L’amministratore privo di delega, sebbene esonerato da un generico obbligo di vigilanza, rimane onerato di una condotta attenta, consapevole e critica verso la gestione aziendale dei delegati, in particolare qualora dovessero palesarsi segnali di allarme. In adempimento all’obbligo imposto dall’art. 2381, comma 6, c.c., i soggetti deleganti saranno chiamati, dapprima, ad informarsi in modo completo ed esaustivo sul tema oggetto di delibera (o valutazione), attraverso un processo di cognizione che attinga a tutte le prerogative consentite dalla loro posizione, così da garantire l’esercizio di un vaglio supportato da idonea attività istruttoria [46]. Successivamente dovranno esercitare tutti i poteri connessi alla carica, con l’obiettivo di prevenire, eliminare o, quantomeno, attenuare eventuali criticità di cui siano, o debbano essere, a conoscenza, esponendosi, in caso contrario, a responsabilità [47]. Nell’attuale contesto normativo gli amministratori non operativi risulteranno pertanto responsabili per non aver impedito «fatti pregiudizievoli» dei quali siano giunti a conoscenza attraverso il flusso informativo loro destinato, ovvero dei quali avrebbero dovuto acquisire conoscenza, di propria iniziativa, secondo la diligenza richiesta. In sintesi, la (anche solo potenziale) possibilità di attingere, tempestivamente, alle informazioni necessarie al fine di essere posti nelle condizioni di valutarle e, eventualmente, dare impulso alle misure necessarie ad eliminare od attenuare potenziali conseguenze dannose per l’impresa, risulta punto di partenza essenziale nella valutazione delle responsabilità ascrivibili ai componenti dell’organo amministrativo.
L’enunciata impostazione valutativa, sostanzialmente recepita dall’evoluzione giurisprudenziale (pur con diverse sfumature e percorsi argomentativi correlati alle fattispecie di volta in volta esaminate) [48], si dimostra di non sempre agevole declinazione operativa e merita ulteriore riflessione con riferimento all’effettiva profondità del vaglio critico a cui viene chiamato il plenum consiliare. A mero titolo esemplificativo, si pensi ad un set informativo riferito ad un piano industriale, economico e finanziario formalmente completo ed articolato secondo adeguate linee di sviluppo ed indagine degli elementi d’incertezza (attraverso quindi un corretto equilibrio tra forecast e projection di cui al principio ISAE 3400) ma, in ipotesi, sviluppato da una “spalla” di partenza (rectius una base dati) non affidabile, poiché estratta da una funzione contabile affetta da cattiva interpretazione di alcune poste valutative che ne inquinano il risultato. In tale cornice, quale la condotta adeguata del plenum? In altre parole, pare necessario comprendere in che misura l’organo delegante possa recepire le informazioni ricevute (od ottenute) e, in tale prospettiva, se sia chiamato (in ogni caso e senza eccezioni) ad una revisione critica delle stesse o possa presumerle attendibili [49].
La risposta non è agevole, poiché inevitabilmente influenzata dal contesto di riferimento e dal caso di specie. Tuttavia, fermi i possibili (e numerosi) differenti scenari, sembra potersi tentare di offrire un percorso argomentativo che muova dalla capacità espansiva delle prescrizioni contenute nell’art. 2086, comma 2, c.c. che, in argomento, parrebbero indirizzare verso un adeguamento dei criteri di diligenza prescritti dall’art. 2392 c.c. in chiave di maggior responsabilizzazione dell’organo gestorio [50].
Quanto precede non intende sottendere che il mancato possesso di competenze idonee a mettere in condizione il membro del consiglio di apprezzare criticamente ogni fattispecie su cui il plenum consiliare venga chiamato a deliberare comporti, di per sé, quale semplice automatismo, una responsabilità del singolo consigliere imperito. Ciò, tuttavia, a patto che quest’ultimo si attivi, senza indugio, affinché tale lacuna venga diligentemente a colmarsi, anche attraverso il supporto di adeguate professionalità terze. Quanto si cerca di sottolineare è, diversamente, la necessità di un’attenta verifica di attendibilità delle informazioni e dei documenti resi (od ottenuti) dai soggetti delegati o dal presidente, quando non vi sia stata mai una “prova di resistenza” o un idoneo stress test degli assetti di volta in volta coinvolti nella delibera sottoposta al vaglio del consiglio. Si tratta, in altri termini, di valutare il merito della proposta e procedere alla correlata delibera, solo qualora gli assetti chiamati a supportare l’estrazione dell’informazione siano stati adeguatamente verificati in termini di affidabilità e tempestività. Riprendendo l’esempio poc’anzi cennato, il processo di approvazione consiliare di un piano, in assenza, inter alia, di un idoneo (preventivo) percorso di test sulla rilevazione del dato (i.e. sull’attendibilità degli assetti contabili) non potrà sottrarre i soggetti deleganti da un concorso omissivo con i soggetti delegati negli eventuali danni emergenti dall’errata pianificazione [51]. In termini più generali, potrà configurarsi analoga corresponsabilità ogni qualvolta il consiglio, quando non dotato di specifiche competenze in grado di colmare una (fisiologica possibile) lacuna, si limiti a recepire passivamente l’impostazione presentata, senza sottoporla a idonea controverifica (anche a campione, se, in ipotesi, ragionevole) oppure a dedicato vaglio critico da parte di un soggetto terzo indipendente adeguatamente qualificato.
La prova della mancata percepibilità da parte dei soggetti deleganti dei più volte citati segnali d’allarme e, con essa, l’eventuale limitazione di responsabilità in capo ai soli soggetti delegati, imporrà ai primi la dimostrazione di aver operato nel rispetto della diligenza di cui all’art. 2392, comma 1, c.c. (come rafforzata, in tema di adeguati assetti, dall’art. 2086, comma 2, c.c.) e, in tale cornice, di (i) aver operato quelle controverifiche che, avuto riguardo alla delibera in esame, la natura dell’incarico e le specifiche competenze si impongano ai medesimi; oppure di (ii) non essere stati nelle condizioni di aver avuto accesso - né attraverso l’istruttoria consiliare, né grazie a quella operata dietro dedicata richiesta - ad un bagaglio informativo adeguato ad evitare di assumere la menzionata delibera, poi rivelatasi dannosa. In carenza di tali evidenze - ed impregiudicata ogni possibile ripartizione all’interno della categoria dei soggetti non esecutivi avuto riguardo a eventuali specifiche competenze o a funzioni in concreto attribuite a comitati endoconsiliari [52] - i soggetti deleganti risponderanno solidalmente ed in misura paritetica tra gli stessi, ferma la concorrenza con gli amministratori delegati.
I menzionati oneri di condotta in capo agli amministratori non esecutivi portano ad interrogarsi se - avuto riguardo al rafforzato ruolo dell’art. 2086, comma 2, c.c. e agli effetti dello stesso sugli adempimenti imposti ai soggetti deleganti dagli artt. 2392 e 2381 c.c. (soprattutto con riferimento alla valutazione, continua, degli assetti e delle doverose verifiche di resistenza cui si è cennato) - residui ancora la possibilità per gli amministratori non esecutivi di poter andare esenti da colpa, eccependo, in sede di eventuale giudizio, una rappresentazione dell’informazione decettiva o suggestiva da parte degli amministratori delegati. Ciò, in particolare, ove la natura e le dimensioni dell’impresa impongano, seguendo l’impostazione ut supra sintetizzata, un flusso endoconsiliare strutturato ed un livello di condivisione del dato molto professionalizzato.
La centralità dell’obbligazione sottesa all’istituzione di assetti adeguati impone prudenza e, di certo, in un contesto strutturato, limita di molto le fattispecie in grado di far emergere una condotta del tutto incolpevole per un plenum delegante. Senza pregiudizio alcuno per ipotesi d’esenzione dovute a particolari condizioni (quali, ad esempio, quelle derivanti da false rappresentazioni adeguatamente supportate da terzi apparentemente indipendenti), il quesito potrebbe trovare una possibile risposta suddividendo le informazioni tra quelle potenzialmente oggetto di (pronta) contro-verifica fattuale (convenzionalmente, hard information) e quelle, diversamente, di natura squisitamente prospettica (soft information) soggette, per natura, a (differente) giudizio prognostico Non si intende qui dubitare che anche parte del percorso di contabilizzazione del dato consuntivo (tipica hard information) possa portare con sé differenti opzioni valutative; tuttavia, quest’ultime risultano geneticamente dotate di elementi di incertezza differenti rispetto al dato prospettico. L’elemento previsionale - impregiudicata la corretta modellizzazione dello stesso nel rispetto del principio ISAE 3400, nonché la richiesta di un’eventuale second opinion da affidarsi a primario soggetto che ponga l’ipotizzata programmazione alla prova di adeguati stress test - non può essere infatti sottoposto, per natura, ad una contro-verifica puntuale (salvo, con il trascorrere del tempo, l’ottenimento di un dato consuntivo).
In sintesi, non pare che la (rinnovata) centralità dei precetti contenuti nell’art. 2086, comma 2, c.c. consenta ai membri di un consiglio di amministrazione che siano chiamati ad assumere una delibera idonea a produrre effetti non marginali sull’attività d’impresa di poter legittimamente sostenere di aver tenuto una condotta in linea con la diligenza richiesta dall’ordinamento qualora, pur tecnicamente nelle condizioni di verificare (o far verificare da terzi qualificati) le informazioni necessarie ad esprimere un consenso professionalmente informato, non si siano attivati in tal senso prima di esprimere la propria volontà. In tale contesto e con riferimento a quanto occupa le presenti note, gli adeguati assetti ricoprono un ruolo strategico ed essenziale, in quanto essi rappresentato la struttura attraverso la quale è atteso filtrare ed attingere i propri contenuti quel flusso informativo che rappresenta la condizione essenziale al fine di esprimere un consenso in sede di plenum. Non poter contare su degli assetti adeguati - anche in termini dinamici e di verifica costante della loro efficienza ed attendibilità - significa minare alle base l’affidabilità della circolazione delle informazioni e, per l’effetto, viziare in modo significativo il processo di delibera.
Ipotizzare che un percorso di delibera viziato da un’informazione geneticamente inattendibile - perché ritratta da un impianto non adeguato, oppure non affidabile (in ipotesi poiché solo apparentemente istituito, ma mai oggetto di test operativo) - non possa trovare sanzione nel nostro ordinamento, in particolare alla luce delle linee guida della Direttiva Insolvency, nonché della rinnovata centralità dei principi di cui all’art. 2086, comma 2, c.c., si palesa significativamente pericoloso per l’evoluzione del sistema.