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News a cura di Angela Randazzo

  • 22 Gennaio 2024

    La Consulta definisce i limiti di durata della liquidazione controllata

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    La liquidazione controllata può (e deve) incamerare i beni che pervengono al sovraindebitato nei tre anni successivi all'apertura della procedura. L'ha stabilito, con una pronuncia depositata il 19 gennaio, la Corte Costituzionale, rigettando l'articolata questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Arezzo la primavera scorsa, con riferimento all'art. 142, comma 2, CCII per come applicabile nell'ambito della liquidazione controllata del sovraindebitato, nella parte in cui non prevede un limite temporale all'acquisizione di beni sopravvenuti all'apertura della procedura concorsuale.
    La disposizione sotto esame, com'è noto, traduce nell'ambito concorsuale il principio generale per cui il debitore risponde dell'adempimento con tutti i suoi beni, «presenti e futuri». Nella liquidazione giudiziale, i beni futuri sono, essenzialmente, quelli che fanno eventualmente ingresso nel patrimonio dell'imprenditore nel tempo necessario al curatore ad accertare il passivo e liquidare l'attivo. Nella liquidazione controllata, invece, è assai frequente (e in ogni caso ben più che nella liquidazione giudiziale) che il liquidatore, nel momento in cui la procedura ha avvio, non abbia liquidità da distribuire, né beni da liquidare, e che i creditori possano perciò rifarsi esclusivamente sui redditi che il sovraindebitato percepirà cammin facendo, dedotto, va da sé, quanto gli è necessario per mantenersi. Questo però comporta, teoricamente, che il debitore possa rimanere assoggettato a una liquidazione controllata (e costretto a condurre un'esistenza appena dignitosa) per molto tempo: tutto il tempo necessario a ripagare i debiti con quel poco del suo reddito di cui la procedura può appropriarsi. Di qui, nella previgente legge sul sovraindebitamento, la previsione, tranchant, per cui «i beni sopravvenuti nei quattro anni successivi al deposito della domanda di liquidazione ... costituiscono oggetto della stessa, dedotte le passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi» (art. 14 undecies). Nella sua perentorietà, la norma individuava un chiaro punto d'equilibrio tra l'esigenza, da un lato, del debitore di poter rientrare in un tempo ragionevole nella piena disponibilità del proprio reddito, e quella, dall'altro, dei creditori di potersi soddisfare su una porzione non trascurabile dello stesso.
    Estendendo l'art. 142, comma 2, CCII alla liquidazione controllata[1], il legislatore - lamenta il giudice aretino nell'ordinanza di rimessione -, avrebbe rinunciato a determinare questo punto d'equilibrio, affidando all'interprete il compito di trovarlo in altre disposizioni di legge, o di ricavarlo dai principi generali. Onde la richiesta di un intervento additivo della Corte Costituzionale teso, in buona sostanza, a ripristinare la previgente disposizione della L. n. 3/2012.
    La Corte Costituzionale, al contrario, ha ritenuto idoneo a tal fine l'art. 282 CCII, comma 1, che fissa in tre anni dall'apertura della liquidazione il termine entro il quale, ricorrendone i presupposti, il sovraindebitato ottiene, di diritto, l'esdebitazione. Tale norma, osserva la Corte, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, non fissa soltanto il limite temporale massimo nel quale i beni futuri possono essere utilmente acquisiti all'attivo, ma indica anche il lasso di tempo nel quale i creditori possono confidare che il liquidatore farà quanto necessario per soddisfare le loro ragioni, inclusa l'acquisizione dei beni sopravvenuti. Così ragiona la Corte: «Ove, infatti, per adempiere ai debiti relativi ai crediti concorsuali e a quelli concernenti le spese della procedura sia necessario acquisire i beni sopravvenuti del debitore (compresi i crediti futuri o non ancora esigibili), i liquidatori - salvo che riescano a soddisfare integralmente i citati crediti tramite la vendita di beni futuri o la cessione di crediti futuri o non ancora esigibili - sono tenuti a prevedere un programma di liquidazione che sfrutti tutto il tempo antecedente alla esdebitazione e che, dunque, si di durata non inferiore al triennio». Detto altrimenti: la norma impedirebbe al tribunale concorsuale di approvare un piano di liquidazione che preveda l'acquisizione dei beni futuri per un tempo inferiore ai tre anni[2]. 
    Che la liquidazione non possa attardarsi oltre il triennio, discende, inoltre, secondo la Corte, dall'art. 272, comma 3, CCII, per cui il programma di liquidazione «deve assicurare la ragionevole durata della procedura». Ed è appunto nel termine di tre anni che l'art. 2, comma 2 bis della “Legge Pinto”, fissa, in via generale, il termine ragionevole di durata della liquidazione controllata.
    La Corte, infine, non ha assecondato la soluzione, prospettata dal Tribunale di Arezzo[3], per cui il giudice concorsuale potrebbe approvare piani di liquidazione in cui si contempli l'acquisizione dei beni sopravvenuti del sovraindebitato soltanto nella misura necessaria a coprire le spese della procedura[4]. Una simile proposta interpretativa, infatti, frustrerebbe inopinatamente la ragion d'essere della procedura stessa, ossia la soddisfazione dei creditori (...di tutti i creditori, non solo dello Stato che offre il servizio giustizia).

    Note:
    [1] Ma sull'omesso richiamo all'art. 142, comma 2, da parte dell'art. 270, comma 5, v. Trib. Modena, 8 febbraio 2023.
    [2] In questo senso, nella giurisprudenza di merito, già Trib. Verona, 20 settembre 2022.
    [3] E già seguita dallo stesso Ufficio, come si legge nell'ordinanza di rimessione, in ipotesi di fallimenti “senza beni”.
    [4] Soluzione che, nota il giudice a quo, consegnerebbe ai sovraindebitati incapienti della liquidazione controllata un facile espediente con cui sottrarsi alle espropriazioni presso terzi pendenti (in spregio al diritto d'azione, anche esecutiva, tutelato dall'art. 24 Cost.), e che penalizzerebbe irragionevolmente i creditori dei “nuovi” sovraindebitati (quelli assoggettati a procedura dopo il 15 luglio 2022) rispetto a quelli dei “vecchi” sovraindebitati (che potevano almeno far conto, mercé la L. n. 3/2012, su quanto, degli stipendi maturati in costanza di procedura, non fosse servito a coprire i costi della medesima).

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