La soluzione interpretativa proposta dai liquidatori è stata confermata dall’Agenzia delle Entrate e afferma che gli obblighi fiscali non possono derivare da analogie o interpretazioni estensive, ma devono avere base nella legge. Il curatore fallimentare è esplicitamente identificato da norme di legge (art. 31 D.P.R. 602/1973; art. 8 D.Lgs. n. 175/2014) come soggetto obbligato agli adempimenti fiscali, ma nessuna norma prevede un’analoga attribuzione in capo al liquidatore giudiziale di una procedura di liquidazione controllata di società. Pertanto In assenza di una disposizione normativa espressa, gli obblighi dichiarativi restano in capo al legale rappresentante della società, ossia al liquidatore volontario.
Sempre secondo l’Agenzia, così come prospettato dai liquidatori nominati dal Tribunale, la società deve procedere infatti all'accertamento della causa di scioglimento ex art. 2484 comma 1 n. 7 bis c.c. e alla nomina di un liquidatore volontario, che assumerà formalmente la rappresentanza legale della società e sarà conseguentemente il soggetto obbligato a presentare le dichiarazioni fiscali, emettere le fatture, richiedere l’eventuale rimborso dell’IVA a credito. Ciò anche per consentire l’individuazione, ai fini IRES, del maxi-periodo fiscale al quale applicare la disciplina fiscale della liquidazione ordinaria.
Le conclusioni alle quali è pervenuta l’Agenzia delle Entrate sono motivate anche dalla considerazione che la liquidazione controllata concerne patrimoni tendenzialmente di limitato valore.
La procedura è semplificata rispetto alla liquidazione giudiziale che, a seguito delle modifiche previste dal CCII, ossia con l’articolo 349, ha sostituito i termini ''fallimento'', ''procedura fallimentare'', ''fallito'' con le espressioni ''liquidazione giudiziale'', ''procedura di liquidazione giudiziale'' e ''debitore assoggettato a liquidazione giudiziale'' e loro derivati, con salvezza della continuità delle fattispecie, mentre non si rinvengono specifiche disposizioni in ordine agli adempimenti e ai soggetti con riferimento alla procedura di ''liquidazione controllata''.
Nella risposta l’Agenzia conclude ricordando che la carica di liquidatore giudiziale nell'ambito della procedura di liquidazione controllata non risulta ricompresa tra i ''codici carica'' previsti dalle istruzioni alla compilazione delle dichiarazioni fiscali, mentre le predette istruzioni fanno invece riferimento, tra le altre, alla carica di ''curatore della liquidazione giudiziale”.
Sebbene le conclusioni delineate siano largamente condivisibili, non possono non rilevarsi discrasie e problemi di coordinamento con le norme di carattere civilistico e concorsuale che regolano la liquidazione del patrimonio, atteso che questo viene appreso nella sua interezza dalla procedura e deve essere realizzato dai liquidatori.
La società, privata anche della liquidità per affrontare le spese inerenti agli adempimenti fiscali, non può obbligare i soci ad effettuare ulteriori apporti di capitale per fronteggiare i costi per far fronte a questi adempimenti. Rimettere alla mera volontà del legale rappresentante la richiesta del rimborso dell’IVA espropria i liquidatori di un loro precipuo dovere.
Peraltro, nel caso prospettato dall’Agenzia, il credito IVA risultante alla data della sentenza di apertura della liquidazione controllata non verrebbe cristallizzato, come avviene nel fallimento e nella liquidazione giudiziale e sarebbe disponibile alla compensazione con gli eventuali debiti tributari sorti nel periodo endo procedurale, dando luogo a potenziali lesioni della par condicio.
Non è concepibile che un soggetto, privato dell’amministrazione del suo patrimonio, sia tenuto agli adempimenti fiscali per attività poste in essere da altri. Al pari non è accettabile che un’attività preordinata alla gestione del patrimonio dell’ente assoggettato alla liquidazione controllata sia rimessa alla mera volontà del soggetto che ne è espropriato, con tutte le conseguenze immaginabili nel caso in cui costui non vi provveda, volutamente o meno.
L’effetto pratico che deriva da una siffatta ricostruzione si espone anche a diverse critiche di legittimità costituzionale.
Un primo profilo di illegittimità costituzionale, con riguardo all’articolo 3, si pone confrontando la disciplina prevista per il fallimento/liquidazione giudiziale. Anche in questa procedura si determina lo spossessamento del patrimonio ma gli adempimenti fiscali, in questo caso, sono posti in capo al curatore.
La scissione tra la titolarità formale del patrimonio e la effettiva gestione dello stesso pare contrastante col principio della capacità contributiva stabilito dall’articolo 53 Cost., secondo il quale tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Si potrebbe paventare persino la lesione del diritto di difesa e della tutela giurisdizionale sancito dall’articolo 24 Cost., in quanto il soggetto espropriato del suo patrimonio non ha il controllo delle operazioni che generano gli obblighi fiscali e potrebbe trovarsi in difficoltà nel difendersi da eventuali accertamenti o contenziosi tributari.
Questa procedura è di relativamente recente introduzione e necessita evidentemente di una manutenzione. È auspicabile che il legislatore ponga mano alle norme tributarie adottando idonee riforme che equiparino la liquidazione controllata alla liquidazione giudiziale, restituendo al liquidatore giudiziale i poteri che questa le attuali norme tributarie gli sottraggono.