La legittimazione straordinaria del debitore-fallito nell’obbligazione tributaria
Biagio Riccio e Clara Letizia Riccio, Avvocati in Napoli
15 Novembre 2024
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Sommario:
Ciononostante, in giurisprudenza si è fatta strada la convinzione secondo cui la perdita della capacità processuale “non si determina automaticamente per effetto della dichiarazione di fallimento, bensì solo a seguito del concreto esercizio da parte del curatore del potere di stare in giudizio. Prima di tale momento gli atti compiuti dal fallito o posti in essere nei suoi confronti non sono nulli, ma solo inopponibili alla massa dei creditori ed invece pienamente efficaci nei confronti del fallito tornato in bonis[1]”.
Allo stesso tempo, tuttavia, vale la pena porre l’accento sul rilievo in ordine al quale il debitore smarrisce la sua capacità processuale solo per quanto inerisce ai rapporti processuali attinenti al suo patrimonio. In altri termini, tale modus agendi non si ripercuote sui rapporti esclusi dalla liquidazione giudiziale -come, per esempio, quelli di natura personale -. Tale circostanza induce parte della dottrina[2] a caldeggiare la tesi secondo la quale, in realtà, il debitore non perderebbe la legittimazione ad agire nemmeno in costanza di rapporti patrimoniali compresi nella liquidazione giudiziale, dal momento che la stessa capacità processuale talvolta rivive.
Pertanto, più che parlare di perdita, sarebbe corretto disquisire di “compressione” della capacità processuale. In particolare, se il curatore esercita pienamente la gestione dei rapporti processuali, ben si comprende come tale capacità sia completamente compressa fino ad annullarsi. Nella fattispecie in cui, al contrario, il curatore inequivocabilmente rinuncia o si disinteressa alla vicenda, rivive ex novo la legittimazione ad agire del debitore, senza che sia necessaria alcuna autorizzazione da parte degli organi della procedura[3].
Tali considerazioni, sebbene riferite al contenzioso civile, hanno una ricaduta anche in ambito tributario. Tant’è vero che in campo tributario permane la legittimazione del debitore ad agire, sul rilievo in ordine al quale quest’ultimo non perde in alcun modo la sua qualità di soggetto passivo dei rapporti tributari, restando così esposto anche ai “riflessi” di carattere sanzionatorio che conseguono alla definitività dell’atto impositivo[4].
Né è certamente isolata la scuola di pensiero secondo la quale, sulla scorta di quanto asserito ex art. 43 L. fall., si sarebbe al cospetto di una sostituzione processuale da parte del curatore nei confronti del soggetto sottoposto a procedura concorsuale, soprattutto per quel che riguarda i giudizi promossi già anteriormente all’apertura della stessa[5].
Tale indirizzo ermeneutico è, senza ombra di dubbio, condiviso anche dalla giurisprudenza, a detta della quale “la perdita da parte del fallito della prerogativa di disporre di beni e rapporti e il contestuale conseguimento di essa da parte del curatore delineano una fattispecie di scissione tra titolarità e legittimazione, riconducibile ad una vera e propria sostituzione dell'organo concorsuale al debitore, operante ex lege[6]”. Ciò che si determina, pertanto, non è altro che una “segregazione di beni e rapporti all'interno di un patrimonio che non vede mutare l'identità del proprio titolare, ma soltanto quella del suo gestore, che prende in carico il compendio dei beni in funzione eminentemente liquidatoria[7]”.
In altri termini, posto che l’apertura della liquidazione giudiziale non comporta in alcun modo una novazione soggettiva, il modello della sostituzione processuale previsto dall’art. 81 c.p.c. è, tuttavia, in questo caso, caratterizzato da elementi di granitica peculiarità: il curatore agisce “in nome proprio”, facendo valere in sostanza “un diritto del fallito[8]”.
Tant’è vero che l’accertamento tributario, anche se riguardante crediti i cui presupposti si sono determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d'imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato non soltanto al curatore – dal momento che tali crediti devono in ogni caso essere verificati tramite il procedimento di verifica del passivo fallimentare – ma anche al contribuente stesso[9]. In special modo, il curatore non è gravato da un mero onere, ma da un vero e proprio obbligo nei confronti del contribuente passivo a trasmettergli tutta la documentazione relativa a tali accertamenti, poiché suscettibili di incidere sulla sua sfera patrimoniale, una volta tornato in bonis[10].
Tale filone di pensiero è suffragato dall’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’atto impositivo o di riscossione va notificato assolutamente anche al debitore[11], al fine di consentirgli di esercitare eccezionalmente il diritto alla tutela giurisdizionale, specialmente quando l'organo fallimentare è inerte[12]. Tant’è vero che, qualora al contribuente del quale sia stata dichiarata la liquidazione giudiziale fosse impedito di esercitare direttamente la tutela in caso di inerzia del curatore, si sarebbe al cospetto di una lapalissiana violazione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost., soprattutto tenendo conto del fatto che il contribuente subisce tutte le conseguenze, anche sanzionatorie, della definitività di un eventuale atto impositivo.
Ne consegue che a parere della giurisprudenza tributaria, l'esclusione del debitore dal processo ha carattere solo relativo, e non anche assoluto[13]. Dunque, le limitazioni all’attività processuale sono funzionali solo a realizzare l'interesse dei creditori concorsuali: ben si comprende come il difetto di legittimazione del contribuente passivo possa essere eccepito solamente da parte del curatore e non anche da parte dell'amministrazione, né tantomeno possa essere rilevato d'ufficio dal giudice tributario[14].
Sicché, l’unico caso in cui il contribuente sia legittimato ad agire, impugnando atti impositivi, non è altro che la fattispecie in cui il curatore rimanga del tutto inerte al cospetto della notifica di tali suddetti atti, mostrando un totale disinteresse alla vicenda processuale, rimessa, quindi, nelle mani del debitore[15].
Nel corso del tempo, non pochi sono stati gli indirizzi ermeneutici sviluppatisi intorno al concetto di “inerzia” quale condizione legittimante l’impugnazione degli atti impositivi da parte del debitore, tale a seguito di liquidazione giudiziale.
In primis, non può farsi a meno di segnalare quella voce dottrinale che mette in luce la perentorietà dei termini di impugnazione per quanto concerne l’atto che si vuole contestare: tale aspetto svela quanto sia complesso e ostico, per il contribuente passivo, comprendere se la condotta del curatore confluisca verso uno stato d’inerzia o meno[16]. Pertanto, il contribuente passivo permane nel dubbio circa il comportamento che la curatela intende realizzare in ordine alla pretesa tributaria: egli non avrà contezza dello stato di inerzia fino a quando quest’ultimo non si verificherà.
Su tale scia, ben si comprende come tale filone di pensiero caldeggi la tesi secondo cui bisognerebbe sempre concedere al debitore la possibilità di esercitare l’azione processuale entro i termini decadenziali di impugnazione, “fermo restando che essa resti esposta alla declaratoria di inammissibilità, ove risulti accertato che il curatore fallimentare abbia impugnato il medesimo provvedimento impositivo[17]”.
È d’uopo, allo stesso tempo, tener conto anche di quell’ermeneusi a parere della quale cade in errore l’elaborazione giurisprudenziale secondo cui la conditio sine qua non, affinché la tutela giurisdizionale possa essere esercitata da parte del contribuente passivo, va identificata solo e soltanto in un’ineluttabile inerzia del curatore. Tale scuola di pensiero, infatti, asserisce che “il comportamento del curatore potrebbe pregiudicare le ragioni del fallito mediante un’errata gestione della lite”; pertanto, “diviene necessario individuare una soluzione che consenta la pienezza e l’effettività della difesa del fallito[18]”.
Dunque, ben si comprende che, onde tentare di irrobustire la tutela del contribuente passivo nelle controversie tributarie, la succitata corrente dottrinale abbia altresì escogitato la soluzione dell’intervento adesivo dipendente di quest’ultimo, similare a quello disciplinato ex art. 105 c.p.c. Non mancano alcune pronunce degli ermellini che depongono in tal senso[19].
Non può, tuttavia, tacersi circa gli innumerevoli dubbi sorti in relazione a tale conclusione, dal momento che, volgendo lo sguardo al codice del processo tributario – in modo particolare al terzo comma dell’art. 14 del D.Lgs. 546/1992 – non sarebbe consentito l’intervento adesivo dipendente: in altri termini, il summenzionato dettato legislativo ammette la legittimazione ad intervenire nel processo solo per i destinatari dell’atto impugnato o anche per le parti del rapporto controverso, e non anche per i titolari di una situazione giuridica connessa o dipendente[20].
Né ha torto quel filone dottrinale secondo cui “nelle controversie tributarie il destinatario dell'atto impositivo, che ha impugnato quest'ultimo dopo averne ricevuto notifica, non avrebbe motivo di intervenire nel processo del co-destinatario, ma dovrebbe difendersi esclusivamente mediante il ricorso proposto[21]”. Sicché, ben si intuisce come sarebbe errato accordare all’intervento nel processo già instaurato dal co-destinatario valore eguale all’impugnazione in via autonoma. Risulta, dunque, lapalissiano che nel corpus del processo tributario non sia ammesso un intervento adesivo, soprattutto autonomo, nelle ipotesi di avvenuta notifica dell’atto controverso al destinatario[22].
Tant’è vero che, traslando tale discorso nella circostanza della liquidazione giudiziale, si perviene alla bizzarra conclusione secondo cui il contribuente passivo sarebbe legittimato ad intervenire solo ad adiuvandum, non assumendo una posizione processuale autonoma, ma formando un unico soggetto processuale con il curatore, dato che i loro interessi materiali coincidono[23]. Eppure, tale epilogo è contro ogni logica deduzione, se solo si volesse citare il principio processuale secondo cui, durante un medesimo processo, una parte non può in alcun modo essere rappresentata da due soggetti in posizione indipendente[24], proprio come avviene tra la curatela ed il fallito, non tralasciando che quest’ultimo gode comunque della capacità processuale, seppur compressa.
È da rimarcare, dunque, come tale forma di intervento non incarni, in alcun modo, una tutela effettiva delle ragioni del contribuente.
In secundis, per le ragioni già indicate, sul debitore non incombe l’onere di dover dimostrare in giudizio il proprio interesse ad agire, proprio perché la carenza di legittimazione non può essere eccepita né dalla controparte né ad opera del giudice. Tale onere si materializza solo laddove il curatore non sia rimasto inerte, rilevando l’inerzia stessa “per il semplice fatto che egli non abbia fatto ricorso tout court alla tutela giurisdizionale[27]”.
Quid iuris nella circostanza in cui il curatore abbia incardinato il giudizio tributario, ma in seguito non lo abbia proseguito, rivelandosi inerte? In tal caso, dal momento che l’inerzia è successiva, il contribuente passivo è in assoluto privo della possibilità di proseguire il giudizio, potendo, in tal caso, essere rilevato dal giudice d’ufficio il difetto di legittimazione[28].
A tal riguardo, non è mancato chi ha sostenuto che si sia al cospetto di una vera e propria “morte civile” del fallito[31]. Egli è in ogni caso “emarginato[32]”, il suo diritto di difesa è pressoché annichilito: si assiste, infatti, ad un costante ostracismo alla sua legittimazione processuale, essendo considerato alla stregua di un elemento di disturbo e possibile causa di dilazione dei tempi della procedura.
Non è certamente da imputarsi al caso che tale secondo filone giurisprudenziale sia stato oggetto di non poche critiche da parte dell’ordinanza del 25 agosto 2022, n. 25373 della Corte di cassazione, la quale si insignisce del merito di aver posto in luce molteplici incongruenze derivanti da tale presa di posizione. In prima battuta, dal momento che lo snodarsi del giudizio tributario discenderebbe dalla valutazione ponderata del curatore, si negherebbe la legittimazione processuale al debitore troppo frequentemente; senza tener conto del fatto che quest’ultimo avrebbe l’onere di provare ex ante la propria legittimazione ad agire, anche nel momento in cui la curatela non sia parte del giudizio o non abbia incardinato alcun processo.
La detta ordinanza, infatti, faceva rilevare come il contribuente abbia un interesse, specifico e qualitativamente differente da quello del curatore, ad impugnare stante nel fatto che dalla soccombenza (recte anche dalla non opposizione) nel procedimento tributario ne possono derivare ulteriori conseguenze di carattere sanzionatorio e, in particolare, di ambito penale (ad esempio le norme contenute nel D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74)[33].
Corollario di questa linea di pensiero è che, secondo le parole del Giudice rimettente, “il contribuente, in costanza di fallimento, non ha alcun onere di dimostrare in giudizio il proprio interesse ad agire, posto che né controparte, né il giudice potrebbero mai rilevare il difetto di interesse ad agire, salvo che nel giudizio intervenga il curatore”, con ciò affermando l’idea di un interesse di autonoma derivazione non dalla legge fallimentare, ma dal rapporto d’imposta che ha base nell’art. 53 della Carta costituzionale.
Ciò deriverebbe, come detto, dal diverso rango di norme che sono all’origine dei differenti rapporti e l’esito del procedimento tributario influirà sull’interesse del debitore fallito.
Proprio in quest’ordinanza, poi seguita dalla sentenza n. 11287/2023, è possibile rinvenire i tratti della questione ed il contrasto generatosi nella giurisprudenza di legittimità nei termini che seguono.
Infatti, secondo un orientamento storico della Suprema Corte, “non ricorre l'inerzia del curatore, in quanto vi è stata una specifica valutazione degli organi della procedura a non coltivare ulteriormente l'iniziativa giurisdizionale proposta, a fronte della quale il contribuente dichiarato fallito non ha alcuna legittimazione alla sua prosecuzione (Cass., Sez. V, 3 aprile 2006, n. 7791). La mancata prosecuzione del giudizio, ovvero l'omessa impugnazione della sentenza che lo conclude, consegue a una specifica valutazione degli organi della procedura”, con ciò determinando il perimetro di quella inerzia che potrebbe dirsi “qualificata”.
Nell’ord. n. 25373/2022, poi, si chiarisce che “non ricorra l'inerzia in qualunque caso in cui ci sia stata una espressa valutazione da parte del curatore di non coltivare la tutela giurisdizionale avverso l'atto impositivo, ovvero di rinunciarvi, ancorché preventivamente”. Questo perché “tale principio ha attitudine a negare la legittimazione straordinaria del contribuente debitore, la cui eccezione spetterebbe al solo curatore del fallimento, ogni qual volta l'inerzia (ossia l'omessa proposizione della tutela giurisdizionale) sia - a sua volta - frutto di una valutazione ponderata degli organi della procedura concorsuale”.
Pertanto, era necessario dirimere la seguente questione fondamentale: in caso di inerzia, qualificata o meno, della curatela se fosse, altro capo dell’opzione, da riconoscersi, in ogni caso, la legittimazione, straordinaria e succedanea, del fallito ad impugnare atti impositivi in costanza di procedura.
Tuttavia, l’abnorme ripercussione di tale linea interpretativa consisterebbe nel fatto che l'operatività del principio della pura inerzia legittimante il debitore fallito ad agire in giudizio si invererebbe solo nel caso in cui il curatore non si fosse “accorto” della pendenza del termine per impugnare l'atto impositivo, ma si escluderebbe, negli altri casi, la tutela del contribuente in ragione di una scelta discrezionale della curatela seppur qualificata, anche se non fosse motivata.
Ma ancor di più, non ha torto quell’attenta dottrina che pone l’accento sulla granitica differenza che intercorre tra l’interesse del debitore e quello del curatore. L’interesse di quest’ultimo si concreta solo laddove, in sede giurisdizionale, “l’instaurando contenzioso possa astrattamente incidere sulla ripartizione dell’attivo tra i creditori concorsuali, al netto dei costi prededucibili da sostenersi sia per l'instaurazione, sia quale effetto accessorio del contenzioso stesso[34]”.
Al contrario, l’interesse che pertiene al debitore è di tutt’altra natura, in special modo “tenuto conto dei riflessi, anche di carattere sanzionatorio, che potrebbero discendere dall’ammissione del credito tributario, ove il maggior credito venisse valorizzato dal curatore nella relazione al giudice delegato[35] e ove tale circostanza si tramutasse in una imputazione penalmente rilevante[36]”.
Si tratta della specialità dell’obbligazione tributaria e della peculiarità del rapporto giuridico d'imposta, in quanto modellato su uno statuto suo proprio, che non è riscontrabile nelle altre obbligazioni e negli altri rapporti di diritto privato attratti al concorso[37]. Tale tipologia di obbligazione rinviene:
Il risultato cui il Supremo Consesso della Cassazione perviene, a parere di attenta dottrina[40], è il seguente: il rapporto giuridico d'imposta, basato su presupposti antecedenti alla sentenza dichiarativa, permane in capo al debitore anche in costanza della procedura fallimentare e pur dopo la sua chiusura, potendo esso condizionare la futura relazione del contribuente con l'amministrazione finanziaria.
Non v’è da stupirsi, quindi, se maggioritaria dottrina abbia aderito a quel filone di pensiero secondo cui la legittimazione ad agire per il debitore, impugnando l’atto impositivo, è da ritenersi tout court, dal momento che “l'imposizione fiscale è suscettibile non solo di valutazione sotto il profilo strettamente patrimoniale, ma anche di ulteriori conseguenze negative per il fallito eventualmente tornato in bonis”; ben si intuisce, pertanto, come la legittimazione processuale per il contribuente non sia da intendersi come “meramente vicaria”, al contrario risulti “in concreto parallela o concorrente rispetto a quella del curatore, nel senso che entrambi sono a diverso titolo abilitati a richiedere tutela giurisdizionale rispetto all'atto impositivo[41]”.
Sulla medesima scia si colloca anche quella corrente dottrinale secondo cui la capacità processuale suppletiva o residuale del fallito non può ritenersi “una verità di fede e neppure un principio immanente al sistema ovvero scolpito a chiare lettere nel dettato normativo, essendo, viceversa, una vera e propria invenzione giurisprudenziale[42]”. Al contrario, “la tutela del diritto di difesa sarebbe assicurata, prescindendo da questa invenzione, se fosse prevista l'interruzione o la sospensione ex lege dei termini a partire dalla sentenza dichiarativa di fallimento fino alla successiva riapertura degli stessi al momento della chiusura del fallimento[43]”.
In tal senso, sarebbe completamente concesso al contribuente passivo riassumere il processo interrotto innanzi all’autorità tributaria. Ma vi è di più.
A tal riguardo, appare doveroso richiamare l’art. 47 della Carta di Nizza, il quale dispone che “ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare. A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato, qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia.”
Seppur si debba prendere atto del rilievo in ordine al quale l’ordinamento comunitario abbia competenza solo su alcuni tributi, non può farsi a meno di affermare “la diretta applicabilità nell’ordinamento interno delle tutele garantite dalla Carta di Nizza-Strasburgo con riferimento a tutte le imposte oggetto di giudizio, a pena di originare un’insanabile disparità di trattamento, evidentemente illegittima sotto il profilo costituzionale, tra i diversi tributi alla base delle relative controversie[44]”.
Su tale falsariga, in merito alle pretese erariali, si evocano l’applicazione degli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in quanto principi generali dell’ordinamento comunitario[45]. In altri termini, in applicazione di tali dettami fondamentali, sorge il potere-dovere del giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con essi: vale a dire l’art. 43 L. fall.
Ciononostante, tale corrente di pensiero collide con non poche incertezze: ciò, dal momento che l’art. 6, par. 1, della CEDU in passato è stato considerato non applicabile al processo tributario, in virtù del fatto che l’obbligazione d’imposta non sarebbe ricompresa nel novero delle obbligazioni di carattere civile. Allo stesso tempo, tuttavia, occorre segnalare quell’indirizzo ermeneutico secondo cui, seppur sia vero che l’art. 6 della CEDU ascrive l’effettività della tutela ai soli diritti “civili”, ciò non determina come naturale conseguenza l’esclusione della stessa tutela rispetto ai diritti in ambito tributario: tant’è vero che sarebbe da privilegiare la lettura che intende tali diritti di carattere civile come “non penali”, così da assicurare una piena protezione dell’uomo anche nel settore tributario[46].
Ancor di più, anche la Corte di giustizia tende a passare in rassegna, tra i vari dettami della CEDU, proprio il diritto ad una tutela giurisdizionale piena e il diritto di difesa: ineluttabilmente ciò conduce alla necessaria disapplicazione dell’art. 43 L. fall., per quanto attiene alle ragioni del contribuente passivo.
E seppure si volesse caldeggiare il parossistico punto di vista di chi non ritenga applicabile né la CEDU né la Carta di Nizza all’intero ordinamento tributario, si giungerebbe comunque alla conclusione secondo cui i diritti fondamentali della persona – quale quello di difesa – devono essere riconosciuti: ciò, in virtù soprattutto dell’art. 117 Cost., da richiamarsi per una censura di illegittimità costituzionale in merito a quelle norme interne che confliggano con le sopracitate Carte internazionali.
Del resto, proprio l’art. 43 L. fall. è stato più volte sospettato di incostituzionalità in riferimento soprattutto agli artt. 13 e 24 Cost.[47], nella parte in cui non riconosce al fallito la capacità processuale alla proposizione del ricorso tributario ai fini della contestazione delle violazioni fiscali a cui possono conseguire imputazioni di carattere penale. Ciò nondimeno, il giudice delle leggi non ha ritenuto ammissibile la questione di legittimità costituzionale di cui sopra.
In altri termini, è necessario partire dal presupposto in ordine al quale, se la dichiarazione di fallimento è preordinata alla tutela della massa dei creditori che, a sua volta, si sostanzia anche in virtù dell’inopponibilità alla procedura delle decisioni enucleate nei giudizi che si sono svolti in concomitanza al fallimento e che hanno coinvolto anche il fallito in qualità di attore o convenuto, ben si comprende come a quest’ultimo debba doverosamente accordarsi la pienezza e l’effettività della difesa[48].
Pertanto, nelle fattispecie in cui il curatore sia inerte, al fine di osservare il diritto di difesa del debitore costituzionalmente garantito, non si può dar luogo alla “paralisi processuale” di quest’ultimo soggetto; al contrario, giova un’interpretazione adeguatrice – ossia conforme a Costituzione – della norma fallimentare di cui si discetta, assicurando, in tal modo, la partecipazione del contribuente in tutte le liti tributarie che lo riguardano[49].
E se anche l’organo della curatela non rimanesse inerte – esercitando, quindi, l’azione processuale – tale giudizio, reso nei confronti del debitore, non potrebbe essere opponibile alla massa dei creditori.
È d’uopo partire dal pacifico presupposto in ordine al quale la declaratoria fallimentare non implica l’annichilimento dell’impresa o della società che ne costituisce l’involucro: l’unico effetto dipanantesi non è che la perdita, per il titolare dell’impresa stessa, della legittimazione sostanziale e processuale in merito ai rapporti di quest’ultima. Nella posizione del titolare, pertanto, viene a collocarsi temporaneamente il curatore, in qualità di rappresentante legale. Quid iuris in caso di inerzia di quest’ultimo?
La risposta delineata dagli ermellini conferisce chiarezza rispetto a tutto quanto sancito in precedenza: la Suprema Corte, infatti, assevera che bisogna sempre dotare il debitore di una legittimazione a difendersi, in special modo in quelle situazioni che “attingono in via immediata la (sua) sfera giuridica ed economica”. Si afferma, dunque, che lo stato di inerzia sarebbe “riscontrabile già nell’omesso esercizio da parte del curatore del diritto alla tutela giurisdizionale verso l’atto impositivo”. Pertanto, il soggetto insolvente sarebbe “abilitato a reclamare esso stesso la tutela in discorso” in base al combinato disposto degli artt. 43 L. fall. e dell’art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992, in questo modo allineandosi al diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.
Il passaggio della sentenza è significativo anche sul piano lessicale, poiché fa chiarezza di nebulose affermazioni riscontrate in precedenti pronunce. “Vi sono situazioni, in altri termini, che attingono in via immediata la sfera giuridica ed economica del debitore, tanto da suggerire razionalmente di dotarlo di una legittimazione a difendersi. È proprio su questa premessa, che dev'essere ritenuta sussistente una legittimazione processuale compensativa del soggetto fallito rispetto all'atto impositivo in ipotesi di inerzia degli organi fallimentari, condizione, questa, riscontrabile già nell'omesso esercizio, da parte del curatore - quale che ne sia la motivazione alla base - del diritto alla tutela giurisdizionale verso l'atto impositivo. In siffatta situazione di inattività, il soggetto debitore è eccezionalmente abilitato a reclamare esso stesso la tutela in discorso, alla luce di un'interpretazione sistematica, che è imperniata sul combinato disposto degli art. 43 L. fall. e dell'art. 21 D.Lgs. n. 546 del 1992 e che appare conforme al principio di difesa, costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. (Cass. n. 3020 del 2007; Cass. n. 4113 del 2014)”.
Se in precedenza era granitica la differenza intercorrente tra inerzia semplice ed inerzia qualificata – caratterizzandosi con tale ultima espressione la negativa valutazione da parte della curatela circa la convenienza della controversia – e l’unica evenienza in cui era riconosciuta al debitore la legittimazione ad agire era esclusivamente l’inerzia semplice – in quanto totale disinteresse degli organi fallimentari – al contrario, nell’attuale orientamento della Suprema Corte ciò che rileva è “il comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l'abbiano determinato”.
Si è al cospetto, dunque, di una chiarificazione puntuale di quanto statuito dalle sezioni unite.
È scritto in sentenza: “il mancato compimento tout court di un'attività giudiziale astrattamente possibile da parte del curatore vale a radicare la legittimazione della società fallita e dei suoi amministratori, a prescindere dalla sussistenza di una ponderata e consapevole astensione dell'organo concorsuale dall'iniziativa processuale in linea di principio praticabile. È il mero dato oggettivo dell'omesso ricorso alla tutela giudiziale a fondare, in definitiva, la legittimazione vicaria dell'ente fallito. In linea con la pronuncia delle Sezioni Unite prima evocata (Cass., Sez. Un., n. 11287 del 2023 cit.), va affermato il seguente principio di diritto: “In tema di fallimento, con riferimento ai rapporti d'imposta i cui presupposti si siano formati prima della declaratoria fallimentare, la 'mera inerzia' assunta dal curatore nei confronti dell'atto impositivo è sufficiente a far sorgere la legittimazione processuale straordinaria della società fallita, quindi dei suoi amministratori, ad impugnarlo".
In altre parole, si configura una piena e completa legittimazione del debitore in presenza di qualsivoglia tipologia di inerzia del curatore – sia essa semplice che qualificata. Del resto, tale prerogativa rinviene la propria ragion d’essere nell’esigenza di salvaguardare gli interessi patrimoniali non solo del debitore ex se, ma anche dei creditori, prevenendo che l’inerzia del curatore possa compromettere irrimediabilmente l’esito di contenziosi tributari che potrebbero incidere in maniera rilevante sul passivo fallimentare.
Ne deriva che, qualora il curatore ometta di intraprendere le necessarie iniziative processuali, o non difenda adeguatamente i diritti della procedura fallimentare in sede tributaria, il debitore può assumere un ruolo attivo.
Vale la pena, a tal proposito, riportare ulteriori passi della sentenza della Corte di legittimità in cui si avvalora tale dettame: gli ermellini, infatti, asseriscono che ogni qualvolta la tutela in giudizio riguardi “rapporti che esorbitano la realizzazione della garanzia patrimoniale del fallimento e oltrepassano la dinamica dell'interesse della massa dei creditori, diviene ostico disconoscere alla società insolvente e - in ultima analisi - ai suoi soci il presidio di una difesa giudiziale”. In tal senso, verrebbe in essere addirittura un potenziale danno ingiusto, dal momento che il soggetto insolvente “verrebbe privato della legittimazione processuale ad onta di atti che sormontano la tutela dei creditori”.
Il passaggio della sentenza è emblematico e considerevole: “L'atto impositivo non viene in evidenza soltanto sotto un profilo economico endoconcorsuale, ma anche in relazione alle ulteriori conseguenze che possono derivare al fallito. Ogni qualvolta la tutela in giudizio investa rapporti che esorbitano la realizzazione della garanzia patrimoniale del fallimento e oltrepassano la dinamica dell'interesse della massa dei creditori, diviene ostico disconoscere alla società insolvente e - in ultima analisi - ai suoi soci il presidio di una difesa giudiziale. Il soggetto fallito verrebbe, infatti, privato della legittimazione processuale ad onta di atti, che, da un lato, sormontano la tutela dei creditori, dall'altro, trascinano a carico del soggetto fallito (o in liquidazione giudiziale) un potenziale danno ingiusto”.
Vi è anche una ricaduta sul piano dell’esdebitazione. “Giova, del resto, considerare che il contribuente fallito ha un interesse accentuato a contrastare la pretesa erariale. In effetti, le sanzioni sono escluse dall'ambito dell'istituto dell'esdebitazione di cui all'art. 142 L. Fall. (e dell'art. 278 CCII), salvo che non siano accessorie ad un debito d'imposta estinto. Ciò comporta due conseguenze: che, qualora le sanzioni non abbiano la caratteristica dell'accessorietà e non ineriscano un debito integralmente pagato non sono suscettibili di estinguersi; che l'obbligazione tributaria "madre" esige d'essere, comunque, onorata per intero anche dopo la chiusura del fallimento”.
Sembra di comprendere che qualunque sia l’inerzia semplice o qualificata, al debitore (rectius al fallito) deve essere riconosciuta una legittimazione vicaria, suppletiva, compensativa, per orientare e suggerire una lettura costituzionale anche delle disposizioni del Codice della crisi e dell’insolvenza.
Note: