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“Lettere aperte” al Legislatore del “Correttivo” che verrà - La prima: i) sull’inutilità di tre (anzi quattro) concetti di crisi ed insolvenza e ii) sull’opportunità di un ritorno ad uno stabilizzato automatic stay

1 Ottobre 2022

Con questa (mini) serie di “lettere-blog”, proveremo ad offrire degli “allert” rispetto a taluni possibili difetti di coordinamento tra norme del CCII (talvolta slegate a causa dell’urgenza di intervento su un ordito normativo già tanto stratificatosi in questi pochi anni), permettendoci in taluni casi di entrare nel merito delle stesse (soprattutto alla luce delle prime risposte pervenute  “sul  campo”), sempre con spirito costruttivo e, per quanto si riuscirà, comunque in linea con la Dir. 1023/2019. 
 
1) La Dir. Insolvency ha lasciato liberi i legislatori nazionali di definire i concetti di insolvenza e probabilità di insolvenza (art. 2, par.2). 
Ovviamente non obbligando in alcun modo a definirli, tantomeno entrambi.  
E noi cosa abbiamo fatto?  
Per probabilità di insolvenza abbiamo pensato al concetto di crisi (sconosciuto lessicalmente alla Dir.), coniandone, con l’art. 2, lett. a), CCII, una nuova definizione - forse anche troppo definita -, mentre per l’insolvenza abbiamo, saggiamente, confermato la solida enunciazione, di carattere generale, dell’art. 5 l. fall. (art. 2, lett. b), CCII). 
 
Non paghi, però, prima con l’art. 2, co. 1 del D. L. 118/2021 (conv. in L. 147/2021) e poi con l’art. 12, co. 1 del CCII abbiamo introdotto anche  il rivoluzionario (?) concetto di “probabilità di crisi”. 
 
Tra l’altro, non chiarendo neppure in sede di CCII, se alla Composizione Negoziata (d’ora in poi anche CN) si possa accedere ove anche ci si trovi già, al momento della domanda (e quindi non in itinere, come lasciava presupporre l’art. 9, co. 1, L. 147/2021 ed ora l’art. 21, co. 1, CCII, in stato di insolvenza, per quanto “reversibile” (come evidenzia la relazione legis al D. L. 118/2021 ed invero anche la recente relazione 15.9.2022 dell’Ufficio del Massimario della Suprema Corte nonché, seppur cripticamente, l’art. 23 lett. c), CCII). 
 
La criticità de qua risulta evidenziata anche da un recente provvedimento del Tribunale di Siracusa del 14.9.2022, pubblicato su questa Rivista. 
 
Dunque, come visto, legislativamente il CCII ha germinato tre concetti per l’impresa non in bonis: probabilità di crisi, probabilità di insolvenza /alias crisi ed insolvenza; sul piano dottrinario e giurisprudenziale (e forse impropriamente nella predetta relazione legis, visto poi il relativo precipitato normativo) è stato riaffermato che non può parlarsi di insolvenza, qualora  non risulti irreversibile e dunque sia solo transeunte (v. ex multis e da ultima Cass. 23993/2022, ma soprattutto si pensi alle tante  attività date per “morte” durante la pandemia - ad es. gli alberghi  delle città d’arte - quando invece avevano solo bisogno di un po’ di tempo per riprendere il loro regolare corso). 
 
In un tale contesto, sarebbe opportuno, anche, soprattutto in considerazione che nessuno strumento previsto dal CCII riguarda esclusivamente il solo stato di crisi o di insolvenza, e men che mai di “probabile crisi”, riprodurre lo schema felicemente adottato con l’art. 160 l. fall. e cioè che ai fini degli strumenti messi a disposizione dal   CCII lo stato di crisi equivale a stato di di insolvenza (e probabilmente neppure  declinando lo stato di crisi con precisi concetti economici/finanziari, che possono essere riduttivi, limitandosi, invece, ad individuare la crisi come  “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza”). 
 
D’altra parte, è quanto già avvenuto con il sovraindebitamento che nella relativa definizione assorbe, giustamente, crisi ed insolvenza (art. 2, co. 1 ,lett. c) CCII). 
 
Quanto poi alla CN, potrebbe risultare saggio eliminare il neo riferimento alla “probabilità di crisi”, chiarendo inequivocabilmente all’art. 12 CCII ( e non implicitamente – e poi sarà mai  vero che comunque così sia? – all’ art. 21 CCII ) che anche l’imprenditore insolvente potrà accedervi ove “risulta[i] ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa.” 
 
D’altra parte, che la via della salvaguardia della continuità (diretta o indiretta che sia) sia oramai divenuto il ‘mantra’ del Legislatore domestico, in ossequio al precetto primo della Dir. Ins., non è revocabile in dubbio (come confermano ad ampio spettro le diffuse argomentazioni di LEUZZI, L’evoluzione del valore della continuità aziendale nelle procedure concorsuali , in Nuove leggi civ. comm., 2/2022, 479; in un contesto in cui anche il valore della sostenibilità ha cominciato a far capolino nella crisi d’impresa, con la previsione , per certi aspetti quasi pleonastica, della parte finale dell’art. 87, co.1, lett. f  CCII, peraltro nell’assordante silenzio della Dir. Ins.; cfr. in tema le belle pagine appena sgorgate dalla penna di PACCHI, La gestione sostenibile della crisi d’impresa, in RistutturazioniAziendali.IlCaso.it, 3 settembre 2022). 
 
2) L’anno decorso di esperienza sulla CN ha evidenziato che sulle misure protettive e relativo procedimento (artt. 18 e 19 CCII)  è sostenibile un po’ tutto . 
 
Ma, soprattutto, che per un provvedimento pur sempre interinale/di pochi mesi, vi è un grande dispendio di attività giurisdizionale (oltre che professionale, inevitabilmente distolta dalla finalità prima della CN: trovare una soluzione condivisa alla crisi d’impresa). 
 
Dispendio destinato ora ad acuirsi con il procedimento unitario relativo ai vari strumenti di regolazione della crisi e conseguenti misure protettive e cautelari di cui agli artt. 54 e 55 CCII.  
 
Forse, allora, bisognerebbe chiedersi se davvero la Dir. Insolvency imponeva di rivoluzionare, così come per ora  avvenuto attraverso il necessario ricorso all’AGO, il sistema tanto collaudato dell’automatic stay di cui all’art. 168 l. fall. 
 
Anche tenendo fermo l’arco temporale acceleratorio massimo di dodici mesi di sospensione delle azioni esecutive individuali (e peraltro solo di tali specifiche  misure protettive), previsto dall’art. 6, par. 8, Dir. e puntualmente recepito dall’art. 8 CCII (invero anche un po’ generosamente, atteso che ha ricompreso qualsiasi misura protettiva e quindi non solo le predette azioni esecutive). 
 
No, a nostro modesto avviso, la Dir. Insolvency non lo imponeva. 
 
Cioè era, recte  è possibile che, almeno per i primi quattro mesi, si dia vita da  un automatic stay e quindi senza la necessità di un previo intervento giurisdizionale .  
 
Basterebbe allo scopo leggere il cons. 32 Dir. , che addirittura avrebbe consentito la sospensione ex lege  anche verso i garanti:  
 
Cons. 32 :  “Un debitore dovrebbe poter beneficiare di una sospensione temporanea delle azioni esecutive individuali, sia essa concessa da un'autorità giudiziaria o amministrativa oppure per legge allo scopo di agevolare le trattative sul piano di ristrutturazione, così da poter continuare a operare o almeno mantenere il valore della sua massa fallimentare durante le trattative. Ove previsto dal diritto nazionale, la sospensione dovrebbe essere possibile anche a beneficio dei terzi garanti, fra cui fideiussori e prestatori di garanzie reali…” 
 
Comunque,  andando poi alle norme poste dal Legislatore Unionale  e quindi all’Art. 6 Dir.,  il precetto de quo si ricava agilmente da una combinata lettura dei parr. 1, 6 e 9 cap. finale, rammentando che il “possono prevedere” enuncia una mera facoltà per i singoli Stati :  
 
1. Gli Stati membri provvedono affinché il debitore possa beneficiare della sospensione delle azioni esecutive individuali al fine di agevolare le trattative sul piano di ristrutturazione nel contesto di un quadro di ristrutturazione preventiva. 
 Gli Stati membri possono prevedere che le autorità giudiziarie o amministrative abbiano la facoltà di rifiutare la concessione di una sospensione delle azioni esecutive individuali qualora tale sospensione non sia necessaria o non consegua l'obiettivo di cui al primo comma. 
 
6. La durata iniziale di una sospensione delle azioni esecutive individuali è limitata a un massimo di quattro mesi. 
 
9. 
 
Gli Stati membri possono prevedere un periodo minimo, che non deve eccedere il periodo di cui al paragrafo 6, durante il quale non è possibile revocare una sospensione delle azioni esecutive individuali.” 
 
Naturalmente, superato questo periodo (davvero) minimo “franco”, il debitore dovrà attivarsi in AGO ove abbia bisogno di una maggiore proroga, dimostrando obiettivamente di meritare maggiore fiducia. 
 
Ed avere quattro mesi liberi, per pensare fattivamente solo al piano ed alle negoziazioni (nella CN, ma anche negli ADR o nei PRO e in fondo anche nei CP), non sarebbe certo cosa di poco conto,  perché, comunque, la fase di conferma porta, oltre  il rischio di involontaria ( quanto illogica)  vanificazioni dei provvisori  effetti ove nei dieci giorni non sia fissata dal Giudice l’udienza, l’aumento  inevitabile ed ab initio  delle fasi di conflitto,  rendendo quindi più difficoltose le trattative.  
 
Peraltro , a parte prevedere sempre la possibilità di intervenire sugli eventuali abusi,  con una semplice norma analoga all’art. 69 bis l. fall. (o ancor meglio all’art. 10, co. 3 L. 40/20 di conv. Decreto Liquidità: “Quando alla dichiarazione di improcedibilità dei ricorsi presentati nel periodo di cui al comma 1 fa seguito, entro il 30 settembre 2020, la dichiarazione di fallimento, il periodo di cui al comma 1 non viene computato nei termini di cui agli articoli 10, 64, 65, 67, primo e secondo comma, 69-bis e 147 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267.”), gli eventuali effetti di un agire distorto del debitore verrebbero sterilizzati. 
 
*** 

Sono solo, come accennavamo all’inizio, semplici spunti: ben vengano , dunque , commenti implementativi o del tutto critici. 
 
In tutti i casi, risulteranno offerti utili, speriamo, elementi di riflessione per il prossimo Legislatore del necessario “correttivo”.  
 
Quanto a noi, Vi diamo appuntamento alla prossima “puntata” che riguarderà alcuni possibili difetti di coordinamento tra esenzioni da revocatorie, come rispetto al collegato effetto della prededuzione.
Giovanni La Croce, Dottore commercialista

3 Ottobre 2022 13:04

Iniziativa la vostra più che meritoria, amici cari, seppure dubiti fortemente che qualcuno vi darà retta.

Crisi, insolvenza, crisi reversibile, probabile insolvenza sono sofismi frutto: (i) della scarsa conoscenza dei fondamentali dell’economia aziendale; (ii) delle spinte ideologiche contrapposte che hanno interessato la gestazione del nuovo codice della crisi e (iii) della tendenza del legislatore italiano a fare cherry piking nelle legislazioni altrui pensando così di porsi all’avanguardia e creare un prodotto normativo originale.

In una situazione di crisi è sempre immanente una probabile insolvenza, e una crisi non risolta comporta sempre insolvenza. A sua volta una crisi è reversibile solo: (i) se l’impresa produce ebitda positivi o (ii) se dispone di risorse finanziarie sufficienti a un turn-round industriale che le consenta di ritornare in ebitda positivo.

La crisi, come pure l’insolvenza, sono risolte solo quando i flussi di cassa sono in grado di “servire” il debito nel classico rapporto PFN/ebitda non superiore a 3. Il che vuol dire che, ammesso che l’impresa produca un ebitda positivo, lo strumento di risanamento prescelto, qualsiasi esso sia, dovrà consentire di pervenire al suo esito - e non a “enne” anni di distanza - a quel ratio.

Al contrario si tende a definire imprese in crisi imprese con ebitda negativi e con PFN abnormi, composte prevalentemente da debiti non finanziari, cioè da debiti commerciali, erariali e previdenziali ampiamente scaduti. Su questa base d’ingaggio si costruiscono ipotesi di risanamento che non si concretizzano all’esito della procedura, bensì in anni e anni dalla sua omologazione. Si è così creato l’ossimoro dell’impresa post concordataria in crisi, affetta da probabile insolvenza.

Quanto alle prime discrasie denunciate tra direttiva insolvency e CCII, mi meraviglio che ve ne meravigliate: la struttura del CCII nasce molto prima della direttiva insolvency sicché era più che prevedibile, direi fisiologico, che qualsiasi tentativo di adattarla alla legge comunitaria avrebbe lasciato più di qualche incongruenza. Della seconda chance, ad esempio, non si trova traccia in un CCII che - a dispetto dell’uso di un linguaggio politically correct - si mostra nei confronti del debitore molto più “punitivo” della vecchia legge fallimentare.

Sull’automatic stay, che dire se non che la sua giurisdizionalizzazione determinerà un sovraccarico di lavoro per i tribunali (ne avevano bisogno?), quando sarebbe stato più utile, in suo luogo, anticipare il contraddittorio debitore/creditori sull’ipotesi di risanamento, come si fa nell’operatività quotidiana del Chpt 11.

Ciò che mi pare vi sia sfuggito, quanto al tempo delle misure protettive, è che nel sistema è stata inserita una vera e propria bomba ad orologeria costituita dell’incompatibilità delle nostre farraginose regole processuali con la durata dei dodici mesi massimi che la direttiva insolvency impone, recepita all’art. 8 del CCII. Avete mai visto un concordato omologato in 12 mesi dall’ammissione? Senza considerare, poi, che le misure protettive copriranno, nella maggior parte dei casi, anche il periodo anteriore l’ammissione.

Che succederà, allora, se passati i 12 mesi, il concordato non sia ancora stato omologato. Le azioni esecutive individuali potranno proseguire e perfezionarsi?

D’altro canto, quando a fronte dell’eliminazione dell’ adunanza dei creditori, la rubrica del relativo articolo (art. 104) titola ancora “Convocazione dei creditori”, è naturale, seppure non da apprezzare, che più si rileggerà il testo della novella maggiori saranno i difetti che ne emergeranno.

Siamo nell’imminenza di una tempesta perfetta nel mentre nei seminari e nei convegni non si è ancora esaurita la fase apogeale.

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