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Saggio

Adeguatezza degli assetti, ruoli e responsabilità*

Massimo Zappalà, Avvocato e Professore a contratto di diritto delle crisi d'impresa nell'Università di Padova

7 Gennaio 2025

*Il saggio è stato sottoposto in forma anonima alla valutazione di un referee.
**Il presente contributo, corredato di eventuali integrazioni, è destinato ad un’opera collettanea, curata da Paolo Bastia, dal titolo Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili nelle imprese, in corso di pubblicazione per l’editore Giuffré Francis Lefebvre.
L’attuale contesto socioeconomico ha richiesto una profonda revisione del processo di rilevazione e gestione della crisi, nel quale trova rinnovata centralità il dovere imposto agli amministratori di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa. Si tratta di precetti che, sebbene già ben radicati, acquistano oggi un nuovo rilievo. L’obiettivo delle riflessioni che seguono è di comprendere gli effetti sul sistema di tale riposizionamento, nonché i profili di eventuali responsabilità potenzialmente ascrivibili all’organo di gestione e a quello di controllo in ragione della violazione delle prescrizioni sugli assetti, siano esse correlate, o meno, ad un’intempestiva percezione dei segnali di crisi.
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1 . Legal framework
Il tempo è una variabile indipendente e un parametro fondamentale nei modelli che descrivono l’evoluzione del tessuto economico-finanziario. Da sempre ritenuto nozione organizzatrice di una continuità astrattamente illimitata, è divenuto - per ragioni multifattoriali - una grandezza in tendenziale contrazione. Tale processo acceleratorio e l’evoluzione di (ravvicinati) cicli economici caratterizzati da incertezza ed instabilità hanno fatto registrare l’inefficacia di interventi di sola reazione alla crisi (il più delle volte da riclassificarsi in vera e propria insolvenza), imponendo un deciso cambio di approccio alla gestione della stessa. 
Il legislatore, attraverso la codificazione di cui al D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 ed in coerenza a principi comunitari [1], ha provveduto ad introdurre un complesso di norme nel quale assume un ruolo centrale l’emersione e la gestione tempestiva della crisi (o della semplice probabilità della stessa), con l’obiettivo di evitare la dispersione dei valori tutti (industriali, economici e sociali) correlati alla perdita di continuità [2]. In altre parole, ferma la libertà di esercizio dell’attività d’impresa nei limiti costituzionalmente garantiti, il legislatore ha inteso dotare il sistema di una serie di presidi organizzativi funzionalizzati - imposti ora dall’art. 2086, comma 2, c.c. ad ogni imprenditore che operi in forma societaria o collettiva - in grado di informare i tratti essenziali del fare impresa e delle responsabilità ad esso collegate. L’organizzazione e la programmazione dell’attività assumono rinnovata centralità, quali colonne portanti di una struttura chiamata (anche) ad intercettare tempestivamente i segnali di crisi, prima che la stessa traligni in insolvenza [3], contribuendo alla conservazione degli organismi produttivi, così come organizzati per l’esercizio dell’impresa - o come, eventualmente, declinati in un contesto di pronta riorganizzazione - con l’obiettivo di preservare i valori sottesi alla continuità e, più in generale, gli interessi tutti del mercato. 
Il precetto di cui all’art. 2086, comma 2, c.c. dipinge un tratto qualitativo tipizzante ogni attività economica organizzata che operi in forma societaria o collettiva, dotato dei crismi della doverosità ed in grado di modellare, certamente, in prima battuta, il piano della dimensione gestoria dell’imprenditore, ma con evidenti riflessi anche sulla nozione stessa di impresa in forma collettiva. L’istituzione di un assetto richiama infatti un profilo strutturale, connotato da stabilità nel tempo e destinato a perdurare nelle diverse fasi della vita dell’impresa. Il protocollo de quo - già presente nella dialettica di cui agli artt. 2381, comma 3, 2381 comma 5 e 2403 c.c. - non attinge più, unicamente, al solo piano dell’agire degli organi societari ma, attraverso la riformulazione dell’art. 2086, comma 2, c.c., sposta il focus sull’essere proprio di una attività economica organizzata [4], indirizzata e coordinata nel rispetto dei fini sociali e ambientali, così come costituzionalmente modellati (art. 41 Cost.) [5]. Su queste basi l’obbligo di dotarsi di assetti adeguati - introdotto dall’art. 375 CCI e richiamato trasversalmente agli artt. 2257, 2380-bis, 2409-novies e 2475 c.c. [6] - diventa tratto qualitativo essenziale, se non vera e propria condizione di legalità, all’esercizio dell’iniziativa economica in forma societaria o collettiva [7]. 
L’innesto normativo in esame si può tentare di sintetizzare nel dovere per l’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva di predisporre e mantenere [8] un’adeguata struttura amministrativa, organizzativa e contabile in grado di: (i) rilevare e rappresentare correttamente i fatti di gestione; (ii) fornire i dati occorrenti a formulare attendibili previsioni sul futuro andamento della gestione; (iii) rilevare i fattori di rischio che possono compromettere la continuità aziendale [9] e, per l’effetto; (iv) tutelare il sistema in un’epoca di globalizzazione in cui l’interconnessione dei fenomeni economici su scala mondiale risulta in grado di produrre incontrollabili effetti di propagazione, così da evitare che l’inadempimento di un soggetto si espanda, determinando una maggiore esposizione al rischio per gli altri operatori. In altre parole, viene richiesto all’organizzazione e alla programmazione dell’impresa di avere riguardo non solo agli interessi propri e degli stakeholder classicamente intesi (i.e. creditori e soci), ma anche a quelli del mercato, sui quali si abbattono, su molteplici livelli, anche sociali, gli «effetti del fallimento imprenditoriale» [10]. Si tratta di cogliere la transizione verso un’impresa che, pur governata da una fisiologica (e naturale) spinta opportunista, comprenda il proprio ruolo di cellula di un sistema altamente interconnesso, nel quale l’imprenditore, ottemperando alle prescrizioni sull’adeguatezza degli assetti, adempie ad una funzione di interesse anche sociale. 
Ed è proprio secondo tale prospettiva che emerge la necessità di istituire assetti adeguati in grado di intercettare, decodificare e tradurre (tempestivamente) i mutevoli fattori del mercato. Viene richiesto di privilegiare una visione dinamica e prospettica dell’impresa, la quale - in ragione delle menzionate evoluzioni del contesto di riferimento - è chiamata ad un percorso di modifica e rigenerazione dei propri elementi costitutivi su base continuativa, accantonando approcci gestori caratterizzati da obiettivi limitati al breve termine - troppo spesso sostenuti da dinamiche di investimento rivolte alla massimizzazione “a corto raggio” delle performance, a discapito di una creazione di valore sostenibile e duratura - ed acquistando una dimensione maggiormente integrata nel sistema, così da offrire allo stesso tutti quei valori sottesi ad un esercizio dell’attività che possa dimostrarsi affidabile e sostenibile nel medio-lungo periodo [11]. Un’impresa che, pur consapevole di come gli interessi dei singoli stakeholder godano di differenti priorità in correlazione allo stato in cui essa si trovi ad operare [12], miri a salvaguardare la sopravvivenza dell’azienda nel tempo. L’impianto attuale, infatti, sostiene una definizione di azienda non soltanto quale complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa ma, utilizzando le parole del fondatore dell’economia aziendale, come «istituto economico destinato a perdurare» [13], autonomo ed indipendente rispetto al soggetto, necessariamente transeunte, chiamato a gestirla. 
Quanto precede trova evidenza giuridica in una rinnovata centralità del diritto generale dell’impresa, il quale, nell’assorbire principi organizzativi già da tempo scanditi nelle prescrizioni dedicate ai profili gestori nelle società azionarie, innalza gli stessi e, di conseguenza, impone una rivisitazione della valutazione degli effetti (socioeconomici e di sistema) di una violazione delle prescrizioni ivi contenute. In tale mutato contesto, l’interprete è quindi chiamato ad indagare se tale rivisitata qualificazione dei requisiti genetico-organizzativi dell’impresa possa produrre effetti in termini di (ri)modulazione delle responsabilità dei soggetti deputati ad istituire e verificare l’adeguatezza degli assetti.
2 . Articolazione degli assetti (cenni)
Pur a fronte di una rinnovata centralità attribuita ai richiamati assetti, la normativa - anche a valle del D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136 - non ne fornisce una definizione, né individua il loro contenuto [14], limitandosi a stabilire, da una parte, in senso strutturale, che essi debbano essere «adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa» e, dall’altra, in senso funzionale, che i medesimi si dimostrino idonei «anche» alla «rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale» [15]. 
Il legislatore ha introdotto una clausola generale, di natura deontica, volta ad obbligare gli organi di gestione a realizzare quel complesso di attività necessarie a dotare la società di strutture organizzative e presidi amministrativo-contabili idonei, da un lato, a garantire l’esistenza di una delle condizioni essenziali ai fini di un valido esercizio dell’impresa e, dall’altro, in ottica funzionale, (anche) alla rilevazione tempestiva di eventuali segnali di crisi. Viene tuttavia lasciato in capo all’interprete l’onere di stabilire il processo di calibrazione della richiesta adeguatezza, partendo dall’assunto che i parametri posti dal legislatore sono quelli della «natura» e delle «dimensioni» dell’impresa. La scelta strategica demandata agli amministratori appare flessibile [16], ma non può considerarsi per nulla arbitraria, in quanto necessariamente coerente, secondo paradigmi scientifici e di best practice, a principi di corretta progettazione organizzativa. 
Per quanto concerne la natura dell’impresa, pare lecito potersi fare riferimento al mercato in cui essa opera, al modello di produzione adottato ed alle circostanze che rendono peculiare una determinata attività, tenuto conto altresì della regolamentazione eventualmente applicabile (si pensi, ad esempio, al settore bancario, finanziario o assicurativo), nonché al rispetto di tutte le normative speciali in materia, inter alia, di sicurezza, privacy e antiriciclaggio. Quanto, invece, al parametro dimensionale, come già puntualmente osservato [17], oltre agli intuitivi dati riferiti ai ricavi, al numero dei dipendenti o al totale dell’attivo patrimoniale, sembra necessario avere cura di verificare anche l’effettiva complessità del business caratteristico in relazione, ad esempio, al novero ed alle condizioni dei diversi servizi offerti, ovvero alla numerosità dei marchi, dei clienti, dei canali o delle aree geografiche di riferimento. Trattasi di criteri cardine finalizzati ad evitare di imporre condotte uguali a fattispecie e contesti differenti [18]. 
Passando alla tripartizione indicata dal legislatore, gli assetti organizzativi attengono ad aspetti strutturali e a dinamiche dialogico-operative all’interno delle differenti funzioni. Essi afferiscono alle diverse possibili configurazioni, mansioni e competenze, ai flussi informativi necessari ad elaborare decisioni strategiche, nonché ai correlati poteri e responsabilità [19]. Nell’assetto organizzativo rientra anche il sistema di controllo interno, inteso come l’insieme delle procedure aziendali volte a consentire un efficiente monitoraggio dei fattori di rischio, nonché la pronta emersione e una corretta gestione delle criticità. 
Quanto agli assetti amministrativi, essi afferiscono ad una dimensione dinamico-funzionale della struttura organizzativa, risultando deputati a fissare i processi e le procedure nelle differenti fasi dell’attività d’impresa, al fine di garantire uno svolgimento ordinato ed affidabile. In questa categoria rientrano tutti quei sistemi (anche informatici) e prassi operative dedicati alla misurazione delle performance e al monitoraggio del rispetto delle condizioni di equilibrio patrimoniale, economico e finanziario, in particolare attraverso il raffronto tra il dato prospettico ed il risultato di volta in volta registrato [20]. Essi, ad esempio, debbono dimostrarsi idonei a portare in emersione eventuali scostamenti rispetto al piano approvato dall’organo amministrativo, oltre che a decodificare le cause correlate al mancato raggiungimento degli obiettivi ipotizzati, così da permettere all’imprenditore di agire tempestivamente per superare l’eventuale squilibrio già in essere o destinato ad avverarsi in assenza di interventi. Tali sistemi operativi ed informatici non possono, tuttavia, essere considerati sufficienti, dovendo in ogni caso essere integrati da un assetto manageriale adeguato, soprattutto con riferimento al livello qualitativo e alla corretta collocazione delle competenze e delle professionalità chiamate ad intercettare fattori di rischio [21]. 
Infine, con riguardo agli assetti contabili, essi vanno intesi come i sistemi di rilevazione finalizzati alla rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, potendo includere tanto la contabilità generale quanto quella analitica, ambedue funzionali alla programmazione e rendicontazione dell’attività imprenditoriale [22]. Si tratta di poter ottenere, quantomeno, una base dati affidabile, che ponga in corretta evidenza le voci di debito, la dinamica dei crediti (attraverso idonei processi di valutazione di solvibilità del soggetto obbligato) e del magazzino (compresi gli indici di rotazione dello stesso), la riconciliazione dei saldi contabili tutti (compresi quelli riferiti ai crediti fiscali o verso istituti di credito), nonché i fondi rischi adeguati al contesto operativo [23].
3 . Ruoli, segnali d’allarme e pianificazione
Sebbene il legislatore del codice della crisi abbia previsto come la predisposizione di assetti spetti «esclusivamente agli amministratori» (artt. 2257, 2380 bis, 2475 c.c.) o al «consiglio di gestione» (art. 2409-novies c.c.) [24], l’interprete - alla luce di quanto (già) disposto dall’art. 2381, comma 5, c.c. [25] - potrebbe essere chiamato ad interrogarsi se ridetta attività vada imputata, in ipotesi di gestione delegata, ai soli soggetti esecutivi, oppure se appartenga alla sfera di competenza degli amministratori tutti (in sede di plenum consiliare) [26]. 
In vero, non sembra potersi dire di essere di fronte ad un dualismo alternativo, quanto piuttosto ad un percorso sinergico e concorrente. Ciò in ragione della necessità che gli assetti vengano predisposti attraverso un processo osmotico nel quale la linea guida operativa (oltre che la vera e propria iniziativa) fondi le proprie radici nel possesso - o acquisizione attraverso ricorso ab externo - di adeguate competenze in grado di servire allo scopo istitutivo. Stante la centralità e la strategicità assunta dagli assetti nel più generale impianto dell’impresa, pare necessario che sia il soggetto istituente, sia quello chiamato a curare o valutare lo sviluppo degli stessi, adempiano all’obbligazione sottesa secondo criteri di perizia coerenti alle best practice ritraibili sul mercato (da commisurarsi, ben inteso, alla fattispecie in esame) [27]. 
Saranno dunque le (più adeguate) competenze a dettare il vaglio definitivo sul processo istitutivo od evolutivo degli assetti, indipendentemente dal soggetto che, in coerenza alla dinamica dei flussi endosocietari, si trovi in quel momento nelle condizioni di esercitare il proprio potere-dovere d’intervento sulla struttura degli stessi. 
Pare dunque potersi legittimamente sostenere come, in fase genetica, la delibera istitutiva degli assetti vada assunta dal plenum solo a valle di un processo di confronto critico tra soggetti delegati e soggetti deleganti, guidato da un criterio tecnico che porti al raggiungimento dell’obiettivo secondo le migliori prassi operative. Ciò, se opportuno (e salvo la composizione dell’organo amministrativo sia dotata di specifiche conoscenze giuridico-aziendalistiche in grado di sviluppare in autonomia degli assetti adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa) anche attraverso il ricorso, per tutte quelle aree di rischio nelle quali le (specifiche) competenze non possano supplire in via autonoma, a risorse professionali esterne. In altre parole, (anche) la prima predisposizione di adeguati assetti dovrà essere il risultato di un disegno unitario ed armonico, guidato da criteri di competenza ed efficienza e non limitato, nella sua declinazione operativa, da inderogabili processi prestabiliti. Una volta avvenuta l’istituzione degli assetti, ben potrà essere conferita dedicata delega a fisiologici interventi evolutivo-modificativi (data la naturale necessità di adeguare gli assetti in ragione dell’arena competitiva in cui l’attività d’impresa si trovi via via ad operare) agli amministratori esecutivi [28], impregiudicato il dovere di periodica valutazione della loro concreta attuazione, efficacia ed affidabilità ad opera del plenum, nonché il (continuo) ricorso ad una consulenza qualificata ove il contesto lo richieda, il tutto in coerenza alla diligenza richiesta dall’art. 2392 c.c. 
Sotto diversa prospettiva, e con riferimento ai possibili segnali d’allarme, è necessario sottolineare come i soggetti esecutivi, in ragione del posizionamento apicale e della continuità del proprio regime operativo (day-to-day management), risultino (rectius dovrebbero essere posti nelle condizioni di risultare) nelle più efficienti condizioni per poter intercettare interferenze organizzative e gestionali (in esecuzione ad un prudente risk based approach thinking) - in particolare, ma non in via esclusiva, avuto riguardo all’area di competenza dell’attribuzione ricevuta - tali da permettere un intervento tempestivo e, per l’effetto, compiere quanto in loro potere per impedire che le stesse propaghino potenziali conseguenze pregiudizievoli per la società (e per il mercato) [29]. A sommesso avviso di chi scrive, pur nella consapevolezza dell’assenza di un espresso addentellato normativo in tal senso, sembra sostenibile che il bagaglio informativo e le possibilità di monitoraggio di un amministratore dotato di delega (sull’assunto che si tratti di impianto non eccessivamente limitato) pongano l’amministratore in parola in condizioni di consapevolezza gestionale differente rispetto a quelle di un consigliere non esecutivo. Si pensi, ad esempio, a quell’impianto di deleghe dedicate alla pianificazione e sviluppo (anche solo) di investimenti strategici all’interno di un più ampio business plan. Al fine di poter calibrare compiutamente le proposte di capex, quali parte integrante del citato documento di programmazione economico-finanziaria, il soggetto delegato avrà accesso, in misura piena, all’intero set informativo riferito al dato organizzativo, amministrativo e contabile. Ferme le necessarie cautele ed i temperamenti riferibili alle singole fattispecie, non può escludersi a priori una differente graduazione di responsabilità per l’amministratore delegato (rispetto ai soggetti privi di delega) per inadeguatezza dell’assetto eventualmente mal istituito, anche in un perimetro non esattamente attinente all’attribuzione ricevuta, in particolare ove la posizione in parola consenta (comunque) una percezione e comprensione dell’evento, risultato poi dannoso, in via diretta e anticipata rispetto ai colleghi deleganti. 
Il plenum delegante, diversamente, «sulla base delle informazioni ricevute» dagli organi delegati (art. 2381, comma 3, c.c.), continuerà ad essere chiamato a valutare «l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società» e «il generale andamento della gestione», nonché - qualora elaborati - ad esaminare «i piani strategici, industriali e finanziari». Il dato testuale, prevedendo la sola eventualità della redazione di piani strategici, industriali e finanziari, parrebbe sottendere una qualche scelta discrezionale da parte dell’organo amministrativo sull’implementazione degli stessi. In vero il passaggio in parola non può essere letto in via avulsa dall’effettivo contesto nel quale viene esercitata l’attività d’impresa. Quest’ultima, infatti, quando per dimensioni e/o complessità (della stessa o del mercato di riferimento) renda opportuno un percorso di pianificazione e programmazione formalizzato (e, giova ricordarlo, soggetto a fisiologica continua revisione), imporrà all’organo amministrativo di dotarsi di assetti che risultino adeguati (anche) a tale scopo. Ad avviso di scrive, inoltre, il menzionato processo di pianificazione - in ragione (i) degli effetti sul sistema impresa di cui al 2086, comma 2, c.c.; (ii) dell’influenza sul diritto societario derivante dai principi contenuti nella Direttiva Insolvency e dalle norme tutte orientate all’emersione tempestiva della crisi di cui al CCI; e (iii) dei potenziali effetti per il mercato (e su tutti gli stakeholder potenzialmente correlati) di un’inefficiente o inefficace (se non del tutto assente) programmazione - deve considerarsi, allo stato, immanente nello stesso fare impresa e non pare in alcun modo più tollerabile che per ragioni formali o, pretesamente, dimensionali, una cellula del sistema, in ragione dei rischi di contaminazione che potrebbero derivare dall’inadempimento delle obbligazioni, navighi “a vista”, del tutto priva di piani strategici, industriali e finanziari correttamente alimentati da un sistema di assetti adeguati. Quanto precede, ben inteso, sull’assunto di un corretto adattamento per imprese di minori complessità (anche dimensionale), in ragione di un equo bilanciamento tra rispetto della norma, esigenze del business e costi (anche temporali) correlati alla predisposizione ed al mantenimento dei citati assetti.
4 . Dialettica consiliare e flussi informativi
Sinteticamente riassunti, senza alcuna pretesa di esaustività, il rinnovato contesto nel quale il legislatore ha posizionato il dovere di istituzione di adeguati assetti, i contenuti essenziali e la dinamica istitutiva e manutentiva dei medesimi, risulta interessante verificare se l’intervento del legislatore di cui al combinato disposto degli artt. 2086, comma 2, c.c. e 3  CCII  [30] possa in qualche modo influenzare alcune delle dinamiche sottese al rapporto organico di amministrazione e, con esse, eventuali profili di responsabilità dei suoi componenti [31]. Si tratta, sia con riferimento all’impianto normativo dedicato agli adeguati assetti che a quello deputato a disciplinare il governo societario e le correlate responsabilità, di temi in grado di produrre effetti di ordine economico e sociale che travalicano i confini tecnici di stretto diritto, i quali meritano un appro CCII o interpretativo moderato, ma consapevole dell’ampiezza degli interessi coinvolti. 
La riforma organica delle società di capitali e delle società cooperative (D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) ha segnato un netto distinguo tra i differenti attori deputati alla gestione [32]. Ciò si riflette anche nelle dinamiche relazionali tra gli stessi. La fotografia del rapporto, minimale ma dotata di netta carica distintiva, vede un presidente e degli amministratori delegati onerati di informare i soggetti privi di deleghe, ai quali, tuttavia, viene imposto l’onere di «agire in modo informato» (art. 2381, comma 6, c.c.) [33]. Trattasi di un dovere, da intendersi come elemento connaturato alla condotta del buon amministratore, che presuppone per il gestore (privo di delega) consapevole della propria mancanza di perizia, l’onere di adottare ogni possibile contromisura per colmare potenziali carenze cognitive. Fermo come non paia in alcun modo dubitabile che l’obbligo in parola imponga di richiedere integrazioni di informativa ogni qual volta in sede di consiglio vengano trasmessi dati non sufficienti, non aggiornati o contraddittori [34], l’interprete è chiamato ad interrogarsi sul livello delle verifiche di volta in volta operabili dai soggetti non esecutivi al fine di adempiere al proprio dovere e non incorrere in responsabilità [35]. 
Si tratta di un equilibrio delicato - da ricercarsi nel rapporto dialettico tra consiglieri delegati e plenum, nonché nelle distinte prerogative in termini di possibilità di acquisizione (e verifica) delle informazioni necessarie ad assumere in modo consapevole le proprie determinazioni [36] - attraverso il quale filtrare eventuali inadempimenti e correlate responsabilità. 
Il citato processo dialettico dovrà essere alimentato da un flusso informativo a trazione duale. Da un lato, infatti, il plenum consiliare è atteso ricevere dagli organi delegati informazioni sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione [37], nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per dimensioni o caratteristiche (art. 2381, comma 5, c.c.), dall’altro, i membri deleganti sono chiamati a stimolare la ricezione delle stesse richiedendo agli organi delegati - eventualmente attraverso la figura del presidente [38] - che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società (art. 2381, comma 6, c.c.). In entrambi in casi, il flusso informativo e la relativa istruzione dei soggetti deleganti vengono previsti concretizzarsi in adunanza, quale sede eletta alla declinazione operativa del potere-dovere di «agire in modo informato» [39]. Sebbene la norma risulti cristallina nell’indicare il consiglio quale luogo deputato allo sviluppo della dialettica tra organi delegati e soggetti deleganti, non pare tuttavia prudente ritenere che, in presenza di occasioni di urgenza e/o ritardata convocazione dell’adunanza ad opera del presidente, gli amministratori privi di delega non possano sollecitare la raccolta di informazioni e ricevere le stesse attraverso comunicazione diretta da parte di quest’ultimo. L’importanza di un percorso decisionale informato, anche alla luce delle responsabilità sottese al ruolo ricoperto, non consente di ritenere inderogabilmente preclusa un’istruttoria extra-adunanza, seppur unicamente attraverso i canali istituzionali, in particolare quando dinamiche di ritardo nell’informativa rischino di portare a consolidarsi potenziali fattispecie lesive del patrimonio sociale o di quello di terzi. 
Con più specifico riferimento a quanto qui d’interesse, gli organi delegati risultano chiamati a curare l’adeguatezza degli assetti organizzativi amministrativi e contabili della società, avuto particolare riguardo alla natura e alle dimensioni dell’impresa, mentre i consiglieri privi di deleghe (attraverso idoneo procedimento informativo e/o istruttorio) a valutare gli stessi in sede di consiglio. 
Se, da un lato, la dialettica tra il curare (art. 2381, comma 5, c.c.) ed il valutare (art. 2381, comma 3, c.c.) parrebbe sottendere ad una suddivisione netta, irriducibile ad unità (per lo meno ogni qual volta si sia in presenza di una gestione delegata), dall’altro le istanze di continuo monitoring di cui alla Direttiva Insolvency e la struttura dinamica dell’obbligazione contenuta nell’art. 2086, comma 2, c.c. impongono, con riferimento alla predisposizione ed aggiornamento degli assetti, un processo osmotico continuo tra i soggetti in parola che mal si concilia con ogni tentativo di rigida allocazione di doveri e correlate responsabilità. Militano in questo senso, anzitutto, gli elementi tipici che coinvolgono la radice genetica della delega gestoria, ove è previsto che questa sia non solo determinata (anche nelle «modalità di esercizio») da parte del consiglio di amministrazione ma, altresì, passibile di revoca - persino ad nutum, salvo risarcimento del danno [40] - o di avocazione delle operazioni rientranti nella stessa [41]. Tuttavia, è solo nella continua ricerca dell’adeguatezza degli assetti che si può apprezzare, sino in fondo, l’assenza di una sostanziale soluzione di continuità tra la fase istitutiva e quella manutentiva degli stessi, i quali sono chiamati ad evolvere in modo parallelo al contesto in cui l’impresa si trova ad operare, coinvolgendo, in uno scambio armonico e proattivo, entrambe le funzioni (delegata e delegante). 
Il percorso di confronto (i.e. di cura e valutazione) tra soggetti delegati e soggetti deleganti è chiamato a realizzare un impianto integrato che risulti in grado di intercettare, su base continuativa, i segnali provenienti dalla cd. “catena del valore” (value chain), vale a dire dalla filiera di processi (commerciali, produttivi, logistici, amministrativi, progettuali) che compongono la dinamica del business caratteristico della singola impresa. Maggiore sarà la complessità di quest’ultimo, più alto risulterà il fabbisogno organizzativo richiesto alla dialettica tra plenum e soggetti esecutivi e, conseguentemente, più strutturato dovrà essere il flusso informativo scambiato dagli stessi per poterne valutare l’adeguatezza. Poiché tutte le fasi deliberative del plenum (oltre che la valutazione sull’operato di ogni funzione delegata) risultano operabili, da un lato, «sulla base delle informazioni ricevute» per opera dei delegati (il c.d. obbligo di reporting di cui all’art. 2381, comma 5, c.c.) e, dall’altro, in ragione delle risultanze delle potere/dovere di «agire in modo informato» (art. 2381, comma 6, c.c.), risulta incontrovertibile il ruolo cardine assunto dal flusso informativo al fine di misurare correttamente l’adempimento dei doveri imposti dalla legge in capo agli amministratori. Ciò, in particolare, qualora si tratti di raggiungere un livello di informazione sufficiente a deliberare, nel rispetto dei principi di diligenza imposti dall’art. 2392 c.c., con riferimento a temi di struttura ed organizzazione quali quelli contenuti negli artt. 2086, comma 2, c.c. 
La diligenza degli amministratori - ex lege commisurata alla natura dell’incarico e alle specifiche competenze [42] - andrà pertanto verificata (anche) attraverso uno scrutinio critico riferito all’efficienza dei citati flussi informativi endosocietari e, in particolare, alla qualità delle informazioni ivi trasmesse. In altre parole, pare corretto ritenere che gli amministratori, nel valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo amministrativo e contabile, necessitino, da un punto di vista statico-contenutistico, di acquisire approfondite informazioni sull’attività d’impresa e sulle peculiarità della value chain, nonché, sotto un profilo dinamico-istruttorio, di verificare l’implementazione di procedure e presidi atti a garantire l’acquisizione e la circolazione di idonei flussi informativi [43]. L’affidabilità, la tempestività e gli automatismi tutti correlati a quest’ultimi assumono, al contempo e con moto circolare, il ruolo di base costitutiva, evidenza di corretta istituzione e test di efficiente mantenimento di assetti adeguati [44]. 
Se, da un lato, tale impostazione pone il dialogo tra la funzione esecutiva e quella delegante al centro del processo, dall’altro necessita, con riferimento alla posizione dei soggetti deleganti, di profilare con attenzione le condizioni a mente delle quali gli stessi possano risultare esenti da responsabilità, così da evitare che una condotta ossequiosa del rispetto del dovere di agire informati trascenda negli effetti e fa CCII a da terroir per una resurrezione di fattispecie di responsabilità (sostanzialmente) oggettiva, obliterando i profili di distinzione tra le diverse figure. Diventa dunque necessario indagare la corretta calibrazione del paradigma dell’agire informato, avuto particolare riguardo alla (concreta) capacità degli amministratori non esecutivi di intercettare tempestivamente segnali d’allarme nel sistema dell’impresa e/o nelle attività compiute dai soggetti esecutivi [45]. 
Come si anticipava, un equilibrio non facile da bilanciare
5 . La posizione degli amministratori non esecutivi
L’amministratore privo di delega, sebbene esonerato da un generico obbligo di vigilanza, rimane onerato di una condotta attenta, consapevole e critica verso la gestione aziendale dei delegati, in particolare qualora dovessero palesarsi segnali di allarme. In adempimento all’obbligo imposto dall’art. 2381, comma 6, c.c., i soggetti deleganti saranno chiamati, dapprima, ad informarsi in modo completo ed esaustivo sul tema oggetto di delibera (o valutazione), attraverso un processo di cognizione che attinga a tutte le prerogative consentite dalla loro posizione, così da garantire l’esercizio di un vaglio supportato da idonea attività istruttoria [46]. Successivamente dovranno esercitare tutti i poteri connessi alla carica, con l’obiettivo di prevenire, eliminare o, quantomeno, attenuare eventuali criticità di cui siano, o debbano essere, a conoscenza, esponendosi, in caso contrario, a responsabilità [47]. Nell’attuale contesto normativo gli amministratori non operativi risulteranno pertanto responsabili per non aver impedito «fatti pregiudizievoli» dei quali siano giunti a conoscenza attraverso il flusso informativo loro destinato, ovvero dei quali avrebbero dovuto acquisire conoscenza, di propria iniziativa, secondo la diligenza richiesta. In sintesi, la (anche solo potenziale) possibilità di attingere, tempestivamente, alle informazioni necessarie al fine di essere posti nelle condizioni di valutarle e, eventualmente, dare impulso alle misure necessarie ad eliminare od attenuare potenziali conseguenze dannose per l’impresa, risulta punto di partenza essenziale nella valutazione delle responsabilità ascrivibili ai componenti dell’organo amministrativo. 
L’enunciata impostazione valutativa, sostanzialmente recepita dall’evoluzione giurisprudenziale (pur con diverse sfumature e percorsi argomentativi correlati alle fattispecie di volta in volta esaminate) [48], si dimostra di non sempre agevole declinazione operativa e merita ulteriore riflessione con riferimento all’effettiva profondità del vaglio critico a cui viene chiamato il plenum consiliare. A mero titolo esemplificativo, si pensi ad un set informativo riferito ad un piano industriale, economico e finanziario formalmente completo ed articolato secondo adeguate linee di sviluppo ed indagine degli elementi d’incertezza (attraverso quindi un corretto equilibrio tra forecast e projection di cui al principio ISAE 3400) ma, in ipotesi, sviluppato da una “spalla” di partenza (rectius una base dati) non affidabile, poiché estratta da una funzione contabile affetta da cattiva interpretazione di alcune poste valutative che ne inquinano il risultato. In tale cornice, quale la condotta adeguata del plenum? In altre parole, pare necessario comprendere in che misura l’organo delegante possa recepire le informazioni ricevute (od ottenute) e, in tale prospettiva, se sia chiamato (in ogni caso e senza eccezioni) ad una revisione critica delle stesse o possa presumerle attendibili [49]. 
La risposta non è agevole, poiché inevitabilmente influenzata dal contesto di riferimento e dal caso di specie. Tuttavia, fermi i possibili (e numerosi) differenti scenari, sembra potersi tentare di offrire un percorso argomentativo che muova dalla capacità espansiva delle prescrizioni contenute nell’art. 2086, comma 2, c.c. che, in argomento, parrebbero indirizzare verso un adeguamento dei criteri di diligenza prescritti dall’art. 2392 c.c. in chiave di maggior responsabilizzazione dell’organo gestorio [50]. 
Quanto precede non intende sottendere che il mancato possesso di competenze idonee a mettere in condizione il membro del consiglio di apprezzare criticamente ogni fattispecie su cui il plenum consiliare venga chiamato a deliberare comporti, di per sé, quale semplice automatismo, una responsabilità del singolo consigliere imperito. Ciò, tuttavia, a patto che quest’ultimo si attivi, senza indugio, affinché tale lacuna venga diligentemente a colmarsi, anche attraverso il supporto di adeguate professionalità terze. Quanto si cerca di sottolineare è, diversamente, la necessità di un’attenta verifica di attendibilità delle informazioni e dei documenti resi (od ottenuti) dai soggetti delegati o dal presidente, quando non vi sia stata mai una “prova di resistenza” o un idoneo stress test degli assetti di volta in volta coinvolti nella delibera sottoposta al vaglio del consiglio. Si tratta, in altri termini, di valutare il merito della proposta e procedere alla correlata delibera, solo qualora gli assetti chiamati a supportare l’estrazione dell’informazione siano stati adeguatamente verificati in termini di affidabilità e tempestività. Riprendendo l’esempio poc’anzi cennato, il processo di approvazione consiliare di un piano, in assenza, inter alia, di un idoneo (preventivo) percorso di test sulla rilevazione del dato (i.e. sull’attendibilità degli assetti contabili) non potrà sottrarre i soggetti deleganti da un concorso omissivo con i soggetti delegati negli eventuali danni emergenti dall’errata pianificazione [51]. In termini più generali, potrà configurarsi analoga corresponsabilità ogni qualvolta il consiglio, quando non dotato di specifiche competenze in grado di colmare una (fisiologica possibile) lacuna, si limiti a recepire passivamente l’impostazione presentata, senza sottoporla a idonea controverifica (anche a campione, se, in ipotesi, ragionevole) oppure a dedicato vaglio critico da parte di un soggetto terzo indipendente adeguatamente qualificato. 
La prova della mancata percepibilità da parte dei soggetti deleganti dei più volte citati segnali d’allarme e, con essa, l’eventuale limitazione di responsabilità in capo ai soli soggetti delegati, imporrà ai primi la dimostrazione di aver operato nel rispetto della diligenza di cui all’art. 2392, comma 1, c.c. (come rafforzata, in tema di adeguati assetti, dall’art. 2086, comma 2, c.c.) e, in tale cornice, di (i) aver operato quelle controverifiche che, avuto riguardo alla delibera in esame, la natura dell’incarico e le specifiche competenze si impongano ai medesimi; oppure di (ii) non essere stati nelle condizioni di aver avuto accesso - né attraverso l’istruttoria consiliare, né grazie a quella operata dietro dedicata richiesta - ad un bagaglio informativo adeguato ad evitare di assumere la menzionata delibera, poi rivelatasi dannosa. In carenza di tali evidenze - ed impregiudicata ogni possibile ripartizione all’interno della categoria dei soggetti non esecutivi avuto riguardo a eventuali specifiche competenze o a funzioni in concreto attribuite a comitati endoconsiliari [52] - i soggetti deleganti risponderanno solidalmente ed in misura paritetica tra gli stessi, ferma la concorrenza con gli amministratori delegati. 
I menzionati oneri di condotta in capo agli amministratori non esecutivi portano ad interrogarsi se - avuto riguardo al rafforzato ruolo dell’art. 2086, comma 2, c.c. e agli effetti dello stesso sugli adempimenti imposti ai soggetti deleganti dagli artt. 2392 e 2381 c.c. (soprattutto con riferimento alla valutazione, continua, degli assetti e delle doverose verifiche di resistenza cui si è cennato) - residui ancora la possibilità per gli amministratori non esecutivi di poter andare esenti da colpa, eccependo, in sede di eventuale giudizio, una rappresentazione dell’informazione decettiva o suggestiva da parte degli amministratori delegati. Ciò, in particolare, ove la natura e le dimensioni dell’impresa impongano, seguendo l’impostazione ut supra sintetizzata, un flusso endoconsiliare strutturato ed un livello di condivisione del dato molto professionalizzato. 
La centralità dell’obbligazione sottesa all’istituzione di assetti adeguati impone prudenza e, di certo, in un contesto strutturato, limita di molto le fattispecie in grado di far emergere una condotta del tutto incolpevole per un plenum delegante. Senza pregiudizio alcuno per ipotesi d’esenzione dovute a particolari condizioni (quali, ad esempio, quelle derivanti da false rappresentazioni adeguatamente supportate da terzi apparentemente indipendenti), il quesito potrebbe trovare una possibile risposta suddividendo le informazioni tra quelle potenzialmente oggetto di (pronta) contro-verifica fattuale (convenzionalmente, hard information) e quelle, diversamente, di natura squisitamente prospettica (soft information) soggette, per natura, a (differente) giudizio prognostico Non si intende qui dubitare che anche parte del percorso di contabilizzazione del dato consuntivo (tipica hard information) possa portare con sé differenti opzioni valutative; tuttavia, quest’ultime risultano geneticamente dotate di elementi di incertezza differenti rispetto al dato prospettico. L’elemento previsionale - impregiudicata la corretta modellizzazione dello stesso nel rispetto del principio ISAE 3400, nonché la richiesta di un’eventuale second opinion da affidarsi a primario soggetto che ponga l’ipotizzata programmazione alla prova di adeguati stress test - non può essere infatti sottoposto, per natura, ad una contro-verifica puntuale (salvo, con il trascorrere del tempo, l’ottenimento di un dato consuntivo). 
In sintesi, non pare che la (rinnovata) centralità dei precetti contenuti nell’art. 2086, comma 2, c.c. consenta ai membri di un consiglio di amministrazione che siano chiamati ad assumere una delibera idonea a produrre effetti non marginali sull’attività d’impresa di poter legittimamente sostenere di aver tenuto una condotta in linea con la diligenza richiesta dall’ordinamento qualora, pur tecnicamente nelle condizioni di verificare (o far verificare da terzi qualificati) le informazioni necessarie ad esprimere un consenso professionalmente informato, non si siano attivati in tal senso prima di esprimere la propria volontà. In tale contesto e con riferimento a quanto occupa le presenti note, gli adeguati assetti ricoprono un ruolo strategico ed essenziale, in quanto essi rappresentato la struttura attraverso la quale è atteso filtrare ed attingere i propri contenuti quel flusso informativo che rappresenta la condizione essenziale al fine di esprimere un consenso in sede di plenum. Non poter contare su degli assetti adeguati - anche in termini dinamici e di verifica costante della loro efficienza ed attendibilità - significa minare alle base l’affidabilità della circolazione delle informazioni e, per l’effetto, viziare in modo significativo il processo di delibera. 
Ipotizzare che un percorso di delibera viziato da un’informazione geneticamente inattendibile - perché ritratta da un impianto non adeguato, oppure non affidabile (in ipotesi poiché solo apparentemente istituito, ma mai oggetto di test operativo) - non possa trovare sanzione nel nostro ordinamento, in particolare alla luce delle linee guida della Direttiva Insolvency, nonché della rinnovata centralità dei principi di cui all’art. 2086, comma 2, c.c., si palesa significativamente pericoloso per l’evoluzione del sistema.
6 . Il safe harbour della BJR
Quando divengono oggetto di analisi scelte operate dagli amministratori, l’interprete è chiamato ad interrogarsi se esse possano essere ricomprese, o meno, all’interno di quella discrezionalità gestoria - internazionalmente nota come business judgment rule [53] - in grado di andare esente (in presenza degli adeguati presupposti) dal vaglio del giudicante [54]. I limiti del presente lavoro non consentono di ricostruire adeguatamente il complesso dibattito, invero mai del tutto sopito, sull’esatto perimetro di applicazione nel nostro ordinamento della business judgment rule con riferimento alla valutazione della responsabilità degli amministratori [55]. 
In questa sede ci si limiterà a spendere alcune riflessioni di minima, con l’obiettivo di comprendere se l’istituzione ed il mantenimento di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati possano venire scrutinati dal giudicante (ferma l’ottica ex ante). 
La regola della BJR [56], come noto, mira a rendere non imputabile agli amministratori il risultato negativo della gestione, in ragione di un principio che vuole quest’ultimi dotati di un potere discrezionale nel guidare la società - purché in assenza di conflitto di interessi o in violazione di altri obblighi specifici previsti dall’ordinamento - che li pone al riparo da responsabilità in presenza di decisioni che, ex post, si rivelino dannose [57]. Tale insindacabilità, tuttavia, non è assoluta, ben potendo il giudicante valutare se, in ottica ex ante, la scelta gestoria sia stata assunta in modo consapevole ed informato, priva di imprudenza o irrazionalità rispetto al contesto di riferimento [58]. Il processo di decision-making appare allora decisivo nell’imputazione di un’eventuale responsabilità in capo agli amministratori. In altri termini «the due care standard in corporate law is applied to the decision-making process and not to its result. Even though a decision made or a result reached is not that of hypothetical ordinarily prudent person, no liability will attach as long as the decision-making process meets the standard» [59]. 
Tornando al tema in esame, ovvero alla valutazione se all’interno della discrezionalità protetta dalla regola della BJR possa includersi anche la scelta di istituire adeguati assetti e, in particolare, se il loro livello di adeguatezza possa essere oggetto di scrutinio del giudicante, si è sostenuto che la scelta in parola, pur attenendo ad un profilo organizzativo-gestorio, appartenga comunque all’alveo di quelle obbligazioni che si sostanziano nell’assunzione di una decisione imprenditoriale e, per l’effetto, discrezionale [60]. Aderendo a tale interpretazione, l’adeguatezza degli assetti sarebbe insindacabile da parte del giudice, purché la delibera istitutiva venga assunta avvalendosi di tutte le informazioni e le prudenze ragionevolmente disponibili e non si dimostri irrazionale. 
Se, da un lato, risulta cristallino come l’istituzione di assetti adeguati ricada tra i doveri specificatamente previsti a carico degli amministratori, dall’altro, non può negarsi che l’obbligazione in parola, proprio in ragione di quella proporzionalità (rectius adeguatezza) richiamata dall’impianto normativo, implichi un processo di valutazione, inevitabilmente caratterizzato da elementi di incertezza, da declinarsi secondo un principio comparativo rispetto alla fattispecie di volta in volta esaminata [61]. In altre parole, fermo il precetto codificato, l’interprete è indotto a domandarsi se gli amministratori, con riferimento agli adeguati assetti, siano o meno dotati di facoltà di seguire criteri autonomi nell’esercizio delle proprie funzioni (i.e. agire secondo propria discrezionalità), così da poter qualificare la scelta de qua come di merito imprenditoriale e, per l’effetto, oggetto di copertura da parte della BJR. Sviluppando tale percorso d’indagine, infatti, ben può sorgere l’interrogativo riferito alla possibilità che le decisioni degli amministratori di carattere organizzativo (come quella sugli adeguati assetti), nell’ipotesi in cui siano caratterizzate da un più o meno significativo livello di discrezionalità, possano ricadere sotto l’ombrello protettivo della BJR. 
In via generale è innegabile che ogni organo amministrativo, quando chiamato ex lege a tenere una determinata condotta, sia dotato di una qualche misura di discrezionalità nel giungere all’adempimento dell’obbligazione sottesa, purché siano possibili plurimi percorsi attuativi (i.e. differenti condotte operative) validi ed efficaci al fine di non violare il precetto originario. Più complesso, anche in ragione del necessario rispetto delle categorie proprie del diritto civile, risulta ritenere che ridetta libertà attuativa renda gli amministratori immuni da giudizio ove esista un dovere a contenuto determinato (o determinabile) in grado di creare un contesto a valutazione binaria (o sostanzialmente binaria) nel quale, unicamente qualora il dovere venga rispettato, possano non ascriversi delle responsabilità all’organo di gestione. 
La valutazione del principio di adeguatezza degli assetti, come già più volte ribadito, è un processo costante, il quale beneficia della possibilità - che, come detto, prende i contorni di un preciso onere per gli amministratori - di operare test e verifiche su base continuativa [62]. Tali attività, alimentate dal flusso informativo di cui all’art. 2381 c.c., mettono in condizione gli amministratori di sottoporre a stress test, attraverso carotaggi continui, l’efficienza e la validità degli assunti alla base della stimata adeguatezza degli assetti e, per l’effetto, offrono una dinamica d’indagine tale che l’adempimento dell’obbligazione sottesa sembra lecito potersi scrutinare secondo criteri di diligenza significativamente rafforzati e che, per deontica tensione al risultato, avvicinano in modo sostanziale (seppur non coincidente) il profilo valutativo a quello operabile in un contesto binario. In altre parole, la doverosità dell’adempimento cui sono chiamati gli amministratori in materia di adeguati assetti e la possibilità di una verifica continua del proprio operato da parte dei medesimi restringono significativamente il profilo della discrezionalità, suggerendo l’applicazione degli ordinari criteri valutativi sull’adempimento, senza applicazione della “regola” della BJR. 
La misurazione delle qualità degli assetti - in ragione del necessario continuo labor limae cui sono tenuti gli amministratori (quando di non vera e propria revisione in ipotesi di eventi disruptive nel mercato di riferimento o in altri centri nevralgici della vita d’impresa) - mi pare non possa considerarsi dotata di quegli elementi di alea che la BJR intende sterilizzare: risulta infatti sempre operabile, da parte degli amministratori, un percorso di continuo affinamento e revisione degli assetti che si dimostrino (o tendano a dimostrarsi) inadeguati. Ragionare diversamente, offrendo il safe harbour della BJR alla valutazione sull’adeguatezza degli assetti, potrebbe portare a voler sostenere, in una successiva fase di scrutinio delle scelte operate dall’organo di gestione, che gli amministratori possano andare esenti da responsabilità ove riescano a dimostrare che il processo deliberativo oggetto di indagine risulti coerente rispetto alle informazioni ritraibili dagli assetti in essere (purché, ben inteso, questi esistano e non risultino del tutto irrazionali), e ciò anche qualora non ne sia mai stata verificata l’effettiva affidabilità [63]. 
Decisamente poco alla luce della valenza degli assetti per il sistema impresa. 
A sommesso avviso dello scrivente è necessario un cambio di prospettiva. A fronte della rilevanza delle obbligazioni in questione e della governabilità dell’adempimento (che ben può fruire di verifiche e test in fase di istituzione, implementazione ed affinamento), riesce difficoltoso pensare che un eventuale mancato rispetto dei doveri de quibus possa essere valutato in termini di mera scelta imprenditoriale, in grado di beneficare della copertura della BJR [64]. D’altra parte, anche ammettendo che l’amministratore sia totalmente libero di individuare le finalità dell’agire imprenditoriale, esso è egualmente tenuto - in termini di dovere/obbligo giuridico - a verificare che gli strumenti organizzativi siano adeguati allo scopo perseguito. Basti pensare, nuovamente, a mero titolo esemplificativo, alla necessità di assicurare una corretta e veritiera rappresentazione contabile delle operazioni compiute [65]. 
In ultima analisi, la sensazione è tuttavia di trovarsi di fronte ad una questione fortemente influenzata da profili nominalistici. 
È infatti innegabile, lo si ribadisce, che l’adeguatezza degli assetti porti con sé un margine di discrezionalità, essendo per sua stessa natura un requisito elastico, destinato a plasmarsi in base alle differenti fattispecie ed alle successive evoluzioni delle stesse. Il giudicante, in sede di valutazione, non potrà non tenere conto di tale profilo, concentrando la propria attenzione, oltre che sul risultato finale (in termini di effettiva adeguatezza/proporzionalità ed efficacia), sulle modalità attraverso le quali gli amministratori abbiano istituito gli assetti e, in particolare, verificare se, tra le eventuali differenti opzioni attuabili nella specifica situazione, l’organo gestorio abbia fatto corretto uso delle nozioni aziendalistiche necessarie allo scopo. L’apprezzamento finale del giudice risulterà pertanto fortemente innervato dall’applicazione di principi aziendalistici, eventualmente supportati da idonea consulenza tecnica. In tale contesto, al giurista (anche giudicante) sarà inevitabilmente richiesto di portare ad unità il linguaggio ed i precetti propri con quelli di matrice aziendalistica, indispensabili per operare quel vaglio critico oggi richiesto dall’ordinamento su di una questione tanto centrale. 
Una volta in più, all’interno del moderno diritto d’impresa, la fusione di competenze multidisciplinari risulta essenziale al fine di garantire un livello di compliance adeguato alle richieste dell’ordinamento. 
7 . L’organo di controllo
L’art. 2403 c.c. stabilisce come il collegio sindacale delle s.p.a. sia tenuto a vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e, in particolare, sull’adeguatezza e concreto funzionamento dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile. Si tratta di un dovere - applicabile anche all’organo di controllo nelle s.r.l., in ragione del rinvio operato dall’art. 2477, comma 5, c.c. - da declinarsi in (stretta) correlazione ai precetti contenuti nel novellato art. 2086 c.c. e, per l’effetto, finalizzato anche alla rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale. 
I doveri di vigilanza del collegio sindacale sugli assetti si pongono come presidio a garanzia del rispetto dei principi di corretta amministrazione [66], da intendersi, nello sviluppo pratico, come quella sequenza di scelte razionali, supportate dalle migliori pratiche indicate dalla scienza aziendalistica, che consentano all’impresa di mantenere, anche nel medio-lungo periodo, un equilibrio patrimoniale [67], economico e finanziario. Non spetta infatti all’organo di controllo alcuna indagine rivolta allo stretto merito imprenditoriale delle scelte operate dagli amministratori, sul presupposto, tuttavia, che le stesse (i) non siano frutto di valutazioni irrazionali, in conflitto d’interessi e/o non adeguatamente istruite; (ii) non comportino rischi non compiutamente fattorizzati in sede di delibera; (iii) non risultino, per qualsiasi ragione e secondo criteri incentrati ad un corretto scetticismo professionale, in grado di comportare probabili situazioni di squilibrio [68]. 
L’attività operata dal collegio, nel concentrare il proprio focus sulla modalità decisoria e, più in generale, sulla diligenza osservata dal plenum in tale fase, va interpretata in chiave dinamico-preventiva, prima che statico-sanzionatoria, tanto dai componenti dell’organo di controllo che di gestione [69]. L’organo di controllo - nei confini dei propri doveri istituzionali - è infatti elemento cardine dell’organizzazione, grazie al quale gli amministratori possono beneficiare di un soggetto dotato di ampi poteri d’indagine, in grado di contribuire ad una verifica di efficienza degli assetti e, per l’effetto, alla pronta evidenza di segnali d’allarme [70]. 
Si tratta di abbandonare una visione del ruolo del collegio sindacale quale censore ex post delle scelte operate dagli amministratori e riconsiderare lo stesso - in ragione delle preziose competenze di cui spesso è composto, nonché del cumulo dei poteri d’indagine ed approfondimento di cui è dotato - quale componente essenziale a sostegno di un esercizio dell’impresa rispettoso dei principi di legalità [71]. In tale prospettiva e con particolare riferimento all’attività di vigilanza sull’adeguatezza degli assetti, il collegio sindacale risulta titolare di un vero e proprio potere-dovere di formulare eventuali proposte di modifica od integrazione degli stessi [72]. Ciò in un ideale continuum tra i precetti degli artt. 2086, comma 2, 2381 e 2403 c.c., e ad ulteriore consolidamento di una visione unitaria ed osmotica del processo di istituzione, verifica e mantenimento degli assetti, del tutto coerente agli obiettivi di centralità del ruolo dei medesimi nella struttura dell’impresa ed in perfetta assonanza ad un contesto che mira, grazie al contributo dei differenti attori, al concreto funzionamento degli stessi [73]. 
Quanto alle modalità attuative dell’obbligo in parola sembra preferibile ritenere che le stesse, impregiudicato il rispetto del criterio di diligenza di cui all’art. 2407 c.c., debbano articolarsi attraverso una dinamica a geometria variabile, rifuggendo rigide procedimentalizzazioni. Fermi gli adempimenti ex lege previsti, il perimetro, l’intensità e la frequenza delle attività risulteranno, infatti, strettamente correlati, da un lato, al tema oggetto dell’indagine e, dall’altro, alle condizioni generali in cui versa l’impresa. Quanto al primo profilo - e con riferimento, per quel che qui interessa, all’adeguatezza degli assetti - pare ragionevole sostenere che il dovere dell’organo di controllo non possa limitarsi ad una vigilanza in astratto dell’impianto proposto dagli amministratori, ma imponga un’attività di concreta verifica, in termini di funzionamento ed affidabilità, oltre che di adeguatezza, degli stessi. Quanto al secondo criterio, ovvero alla situazione di fatto in cui si trova ad operare l’attività di vigilanza, riterrei che la stessa - una volta espletata la verifica sull’adeguatezza degli assetti e loro concreta efficacia - possa articolarsi, in condizioni prive di segnali d’allarme, in un controllo generale, sintetico e coerente ai termini prescritti dal codice civile. Diversamente, qualora emergano indizi di potenziale squilibrio o inefficienza nel sistema, andrà commisurata alla natura degli assetti, eventualmente attingendo all’arsenale di cui è munito l’organo di controllo, secondo gradi crescenti di intensità nel coinvolgimento degli organi sociali [74]. A citati, penetranti, poteri di verifica corrisponderà, quale contrappeso, la responsabilità dell’organo di controllo per l’omissione nell’esercizio degli stessi [75]. 
Di più. 
Eventuali condotte degli amministratori non in linea con i doveri gestori imposti dalla norma citata sono ritenute dalla giurisprudenza di merito una «grave irregolarità nella gestione» in grado di attivare una denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. [76]. Lo strumento in parola, da non interpretarsi come rimedio residuale [77], esce rivitalizzato dal nuovo contesto del codice della crisi, mettendo in condizione l’organo di controllo - ed ora anche i soci rappresentanti una minoranza qualificata in s.r.l. [78] - di poter attivare un processo di verifica esogena (dotata di un forte connotato pubblicistico) in grado di produrre effetti di sollecitazione all’adozione di ogni più opportuno correttivo da parte dell’organo di gestione con riferimento agli adeguati asseti, sino a giungere a conferire all’amministratore giudiziario il potere di «verificare la ricorrenza di continuità aziendale, adottando al riguardo ogni iniziativa necessaria, se del caso previa autorizzazione del Tribunale, con precipuo riguardo alla istituzione degli opportuni assetti organizzativi, amministrativi e contabili ex art. 2086, c. II, cc» [79]. 
Il quadro normativo riferito ai doveri di vigilanza dell’organo di controllo si pone, inoltre, come ideale presupposto al fine di permettere allo stesso di adempiere all’obbligo di segnalazione di cui all’art. 25-octies  CCII  [80]. Quest’ultimo prescrive che l’organo di controllo societario e il soggetto incaricato della revisione legale, ciascuno nell’esercizio delle rispettive funzioni, provvedano a segnalare all’organo amministrativo, motivando per iscritto, la sussistenza dei presupposti dello stato di crisi o di insolvenza, concedendo un temine non superiore a trenta giorni entro il quale l’organo amministrativo viene chiamato a riferire in ordine alle iniziative intraprese [81]. Balza immediatamente all’attenzione come l’attuale formulazione, figlia delle modifiche introdotte per il tramite del D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136, fissi condizioni oggettive di attivazione dell’obbligo di segnalazione (i.e. gli stati di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) e b)  CCII ) disallineate rispetto al requisito minimo consentito dall’art. 12, comma 1,  CCII  per l’accesso alla composizione negoziata (i.e. lo squilibrio che renda solo probabile la crisi o l’insolvenza), spostando, di conseguenza, il momento in cui sorge il dovere in parola e, per l’effetto, la responsabilità dei soggetti a ciò obbligati [82]. Il secondo comma della norma de qua stabilisce inoltre come la tempestiva segnalazione [83], nonché la costante attività di vigilanza sull’andamento delle trattative, rappresentino circostanze da valutarsi ai fini dell’attenuazione o esclusione della responsabilità prevista, per l’organo di controllo, dall’articolo 2407 c.c. e, per il revisore, dall’articolo 15 del D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 39 [84].
8 . Il revisore legale
La (re)introduzione del revisore tra i soggetti chiamati alla segnalazione dei presupposti per la presentazione dell’istanza ex art. 17  CCII  - agli effetti dell’art. 25-octies  CCII , limitatamente alle fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. a) e b)  CCII  - merita qualche ulteriore precisazione. 
In esito all’entrata in vigore del D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, stante la definitiva soppressione dell’originario testo dell’art. 14  CCII  [85], non si ritrovava nel codice una norma attributiva di un esplicito dovere di segnalazione in capo ai revisori, sebbene non mancassero (e non manchino tuttora) specifici obblighi in capo allo stesso, in particolare con riferimento alla sussistenza del presupposto della continuità aziendale [86]. Nelle s.p.a. o nelle s.r.l. che abbiano optato per la distinzione delle competenze non possono inoltre trascurarsi i precetti contenuti nell’art. 2409-septies c.c., i quali onerano il collegio sindacale e i soggetti incaricati della revisione legale di scambiarsi «tempestivamente informazioni rilevanti» nell’espletamento delle rispettive funzioni [87]. La norma impone un chiaro dovere di reciproca collaborazione, con l’obiettivo di mutuo affinamento dell’efficienza e affidabilità dei dati processati. Si tratta, in altre parole, di una norma che fotografa uno degli snodi cardine del flusso informativo tra i soggetti deputati al controllo dell’attività d’impresa e che, se correttamente applicata, si dimostra in grado di poter rafforzare quel processo di continua verifica, in termini di affidabilità degli assetti, essenziale al fine del vaglio di adeguatezza dei medesimi. E ciò, giova precisarlo, ben oltre gli stretti confini di competenza dei due soggetti. Ben potrebbero emergere, infatti, in sede di controllo ad opera del revisore legale, irregolarità di matrice gestionale, la cui comunicazione all’organo di controllo da parte del primo, permetta al secondo di intervenire tempestivamente sull’organo di gestione, attraverso un corretto utilizzo dei flussi informativi ed in ossequio ai principi di early warning [88]
Ciò posto, continuano tuttavia a non essere previsti veri e propri poteri di reazione in capo al revisore il quale, ove rilevi, nello svolgimento delle proprie attività, delle patologie rispetto alle quali non vi sia intervento dell’organo amministrativo, non rimane che affidare all’organo di controllo - sempre presente in s.p.a., a differenza che nelle s.r.l. [89] - ogni possibile intervento in coerenza alle norme dell’ordinamento. Viene dunque in emersione, una volta in più, il ruolo centrale del collegio sindacale quale organo deputato al controllo di legalità, quale centro di snodo informativo delle segnalazioni giunte da creditori pubblici qualificati (art. 25 novies  CCII ), banche (art. 25 decies  CCII ) e revisore (all’interno della reciprocità dei flussi di cui all’art. 2407-septies c.c.), nonché di vero e proprio attore-agente, grazie ai significativi poteri di reazione nei confronti dell’organo di gestione di cui il medesimo è dotato. 
Diverso scenario qualora una s.r.l. decida di dotarsi di solo revisore. Come noto, l’art. 2477, comma 1, c.c. (da ultimo modificato dall’art. 379  CCII ) [90] prevede la mera facoltà di nominare un organo di controllo, in forma monocratica o di collegio sindacale, oppure un revisore legale dei conti; al successivo comma 2, detta facoltà è tramutata in obbligo quando la società sia tenuta alla redazione del bilancio consolidato oppure controlli una società obbligata alla revisione legale dei conti o, ancora, superi alcune soglie dimensionali. In tale contesto il legislatore del D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136, attraverso la menzionata riformulazione dell’art. 25-octies  CCII , avrebbe inteso offrire risposta ad alcune osservazioni volte ad evidenziare come nell’impianto della s.r.l. - a differenza che nella s.p.a., dove la presenza di un organo di controllo (dotato delle già menzionate prerogative in ottica di vigilanza sugli adeguati assetti) risulta in ogni caso obbligatoria - la mancanza di una previsione di poteri-doveri di reazione in capo al revisore non si dimostri coerente alle convergenti istanze rivolte ad anticipare l’emersione dei segnali di crisi, con chiara frustrazione dell’efficacia dei meccanismi volti a incentivare l’accesso tempestivo alla composizione negoziata ex artt. 12 e ss.  CCII  [91]. 
Tuttavia non pare potersi sostenere che l’esplicitazione del dovere di segnalazione di cui al novellato art. 25-octies  CCII  abbia portato ad una radicale rivisitazione degli oneri in capo al revisore, neppure in sede di s.r.l.; la norma, infatti, attraverso l’inciso «nell’esercizio della rispettive funzioni», con chiari intenti di consolidamento e mantenimento della differente perimetrazione dei doveri e dei correlati adempimenti in capo alle due distinte figure dell’organo di controllo e del revisore, non comporta alcuna nuova obbligazione o strumento di indagine aggiuntivo in capo a quest’ultimo. Il legislatore, ben consapevole delle differenti dotazioni in termini di poteri-doveri, oltre che di non comparabile pervasività degli strumenti di reazione in capo ai soggetti de quibus, si è dunque limitato a positivizzare un flusso segnaletico-informativo tra revisore ed organo amministrativo, senza peraltro raccordare l’onere di riscontro del medesimo. In modo del tutto coerente alla radice genetica della composizione negoziata, improntata ad una gestione della crisi saldamente nelle mani dell’imprenditore, l’evento di segnalazione ad opera dell’organo di controllo e/o del revisore continuerà, in ambo i casi, a spiegare i propri effetti all’interno dei flussi informativi codificati e, per l’effetto, ingenererà l’obbligazione per l’organo amministrativo di valutare il segnale comunicato, riferire sulle determinazioni prese ed agire in coerenza a quest’ultime. 
A sommesso avviso di chi scrive il vulnus in tema di controlli nelle s.r.l. che abbiano deciso di dotarsi del solo revisore rimane dunque intonso, riflettendosi negativamente sull’intera organizzazione societaria, mancando un presidio essenziale in termini di gestione dell’impresa. Dal revisore, infatti, è lecito ipotizzarsi un adempimento coerente alle modalità e alle tempistiche di svolgimento della funzione di revisione del bilancio e di esecuzione delle verifiche contabili periodiche, circoscritto, nel suo oggetto, all’adeguatezza degli assetti funzionali alla corretta rappresentazione contabile dei fatti di gestione [92]. Nulla di paragonabile allo spettro delle indagini operabili dall’organo di controllo. Risulta dunque legittimo interrogarsi sulla perdurante coerenza dell’opzione di cui all’art. 2477 c.c., in ragione dei limiti, correlati alle differenti funzioni, insiti nelle prerogative d’intervento del revisore, in un quadro in cui le verifiche di adeguatezza degli assetti assumono una rafforzata centralità nel sistema dell’impresa. 
Alla luce di quanto precede e nonostante il legislatore accordi notevole libertà in capo ai soci di s.r.l., i precetti di all’art. 2086, comma 2, c.c. paiono richiedere un cambio di prospettiva. L’adeguatezza degli assetti è un fatto. Essa prescinde dal tipo di società prescelto e non si dimostra (più) coerente alla rinnovata tutela del sistema impresa consentire che s.r.l. dotate di business non elementari, tanto in termini di natura e complessità della value chain che per dimensioni, possano validamente operare prive di un presidio legale essenziale quale quello dell’organo di controllo e delle correlate prerogative di vigilanza proattiva [93]. Pena una ingiustificata riduzione del presidio, che non può certo trovare temperamento nei diritti di cui all’art. 2476 c.c. [94].
9 . Il piano dell’organizzazione dell’impresa
Nell’attuale cornice normativa non pare più revocabile in dubbio che l’inadempimento alle obbligazioni contenute nell’art. 2086, comma 2, c.c. integri una significativa violazione dei principi di corretta amministrazione ed un evento potenzialmente in grado di produrre dei danni per la società, per gli stakeholder tutti e, più in generale, per il sistema. 
Il pieno significato metodologico-organizzativo correlato al dovere di istituire adeguati assetti viene tuttavia spesso assorbito dalla prospettiva teleologica di tempestiva emersione della crisi nel quale lo stesso è stato concepito. Ci si riferisce ai principi contenuti nella Direttiva Insolvency dedicati all’early warning, i quali, unitamente alla genesi dell’art. 2086, comma 2, c.c. (avvenuta nel contesto del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), oltre all’innegabile correlazione, testuale e logico-giuridica, con i precetti di cui all’art. 3, comma 2,  CCII , hanno portato a concentrare l’attenzione dell’interprete sul profilo funzionalizzato degli assetti. In altre parole, si è assistito ad una valorizzazione della continuità semantica tra le citate norme, con l’effetto di svalutare la portata generale, sancita nel primo alinea del comma 2 dell’art. 2086 c.c., nel cui alveo viene cristallizzato il dovere istitutivo. 
La presenza di assetti adeguati ben può, diversamente, essere considerata elemento genetico-strutturale dell’impresa e, in particolare, dell’organizzazione della stessa [95]. 
L’attività di gestione potrà essere validamente sviluppata dall’imprenditore a condizione di rispettare alcune condizioni, prima fra tutte la centralità dell’impresa ex se e la sua capacità di restare durevolmente sul mercato in condizioni di equilibrio con il sistema che la circonda. Si tratta di collocare il ruolo degli assetti non solo sul piano squisitamente gestorio - ove l’inadeguatezza dei primi, oltre a produrre sicure inefficienze in termini di capacità di ottimizzazione nella produzione di valore, comporta il rischio di un governo delle attività solo apparente e, con esso, una possibile tarda reazione all’emersione di segnali crisi - ma su quello di condizione per il valido esercizio dell’attività d’impresa. Dotarsi di assetti adeguati risulta, in ultima analisi, vero e proprio elemento di legittimazione per l’imprenditore al fine di poter esercitare l’attività nel rispetto della rilevanza sociale che la stessa assume, nella quale andranno collocati gli interessi di tutti gli stakeholder e, più in generale, del mercato, in una dinamica di medio-lungo periodo [96]. 
Se, da un alto, i precetti che compongono l’art. 2086, comma 2, c.c. non costituiscono una novità in senso assoluto nella disciplina codicistica, dall’altro sembra lecito trarre dal rinnovato contesto nel quale i medesimi vengono ad articolarsi l’intento del legislatore di sottolineare quanto gli stessi debbano considerarsi inscindibilmente correlati all’esercizio dell’impresa. Degli assetti adeguati non possono più essere ritenuti semplice sinonimo di gestione secondo buona prassi aziendalistica, ma rappresentano un ineludibile dovere giuridico, il cui inadempimento risulta carico di conseguenze, tanto per i soggetti deputati all’istituzione e manutenzione dei medesimi (gli amministratori), quanto per chi sia chiamato a vigilare sugli stessi (l’organo di controllo), in entrambi i casi in termini di responsabilità. Gli effetti di un inefficiente impianto degli assetti e, conseguentemente, di un sostanziale non governo societario colpiranno, inoltre, gli interessi dei lavoratori, degli azionisti, dei creditori, degli stakeholder tutti, sino ad intaccare le dinamiche di mercato e l’affidabilità dei traffici ad essi correlati, con evidente sofferenza per l’intero sistema. 
Il legislatore, in via del tutto coerente al processo evolutivo che, nell’ultimo decennio, ha interessato le categorie di imprese maggiormente vigilate (i.e. banche, assicurazioni, intermediari finanziari), ha innalzato il livello di monitoring e programmazione richiesto a qualunque impresa collettiva, a tutela di un’incomprimibile esigenza di maggiore certezza dei traffici, in particolare nel delicato scenario attuale, carico di complessità per i mercati. Quanto precede se, da un alto, comporta una maggiore responsabilizzazione per chi gestisce o vigila un’attività d’impresa esercitata in forma societaria, dall’altro, a ben guardare, trova un bilanciamento nei numerosi strumenti e percorsi offerti dal legislatore all’imprenditore in contesti di crisi finalizzati a proseguire l’attività d’impresa e, con essa, gli investimenti in essa effettuati. In altre parole, alla luce delle diverse opportunità, a forte trazione anticipatoria (ma non solo), che innervano l’impianto del codice della crisi e che consentono di ridurre, anche sul piano personale, alcune delle ricadute negative dell’insolvenza, pare a chi scrive del tutto coerente con l’equilibro del sistema che gli organi di gestione e di controllo siano chiamati ad incrementare il livello di attenzione, in particolare nel profilo istitutivo e manutentivo degli assetti, i quali rappresentano, in ultima analisi, l’essenza del piano organizzativo dell’impresa e, al contempo, il più anticipato presidio alla salvaguardia dei principi di corretta gestione societaria. 
In chiusura ci si potrebbe interrogare se le obbligazioni discusse nelle presenti note siano davvero percepite come adeguate dal tessuto sottostante - ovvero se l’impresa colga in esse l’accoglimento di istanze proprie o la produzione di effettivi benefici - agevolandone così l’applicazione [97]. Oppure, di contro, se vengano percepite alla stregua di un (nuovo) va CCII no, da alcuni mal tollerato, per altri, addirittura, da rifiutare per ragioni di principio (in questo caso dettate da pretesi incomprimibili diritti di piena libertà nel fare impresa). In attesa che il diritto vivente registri, nel prossimo futuro, elementi in grado di offrire una risposta al quesito formulato, l’auspicio è quello che il processo di sviluppo di un maggior livello di consapevolezza nell’esercitare l’attività d’impresa divenga dato culturale comune, così da offrire basi negoziali più solide ai traffici ed al mercato [98].

Note:

[1] 
Il riferimento è rivolto ai principi contenuti nella Direttiva (UE) 2019/1023 (Direttiva Insolvency) dedicati all’early warning ed alla centralità dell’istituzione di un adeguato apparato di presidi. 
[2] 
Da intendersi come capacità dei complessi di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa di continuare ad operare quale entità in funzionamento. Una continuità in senso oggettivo, riferita agli asset che compongono l’azienda, del tutto indipendente dal profilo soggettivo dell’imprenditore. Sul superamento della concezione soggettivistica e la parallela transizione da un diritto concorsuale sanzionatorio ad uno orientato alla regolazione della crisi v. M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, Milano, 2024, pp. 45 ss. 
[3] 
Il legislatore provvede ad un’indicazione sul piano finalistico, correlando in via diretta il dovere di adottare adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili ad un obiettivo predeterminato, in precedenza non esplicitato. Per trattandosi, all’evidenza, di un fine non esclusivo (in ragione, a tacere delle evidenti ragioni sistemiche, della presenza della congiunzione coordinante «anche»), l’esplicita codificazione di detta funzione risulta di innegabile valenza interpretativa, soprattutto con riferimento alla valutazione delle potenziali conseguenze per gli organi di gestione e controllo in caso di inadempimento ai doveri ivi disposti. Parla di «evoluzione sul piano finalistico» P. Bastia, Gestione della crisi e piani di risanamento aziendali, Milano, 2022, p. 396. E. Barcellona, Business judgment rule e interesse sociale nella “crisi”- L’adeguatezza degli assetti organizzativi alla luce della riforma del diritto concorsuale, Quad. Giur. comm., Milano, 2020, p. 3 sottolinea come l’utilizzo della menzionata congiunzione «anche» davanti all’espressione «in funzione» risulterebbe sintomatica della volontà del legislatore di «mostrarsi consapevole che questa finalità [...] va soltanto ad aggiungersi agli ulteriori, ancorché non verbatim esplicitati, funzioni-scopi rispetto ai quali ‘da sempre’ doveva essere (come continua a dover essere) misurata la adeguatezza degli assetti organizzativi». 
[4] 
Il passaggio al cennato piano dell’essere lo si coglie, anzitutto, nella nuova collocazione topografica dell’obbligo di istituire i citati assetti. Il precetto in parola, infatti, si ritrova all’art. 2086, comma 2, c.c. (posizionato nel Libro V, Titolo II, Capo I, Sezione I del codice civile) che - in precedenza - si limitava a contenere alcuni profili di stampo gerarchico, tipici di una concezione rigidamente autoritaria dell’impresa. Si tratta, in altre parole, di un principio che è stato trasposto dal contesto societario in cui era collocato dal 2003 (dedicato alle dinamiche di azione e valutazione dell’organo gestorio), per trovare nuova collocazione nel capo dedicato all’impresa in generale. In argomento v. le riflessioni di P. Benazzo, Assetti organizzativi, diritto dell’impresa e diritto delle società: dal passato ad un (possibile) futuro, in Dirittodellacrisi.it, 2025, p. 11: «l’art. 2086 c.c. sarebbe così venuto, oggi, post 2019, a collocarsi non più sul piano gestorio dell’agire, ma, financo, e prima ancora, sul piano organizzativo dell’essere» e M. Irrera, La responsabilità degli amministratori nella predisposizione di assetti adeguati, in Diritto ed economia dell’impresa, 2024, p. 143: «l’inserimento dell’obbligo di istituzione degli assetti ha costituito un sicuro rafforzamento del nucleo di disposizioni dedicate all’organizzazione di impresa, facendo emergere, anche sul piano giuridico (oltre che aziendalistico) la necessità che la stessa sia adeguatamente strutturata affinché possa operare sul mercato». Per alcuni spunti di critica v. M.S. Spolidoro, Note critiche sulla «gestione dell’impresa» nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. soc., 2019, p. 253. 
[5] 
Con la legge di riforma costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, il legislatore ha modificato gli artt. 9 e 41 della Carta, intervenendo sul secondo e terzo comma dell’art. 41 Cost., aggiungendo «salute» e «ambiente» tra i limiti all’esercizio della libertà di iniziativa economica privata: ne deriva che la stessa non possa «svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», risultando demandato alla legislazione ordinaria definire «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali». La novella costituzionale si inserisce nel sistema di protezione complessivamente delineato dal legislatore europeo: l’art. 3 comma 3, TUE contempla infatti lo «sviluppo sostenibile» tra le finalità dell’Unione Europea, obiettivo perseguito (anche) con l’adozione della direttiva n. 95/2014 UE, poi modificata dalla direttiva n. 2464/2022 UE, di recente recepita nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. 125/2024 sul reporting di sostenibilità delle imprese. Per approfondimenti si rinvia a S. Bruno, Cambiamento climatico e organizzazione delle società di capitali a seguito del nuovo testo dell’art. 2086 c.c., in Banca impr. società, 2020, p. 47. 
[6] 
In argomento v. P. Montalenti, Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, in Crisi d’impresa. Prevenzione e gestione dei rischi: nuovo codice e nuova cultura, P. Montalenti e M. Notari (a cura di), Quad. Giur. comm., 2021, p. 21, il quale qualifica l’obbligo di istituire un adeguato assetto ex art. 2086 c.c. come «una vera e propria clausola generale che impone un dovere di corretta gestione, per così dire ‘trasversale’ rispetto ai modelli di organizzazione collettiva dell’impresa e che riveste un valore di novità sistematica di centrale rilevanza». 
[7] 
Da diversa prospettiva d’indagine, v. P. Benazzo, La denunzia al Tribunale di gravi irregolarità e l’adozione di assetti organizzativi adeguati: da prevenzione della crisi a “condizione di esercizio dell’attività d’impresa”, in Fallimento, 2023, pp. 822 e ss., il quale osserva come l’obbligo di predisporre assetti organizzativi adeguati costituisca «condizione di legittimazione all’esercizio dell’attività di impresa in condizioni di equilibrio non soltanto patrimoniale, economico e finanziario, ma, prima ancora, di sostenibilità sociale». 
[8] 
L’obbligazione in parola non esaurisce i propri effetti nella sola fase genetico-costitutiva dell’attività d’impresa, ma andrà inderogabilmente adempiuta durante l’intero percorso atteso, adeguando gli schemi caratteristici alle mutevoli condizioni del mercato di riferimento, nonché alle evoluzioni dell’impresa stessa. Nello stesso senso, V. Di Cataldo, Assetti organizzativi della società per azioni e adeguatezza. Alcuni profili fin qui un po’ trascurati, in Giurisprudenza Commerciale, 2024, pp. 250 ss.: «Gli assetti si riferiscono ad una realtà dinamica quale è l’impresa, e l’impresa, a sua volta, si colloca in un mondo (il mercato) che evolve di continuo. Quindi (per quanto questo possa sembrare non espressamente previsto dalle norme) gli assetti dell’impresa devono evolvere in parallelo con l’evoluzione dell’impresa e del mercato. Modifiche della ‘natura’ e delle ‘dimensioni’ dell’impresa e modifiche del mercato in cui l’impresa opera impongono modifiche corrispondenti degli assetti». 
[9] 
L’adeguatezza degli assetti guarda alla molteplicità dei rischi che sono insiti nell’esercizio di un’attività economica. La prassi di riferimento UNI/PdR 167 del 1° agosto 2024 chiarisce infatti che «Un assetto adeguato deve prevedere strumenti e processi progettati per identificare, valutare e gestire i rischi in modo efficace. È, questo, un vero e proprio approccio strategico (risk based approach thinking) che consiste nel considerare i rischi come una parte centrale nel processo decisionale, piuttosto che come un’attività separata o un’addenda ai processi aziendali. Questo metodo consente di creare presidi in grado di dare alla governance gli strumenti per una valutazione consapevole dei rischi, ponendo così le basi per porre in atto strategie per mitigarli o gestirli in modo efficace». 
[10] 
Così A. M. Benedetti, Gli «assetti organizzativi adeguati» tra principi e clausole generali. Appunti sul nuovo art. 2086 c.c., in Riv. soc., 2023, p. 966. 
[11] 
Cfr. A. M. Benedetti, op.cit., p. 965 il quale, nel precisare che «le scelte organizzative non sono più rimesse all’autonomia, gerarchicamente declinata, dell’imprenditore», osserva come il legislatore, attraverso un percorso lungo e articolato, abbia «‘socializzato’ la crisi dell’impresa, come se quest’ultima dovesse intendersi come un ‘complesso economico funzionante destinato alla duratura produzione di valore economico’». 
[12] 
Nel contesto del codice della crisi si trovano alcuni esempi nei quali l’imprenditore/debitore è chiamato a (ri)orientare i propri doveri gestori (processo noto come shifting duty). Si pensi, a mero titolo esemplificativo, ai precetti contenuti negli artt. 4, comma 2, lett. c); 16, comma 4; 21, comma 1 e 64 bis, comma 5, CCI. Per un quadro comparatistico sui doveri degli organi di gestione di imprese in crisi si rinvia F. Brizzi, Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Torino, 2015, pp. 71 ss. 
[13] 
G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, Milano, 1956, p. 37. 
[14] 
Sui contorni non esattamente determinati dell’obbligazione de qua v. P. Montalenti, Diritto dell’impresa in crisi, diritto societario concorsuale, diritto societario della crisi: appunti, in Giurisprudenza commerciale, 2018, pp. 62 ss. e Id, Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, cit., p. 21. Sui profili di indeterminatezza di alcune disposizioni nel diritto commerciale si rinvia alle riflessioni di M. Cian, Il diritto commerciale e le (altre?) scienze, in Riv. dir. civ., 2022, I, pp. 1093 ss., spec. 1097, ove osserva come: «in questa materia rivestono un ruolo non secondario le regole che si rifanno a concetti e parametri valutativi di carattere generale (l’interesse, la diligenza, l’indipendenza, l’abuso, l’adeguatezza, la correttezza, per citarne solo alcuni), concetti la ragione della cui presenza nel sistema è la complessità dei modi di organizzazione e di esercizio dell’impresa, che non consente la predeterminazione normativa di specifici comportamenti dovuti». 
[15] 
In verità, le norme di comportamento e la prassi di riferimento - pur attraverso un angolo visuale dedicato - offrono un significativo contributo all’inquadramento operativo degli stessi. Il riferimento corre (i) alle norme di comportamento del collegio sindacale di società quotate e non, emanate dal Cndcec, da ultimo, nel dicembre 2024; (ii) ai principi e alle raccomandazioni del codice di corporate governance, approvato dal Comitato corporate governance nel gennaio 2020; (iii) alla (già menzionata) prassi UNI/PdR 167 datata 1° agosto 2024, prodotta dall’Ente Nazionale Italiano di Unificazione in collaborazione con l’Odcec di Milano, dedicata alla “Definizione di criteri relativi ad un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile delle PMI”. 
[16] 
In applicazione a quello che viene definito un approccio situazionale (c.d. «contingency») ed in aperto contrasto con tesi volte a ritenere applicabili soluzioni valide in senso assoluto. In argomento si rinvia a P. Bastia, Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili nelle imprese: criteri di progettazione, in www.ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 2021, pp. 10 e 11 dove precisa come il paradigma contingency più importante, specialmente nelle imprese maggiori e senz’altro nei gruppi societari, sia quello noto come «strategia-struttura», a mente del quale la struttura organizzativa risulta «dipendente dal prescelto orientamento strategico». Per interessanti riflessioni in tema di assetti nei gruppi v. F. Guerrera, Assetti organizzativi di gruppo, forme di eterodirezione e regimi di responsabilità, in Riv. dir. soc., 2024, pp. 205 ss. 
[17] 
Cfr. P. Bastia, Gli adeguati assetti organizzativi amministrativi e contabili nelle imprese: criteri di progettazione, cit., passim, in particolare, p. 10. 
[18] 
Pare, infatti, difficilmente dubitabile come lo standard di diligenza esigibile nella gestione di una piccola realtà industriale non sia parificabile a quello richiesto all’amministratore delegato di una grande impresa multinazionale. 
[19] 
Per un’analisi approfondita dei profili strutturali e della dimensione operativa degli assetti organizzativi si rinvia a P. Bastia, Gestione della crisi e piani di risanamento aziendali, cit., pp. 405 e 406, ove precisa come i primi concernano essenzialmente: «(i) l’assetto delle deleghe e il conferimento dei poteri per i ruoli manageriali apicali, comprese le politiche, le linee guida, le direttive; (ii) la macrostruttura organizzativa (architettura delle funzioni e dei ruoli, ovvero dei principali processi inter-funzionali) e la microstruttura (precisazione dei contenuti di ciascuna funzione o ruolo, ovvero di specifiche attività) interne; (iii) la formalizzazione, anche grafica, dell’organigramma e del ‘funzionigramma’; (iv) l’architettura delle funzioni decentrate; (v) la normativa interna e la regolamentazione, sviluppate per aree funzionali e per processi gestionali, variamente deliberate ed emanate dagli organi apicali dell’azienda: policy, protocolli, procedure formali, linee guida, regolamenti, principi interni, direttive, ordini di servizio, circolari interne; (vi) il modello organizzativo ai sensi del d. lgs. n. 231/2001, parte generale e parte speciale, con i vari protocolli e con il codice etico; (vii) la struttura degli obiettivi (gestionali ed economici) e delle responsabilità per ciascun ruolo, con la precisazione delle sfere di controllabilità (aree, risorse, attività, variabili economiche presidiabili); (viii) la configurazione e la mappatura dei processi operativi interni, secondo linee orizzontali e verticali, volti ad assicurare l’integrazione manageriale e operativa; (ix) i mansionari e le job descriptions; (x) l’information technology e la rete informativa infrastrutturale al servizio della conoscenza e delle decisioni dei vertici e del management aziendale». Con riferimento ai meccanismi di funzionamento dei citati elementi strutturali (la c.d. dimensione operativa) il medesimo Autore, inter alia, indica: (i) i sistemi di controllo interno ed i loro meccanismi di funzionamento; (ii) il sistema di reporting manageriale; (iii) vari meccanismi di coordinamento; (iv) relazioni di verifica, conformità e/o rapporti ispettivi. 
[20] 
In argomento v. M. Irrera, Adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile, in Trattato delle Società, diretto da V. Donativi, III, 2022, p. 1562. 
[21] 
Come già correttamente osservato anche da P. Bastia, E. Ricciardiello, Gli adeguati assetti organizzativi funzionali alla tempestiva rilevazione e gestione della crisi: tra principi generali e scienza aziendale, in Banca Impresa Società, 2020, pp. 23 e 24. 
[22] 
Sostiene un certo livello di commistione tra gli «assetti amministrativi» e quelli «contabili» A. Panizza, Adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili: aspetti (teorici ed) operativi, in www.ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 2021, p. 17: «Gli assetti amministrativi e contabili, di fatto, rappresentano sottosistemi dei più ampi assetti organizzativi che consentono di determinare e verificare, a livello previsionale e/o consuntivo l’andamento della gestione e i risultati dalla stessa prodotti in termini economico-finanziari, favorendo la tempestiva rilevazione di situazione di crisi e perdita di continuità aziendale». In argomento v. anche Cndcec, Norme di Comportamento del Collegio Sindacale di Società Non Quotate, dicembre 2024, in particolare sub § 3.7 “Vigilanza sull’adeguatezza e sul funzionamento del sistema amministrativo-contabile” dove viene precisato come: «Un sistema amministrativo-contabile risulta adeguato se permette: la completa, tempestiva e attendibile rilevazione contabile e rappresentazione dei fatti di gestione; la produzione di informazioni valide e utili per le scelte di gestione e per la salvaguardia del patrimonio aziendale; la produzione di dati attendibili per la formazione dell’informativa societaria». 
[23] 
In argomento v. M. Irrera, Adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile, cit., p. 1563. Per un approfondimento sui (più evoluti) profili di managerial accounting, anche in funzione di tenuta della contabilità analitica, v. P. Bastia, Gestione della crisi e piani di risanamento aziendali, cit., pp. 409 e 415. 
[24] 
L’art. 377 CCII, seguito poi dalle novelle portate dall’art. 40, D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147, nonché dall’art. 6, D.Lgs. 8 novembre 2021, n. 183, ha modificato simmetricamente (non senza creare alcuni profili di complessità interpretativa) gli artt. 2257, 2380 bis, 2409 novies e 2475 c.c. ed introdotto, ex novo, un sesto comma a tale ultimo articolo. Oggi, dunque, i primi commi dei citati quattro articoli del codice civile riportano - all’inizio (artt. 2257 e 2475) o alla fine (artt. 2380 bis e 2409 novies) - l’identica frase «L’istituzione degli assetti di cui all’articolo 2086, secondo comma, spetta esclusivamente agli amministratori». Nell’art. 2409-novies c.c. il riferimento non è agli amministratori, ma al consiglio di gestione. Per maggiori approfondimenti, si rinvia a V. Calandra Buonaura, Amministratori e gestione dell’impresa nel codice della crisi, in Crisi d’impresa. Prevenzione e gestione dei rischi: nuovo codice e nuova cultura, P. Montalenti e M. Notari (a cura di), Quad. Giur. comm., 2021, pp. 36 e ss. 
[25] 
Ove viene espressamente previsto che «Gli organi delegati curano che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa». 
[26] 
In argomento v. le riflessioni di A. Briguglio, Il principio di esclusività in materia di assetti adeguati alla luce del complessivo intervento di riforma del codice della crisi di impresa, in Governance e mercati. Studi in onore di Paolo Montalenti, M. Callegari, S. A. Cerrato e E. R. Desana (a cura di), Torino, 2022, p. 1768, il quale osserva che «la definizione degli assetti è compito precipuo degli organi delegati, mentre al consiglio spetta un compito valutativo, che sarebbe da affiancare al dovere di vigilanza affidato all’organo di controllo ex art. 2403 c.c. Fermo resta, dunque, che l’assegnazione agli organi esecutivi del compito di curare gli assetti adeguati non va minimamente intesa come una deresponsabilizzazione degli amministratori non esecutivi». Per un obbligo esteso a tutti i consiglieri v., tra gli altri, P. Riva, G. Corno, Doveri e responsabilità degli amministratori e sindaci. Il calcolo del danno, in Ruolo di Corporate Governance, P. Riva (a cura di), Milano, 2023, p. 155: «Grava su tutti (n.d.r.) i consiglieri di amministrazione, ivi compresi quelli non esecutivi o privi di delega, il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, come pure tutti gli altri doveri sopra ricordati». 
[27] 
Nel citato quadro, il dovere di istituzione di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili - espressamente (ma, all’evidenza, non esclusivamente) votati alla «rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale» - ricopre un ruolo tanto determinate nel processo di programmazione costitutiva e successiva esecuzione dell’attività d’impresa, che parrebbe non potersi escludere a priori che lo stesso risulti in grado di coinvolgere (in ipotesi di imprenditore atteso operare in forma societaria) le determinazioni tra i soci in fase di strutturazione delle disposizioni statutarie o di revisione delle stesse su proposta dell’organo amministrativo. A mero titolo esemplificativo si immaginino le possibili valutazioni riferite all’adeguatezza, rispetto alla natura e dimensioni del business caratteristico, delle differenti opzioni di amministrazione (i.e. monocratica o collegiale) oppure di controllo (si pensi, nel tipo s.r.l., all’alternativa posta dall’art. 2477 c.c. tra la nomina del collegio sindacale o del revisore legale e sulla quale si tornerà infra sub §8). In argomento v. G. Riolfo, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza e le modifiche al codice civile: il diritto societario tra “rivisitazione” e “restaurazione”, in Contratto e impresa, 2019, pp. 406 e ss. ove ritiene che «incomba anzitutto ai soci stessi (in qualunque tipo società) predisporre lo statuto in modo tale da prefigurare una organizzazione interna funzionale a consentire poi agli amministratori, nell’esercizio delle loro competenze, di realizzare e mantenere assetti adeguati. In altre parole, la cornice statutaria (la cui predisposizione spetta ai soci) dovrebbe poter fungere da contesto generale all’interno del quale poi strutturare (ad opera dell’organo gestorio ed in concreto) le forme di organizzazione più idonee (in relazione alla natura dell’impresa, al settore di attività, all’oggetto dell’attività, ai particolari interessi perseguiti, e così via). Quindi, i primi «organizzatori» sarebbero i soci». In questo senso, prosegue l’Autore «Agli amministratori, nella concreta strutturazione degli assetti, dovrebbe essere poi richiesto anche di comunicare all’assemblea l’eventuale non idoneità di scelte statutarie laddove queste impediscano la predisposizione di assetti adeguati (anche ai fini dell’emersione dei sintomi di crisi). È vero che se i soci restassero inerti non sarebbero comunque ‘sanzionabili’ ma gli amministratori potrebbero far valere una causa di esonero di responsabilità (aver avvertito i soci che l’organizzazione societaria prefigurata nello statuto non consente l’adozione di ‘migliori’ assetti i quali, proprio per ciò, potrebbero rivelarsi inadeguati)». 
[28] 
Ciò, ben inteso, sull’assunto che l’impianto delle deleghe risulti adeguato a mettere in condizione gli stessi di avere idoneo accesso al dato informativo. 
[29] 
L’eventuale successiva fase di valutazione riferita all’operato dei delegati in sede giudiziale poggia su consolidati criteri in tema di responsabilità omissiva o commissiva e, più in generale, sugli ordinari criteri d’imputazione dell’inadempimento. Ciò comporterà, in ipotesi, ed impregiudicata ogni possibile ripartizione all’interno della categoria degli esecutivi in ragione delle funzioni in concreto attribuite ad uno o più di loro, un onere della prova ripartito in coerenza all’azione eventualmente esperita (i.e. artt. 2393, 2394 o 2395 c.c.). 
[30] 
O. Cagnasso, Inquadramento del tema, in Diritto ed economia dell’impresa, 2024, pp. 134 e 135 richiama, in modo efficace, l’immagine di una «sorta di ping-pong tra l’art. 3 primo-secondo comma e l’art. 2086, secondo comma, e poi tra gli altri due commi dell’art. 3 e i primi due commi». In particolare, l’art. 3, comma 3, CCI, stabilisce come il sistema degli assetti debba «consentire di: a) rilevare eventuali squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore; b) verificare la sostenibilità̀ dei debiti e le prospettive di continuità aziendale almeno per i dodici mesi successivi e rilevare i segnali di cui al comma quarto; c) ricavare le informazioni necessarie a utilizzare la lista di controllo particolareggiata e a effettuare il test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento di cui all’articolo 13, al comma 2». Il legislatore, attraverso il D.Lgs. 136/2024, ha inoltre introdotto una lieve modifica all’art. 3, comma 4, CCI, precisando come costituiscano «segnali che, anche prima dell’emersione della crisi o dell’insolvenza, agevolano la previsione di cui al comma 3: a) l esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno trenta giorni pari a oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni; b) l’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno novanta giorni di ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti; c) l’esistenza di esposizioni nei confronti delle banche e degli altri intermediari finanziari che siano scadute da più di sessanta giorni o che abbiano superato da almeno sessanta giorni il limite degli affidamenti ottenuti in qualunque forma purché rappresentino complessivamente almeno il cinque per cento del totale delle esposizioni; d) l’esistenza di una o più delle esposizioni debitorie previste dall’articolo 25-novies, comma 1». L’obiettivo, acceleratorio, risulta quello di sottolineare come tali «segnali» debbano essere considerati anche prima dell’emersione della crisi, al fine di scongiurare il sopraggiungere dell’insorgenza. In tal senso, v. O. Cagnasso, I principi generali. L’adeguatezza delle misure e degli assetti, in Crisi ed Insolvenza dopo il Correttivo ter, M. Irrera e S. Cerrato (a cura di), 2024, p. 53. La relazione illustrativa al recente D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136 conferma come, in tale contesto, l’intento del legislatore delegato, in sede di attuazione della Direttiva Insolvency, debba considerarsi «finalizzato a fornire all’imprenditore strumenti di monitoraggio della propria attività non solo tramite l’adozione di misure idonee di rilevazione della crisi già in atto ma anche con l’individuazione di segnali che, se considerati e valutati tempestivamente, consentono di evitare la situazione di difficoltà. In definitiva, l’imprenditore che si muove secondo le indicazioni fornite, agendo costantemente in via preventiva, evita la crisi e, se non vi riesce, ha maggiori possibilità di perseguire con successo il proprio risanamento». 
[31] 
In considerazione dei limiti delle presenti note, le riflessioni che seguiranno intendono riferirsi ad un impianto di governance di tipo tradizionale - tipicamente caratterizzante le società azionarie o le s.r.l. di stampo capitalistico - nelle quali venga istituto un organo gestorio collegiale e prevista l’attribuzione di deleghe estese. Non verranno indagati, a mero titolo esemplificativo, i profili collegati a società bancarie, assicurative, di gestione del risparmio o a quelle che fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio ai sensi dell’art. 2325-bis c.c. Per una approfondita indagine in materia di amministrazione della società per azioni e relativi controlli interni v. P. Montalenti, Amministrazione e controllo nella società per azioni: riflessioni sistematiche e proposte di riforma, in Riv. soc.., 2013, pp. 42 ss. 
[32] 
La ratio della vigente disciplina nasce con l’intento di escludere ogni forma di responsabilità da posizione (o responsabilità oggettiva) a carico degli amministratori non delegati. Ante D.Lgs. 6/2003 non era infatti infrequente che agli amministratori deleganti fosse attribuita una responsabilità per fatto o colpa dei delegati, a titolo di culpa in vigilando, sia in relazione ad uno specifico evento, sia con riguardo al generale andamento della gestione. Per approfondimenti si rinvia a A. Rossi, Responsabilità degli amministratori verso la società per azioni, in La Responsabilità di amministratori, sindaci e revisori contabili, S. Ambrosini (a cura di), Milano, 2007, p. 23, il quale rileva che «tra gli obiettivi deliberatamente perseguiti, il legislatore si è posto anche quello di evitare ‘indebite estensioni’ della responsabilità solidale degli amministratori, ‘che, soprattutto nell’esperienza delle azioni esperite da procedure concorsuali, finiva per trasformarla in una responsabilità sostanzialmente oggettiva’». In giurisprudenza v., tra le altre, Cass. civ., 31 agosto 2016, n. 17441, in Giur. comm., 2017, pp. 835 ss.: «In virtù della modifica dell’art. 2392 c.c. avvenuta a seguito della riforma delle società di capitali del 2003, gli amministratori privi di deleghe (cd. Non operativi) non sono più sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilità oggettiva, per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di quest’ultimi in virtù della conoscenza – o della possibilità di conoscenza, per il loro dovere di agire informati ex art. 2381 c.c. – di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze». In coerenza a quanto precede, l’art. 2392 c.c. esclude oggi dall’applicazione del principio solidaristico nello stesso sancito non solo le «attribuzioni proprie del comitato esecutivo»ma, altresì, anche le «funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori». Le funzioni «in concreto attribuite» non necessitano di investitura formale; esse possono riferirsi ad attività compiute in via di fatto da consiglieri, anche senza la conoscenza degli altri membri dell’organo gestorio (ferma la disciplina di cui all’art. 2384 c.c.). Sul punto v. L. De Angelis, La responsabilità degli amministratori non esecutivi e degli organi di controllo con riguardo agli assetti societari, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2022, p. 9. 
[33] 
Il potere-dovere di «agire in modo informato» caratterizza trasversalmente tutto l’organo gestorio, declinandosi: (i) nel dovere di informare (proprio dei delegati); (ii) nel dovere di informarsi (proprio del consiglio di amministrazione e, quindi, anche dei deleganti); (iii) nel far informare (proprio del presidente). Cfr. M. L. Vitali, Riflessioni in tema di responsabilità degli amministratori senza deleghe, in Riv. dir. soc., 2016, p. 415. 
[34] 
Così L. De Angelis, op.cit., p. 16. In argomento v. anche le condivisibili riflessioni di D. Galletti, La responsabilità del sindaco al crocevia della causalità omissiva: prove tecniche nell’attesa del Codice della Crisi, in Società, 2021, p. 749 secondo il quale si impongono «obblighi attivi e ‘riflessivi’ di informazione, che nascono là dove le informazioni fornite siano inesistenti, oppure appaiano insufficienti». 
[35] 
Sulla condotta dei deleganti v., tra gli altri, Trib. Napoli, 18 maggio 2022, in Giurisprudenzadelleimprese.it.: «La qualifica di amministratore delegante non consente l’assunzione di un atteggiamento meramente passivo che si pone in contrasto con il dovere di agire in modo informato. Il diritto di matrice individuale di cui al comma sesto dell’art. 2381 c.c. consente a ciascun consigliere di poter svolgere le proprie funzioni in modo consapevole, è direttamente correlato al dovere degli amministratori delegati di rendere in sede consiliare le informazioni richieste, e si configura come ‘dovere’ ogniqualvolta la sua attivazione sia strumentale all’adempimento dell’obbligo di agire in modo informato, obbligo dal cui inadempimento può, inoltre, scaturire un’autonoma e specifica responsabilità». 
[36] 
Il riferimento continua ad essere l’art. 2381, comma 6, c.c., nella parte in cui precisa come l’amministratore privo di delega sia dotato del potere-dovere di «chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione». Tale passaggio ha portato ad escludere che i componenti non delegati possano attingere ad informazioni direttamente dalla struttura societaria. Ciò comporta un evidente gap informativo rispetto ai soggetti delegati, con inevitabili corollari in termini di (differente) responsabilità. Per più ampi riferimenti v. P. Montalenti, La corporate governance nella società per azioni: profili generali, in Trattato delle società, cit., p. 1196; G. Barbara, Flussi informativi endoconsiliari e interorganici, ibidem, p. 1580 e U. Tombari, Riflessioni sulle “funzioni” degli amministratori “non esecutivi” e sull’ “amministrazione” nella S.p.A. quotata, in Riv. dir. soc., 2020, pp. 328 ss.; in senso contrario V. Salafia, Amministratori senza deleghe fra vecchio e nuovo diritto societario, in Società, 2006, p. 292: «Osservo, però, che la stessa sollecitazione rivolta al delegato perché fornisca informazioni al consiglio presuppone un potere di ispezione del consigliere non operativo, il cui esercizio gli abbia consentito di verificare anomalie o irregolarità o di nutrire dubbi. Senza questo potere ispettivo, mi sembrerebbe del tutto privo di consistenza e giustificato solo da una gratuita curiosità l’interpello del delegato, perché dia informazioni al consiglio. L’identificazione del delegato, come unico organo che possa essere inviato a riferire al consiglio su determinati atti della gestione, è giustificato dal rilievo che a lui incombe la responsabilità della gestione e, quindi, solo a lui e non ai suoi dipendenti spetta mettersi in rapporto con il consiglio, per quanto riguarda gli atti dell’amministrazione. Ciò, tuttavia, non mi sembra che possa condurre pacificamente ad escludere il potere degli amministratori non operativi di assumere informazioni anche presso i dirigenti della struttura». 
[37] 
L’informazione fornita dai delegati non dovrà limitarsi ad una rappresentazione statica che guarda a una sintesi dei fatti di gestione già manifestatasi, ma sarà chiamata a svilupparsi in una prospettiva dinamica, dovendo far riferimento alla «prevedibile evoluzione» della gestione. L’aggettivo «prevedibile» impone agli amministratori delegati di fornire un quadro predittivo dell’andamento della gestione che si dimostri coerente con lo stato dell’impresa e che tenga conto, nei limiti del possibile, anche dei probabili andamenti del mercato in cui opera la stessa. In argomento v. G. Barbara, Flussi informativi endoconsiliari e interorganici, cit., p. 1603. 
[38] 
Il presidente del consiglio di amministrazione riveste il ruolo di vero e proprio enzima a servizio dell’efficacia dei flussi informativi. In argomento v. G. Barbara, Flussi informativi endoconsiliari e interorganici, cit., p. 1611. 
[39] 
In argomento si segnalano P. Montalenti, F. Riganti, La responsabilità degli amministratori non esecutivi, in Le azioni di responsabilità nelle società di capitali, M. De Poli e G. Romagnoli (a cura di), Pisa, 2024, pp. 100 e 101, i quali registrano, in modo condivisibile, come il consigliere delegante possa trovarsi «fisiologicamente in una situazione di asimmetrica informativa [...] anche se questo dato, quasi banale, della realtà d’impresa spesso viene dimenticato. L’amministratore non esecutivo, che non vive la quotidianità aziendale, che non ha dialogo diretto con la struttura, che non dispone di poteri informativi diretti (arg. ex art. 2381, comma 6, c.c.), che esplica la propria funzione gestoria e di indirizzo strategico nell’hortus clausus del consiglio, con le scadenze – mensili o trimestrali – delle riunioni, ha un unico strumento operativo che è, appunto, l’informativa ricevuta in consiglio». 
[40] 
Nel silenzio dell’art. 2381 c.c., la revoca della delega attribuita all’amministratore delegato, decisa dal consiglio di amministrazione, si ritiene debba essere assistita da giusta causa, sussistendo, in caso contrario, il diritto del revocato al risarcimento dei danni eventualmente patiti. Sul punto si segnalano gli arresti di Cass. civ., 15 aprile 2016, n. 7587, in OneLegale; Cass. civ., 25 febbraio 2020, n. 4954, in Giur. comm., 2021, pp. 100 e ss. con nota di O. Cagnasso e Trib. Milano, 19 maggio 2021, con nota di M. L. Micucci, Sulla giusta causa di revoca della delega gestoria nella s.p.a., in Riv. dir. soc., 2023, pp. 347 e ss. 
[41] 
Da leggere quale ulteriore conferma della competenza concorrente e sovraordinata del consiglio di amministrazione in tema di materie delegate, finalizzata ad indirizzare l’agire dei delegati al perseguimento di determinati fini stabiliti collegialmente. In argomento si rinvia a V. De Sensi, Adeguati assetti organizzativi e continuità aziendale: profili di responsabilità gestoria, in Riv. soc., 2017, pp. 311 ss. e M. L. Vitali, op.loc.cit., ove osserva come: «le previsioni dell’art. 2381 c.c. contribuiscono a qualificare il sistema di flussi informativi attraverso [...] la previsione, infine, di un ‘arsenale’, differenziato e progressivamente più intenso, di strumenti per incidere sul modello della delega (determinazione dei suoi contenuti, delle modalità di esercizio, potere di impartire istruzioni e di avocare operazioni oggetto di delega) che risulta funzionale a confermare, da una parte, la natura ‘derivata’ della delega rispetto al consiglio di amministrazione e a sottolineare, dall’altra parte, il ruolo necessariamente attivo che è ora richiesto in capo ai deleganti nei confronti dei delegati». 
[42] 
Come noto, la responsabilità all’interno dell’organo gestorio va parametrata e graduata in correlazione alla natura degli incarichi conferiti (si pensi, nuovamente, alle distinte attività operate dai soggetti esecutivi rispetto a quelli privi di delega), nonché sulla base delle cognizioni tecniche di ciascun membro, il quale sarà chiamato ad uno sforzo commisurato alle sue più elevate conoscenze e capacità. Sui differenti elementi qualificanti la diligenza v. L. De Angelis, op.cit., pp. 6-9; per un approfondimento sulle specifiche competenze v. F. Briolini, Riflessioni in materia di «specifiche competenze», Business Judgment Rule ed estensione della responsabilità degli amministratori di società di capitali (parte prima), in Riv. soc., 2024, pp. 29 ss. 
[43] 
L’adeguatezza dei citati flussi andrà misurata sia quali-quantitativamente, con riferimento alla comprensibilità, pertinenza e misura complessiva del dato veicolato (il quale dovrà essere congruo al contesto di riferimento, per evitare un processo di disinformazione tanto per eccesso che per difetto di dettaglio), sia sotto un profilo temporale, nel senso di garantire tempestiva emersione dei differenti fenomeni, al fine di alimentare il flusso informativo in modo continuo e circolare. In argomento si rinvia nuovamente a G. Barbara, Flussi informativi endoconsiliari e interorganici, cit., pp. 1576 ss. 
[44] 
A loro volta gli assetti potranno dirsi adeguati nella misura in cui garantiscano (anche) che le informazioni circolino in modo efficace, puntuale ed esaustivo. Sul punto v. le riflessioni di P. Montalenti, La corporate governance nella società per azioni: profili generali, cit., p. 1196 il quale osserva come: «L’informazione è altresì puntualmente finalizzata alla valutazione dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile, alla disamina – rectius, a mio parere approvazione – dei piani strategici, alla valutazione dell’andamento generale della gestione». 
[45] 
In altre parole, dovrà misurarsi con attenzione, dapprima, l’effettiva esistenza di segnali d’allarme e, successivamente, la percepibilità (ex ante) degli stessi da parte dei deleganti, e ciò avuto preciso riguardo al pacchetto informativo ricevuto in sede consiliare, nonché a quello eventualmente richiedibile attraverso la funzione istruttoria del presidente del consiglio di amministrazione. In giurisprudenza v. Cass. civ., 22 giugno 2020, n. 12108, in DeJure: «L’obbligo di agire informati, che grava sugli amministratori non esecutivi che compongono il CdA, rinvenibile nell’art. 2381 c.c., comma 5, non è rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business della società, ed essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace delle aree di rischio della società, e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio continuo sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega». 
[46] 
Cfr. M. Rescigno, La responsabilità gestoria: profili generali, in Le società a responsabilità limitata, C. Ibba e G. Marasà (a cura di), II, Padova, 2012, p. 1776, ove sottolinea come non possa essere «considerato diligente l’amministratore che, nel compiere atti di gestione, non acquisisce le conoscenze e le informazioni necessarie per una scelta consapevole». 
[47] 
In argomento v. Cass. civ., 31 ottobre 2023, n. 30233, in OneLegale; Cass. civ., 31 agosto 2016, n. 17441, cit. a cui rinvia anche Cass. civ., 29 maggio 2024, n. 15054, in DeJure: «Ne deriva che gli amministratori non operativi rispondono per non aver impedito fatti pregiudizievoli dei quali abbiano acquisito in positivo conoscenza ovvero dei quali debbano acquisire conoscenza, di propria iniziativa, ai sensi dell’obbligo posto dall’ultimo comma dell’articolo 2381c.c. (cfr. Cass. 17441/2016)». 
[48] 
In argomento, ex multis, si segnalano Cass. civ., 16 maggio 2022, n. 15585, in OneLegale; Appello Milano, 10 giugno 2019, in Giurisprudenzadelleimprese.it. e Trib. Milano, 31 ottobre 2016, in Giurisprudenzadelleimprese.it
[49] 
Per una presunzione di attendibilità v. P. Montalenti, F. Riganti, op.cit., p. 101: «il dovere di informare posto in capo al Presidente e agli amministratori delegati crea per i deleganti una ‘presunzione di attendibilità’ delle informazioni ricevute». 
[50] 
Impregiudicata, ben inteso, l’impostazione che vuole la responsabilità degli amministratori privi di deleghe operative non discendere da una generica condotta di omessa vigilanza o culpa in vigilando, tale da trasmodare - nei fatti - in responsabilità oggettiva, quanto piuttosto ad una violazione specifica del dovere di «agire in modo informato». 
[51] 
Ancor più grave, proseguendo nell’esemplificazione, la condotta di quel plenum che, nelle more dell’approvazione della versione definitiva del menzionato piano, non chieda di verificare le evidenze consuntive pro tempore maturate (rispetto a quelle pianificate), ignorando le evidenze del current trading. In tal caso, in ipotesi di sopravvenute distonie o gap di performance - anche generate da motivazioni esogene - l’intero consiglio potrà risultare responsabile per i danni arrecati al patrimonio sociale, qualora non abbia provveduto ad introdurre tempestivamente adeguati mitigant o correttivi. 
[52] 
Cfr. G. Meruzzi, Il riparto di responsabilità per inadeguatezza organizzativa, in Le azioni di responsabilità nelle società di capitali, cit., p. 33. 
Nell’ambito delle società con azioni quotate sul Mercato Telematico Azionario gestito da Borsa Italiana le Raccomandazioni 16 e 17 in calce all’art. 3 del Codice di Corporate Governance 2020, dispongono che «L’organo di amministrazione istituisce al proprio interno comitati con funzioni istruttorie, propositive e consultive, in materia di nomine, remunerazioni e controllo e rischi. Le funzioni che il Codice attribuisce ai comitati possono essere distribuite in modo differente o accorpate anche in un solo comitato, purché sia fornita adeguata informativa sui compiti e sulle attività svolte per ciascuna delle funzioni attribuite e siano rispettate le raccomandazioni del Codice per la composizione dei relativi comitati [...] L’organo di amministrazione definisce i compiti dei comitati e ne determina la composizione, privilegiando la competenza e l’esperienza dei relativi componenti ed evitando, nelle società grandi, una eccessiva concentrazione di incarichi in tale ambito». 
[53] 
Volendo tentare un sintesi dell’istituto in parola può venire in soccorso Wex, il dizionario legale e l’enciclopedia giuridica gratuita sponsorizzata e ospitata dal Legal Information Institute della Cornell Law School, agilmente consultabile su https://www.law.cornell.edu/wex/business_judgment_rule: «The business judgment rule provides a director of a corporation immunity from liability when a plaintiff sues on grounds that the director violated the duty of care to the corporation so long as the director’s actions fall within the parameters of the rule. In suits alleging a corporation’s director violated their duty of care to the company, courts will evaluate the case based on the business judgment rule. Under this standard, a court will uphold the decisions of a director as long as they are made (1) in good faith, (2) with the care that a reasonably prudent person would use, and (3) with the reasonable belief that the director is acting in the best interests of the corporation. Practically, the business judgment rule is a presumption in favor of the board. As such, it is sometimes referred to as the ‘business judgment presumption.’ There are a number of ways to defeat the business judgment rule. If the plaintiff can prove that the director acted in gross negligence or bad faith, then the court will not uphold the business judgment rule. Similarly, if the plaintiff can prove that the director had a conflict of interest, then the court will not uphold the business judgment rule. When the corporation pleads the business judgment rule, if the court finds that the rule applies, then the burden of proof shifts to the plaintiff to prove that the business judgment rule does not apply. However, if the court finds that the rule does not apply, the burden shifts against and the board must prove that the process and the substance of the transaction was fair». La letteratura in punto di business judgment rule è vastissima. Sul significato sistematico della stessa e per più ampi riferimenti si rinvia a E. Barcellona, Business Judgment Rule e interesse sociale nella “crisi”, cit. 
[54] 
In giurisprudenza cfr. ex multis Cass. Civ., 22 giugno 2017, n. 15470, in OneLegale (ripresa anche da Cass. civ., 22 ottobre 2020, n. 23171, in OneLegale): «in tema di responsabilità dell’amministratore di una società di capitali (nella specie, per azioni) per i danni cagionati alla società amministrata, l’insindacabilità del merito delle sue scelte di gestione (cd. business judgement rute) trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia ex ante, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell’art. 2392 c.c. (nel testo applicabile ratione temporis), sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere». 
[55] 
Per maggiori approfondimenti si rinvia alle considerazioni di M. Irrera, Adeguatezza degli assetti organizzativi tra correttezza e business judgment rule, in Crisi d’impresa. Prevenzione e gestione dei rischi: nuovo codice e nuova cultura, P. Montalenti e M. Notari (a cura di), Quad. Giur. comm., 2021, p. 86: «La BJR si può considerare ius receptum negli ordinamenti dell’Europa continentale e nei paesi anglosassoni, seppure l’applicazione della regola in concreto sia tutt’altro che uniforme»; G. Barbara, La responsabilità da assetti organizzativi inadeguati, la Business Judgment Rule e le categorie civilistiche tradizionali, in Il nuovo diritto delle società, 2021, p. 1833 solleva «alcuni interrogativi sull’applicabilità nel nostro ordinamento della BJR, regola giurisprudenziale di importazione anglosassone che, discutibile e discussa anche nella patria di origine, stenta a sedimentarsi nel nostro ordinamento, scontrandosi con un diritto che già contempla, e da tempo, gli strumenti per tutelare in modo soddisfacente gli interessi in gioco» sottolineando come sia «comune l’affermazione secondo cui la regola, pur svolgendo funzioni imprescindibili in un sistema capitalistico moderno, non sia stata recepita negli ordinamenti moderni allo stesso modo e soprattutto con la medesima ampiezza» e L. Renna, Responsabilità degli amministratori di società di capitali, Torino, 2021, p. 168, secondo cui: «la business judgement rule crea più problemi di quelli che dovrebbe risolvere e non è un caso, forse, che già nel commento alla Sezione 8.31 del MBCA si sottolinea che ‘Because the elements of the business judgement rule and the circumstances for its application are continuing to be developed by the courts, it would not be desirable to freeze the concept in a statute’». 
[56] 
Cfr. tuttavia D.M. Branson, The rule that isn’t a rule – the business judgement rule, in Valparaiso University Law Review, 3, 2002, p. 631: «The much misunderstood business judgement rule is not a ‘rule’ at all. It has no mandatory content. It involves no substantive ‘do’ s’ or ‘don’ts’ for corporate directors or officers. Instead, it is a standard of judicial review, entailing only slight review of business decisions. Alternatively, it could be called a standard of nonreview, entailing no review of the merits of a business decision corporate officials have made». 
[57] 
Per maggiori approfondimenti v. C. Angelici, Interesse sociale e Business Judgment Rule, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2012, pp. 573 e ss. e G. Bozza, Diligenza e responsabilità degli amministratori di società in crisi, in Fallimento, 2014, pp. 1097 ss. 
[58] 
In argomento, ex multis, v. Cass. civ., 22 ottobre 2020, n. 23171, cit. e Cass. civ., 31 agosto 2016, n. 17441, cit. Quanto alle posizioni della giurisprudenza di merito si riportano alcuni passaggi argomentativi di Trib. Milano, 28 giugno 2021, in Giurisprudenzadelleimprese.it.: «In base al principio ‘business judgement rule’ la convenienza delle scelte di gestione adottate dagli amministratori e dai liquidatori di società è tendenzialmente insindacabile in sede giudiziale, salvo la manifesta irragionevolezza delle stesse, desumibile dal fatto che l’amministratore non abbia usato le necessarie cautele e assunto le informazioni rilevanti. Si tratta di una valutazione da condurre necessariamente ex ante, non potendosi affermare l’irragionevolezza di una decisione dell’amministratore per il solo fatto che essa si sia rivelata ex post economicamente svantaggiosa per la società. In particolare, non può essere ritenuto responsabile l’amministratore o il liquidatore che, prima di adottare la scelta gestoria contestata, si sia legittimamente affidato all’ausilio di figure professionali specializzate» e Trib. Torino, 29 settembre 2020, in Giurisprudenzadelleimprese.it.: «La regola dell’insindacabilità delle scelte gestorie degli amministratori di società di capitali (cd business judgement rule - BJR), non consente di valutare nel merito gli atti di gestione compiuti dall’amministratore. In realtà, la BJR opera esclusivamente quando le decisioni operative sono assunte secondo i principi di corretta gestione societaria e, esemplificando, quando gli atti di gestione (i) sono conformi alla legge e allo statuto sociale, (ii) non sono contaminati da situazioni di conflitto di interesse dei gestori, (iii) sono assunti all’esito di un procedimento di assunzione di informazioni propedeutiche alla decisione gestoria all’incidenza sul patrimonio dell’impresa e (iv) sono razionalmente coerenti con le informazioni e le aspettative di risultato emerse dal procedimento istruttorio». 
[59] 
Così C. Hansen,The ALI Corporate Governance Project: of the Duty of Due Care and the Business Judgment Rule, a Commentary, in 41, Business Lawyer (1986), pp. 1237 e 1241, citato da M. Irrera, Adeguatezza degli assetti organizzativi tra correttezza e business judgment rule, cit., p. 89, nt. 17. 
[60] 
Cfr. Trib. Roma, 8 aprile 2020 in Società, 2020, con nota di A. Bartalena, Assetti organizzativi e business judgement rule: «la scelta organizzativa rimane pur sempre una scelta afferente il merito gestorio, per la quale vale il criterio della insindacabilità», nei limiti in cui «la scelta sia razionale (o ragionevole), non sia ab origine connotata da imprudenza tenuto conto del contesto e sia stata accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico». Il tribunale capitolino ha ritenuto certamente sanzionabile «la mancata adozione di qualsivoglia misura organizzativa», precisando tuttavia come «non potrà ritenersi responsabile l’amministratore che abbia predisposto delle misure organizzative che, con una valutazione ex ante, erano adeguate, secondo le sue conoscenze e secondo gli elementi a sua disposizione, a verificare tempestivamente la perdita della continuità aziendale»; e così «parimenti, non potrà ritenersi responsabile l’amministratore che, pur avendo tempestivamente rilevato - grazie alla struttura organizzativa predisposta - il venir meno della continuità aziendale - ponga in essere degli interventi che, solo successivamente, si rivelino inutili ad evitare la degenerazione della crisi (ed eventualmente la liquidazione giudiziale della società), qualora tali interventi - sempre sulla base di una valutazione ex ante - non risultino manifestamente irrazionali ed ingiustificati». Nello stesso senso anche Trib. Roma, 15 settembre 2020, in Società, 2021, p. 239, ove ha espressamente affermato che «la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l’oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell’impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere». In argomento v. anche Trib. Milano 10 settembre 2021, in giurisprudenzadelleimprese.it e Trib. Cagliari, 19 gennaio 2022, in Giur. comm., 2023, p. 318, con nota di E. Sorci, La predisposizione di assetti organizzativi adeguati come obbligo coercibile ex art. 2409 c.c.: un caso recente
[61] 
E non potrebbe essere altrimenti, anche in considerazione del fatto che l’adempimento dell’obbligazione de qua non va valutato unicamente nella fase genetico-istitutiva ma deve essere misurato (ed, eventualmente, adattato) durante l’intero corso dell’attività d’impresa. 
[62] 
Sulla portata dinamica dell’adeguatezza degli assetti si rinvia a P. Bastia, Gestione della crisi e piani di risanamento aziendali, cit., p. 398, secondo cui: «Il concetto di adeguatezza implica la strutturazione di un’organizzazione interna che sia in grado di ‘adeguarsi’ all’andamento dell’attività di impresa e, quindi, alle variazioni del rischio gestionale che questo comporta. Tale strutturazione dovrà, quindi, essere oggetto di idonee e ripetute analisi e verifiche all’interno dell’azienda, per pervenire ad una corretta progettazione e attuazione degli assetti organizzativi, nonché per intervenire per il loro presumibile riadeguamento al tempo». 
[63] 
In altri termini, anche la scelta imprenditoriale - fisiologicamente connatura da elementi di rischio e terreno d’elezione della BJR - nell’ipotesi in cui generi perdite di esercizio, ben potrà essere oggetto di censura (ferma una rigida prospettiva ex ante), qualora assunta con imprudenza e/o in un contesto ove gli assetti risultino assenti o inadeguati (eventualmente, come sostenuto nel presente elaborato, perché non debitamente testati). Diversamente, nel caso in cui la delibera autorizzativa risulti rispettosa dei processi e delle verifiche esperibili secondo la diligenza richiesta ex art. 2392 c.c. (e, per l’effetto, attraverso un’informazione ottenuta attraverso un assetto funzionale e verificato), ma l’esecuzione della medesima abbia comportato, ad esempio, perdite inattese in ragione di elementi non fattorizzabili ex ante, la condotta degli amministratori ben potrà risultare esente da quella colpa (necessaria) al fine di configurare delle responsabilità. 
[64] 
A tali considerazioni deve inoltre aggiungersi che il legislatore ha espressamente funzionalizzato l’adeguatezza degli assetti alla prevenzione della crisi e, per l’effetto, alla tutela dell’intero mercato, introducendo un’obbligazione il cui rispetto mal si concilia con l’insindacabilità prevista dalla business judgement rule. Ciò impone infatti un cambio di prospettiva nel giudizio sulla gestione che deve essere effettuato avuto riguardo ai potenziali impatti sul sistema delle imprese e su tutti gli stakeholder di condotte non in linea con principi di sana e prudente gestionePer approfondite riflessioni sul tema, qui solo sfiorato, del rapporto tra i diversi interessi nell’attività d’impresa si rinvia a E. Barcellona, Le recenti prospettive di riforma del diritto europeo: verso l’adozione di uno stakeholderism di tipo “forte”?, in Shareholderism versus stakeholderism, Quad. Giur. comm, 2022. 
[65] 
Proprio per questo, secondo alcuni, si sarebbe di fronte ad una discrezionalità di carattere tecnico da esercitarsi secondo perizia e ragionevolezza. In questo senso v. R. Bernabai, Gli assetti organizzativi adeguati in una prospettiva storica, in SSM (Scuola Superiore della Magistratura), Gli assetti organizzativi dell’impresa - Quaderno 18, 2022, p. 110, il quale, inoltre, segnala come potrebbe proporsi un’ulteriore riflessione: «sulla premessa che la prescrizione di creare strutture organizzative efficienti non costituisce più un obbligo generico, bensì un obbligo specifico, strumentale a finalità ancor più chiaramente espresse nell’art. 2086, cpv., c.c., ma già enucleabili dall’art. 2381, terzo e quinto comma, c.c., si può ritenere che non sia più sufficiente la diligente attività dell’amministratore, per escludere la responsabilità, e trovi invece applicazione l’art. 1218 c.c. in caso di assetti rivelatisi, alla prova dei fatti, inadeguati a prevenire disfunzioni ed insufficienze informative: tali, da impedire all’impresa di stare in modo efficiente nel mercato. In altri termini, l’adeguatezza degli assetti in funzione del rilievo tempestivo della crisi dell’impresa è un’obbligazione di risultato, pur se gli amministratori conservino una discrezionalità tecnica nel quomodo. Se si vuole un esempio analogico, sia pur grossolano, essa è paragonabile all’opus dell’appaltatore: quest’ultimo resta autonomo, quale imprenditore, nell’organizzazione dei mezzi, ma è responsabile ove il risultato non sia quello prefigurato. Ed è appena il caso di aggiungere che il risultato, oggetto dell’obbligazione, non è certo la prevenzione della crisi, ma solo l’acquisizione di dati ed informazioni, grazie a strutture organizzative, amministrative e contabili adeguate, premessa di comportamenti imprenditoriali avveduti». Sotto diverso angolo d’indagine, per alcuni interessanti spunti di carattere penale in tema di adeguati assetti v. M. Riverditi, La mancata predisposizione di assetti adeguati e i rimedi giurisdizionali in ambito penalistico, in Diritto ed economia dell’impresa, 2019, pp. 731 ss.; Id., I profili penali, in Diritto ed economia dell’impresa, 2024, pp. 164 ss. 
[66] 
In argomento si rinvia a P. Montalenti, Assetti organizzativi e organizzazione dell’impresa tra principi di corretta amministrazione e business judgment rule: una questione di sistema, in Il nuovo diritto delle società, 2021, pp. 11 ss.; M. Irrera, La collocazione degli assetti organizzativi e l’intestazione del relativo obbligo (tra codice della crisi e bozza di decreto correttivo), ivi, 2020, p. 123 e Id., Adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile, cit., pp. 1556 e 1557. 
[67] 
Sulla necessità di ripensare alla funzione del capitale sociale e al ruolo del patrimonio netto si rinvia alle riflessioni di P. Benazzo, Assetti organizzativi, diritto dell’impresa e diritto delle società: dal passato ad un (possibile) futuro, cit., p. 16 il quale si interroga su «l’esistenza di un dovere, per i soci e per gli amministratori, di adeguata patrimonializzazione della società, non tanto nella fase di costituzione, quanto invece nel durante del perseguimento del programma comune, che dovrebbe così tradursi nella necessità (della persistenza) di un nesso di proporzionalità tra patrimonio netto e oggetto sociale». 
[68] 
Sul punto v. G.M. Buta, Poteri e doveri del collegio sindacale e tempestiva emersione della crisi, in Il nuovo diritto delle società, 2023, p. 1792, in particolare nt. 109 e 110, ove più ampi riferimenti. 
[69] 
Cfr. V. Calandra Buonaura, Ruolo e responsabilità degli organi di controllo societari nel Codice della crisi e dell’insolvenza, in Giur. comm., 2021, pp. 791 ss. 
[70] 
Per i distinti profili di verifica in capo ai sindaci rispetto ai deleganti v. L. De Angelis, op.cit., pp. 13 e 14. 
[71] 
In questo senso v. P. Montalenti, Diritto dell’impresa in crisi, diritto societario concorsuale, diritto societario della crisi: appunti, cit., p. 75. 
[72] 
Tali proposte ben potranno essere formulate, ad esempio, in sede consiliare, in coerenza al dovere di cui all’art. 2405 c.c., a mente del quale i sindaci sono chiamati ad assistere alle adunanze del consiglio di amministrazione (alle assemblee) e alle riunioni del comitato esecutivo. 
[73] 
Sul ruolo del collegio sindacale in fase di vigilanza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale cfr. Cndcec, Norme di Comportamento del Collegio Sindacale di Società Non Quotate, dicembre 2024, in particolare sub § 3.3, 3.5 e 3.7; nonché Cndcec, Norme di Comportamento del Collegio Sindacale di Società Quotate, dicembre 2024, in particolare sub § Q.3.4 e Q.3.6. Per interessanti riflessioni sulle Norme di Comportamento si invia a M. Irrera, La vigilanza sugli assetti e le norme di comportamento del collegio sindacale, in Corporate Governance, 2024, pp. 25 ss. 
[74] 
Il collegio sindacale, ex art. 2403 bis c.c., ben potrà indirizzare richieste di informazioni o chiarimenti agli amministratori, anche con riferimento ad eventuali società controllate, procedendo, in qualsiasi momento, eventualmente quali sindaci uti singuli, ad atti di ispezione e controllo. Inoltre, a mente dell’art. 2406 c.c., in caso di omissione o ingiustificato ritardo degli amministratori, il collegio sindacale è chiamato a convocare l’assemblea dei soci, così come potrà eseguire la medesima convocazione, previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione, qualora ravvisi fatti censurabili di rilevante gravità e vi sia urgenza di provvedere. Si tratta di un potere, sostitutivo della competenza propria del consiglio, idonea a permettere all’assemblea dei soci di intervenire (nei limiti dei poteri ad essa attribuiti e, eventualmente, in termini di revoca di uno o più amministratori) al fine di interrompere atti di mala gestio o condotte gestorie non coerenti a principi di corretta amministrazione. Non può altresì omettersi di evidenziare come, ai sensi dell’art. 2408 c.c., il collegio ben potrebbe ricevere da un socio una denunzia di fatti ritenuti censurabili; il tal caso, oltre a tenerne conto nella relazione all’assemblea, il collegio, se la denunzia è operata da soci che rappresentino un ventesimo del capitale sociale o un cinquantesimo nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, dovrà indagare senza ritardo sui fatti denunziati e presentare le sue conclusioni e proposte all’assemblea. Da ultimo, quando vi sia fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possano arrecare danno alla società o a una o più società controllate, il collegio potrà giungere a denunziare i fatti al tribunale ex art. 2409 c.c. 
[75] 
Sugli oneri di intervento e correlate responsabilità v. G.M. Buta, op.cit., p. 1798, la quale sottolinea come: «La previsione non si discosta pertanto dall’orientamento che richiede al collegio sindacale, per non incappare nella responsabilità ‘concorrente’ di cui all’art. 2407, comma secondo, c.c., di aver esercitato o tentato di esercitare i loro poteri informativi, ispettivi e reattivi, cui si aggiungono la segnalazione all’organo amministrativo di cui all’art. 25-octies c.c.i. e la legittimazione alla presentazione della domanda di apertura della liquidazione giudiziale ex art. 37 c.c.i.». In giurisprudenza v. Cass. civ., 12 luglio 2019, n. 18770 in DeJure; Cass. civ., 11 dicembre 2019, n. 32397, ibidem e Trib. Palermo, 20 luglio 2021, in giurisprudenzadelleimprese.it
[76] 
Il tema è indagato ed oggetto di Autorevoli commenti a cui, in questa sede, si rinvia. Cfr. Trib. Milano 18 ottobre 2019, in Giur. it., 2020, pp. 363 ss. con nota di O. Cagnasso, Denuncia di gravi irregolarità: una primissima pronuncia sul nuovo art. 2086 c.c.; in Il nuovo diritto delle società, 2020, pp. 72 ss. con nota di M. Di Sarli, Sull’obbligo di assetti adeguati. Una prima applicazione dell’art. 2086, comma 2, c.c. da parte del Tribunale di Milano; nonché in Società, 2020, pp. 988 ss. con nota di I. Capelli, Assetti adeguati, controllo dei sindaci e denunzia al tribunale ex art. 2409; Trib. Roma 15 settembre 2020, in Giur. comm., 2021, p. 1358, con nota di S. Fortunato, Atti di organizzazione, principi di correttezza amministrativa e Business Judgment Rule; Trib. Cagliari, 19 gennaio 2022, in Società, 2022, pp. 1430 ss., con nota di I. Capelli, Gli assetti organizzativi adeguati e la prevenzione della crisi; Trib. Catania, 8 febbraio 2023, in Società, 2023, pp. 817 ss., con nota di P. Benazzo, La denunzia al tribunale di gravi irregolarità e l’adozione di assetti organizzativi adeguati: da prevenzione della crisi a ‘condizione di esercizio dell’attività d’impresa’; Trib. Milano, 29 febbraio 2024, in Società, pp. 707 ss., con nota di O. Cagnasso, Denuncia di gravi irregolarità e omissione dell’istituzione di adeguati assetti
[77] 
La natura autonoma dell’istituto, finalizzato, a ben guardare, a tutelare interessi generali correlati al rispetto di principi di corretta amministrazione, depone a sostegno di un’interpretazione dello stesso come rimedio non residuale nel sistema degli interventi esperibili dall’organo di controllo. In questo senso v. G. Di Salvo, L’art. 2409 c.c. e gli assetti organizzativi dell’impresa, in Il nuovo diritto delle società, 2023, p. 1659. Alle stesse conclusioni, attraverso diverso percorso, giunge I. Cappelli, Assetti adeguati, controllo dei sindaci e denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c., in Società, 2020, p. 997, nt. 21 la quale, nel ritenere l’istituto de quo un completamento dei poteri dell’organo di controllo, precisa come: «Da una diversa prospettiva, il quadro complessivo dei poteri-doveri dei sindaci rende costoro i più consapevoli soggetti legittimati ad avvalersi dello strumento della denunzia al tribunale: grazie alle loro prerogative tipiche, quali ad esempio l’assistenza alle adunanze degli altri organi societari, la ricezione delle denunzie di fatti censurabili da parte dei soci ex art. 2408 c.c. e il potere di svolgere, anche individualmente, ispezioni e controlli, i sindaci acquisiscono le informazioni societarie sufficienti a configurare i ‘fondati sospetti’ che costituiscono il presupposto del procedimento ex art. 2409 c.c.». 
[78] 
Il riferimento corre all’art. 2477, comma 6, c.c., introdotto dal D.Lgs. 14/2019, il quale prevede come si applichino «le disposizioni dell’articolo 2409 anche se la società è priva di organo di controllo». Con riferimento ad alcune fasi del percorso applicativo della denunzia al tribunale alle s.r.l. sia permesso il rinvio a M. Zappalà, Denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. in s.r.l., in Digesto discipline privatistiche, Sez. comm., 2015, pp. 166 ss. e Id, Ancora sulla denuncia al Tribunale ex art. 2409 c.c. nelle s.r.l., in Società, 2010, pp. 207 ss. 
[79] 
Così, in via innovativa e del tutto condivisibile, Trib. Catania, 8 febbraio 2023, cit., pp. 821 e 822, il quale apre una breccia su di una visione dell’adeguatezza degli assetti quale elemento portante dell’attività d’impresa, la cui mancanza è ragione autonoma di grave irregolarità. Inoltre, stringendo il focus sul perimetro di intervento dell’art. 2409 c.c., il tribunale etneo offre un ulteriore interessante sviluppo interpretativo, plasmando lo strumento ed officiando l’amministratore giudiziario di poteri di intervento correttivo-sananti rispetto ad un adempimento, quello della predisposizione di adeguati asseti, che assume contorni del tutto similari a qualsiasi altra obbligazione riferita al rispetto di principi e doveri di corretta amministrazione. 
[80] 
Cfr. Cndcec, Norme di Comportamento del Collegio Sindacale di Società Non Quotate, dicembre 2024, ove viene sottolineato, in sede di prefazione, come: «la nuova formulazione della disposizione dedicata alla “Segnalazione dell’organo di controllo”, fortemente voluta dal sottoscritto e dal Consiglio Nazionale, dopo aver precisato che la segnalazione va effettuata al verificarsi di situazioni di crisi o di insolvenza e non al verificarsi di situazioni – e con ciò eliminando alla radice possibili incertezze applicative, considerando la difficoltà di definire oggettivamente la situazione pre-crisi - amplia la platea dei soggetti segnalanti, onerando della segnalazione anche l’incaricato della revisione legale della società ai sensi e per gli effetti del d.lgs. n. 39/2010. La modifica risponde all’esigenza di “attrarre” nell’ambito applicativo dell’art. 25-octies la maggior parte delle PMI italiane che, in quanto s.r.l., possono nominare un revisore legale e non un organo di controllo; inoltre, giova osservare, che competendo al revisore legale, inter alia, la verifica, nel corso dell’esercizio, della regolare tenuta della contabilità sociale, la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili e la permanenza della continuità aziendale, al verificarsi delle condizioni di crisi considerate dal Codice della crisi, i sindaci e i revisori dovranno necessariamente intensificare gli scambi informativi per effettuare segnalazioni che risultino sorrette da valide motivazioni e opportunamente coordinate». 
[81] 
Il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 prevedeva, originariamente, l’entrata in vigore dell’art. 14 CCII (nei fatti mai avvenuta) il quale poneva «a carico degli organi di controllo societari, del revisore contabile e della società di revisione, ciascuno nell’ambito delle rispettive funzioni, il duplice obbligo di verificare che l’organo amministrativo monitori costantemente l’adeguatezza dell’assetto organizzativo dell’impresa, il suo equilibrio economico-finanziario ed il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l’eventuale esistenza di fondati indizi della crisi». In tale contesto l’obbligo della c.d. “allerta interna” era (già) previsto estendersi anche al revisore contabile e alle società di revisione. Tuttavia, con la definitiva archiviazione delle disposizioni sull’allerta, l’art. 15, D.L. 118/2021 “Segnalazione dell’organo di controllo”, la cui formulazione è stata trasfusa nell’art. 25-octies CCII per effetto del D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, non attribuiva (più) onere alcuno in capo al revisore legale. 
[82] 
La relazione illustrativa al D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136 motiva la posticipazione del momento in cui inizia a decorrere l’obbligazione e la relativa responsabilità con l’intento di «evitare segnalazioni non utili, effettuate dall’organo di controllo per esclusivi fini di autotutela». In argomento v. S. Pacchi, Il ritorno del revisore contabile nel mosaico delle segnalazioni della crisi e dell’insolvenza dopo il d.lgs.136/2024, in www.ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, p. 3. 
[83] 
Il testo della disposizione introduce una presunzione di tempestività, apparentemente iuris et de iure (cfr. «in ogni caso»), qualora intervenga nel termine di sessanta giorni dalla conoscenza dello stato di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), CCII da parte dell’organo di controllo o di revisione. Ciò, all’evidenza, non modifica alcunché in termini di doveri di verifica e vigilanza dei soggetti destinatari della disposizione. La relazione illustrativa al D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136, sottolinea infatti come la conoscenza in parola debba sempre avvenire sull’assunto di un «esercizio diligente dei doveri di verifica e controllo del medesimo organo», precisando come «la data di effettiva conoscenza della crisi è parametro che rileva ai fini della tempestività solo se gli organi di controllo non hanno tenuto un comportamento negligente e quindi non hanno preso cognizione effettiva della situazione di difficoltà per loro colpa (ad esempio, perché hanno omesso o ritardato il compimento delle necessarie verifiche o l’acquisizione della documentazione utile)». 
[84] 
Sul punto merita evidenziarsi l’esistenza di una proposta di legge (cfr. A.C. 1276) che mira, attraverso alcune modifiche ed integrazioni dell’attuale art. 2407 c.c., a ridimensionare la responsabilità civile del collegio sindacale, attraverso l’introduzione di un sistema di limiti basato sul compenso annuo percepito. Le modifiche, già approvate dalla Camera dei Deputati in data 29 maggio 2024, consistono, nella completa sostituzione dell’art. 2407, comma 2, c.c. il quale dovrebbe prevedere quanto di seguito: «Al di fuori delle ipotesi in cui hanno agito con dolo, anche nei casi in cui la revisione legale è esercitata da collegio sindacale a norma dell’articolo 2409-bis, secondo comma, i sindaci che violano i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati alla società che ha conferito l’incarico, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi fino a 10.000 euro, quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, dodici volte il compenso; per i compensi maggiori di 50.000 euro, dieci volte il compenso». Viene inoltre proposta l’introduzione di un comma finale all’art. 2407 c.c., il quale è atteso fissare un termine di prescrizione all’esercizio dell’azione di responsabilità contro i sindaci, lasciando immutati, invece, il primo e il terzo comma: «l’azione di responsabilità verso i sindaci si prescrive nel termine di cinque anni dal deposito della relazione di cui all’articolo 2429 relativa all’esercizio in cui si è verificato il danno». 
[85] 
Cfr. sub nt. 81. 
[86] 
Il rinvio corre al principio di revisione ISA Italia 570 “Continuità aziendale” - derivazione del principio di revisione internazionale (ISA) n. 570 “Going Concern - il quale deve essere letto congiuntamente al principio di revisione internazionale (ISA Italia) n. 200 “Obiettivi generali del revisore indipendente e svolgimento della revisione contabile in conformità ai principi di revisione internazionali (ISA Italia)”. Il principio ISA 570 impone al revisore il compito di verificare il rispetto da parte della direzione del presupposto della continuità aziendale (definita quale capacità dell’impresa di continuare a svolgere la propria attività come entità in funzionamento) ai fini della redazione del bilancio. Trattasi di un principio che trova il proprio riferimento normativo all’art. 14, lett. f), D.Lgs. n. 139/2010, come modificato dal D.Lgs. n. 135/2016, il quale richiede al revisore di rendere «una dichiarazione su eventuali incertezze significative relative a eventi o a circostanze che potrebbero sollevare dubbi significativi sulla capacità della società sottoposta a revisione di mantenere la continuità aziendale». In senso conforme anche la relazione illustrativa al D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136: «La lettera a) modifica il comma 1 con il rafforzamento delle segnalazioni inserendo tra i soggetti tenuti alle segnalazioni anche il soggetto incaricato della revisione legale, nel contesto di adozione da parte dello stesso dei principi di revisione internazionali (ISA Italia), e precisando che esse vanno effettuate dal collegio sindacale e dai revisori dell’esercizio delle rispettive funzioni, e quindi nei rispettivi ambiti di azione e competenza oltre che nell’esercizio della diligenza professionale che caratterizza i medesimi organi. Del resto, il revisore, in conformità al principio 570 Continuità Aziendale (ISA Italia), ‘deve acquisire elementi probativi sufficienti e appropriati per verificare l’utilizzo appropriato del presupposto della continuità aziendale nel bilancio e giungere a una conclusione al riguardo’». 
[87] 
Come precisato da Cndcec, Norme di Comportamento del Collegio Sindacale di Società Non Quotate, dicembre 2024, sub § 5.3, oggetto di scambio risultano anche le informazioni relative: «all’assetto organizzativo, al sistema amministrativo-contabile, al sistema di controllo interno, al processo di informativa finanziaria, al sistema di revisione interna e al sistema di gestione del rischio». 
[88] 
Sul ruolo dei revisori nella fase di identificazione dei segnali di crisi v. G. Bertolotti, Poteri e responsabilità nella gestione di società in crisi, Torino, 2016, p. 176: «i revisori contabili e le società di revisione, in quanto esperti conoscitori delle tecniche di redazione dei bilanci, potrebbero in effetti rendersi conto, dalla contabilizzazione dei fatti di gestione e da indicatori di bilancio, che è in atto una crisi, con tempi e modalità diverse rispetto agli amministratori e dunque, in talune ipotesi, anche meglio e prima degli stessi amministratori, specie in realtà molto complesse, quali le società quotate». 
[89] 
In coerenza a quella linea interpretativa per la quale la presenza necessaria dell’organo di controllo pareva - con riferimento ad una s.r.l. pensata come piccola società chiusa a compagine ristretta - sovrabbondante e foriera di inutili costi, specie in presenza dei pervasivi poteri di consultazione garantiti ai soci non amministratori dall’art. 2476 c.c.; in argomento cfr. M. Cera, I controlli nelle società di capitali “chiuse” fra modelli legali ed evoluzione della realtà, in Giur. comm., 2006, pp. 354 ss. secondo cui: «proprio nella s.r.l., quale società di norma chiusa e a compagine ristretta, non dovrebbe avvertirsi l’esigenza reale del collegio sindacale più o meno indipendente, visto, appunto, lo spazio riconosciuto ai soci di modellare assetti e forme dell’organizzazione sociale». 
[90] 
I confini del presente elaborato non consentono di ripercorrere il travagliato percorso dell’art. 2477 c.c. e, con esso, l’evoluzione del dibattito sul modello codicistico della s.r.l. Sugli approdi, nell’ultimo ventennio, del tipo s.r.l., si rinvia a G. Zanarone, La s.r.l., Milano, 2023. 
[91] 
La relazione illustrativa al D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136 così motiva l’introduzione del revisore nel quadro del novellato art. 25 octies CCI: «L’inserimento del soggetto incaricato della revisione legale dei conti consente di garantire lasegnalazione tempestiva della crisi anche per le S.r.l. che hanno optato, ai sensi dell’articolo2477, comma 2, del codice civile, per la nomina del revisore quale organo di controllo». Sul punto v. M. Sciuto, Quel che resta degli obblighi di segnalazione nel Codice della crisi, in Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro, 2022, p. 481, il quale osserva come la precedente impostazione allontanasse «la disciplina nazionale dal precetto europeo, posto che l’art. 3 della Direttiva indica (seppure, parrebbe esemplificativamente), fra i ‘terzi in possesso di informazioni rilevanti sul debitore’, proprio la figura del ‘contabile’, e non già dell’organo di controllo». 
[92] 
Così N. Abriani, I controlli, in Le società a responsabilità limitata, C. Ibba e G. Marasà (a cura di), II, Milano, 2020, p. 2011. 
[93] 
Attraverso differenti profili d’indagine, si vedano le riflessioni di I. Demuro, A. Montanari, L’organo di controllo nelle società a responsabilità limitata, in Trattato delle Società, cit., pp. 696 e 697; N. Abriani, op.cit., pp. 2007 e 2008 il quale estende il ragionamento anche alle società a responsabilità limitata holding, al vertice di gruppi societari; N. Abriani, A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazione del codice civile: prime letture, in Società, 2019, pp. 393 e ss.; prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, O. Cagnasso, Il diritto societario della crisi fra passato e futuro, cit., p. 43, per il quale: «Parrebbe opportuno che [...] venisse introdotto un ulteriore ‘tassello’ che riformasse la disciplina del controllo nelle s.r.l. sopra soglia, eliminando la possibilità della nomina del solo revisore in alternativa al collegio sindacale e al sindaco unico». In tema di possibile riforma si legga, più di recente, G.M. Buta, op.cit., p. 1772, la quale propone «In una prospettiva de iure condendo, però, più che ripristinare l’obbligo di segnalazione anche in capo al revisore, che comunque non sarebbe investito anche del controllo sulla gestione (non essendovi alcuna disposizione che attribuisca al revisore i doveri di cui all’art. 2403 c.c., né tantomeno gli ampi poteri – strumentali all’esercizio della vigilanza – oggi riconosciuti ai sindaci), si potrebbe pensare di modificare (per l’ennesima volta!) l’art. 2477 c.c., estendendo in maniera transtipica il sistema dei controlli delle s.p.a. chiuse anche alle s.r.l. ‘maggiori’: e quindi, prevedendo, oltre alla revisione legale dei conti, anche la vigilanza sulla gestione, da affidare all’organo di controllo collegiale più che al sindaco unico, che probabilmente non potrebbe occuparsi di una così ampia serie di controlli, e non avrebbe neppure gli stessi poteri reattivi spettanti all’organo in forma collegiale (si pensi, ad esempio, alla denunzia ex art. 2409 c.c., che non può essere esperita dal singolo)». 
[94] 
In argomento v. le condivisibili eccezioni di N. Abriani, op.cit., p. 2006 il quale precisa come si tratti di prerogative che: «a) a legge riconosce in una prospettiva puramente ‘egoistica’ dei soci non amministratori, per i quali un frettoloso ricorso ad un eccesso di imprenditorialità (e cogestione) potrebbe condurre a risultati controproducenti; b) non trovano applicazione nelle non infrequenti ipotesi in cui tutti i soci partecipino all’amministrazione della società; c) non includono il potere di ispezione del complesso aziendale che è invece riconosciuto all’organo sindacale». 
[95] 
Cfr. P. Benazzo, La perdita della continuità aziendale quale causa di scioglimento di società per azioni per “sopravvenuta impossibilità di conseguimento dell’oggetto sciale ai sensi dell’art. 2484, comma1, n.2 c.c., in Società, 2024, p. 1099, ove afferma, in via del tutto condivisibile, come: «In altri termini, si potrebbe (o forse si dovrebbe) provare a ragionare se la violazione dell’obbligo di istituzione degli assetti debba trovare la propria sanzione non già (e soltanto) sul piano risarcitorio (in termini di possibile fonte di responsabilità in capo all’organo amministrativo) ovvero, per le società di capitali, anche quale grave irregolarità rilevante ai sensi e per gli effetti dell’art. 2409 c.c., quanto (anche e prima ancora) sul piano dell’organizzazione d’impresa e configurarsi quindi quale causa di scioglimento della società medesima». Id., Assetti organizzativi, diritto dell’impresa e diritto delle società: dal passato ad un (possibile) futuro, cit., p. 29-30. 
[96] 
Cfr. P. Benazzo, Assetti organizzativi, diritto dell’impresa e diritto delle società: dal passato ad un (possibile) futuro, cit., p. 5: «Un principio, dunque, che afferma una nuova cifra della rilevanza sociale dell’impresa, anzi la primordiale rilevanza sociale della stessa. Che non è (solo o tanto) quella di perseguire istanze, valori, obiettivi ESG, ma è, prima ancora (e innanzitutto), quella di non dissipare risorse di non pregiudicare l’affidamento di chi (socio o terzo creditore) quelle risorse apporta e, in ultima istanza, di non compromettere la stabilità del mercato stesso». 
[97] 
Per interessanti riflessioni su crisi d’impresa, behavioral law and economic analysis e implicazioni in termini di incentivi per gli organi di gestione v. N. Usai, Economia comportamentale e diritto della crisi: il ruolo della “mala gestio cognitiva nel ritardo nell’emersione delle difficoltà dell’impresa, in Riv. soc., 2022, pp. 1216 ss., in particolare p. 1252, ove sottolinea come si renda «necessario colmare, nell’elaborazione degli incentivi per l’emersione tempestiva della crisi, un “delta cognitivo” che determina, nella sostanza, un’insensibilità più o meno accentuata rispetto a premi e sanzioni marginali in termini di entità o lontani in termini di collocazione temporale, ferma restando la necessità di un sistema che, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di eliminare i biases cognitivi degli amministratori e dell’imprenditore in relazione allo stato di crisi dell’impresa e alla necessità di agire per affrontare quest’ultima, consenta comunque una riduzione del loro impatto». 
[98] 
In questa prospettiva si condividono le riflessioni di P. Benazzo, Assetti organizzativi, diritto dell’impresa e diritto delle società: dal passato ad un (possibile) futuro, cit., p. 13-14: «E così - sempre per compiere un ulteriore passo nel nuovo mondo - dalla constatazione che la libertà di iniziativa economica è un privilegio non già assoluto, quanto condizionato, si potrebbe anche prefigurare una nuova collocazione sistematica, e sistemica, dell’imprenditore sul mercato, quale soggetto chiamato ad assumere (e a farsi carico) di una posizione di garanzia e di protezione della stabilità del mercato medesimo». 

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