La vicenda della retrocessione in serie C della Sampdoria, subito dopo essere uscita da un complesso percorso di ristrutturazione, m'induce a sviluppare alcune riflessioni sul rapporto tra mondo del calcio professionistico e crisi d’impresa.
Partiamo da lontano.
Le società di calcio possono essere considerate delle imprese commerciali vere e proprie, nel senso pieno dell'etimologia giuridica del termine?
Sappiamo come nel nostro ordinamento codicistico manchi una definizione di impresa.
Avendo, però, il legislatore ben esplicitato le caratteristiche dell’imprenditore commerciale, è possibile desumere in via derivata la specificazione di impresa da quella, appunto, di imprenditore commerciale.
Per il legislatore (art. 2082 c.c.), è imprenditore commerciale colui che “esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
L’art. 2195 c.c., poi, offre un elenco di attività commerciali ritenuto non tassativo, sicché le definizioni normative non ci aiutano ad inquadrare correttamente l’impresa calcistica per quella che essa è attualmente.
Originariamente una squadra di calcio professionale “vendeva” uno spettacolo sportivo agli appassionati/tifosi. A fronte dello spettacolo offerto otteneva il corrispettivo derivante dalla vendita dei biglietti per assistere alla partita.
Un sinallagma assai semplice, primordiale potremmo dire, non dissimile da quello di un qualsiasi altro spettacolo, musicale, cinematografico, teatrale etc.
La quantità dei ricavi per quel tipo di imprese calcistiche dipendeva strettamente: dal blasone della squadra, dalla sua valenza sportiva in quel determinato momento storico e, conseguentemente, dalla possibilità di militare nel campionato maggiore o meno.
Già allora il fattore produttivo della “valenza della squadra”, cioè della capacità sportiva dei suoi componenti, introduceva nel modello tipico d’impresa una serie di elementi atipici, quali le performance atletiche dei calciatori, gli infortuni, il doping, i riflessi sulla loro condizione degli stili di vita di ciascuno, gli arbitraggi etc., che rendevano il club calcistico un’impresa sui generis e l’entità dei ricavi del tutto aleatoria essendo strettamente dipendente dalle vittorie sul campo.
Già allora sviluppare un budget era come oggi scommettere su William Hill, il noto bookmaker inglese: quando la squadra vinceva gli incassi salivano, quando la squadra perdeva gli incassi crollavano e a fine anno il “presidente”, in tutti i casi, anche quando vinceva, era chiamato a ripianare i conti.
Altri tempi, ma come spiegherò la variabile resta la stessa: la performance calcistica che non è affatto un fattore produttivo in senso classico.
Quel primitivo modello d’impresa si è venuto a evolvere nel tempo.
La bottom line dei ricavi oggi non è più costituita dagli incassi della vendita dei biglietti d’ingresso allo stadio, bensì dalla quota di diritti televisivi, seguita dalla cessione dei diritti dei calciatori, le sponsorizzazioni e solo al quarto posto i ricavi da ingressi allo stadio.
Orbene, la quantità di incassi da diritti TV e le sponsorizzazioni dipendono dal campionato in cui si milita e dai risultati.
La quota dei diritti, come l’entità delle sponsorizzazioni è inferiore nelle serie minori.
Sicché una cattiva performance sportiva può comportare una drastica riduzione dei ricavi.
Nulla di diverso da quello che accadeva negli anni ‘60/’70, salvo le dimensioni, molto più significative, degli impatti.
Alla luce di questo quadro di riferimento, mi domando se mai un piano di risanamento di un club calcistico possa essere giudicato attendibile dato che tale giudizio si fonda sulla valutazione di quelle che saranno le future performance sportive (non solo) dei suoi atleti e del suo allenatore da cui dipende strettamente l’entità dei ricavi futuri.
Qualsiasi ragionamento su questo fronte non può che essere, giocoforza, frutto di irrazionalità.
Si poteva prevedere che la Sampdoria in due anni sarebbe passata dalla Serie A alla Serie C?
Oppure si poteva prevedere che potesse riconquistare la massima serie e in quanti anni?
Avrete intuito: la mia risposta è negativa.
E lo è ancor più, alla notizia della possibile penalizzazione del Brescia che riammetterebbe i blucerchiati in gioco nei play out.
All’ultimo secondo, per un fatto del tutto fortuito riguardante un’altra squadra, la Samp potrebbe rimanere in “B” e il suo piano di risanamento traballerebbe, ma non cadrebbe.
Se così è, come io credo sia, qualsiasi attestazione di un piano di risanamento di una squadra di calcio non sarebbe affidabile in tema di sua fattibilità e il professionista indipendente, come il tribunale chiamato successivamente a valutarla, finirebbe, inevitabilmente, per scadere in meri pronostici calcistici, come nel caso della Reggina calcio.
Non potendosi prevedere i risultati sportivi, non si può stimare l’entità dei ricavi futuri e senza una stima affidabile di questi non è possibile stimare i flussi di cassa al servizio del debito.
Ma vi è un’altra complicazione, che si riscontra in tutte le aziende che si trovano alle prese con l’esecuzione di un piano di risanamento, ma che nel mondo del calcio è ancora più “esplosiva”.
Si tratta della difficile conciliabilità tra la finalità della vincente competizione mercatistica – che per le squadre di calcio è competizione sportiva – e quella del ripagamento del debito.
Se i flussi di cassa futuri sono destinati a ridurre l’indebitamento è naturale che la qualità e numerosità della “rosa” dei calciatori, come la qualità dell’allenatore, ne possa risentire più che in quei club che non sono alle prese con un debito da risanare.
Ma se la “rosa” è più debole, minori sono le chance di vittoria e maggiori quelle di retrocessione, a seguito della quale il piano di risanamento pur omologato dal tribunale “salterebbe”.
Senza contare che la tensione verso il ripagamento del debito ristrutturato, nel caso di forte presenza – la norma – di debito fiscale, può occupare l’arco di un decennio.
Ciò non vuol dire che le società calcistiche non abbiano diritto a non “fallire”, ma che per loro ci vorrebbe – come per il bilancio – una normativa ad hoc molto più stringente in termini di obbligo di impegno di nuovo capitale.