inerzia.
3 . Le conseguenze dell’inerzia
Appare, però, opportuno valutare in relazione a quali atti possa manifestarsi l’inerzia del curatore e quali le conseguenze per la procedura. 
Può accadere che al curatore venga notificato (così come al debitore, essendo anzi ciò necessario affinchè possa essere anche a questi opponibile l’atto impositivo) un avviso di accertamento, un atto di recupero di crediti di imposte, un avviso di liquidazione ovvero altro atto di accertamento relativo a crediti erariali sorti antecedentemente all’apertura della procedura; dalla notifica decorrono per la procedura i termini per l’impugnazione, spettando al curatore ogni iniziativa anche processuale ai sensi dell’attuale art. 142 CCII o del precedente art. 42 L. fall. 
Orbene, l’inerzia del curatore, ovvero l’assenza di ogni iniziativa di impugnazione di tali atti, per quanto ora assunto dalla Cassazione, legittima il debitore in proprio a ricorrere innanzi al giudice tributario per vedere riconosciute le sue buone ragioni ed ottenere l’annullamento parziale o totale dell’atto anche quando la scelta del curatore di non impugnarlo sia frutto di una consapevole adesione alle valutazioni dell’Amministrazione finanziaria. 
Tali atti, ancorchè notificati, non producono però, direttamente, l’effetto dell’ammissione al passivo che, invece, deve essere domandata secondo le ordinarie forme previste dal codice della crisi (e, prima, dalla legge fallimentare). Questo non toglie, però, rilevanza alla notifica effettuata al curatore, perché l’omessa sua impugnazione ne determina la definitività e, quindi, per quel che si vedrà, l’obbligo per la procedura ed il giudice delegato di ammettere, definitivamente, il credito nel passivo concorsuale. 
Ne consegue che la notifica di un atto impositivo alla curatela può esser privo di conseguenze pratiche per la procedura solo se ad essa non segua l’istanza di ammissione al passivo ma può produrre effetti definitivi ed insuperabili per la procedura se alla mancata impugnazione segua la richiesta di ammissione al passivo. 
Da ciò l’interesse del liquidato a proporre impugnazione in ragione delle conseguenze che la mancata impugnazione può determinare soprattutto sulla sua personale posizione dopo la chiusura della procedura.
4 . Le conseguenze processuali
Può, anche, accadere che l’atto impositivo sia stato già notificato al debitore quand’era in bonis e che questi l’abbia già impugnato innanzi al giudice tributario. Quali, dunque, le conseguenze del principio espresso dalla Cassazione in tale caso?
Ricordato che l’apertura della liquidazione giudiziaria determina ipso facto l’interruzione del processo, in primo luogo, occorre chiedersi se il giudizio intrapreso a suo tempo dal debitore, a seguito di impugnazione dell’atto impositivo, debba ancora essere automaticamente interrotto a seguito dell’apertura della liquidazione giudiziale ovvero ciò sia diventato inutile essendo già costituito il soggetto che potrebbe proseguirlo, in conformità all’orientamento della Cassazione secondo cui la presenza in giudizio di coloro che dovrebbero costituirsi in luogo del soggetto nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo (come nel caso degli eredi del soggetto defunto) rende inutile l’emissione di un provvedimento di interruzione e la successiva procedura di riassunzione[4]. 
In realtà, l’interruzione può risultare superflua solo nel caso in cui il debitore liquidato produca nel giudizio un’espressa dichiarazione del curatore di disinteresse, posto che in assenza di certezze sulle reali intenzioni del curatore, nulla potrebbe escludere che il processo venga riassunto proprio dal curatore a tutela degli interessi della massa, intervenendo nella vertenza già intrapresa dal debitore prima dell’apertura della procedura. 
Sul tema si innesta un altro problema pratico costituito dall’effettiva conoscenza, da parte del curatore, della pendenza del giudizio tributario. 
E’ stato, infatti, anche di recente ribadito che “In caso di apertura del fallimento, l’interruzione del processo è automatica ma il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c., decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, qualora non già conosciuta in ragione della sua pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c., va notificata alle parti o al curatore da uno degli interessati o comunque comunicata dall’ufficio giudiziario” [5]. 
Di conseguenza, è solo dal momento della dichiarazione giudiziale di interruzione della causa – di cui la parte abbia conoscenza o a seguito della pronuncia in udienza o a seguito dell’apposita comunicazione – che inizia a decorrere il termine per la riassunzione. 
L’interpretazione dell’art. 43 L. fall. ad opera delle Sezioni Unite si applica anche nell’ambito del processo tributario, dove peraltro non solo l’art. 41 D.Lgs. n. 546/1992 (oggi art. 75 Testo unico della Giustizia Tributaria, D.Lgs. 14 novembre 2024) prevede che l’interruzione sia dichiarata dal presidente della sezione con decreto o dalla commissione con ordinanza, ma anche l’art. 43, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992 (oggi art. 92 Testo unico della Giustizia Tributaria, D.Lgs. 14 novembre 2024) stabilisce che “Se entro sei mesi da quanto è stata dichiarata l’interruzione del processo la parte colpita dall’evento o i suoi successori o qualsiasi altra parte presentano istanza di trattazione al presidente di sezione della commissione, quest’ultimo provvede a norma del comma precedente.” 
Pertanto deve essere sempre dichiarata l’interruzione ( a meno che il debitore non produca, come in precedenza indicato, apposita dichiarazione del curatore di indifferenza rispetto alle sorti del procedimento che implicitamente dimostri la piena conoscenza della vertenza da parte degli organi della procedura) ed, altresì, comunicata a cura della Corte Tributaria al curatore onde far decorrere effettivamente il termine per la riassunzione per poi procedere, se del caso, correttamente all’estinzione del giudizio per inerzia delle parti ai sensi dell’art. 45 D.Lgs n. 546/92 (oggi art. 94 del Testo unico della Giustizia Tributaria D.Lgs. 14 novembre 2024). 
Ed anche per il fallito, il momento di decorrenza del termine deve essere posto in collegamento con l’ordinanza/decreto di dichiarazione di interruzione come statuito da Cass., Sez. Un., 7 maggio 2022, n. 12154 che ha superato il diverso precedente orientamento seguito da Cass., 27 agosto 2020, n. 17944 che aveva ritenuto che per il fallito, invece, il termine decorresse dalla notificazione della sentenza di apertura della procedura. 
Potrà anche accadere che per evitare il vano decorso del termine perentorio per la riassunzione, il debitore, non essendo necessariamente a conoscenza delle intenzioni del curatore, possa riassumere il processo prima ancora che il curatore abbia comunicato una posizione definitiva. Ovviamente l’iniziativa del debitore non potrebbe impedire l’autonoma riassunzione da parte del curatore né l’intervento in giudizio dopo la riassunzione ma in ogni caso, non essendo chiaramente individuabile il significato della posizione del curatore in pendenza del termine per la riassunzione, l’atto di riassunzione proveniente da una qualsiasi delle parti del giudizio dovrebbe essere notificato anche al curatore ( anche per valutare come inerzia la sua assenza dal giudizio e non come ignoranza della pendenza tributaria).
5 . Il ruolo del debitore nei processi fiscali riassunti a cura del curatore
La posizione della Cassazione apre anche altri problemi in ordine al ruolo che può essere attribuito al debitore quando il giudizio pendente sia stato riassunto dal curatore.
Si è costantemente affermato che il fallito non abbia alcun ruolo autonomo nei giudizi in cui sia parte il curatore, a prescindere dalla plausibilità della condotta adottata in concreto dall’organo concorsuale nel processo, potendosi ipotizzare per il liquidato l’ammissibilità, al più, di un intervento adesivo autonomo solo ove ricorra il rischio di un procedimento penale per bancarotta. Fuori da questa ipotesi, le incursioni del fallito nelle cause in cui sia parte il curatore sarebbero configurabili soltanto sub specie di intervento adesivo dipendente, essendo inibita al debitore l’opportunità di contrastare in giudizio la sentenza che definisce il processo, indipendentemente dall'eventuale impugnazione proposta dall’organo concorsuale[6].
Questo orientamento, però, deve essere, almeno in parte, rivisto alla luce delle nuove considerazioni espresse dalla Cassazione.
Come già sottolineato, le obbligazioni tributarie si atteggiano in modo diverso da quelle civilistiche atteso che i loro effetti, specie in tema di sanzioni ed esdebitazione, permangono anche dopo la chiusura della procedura; ciò, però, necessariamente comporta che debba essere rivalutata, sotto il profilo processuale, la posizione che può assumere il liquidato nel processo proseguito dal curatore [7] almeno ammettendo l’impugnazione della decisione sfavorevole pur se non censurata dagli organi della procedura[8] quanto meno in relazione agli effetti che possono perdurare in capo al fallito una volta chiusa la procedura.
Infatti, così come il debitore non può essere pregiudicato dall’inerzia del curatore nei confronti di un atto impositivo notificato al curatore, altrettanto deve ritenersi in relazione all’omissione all’impugnazione della sentenza sfavorevole che può determinare le medesime negative ricadute sulla sua posizione che deriverebbero dall’omessa impugnazione dell’atto.
Al fine di comprendere tale conclusione occorre ricordare che da sempre è stata riconosciuta la possibilità, per qualunque creditore, di agire nei confronti del soggetto sottoposto a procedura liquidativa concorsuale, qualora intenda ottenere un titolo da far valere solo a procedura conclusa. Ciò comporta per il debitore la possibilità di difendersi autonomamente nel giudizio intentato dal creditore ed anche di esercitare il diritto all’impugnativa quando la sentenza di primo grado gli fosse sfavorevole.
Il processo tributario ha, però, natura esclusivamente impugnatoria; ne consegue che il creditore fiscale deve notificare al debitore un atto al fine di provocarne, eventualmente l’impugnativa. In pendenza di procedura, l’Erario può scegliere di notificare l’atto impositivo al curatore, se intende ottenere un titolo valido nei confronti della curatela ai fini della partecipazione al concorso, oppure notificare solo al debitore qualora intenda agire nei soli suoi confronti una volta conclusa la procedura concorsuale; in ogni caso, vi sarebbero conseguenze per il debitore anche se la domanda fosse diretta solo nei confronti della procedura.
Tuttavia, il debitore, ancorchè non gli sia stato notificato nulla in pendenza della liquidazione, può impugnare l’atto (non essendo neppure decorsi i termini per l’impugnazione) in via autonoma al fine di neutralizzare le conseguenze dannose che gli potrebbero derivare dalla definitività dal giudicato.
Quando l’iniziativa all’impugnazione è assunta dalla curatela (perchè l’atto è stato notificato in pendenza della procedura) o sia proseguita dalla curatela (allorchè sia stato già impugnato dal debitore) l’azione promossa o proseguita dal curatore è diretta a neutralizzare gli effetti che potrebbe avere sulla procedura la definitività del credito; ma l’azione della curatela sarebbe sempre strettamente funzionale agli interessi della massa e non influenzerebbe le vicende estranee alla procedura. Perché, allora, dovrebbe essere inibita al debitore di riprendere l’iniziativa, abbandonata dalla curatela per una qualsiasi ragione, a tutela della sua propria posizione in vista della chiusura della procedura? L’area della legittimazione ad agire del debitore va determinata in stretta correlazione con l’interesse perseguito in giudizio; fino a quando v’è inerzia del curatore, l’iniziativa del debitore può spingersi a tutelare anche questioni coinvolgenti gli interessi della massa; una volta intervenuto il curatore, l’area della legittimazione del liquidato non evapora per ciò stesso, come pure tradizionalmente affermato in giurisprudenza, ma deve ritenersi rivolta solo ad escludere conseguenze dell’atto sulla sua posizione post procedura. 
Una diversa lettura delle norme determinerebbe un’incostituzionale compressione dei diritti di difesa di colui che fosse sottoposto alla liquidazione giudiziale.
6 . La tutela del debitore (e dei creditori) nell’ambito del procedimento di ammissione al passivo
Merita anche valutare gli effetti della riconosciuta legittimazione processuale del debitore sulla fase di ammissione al passivo del credito fatto valere dall’Amministrazione fiscale. 
La questione è strettamente collegata ai poteri del giudice delegato in tema di ammissione al passivo dei crediti fiscali. 
In base ai principi elaborati dalla giurisprudenza della Cassazione [9] in relazione alla domanda di ammissione al passivo di creditori tributari il giudice delegato deve accertare che: 
1) la domanda sia tempestiva ed ammissibile (dovendo anche l’Amministrazione fiscale rispettare il termine annuale dalla pubblicazione della sentenza per presentare la domanda di insinuazione al passivo – Cass., 8 settembre 2015, n. 17787); 
2) il credito tributario sia sorto anteriormente alla sentenza di apertura della procedura concorsuale (non rilevando, invece, la data di emissione e notifica dell’atto fiscale); 
3) sia stato prodotto un titolo idoneo all’ammissione; 
4) sussistano le cause di prelazione richieste. 
Esula, invece, dalla giurisdizione del giudice concorsuale ogni potere di negare l’ammissione al passivo in relazione ad aspetti non più contestabili relativi accertamento della pretesa tributaria mentre il curatore può sollevare l’eccezione di prescrizione del credito se maturata dopo la notifica dell’accertamento[10] (vedasi Cass., Sez. Un., 24/12/2019 n. 34447) rientrando tale contestazione nella giurisdizione del giudice ordinario ( a somiglianza di quanto deciso nell’ambito del procedimento esecutivo da Cass., Sez. Un. 28/07/2021 n. 21642). Conseguentemente il giudice dovrà ammettere sic et sempliciter il credito se, soddisfatte tutte le altre condizioni, il titolo su cui si fonda l’ammissione non possa essere più oggetto di contestazione presso la giurisdizione tributaria ( o non sia più pendente il giudizio introdotto in precedenza dal debitore), non spettando al giudice delegato valutare fatti estintivi dell’obbligazione quali la decadenza, mancata notifica e le altre questioni diverse dalla prescrizione maturata successivamente alla notifica dell’atto impositivo. 
Qualora, invece, in sede di verifica dei crediti sorgano, da parte del curatore, contestazioni su quello erariale e non siano ancora decorsi i termini per l’impugnazione dell’atto impositivo, il giudice ai sensi dell’art. 88 D.P.R. n. 602/73 deve ammettere il credito con riserva da sciogliersi quando fosse inutilmente decorso il termine prescritto per la proposizione della controversia davanti al giudice tributario ovvero quando il giudizio fosse stato definito con decisione irrevocabile o, comunque, estinto. 
Sebbene sia probabile che il legislatore considerasse solo il curatore legittimato ad impugnare l’atto posto a fondamento dell’insinuazione al passivo, la lettera dell’art. 88 D.P.R. n. 602/73 e l’orientamento espresso dalla Cassazione nella più volte ricordata sentenza 30 luglio 2024 n. 21333 non giustificano più siffatta conclusione; va, infatti, sottolineato che se l’iniziativa di contestare il credito è della curatela (condivisa dal giudice delegato), non ci si trova di fronte ad un comportamento propriamente inerte (che giustifica, come in precedenza ricordato, una legittimazione compensativa del fallito a tutela della proprio personale posizione) ma, anzi, ad una posizione dichiaratamente contraria alla pretesa fatta valere dall’erario che, a maggior ragione, legittima il debitore ad agire in assenza di autonoma iniziativa processuale del curatore (posto che solo l’eventuale ammissione al passivo, come si esaminerà in seguito, esclude ovviamente un potere di impugnazione del debitore); sarebbe davvero paradossale, infatti, ritenere che il debitore non possa agire quando addirittura gli organi della procedura, pur non proponendo ricorso, condividano l’illegittimità dell’atto posto a fondamento della domanda di insinuazione proposta dall’Amministrazione finanziaria; quanto agli effetti del ricorso del debitore, l’art. 88 D.P.R. n. 602 /73 dispone l’ammissione con riserva del credito erariale a fronte della sola contestazione manifestata dal curatore ma non subordina gli effetti della riserva alla proposizione del giudizio da parte del solo curatore ma, più semplicemente, alla rituale proposizione della controversia innanzi al giudice tributario. 
Ovviamente l’esito del giudizio, qualunque esso sia, dovrebbe essere poi recepito in sede di scioglimento della riserva di ammissione in conformità al disposto dell’art. 88 D.P.R. n. 602/73. 
In questo contesto merita attenzione anche la posizione degli altri creditori ai quali la Cassazione ha riconosciuto la possibilità di sollevare contestazioni del credito fiscale in sede di opposizione allo stato passivo[11]. 
Se la contestazione sollevata da un altro creditore in sede di opposizione allo stato passivo avesse per oggetto una questione devoluta alla giurisdizione del giudice tributario come potrebbe, però, rendersi compatibile la contestazione stessa con i termini di impugnativa dell’atto fiscale (certamente maturati al momento della decisione del giudice sull’opposizione) ed anche con la legittimazione all’impugnazione riservata al curatore o, per quanto oggi ritenuto dalla Cassazione, al debitore? 
E’ molto difficile dare una risposta adeguata a tale complesso quesito perché non si può pensare né che il curatore, per potere rispettare, quanto meno per fini prudenziali, i termini di impugnazione dell’atto fiscale, debba necessariamente sempre opporsi all’ammissione allo stato passivo sulla base delle sole sollecitazioni del debitore o di un altro creditore e contestualmente proporre impugnazione innanzi al giudice fiscale, né che i diritti dei creditori ( che vanno considerati tra gli interessati indicati nel terzo co dell’art. 95 L. fall. oggi integralmente riprodotto nell’art. 202, comma 3, CCII) possano essere definitivamente compromessi da omissioni del curatore o del debitore che abbiano rinunciato ad impugnare l’atto fiscale pur essendovene i presupposti. 
In realtà il sistema che emerge dal diritto vivente così come in precedenza ricostruito sulla base delle decisioni della Cassazione risulta ora costituzionalmente adeguato solo per quanto riguarda la posizione del debitore (poiché egli è stato legittimato, in caso di inerzia del curatore, a proporre impugnazione dell’atto fiscale – che gli deve essere anche notificato per essergli opponibile - nonché a proporre impugnazione, per le ragioni e per le finalità già illustrate, se il curatore non intendesse proseguire il giudizio conclusosi con sentenza sfavorevole) ma del tutto insufficiente per quanto riguarda la posizione del creditore ammesso allo stato passivo poiché non avrebbe alcuno strumento per contestare (magari fondatamente) la pretesa dell’Erario non opposta né dal curatore, né dal debitore, nemmeno quando la sua opposizione allo stato passivo fosse accolta dal giudice, in quanto, l’ammissione con riserva, in mancanza di ricorso da parte del debitore o del curatore (ovvero dai soli legittimati), se ancora possibile (cosa di cui si può fondatamente dubitare nella normalità dei casi), dovrebbe essere sciolta con l’ammissione pleno iure una volta scaduti vanamente i termini per la proposizione del giudizio tributario. 
Né la posizione del terzo creditore può essere assimilata a quella del debitore che, come in seguito verrà specificato, può comunque impugnare il credito erariale pur ammesso al passivo per contrastare le eventuali pretese fiscali dopo la chiusura della procedura, poiché per il terzo creditore l’interesse, esclusivamente endoconcorsuale, è quello di non vedere disperse a favore di altri creditori risorse che potrebbero essere invece a lui destinate nell’ambito delle ripartizioni liquidatorie. 
Il solo modo per rendere effettivo il diritto dei creditori di opporsi alla pretesa fiscale ritenuta per qualsiasi motivo illegittima, sarebbe quello di consentire al creditore di proporre surrogatoriamente l’impugnazione all’atto fiscale con decorrenza dei termini per la proposizione del ricorso dall’emanazione del provvedimento del giudice delegato (ovvero del Tribunale o della Cassazione in accoglimento dell’opposizione formulata dal creditore) di ammissione con riserva allo stato passivo del credito erariale, eventualmente applicando le regole sulla remissione in termini estensibili anche al giudizio tributario (previo, probabilmente, rinvio alla Corte Costituzionale per sospetta violazione del diritto costituzionale alla difesa del terzo creditore compresso dai termini e dalle regole sull’accesso alla giurisdizione tributaria). 
A rendere, se possibile, più complessa la questione, si deve ricordare che gli atti che legittimano l’ammissione al passivo v’è anche il solo estratto di ruolo, atto che normalmente non è autonomamente impugnabile ma che lo diviene, ai sensi dell’art. 12, comma 4 bis, D.P.R. n. 602/73, quando è posto a fondamento della domanda di ammissione al concorso. Può, quindi, accadere in concreto che al momento della presentazione dell’istanza di ammissione al passivo l’atto posto a fondamento della domanda dell’Erario non sia mai stato ancora notificato al debitore oppure che non siano ancora trascorsi i termini di 60 giorni dalla notifica (o conoscenza legale) per l’impugnazione (da parte del debitore o del curatore). Anzi se l’avviso di accertamento non fosse stato mai notificato al curatore o al debitore prima della domanda di ammissione allo stato passivo, il solo deposito dell’estratto di ruolo in allegato alla domanda che menzioni l’avviso, farebbe decorrere i termini per l’impugnazione quanto meno per il curatore[12]. Senonchè, la fase di esame della domanda di ammissione al passivo successiva alla sua presentazione richiede ordinariamente un tempo più lungo di quello per l’impugnazione (60 giorni). Ciò dovrebbe imporre al curatore di valutare immediatamente l’opportunità di proporre impugnazione innanzi al giudice tributario, in un momento, peraltro, in cui non avrebbe neppure modo di valutare l’effettiva utilità dell’iniziativa processuale in ragione dell’ancora incompleta formazione dello stato passivo oppure, in alternativa, di segnalare tempestivamente al debitore (ed ai creditori) il deposito di una domanda fondata su atto ancora non definitivo al fine di permettere loro l’impugnazione per non dovere procedere alla definitiva ammissione al passivo. 
Non risulta affrontato dalla giurisprudenza la questione se l’ammissione al passivo sulla base del solo ruolo renda poi possibile, con effetti sulla procedura, la contestazione successiva dell’avviso di accertamento o dell’atto impositivo posto a fondamento del ruolo da parte del debitore. Probabilmente l’accoglimento dell’eventuale ricorso del contribuente non avrebbe influenza sulla procedura (dovendosi ritenere definitiva l’ammissione effettuata sull’estratto di ruolo) mentre potrebbe spiegare effetti sul debitore tornato in bonis. 
Potrebbe verificarsi, invece, che l’atto posto a fondamento della domanda dell’Erario fosse stato già notificato al debitore e da questi impugnato; quale potrebbe essere la posizione del curatore rispetto alla domanda di ammissione allo stato passivo proposta dall’Erario e quali i poteri del giudice in merito? 
Nulla questio, come detto, se anche il curatore facesse propria la contestazione già sollevata dal debitore; il giudice delegato dovrebbe semplicemente ammettere il credito con riserva anche senza che il curatore necessariamente intervenga a sua volta nel procedimento intentato dal debitore. L’esito del giudizio dovrebbe poi essere recepito dalla procedura con le forme dello scioglimento della riserva sull’ammissione al passivo. 
Se, invece, il curatore ritenesse l’opposizione a suo tempo proposta dal debitore in bonis del tutto strumentale, infondata od inutile ed il giudice concordasse con la valutazione del curatore ammettendo direttamente il credito nel passivo, quale sorte avrebbe il giudizio a suo tempo proposto dal debitore? 
Nella sentenza 30 luglio 2024 n. 21333 si legge il seguente passo: “In effetti, se l’art. 96, ultimo comma, L. fall. (ora art. 204, comma 5, CCII) prevede che il decreto di esecutività dello stato passivo e le decisioni assunte all’esito dei relativi giudizi d'impugnazione “producono effetti soltanto ai fini del concorso”, tale regola non è estensibile alle parentesi cognitorie extrafallimentari sui crediti demandate alle commissioni tributarie. Chiuse dette parentesi, la decisione che ne segna l’epilogo è, in linea di principio, opponibile al soggetto fallito”. Inoltre, per la Cassazione[13], sebbene l’atto impositivo emesso in pendenza della procedura liquidativa, qualora notificato al solo curatore, non divenga opponibile al liquidato tornato in bonis, permangono gli effetti interruttivi dipendenti dall’ammissione al passivo del credito poi fatto valere nei confronti del debitore a procedura chiusa. 
Ma ciò ha rilievo una volta conclusa la procedura concorsuale, ma non rileva sui poteri del curatore che potrebbe scegliere di non contestare il credito erariale anche soltanto ritenendo l’impugnazione irrilevante per le sorti della procedura. 
Si pone, dunque un problema di coordinamento tra i poteri del curatore e del giudice delegato e quelli riconosciuti al debitore in proprio a tutela della propria posizione. La decisione della Cassazione ha riconosciuto la legittimazione del liquidato, nel solo, caso di inerzia (comunque motivata) del curatore ma l’ammissione, pleno iure, allo stato passivo della domanda formulata dagli uffici fiscali non costituirebbe inerzia ma, al contrario, riconoscimento della fondatezza della pretesa fiscale. Orbene, se è corretto escludere che il debitore possa contrastare con effetti sulla procedura le decisioni della curatela, non essendo egli legittimato ad impugnare lo stato passivo, tuttavia, il perdurante interesse del debitore alla tutela delle proprie ragioni di fronte all’azione dell’Erario dopo la chiusura della procedura nonché di ottenere l’esdebitazione deve necessariamente comportare il riconoscimento del diritto di impugnare (ovvero di continuare il processo già intrapreso) per finalità non concorsuali gli atti fiscali che assumesse illegittimi ancorchè il curatore non si fosse opposto all’ammissione, soprattutto quando l’ufficio abbia notificato l’atto impositivo (o altri atti) al debitore in proprio in pendenza di procedura concorsuale (facendo così decorrere, anche per il fallito, i termini per l’impugnazione). 
Nella sostanza il nuovo orientamento dovrebbe comportare la piena legittimazione del debitore ad impugnare l’atto fiscale (per qualunque motivo) a fini extraconcorsuali non solo in caso di inerzia ma perfino quando il curatore abbia (per qualunque ragione) deciso di ammettere il credito erariale per neutralizzarne gli effetti che potessero derivargli una volta tornato in bonis.
7 . L’esdebitazione post procedura
Anche di recente[14] è stato ribadito che la notifica dell’atto impositivo al solo curatore non impedisce l’impugnazione del già fallito avverso atti notificatigli successivamente alla chiusura della procedura facendo valere la mancata notifica degli atti prodromici. Ciò comporta che vi può essere completa scissione tra gli effetti che si producono nei confronti della procedura e quelli che, invece, (non) si producono nei confronti del debitore in proprio. 
Tale scissione di effetti che conseguenze provoca sulla esdebitazione? 
Come più volte osservato ai sensi dell’art. 278 CCII l’esdebitazione non opera con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti. Pertanto, malgrado possa avvenire che tali sanzioni non accessorie siano state oggetto di ammissione al passivo a seguito di notifica dell’atto impositivo effettuata nei soli confronti del curatore, rimane sempre salvo il diritto del debitore, che impugnasse l’atto notificatogli successivamente alla chiusura della procedura, di far valere la nullità dell’atto impositivo al fine di far dichiarare l’inesigibilità della pretesa fiscale pur regolarmente ammessa nello stato passivo. 
In sostanza il riconoscimento di una autonoma legittimazione del debitore soggetto a procedura liquidativa, come ricostruibile sulla base dei recenti orientamenti della Giurisprudenza di legittimità, comporta una tutela piena delle sue ragioni in relazione agli effetti che possano conseguirgli dalla chiusura della procedura, indipendentemente dalle scelte effettuate dalla curatela.

Note:

[1] 
Cass., 30 luglio 2024, n. 21333, su cui B. Riccio e C.L. Riccio, La legittimazione straordinaria del debitore fallito nell’obbligazione tributaria in Dirittodellacrisi.it, 13 novembre 2024, che contiene un’ampia ed approfondita ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale sul tema.
[2] 
Cass., 23 novembre 2023, n. 32634. “Nelle controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito la legittimazione processuale spetta al curatore, competendo al fallito una legittimazione di tipo suppletivo soltanto nel caso di totale disinteresse degli organi fallimentari, non anche quando detti organi si siano attivati o abbiano ritenuto non conveniente intraprendere o proseguire la controversia; pertanto, il fallito, ferma la possibilità di svolgere attività processuale nella forma dell'intervento ex art. 43, comma 2, l.fall. (circoscritto alle questioni dalle quali può dipendere un'imputazione di bancarotta a suo carico e nei limiti dell'intervento adesivo dipendente), non ha diritto di impugnare la sentenza in maniera autonoma rispetto al curatore, non essendo in tal caso ravvisabile un disinteresse degli organi fallimentari, bensì una valutazione di opportunità circa la proposizione del gravame. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da colui che aveva rivestito la qualità di liquidatore della società dichiarata fallita dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ritenendo non integrati i presupposti fondanti la speciale legittimazione del fallito ex art. 43 l.fall., genericamente dedotti nei termini della possibile proposizione di un'azione risarcitoria della curatela nei suoi confronti e della sua possibile incriminazione per bancarotta).
[3] 
Cass., 16 dicembre 2022, n. 37006. Ai fini dell'ammissibilità della domanda d'insinuazione e della verifica in sede concorsuale del credito tributario o di quello previdenziale, non occorre che l'avviso di accertamento o quello di addebito, contemplati negli artt. 29 e 30 del D.L. n. 78/2010, conv. con modif. in L. n. 122/ 2010, siano notificati, essendo sufficiente la produzione dell'estratto del ruolo. Tuttavia, mentre il credito tributario, ove contestato, deve essere ammesso con riserva, spettando alla giurisdizione tributaria la cognizione in ordine alla sua effettiva esistenza, quello previdenziale deve essere accertato dal giudice fallimentare, avanti al quale spetta al creditore, in caso di contestazione da parte del curatore, offrire la relativa prova. 
[4] 
Cass., 2 febbraio 2011, n. 2433. 
[5] 
Cass., Sez. Un., 07 maggio 2021, n. 12154. 
[6] 
Cass., 30 luglio 2024, n. 21333; Cass., 5 dicembre 2019, n. 31843 “Pertanto, quando il curatore è in giudizio, il fallito non può conservare per il medesimo rapporto la legittimazione processuale ad impugnare ed il difetto di legittimazione processuale del fallito a impugnare una sentenza è rilevabile, anche di ufficio, dal giudice dell'impugnazione (v. pure Cass. n. 11117/2013, nel senso della inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dal fallito avverso una sentenza sfavorevole al fallimento, emessa in giudizio nei confronti del curatore e da questo non impugnata). 
[7] 
Per i differenti poteri spettanti all’interveniente, Cass., 1 giugno 2004, n. 10530. 
[8] 
Sempre negato dalla Cassazione (Cass., 3 aprile 2006, n. 7791, Cass., 18 maggio 2007, n. 11572; 16 dicembre 2004, n. 23435; Cass., 16 aprile 2007, n. 8990; tuttavia S. De Matteis, I rapporti tra processo tributario e fallimento, Seminario di aggiornamento professionale per i magistrati delle Commissioni tributarie della Lombardia 23 febbraio 2018, pur aderendo all’orientamento della Giurisprudenza dava atto, peraltro, di una prassi volta a ritenere legittimo e validamente proposto il ricorso da parte del fallito anche quando il curatore fosse stato autorizzato a non coltivare l’impugnazione.
[9] 
L. Giambi, La prescrizione dei crediti fiscali, in Il Caso.it, 13 ottobre 2019. 
[10] 
Cass., Sez. Un., 24 dicembre 2019 n. 34447. 
[11] 
Cass., 24 novembre 2021, n. 36543 “ In tema di impugnazione dei crediti ammessi allo stato passivo, il creditore impugnante ex art. 98, comma terzo, l.fall., può sollevare tutte le eccezioni riservate al curatore fallimentare, compresa quella di prescrizione, anche quando si tratti di crediti il cui accertamento è riservato alla cognizione di altro giudice speciale” Ma quest’ultima decisione della Cassazione non ha affrontato il tema di chi debba poi impugnare innanzi al giudice tributario l’atto contestato poichè è intervenuta a seguito dell’impugnazione dello stato passivo proposta da un altro creditore che aveva sollevato l’eccezione di prescrizione del credito erariale maturata dopo la notifica delle cartelle che è questione, come già specificato, che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non di quello fiscale. 
[12] 
Cass., 11 novembre 2021, n.33408 nella quale si legge” E’ altresì irrilevante è che, a tali fini, gli avvisi di accertamento e di addebito siano notificati. La notificazione risponderebbe alla mera funzione d’informare il curatore della pretesa erariale o previdenziale (in termini, in riferimento alla notificazione della cartella di pagamento concernente crediti tributari, Cass. n. 6846/21, cit., e, con riguardo all’insinuazione al passivo di crediti previdenziali, Cass. nn. 12317/18, 20054/18, 700/19, 24589/19 cit.). Questa funzione è, tuttavia, assolta dal deposito della domanda di insinuazione corredata, come nel caso in esame, dell’estratto di ruolo che menzioni gli atti in questione, e che consente, qualora siano ancora ammesse contestazioni, quanto ai crediti tributari, di proporre impugnazione dinanzi alle Commissioni tributarie in base all’art. 88, comma 2, del d.P.R. n. 602/73 (a meno che non si tratti di fatti sopravvenuti, ossia a valle dell’iscrizione a ruolo: Cass., sez. un., n. 34447/19; conf., n. 13767/21).
[13] 
Cass., 9 giugno 2023, n. 16415. “La domanda di ammissione allo stato passivo produce, difatti, l’effetto interruttivo della prescrizione per il creditore nei confronti della massa, ma anche la sospensione del decorso della prescrizione per tutta la durata della procedura concorsuale con effetti permanenti all’interno della procedura. Alla conservazione degli effetti della domanda di ammissione allo stato passivo nella procedura concorsuale fa pendant la norma che prevede che i creditori, con la chiusura del fallimento, «riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi» (art. 120, terzo comma, l. fall.). La chiusura del fallimento non può, difatti, considerarsi causa di estinzione dei crediti insoddisfatti (salva l’esdebitazione), bensì evento che fa venir meno l’improcedibilità delle azioni esecutive nei confronti degli eventuali beni acquisiti all’attivo del fallimento e non liquidati dalla curatela, ovvero appresi dal debitore successivamente alla chiusura della procedura”. 
Con la chiusura del fallimento si verifica, pertanto, sia la perdita degli effetti protettivi ai fini della prescrizione prodottisi con la domanda di ammissione al passivo, sia il riacquisto da parte dei creditori delle azioni esecutive individuali. La sospensione del decorso della prescrizione appare, pertanto, legata anche al divieto di azioni esecutive individuali. Se durante il procedimento concorsuale il creditore non vede decorrere la prescrizione, ciò è dovuto anche al fatto che egli non può agire nei confronti del debitore e non può, di conseguenza, ritenersi pregiudicato dalla durata della procedura concorsuale, pendente la quale (salve le eccezioni di legge) non può procedere individualmente sul patrimonio del debitore. Di questo effetto interruttivo/sospensivo il creditore ne beneficia nei confronti del debitore dichiarato fallito, una volta che quest’ultimo torni in bonis. Se il creditore ha conservato i propri diritti di credito durante la procedura anche ai fini prescrizionali (salvo il divieto di azioni esecutive), la possibilità per il creditore di agire nei confronti del debitore non può che accompagnarsi alla conservazione dell’effetto sospensivo della prescrizione, invalso durante la pendenza della procedura concorsuale e non oltre la sua chiusura, con la ripresa in esito alla chiusura di un nuovo periodo prescrizionale.
[14] 
Cass., 25 gennaio 2023, n. 2380. 

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